Questo testo è completo. |
◄ | IX | Indice | ► |
Poco costò al Pontefice il mostrarsi clemente verso il grande pensatore ridotto all’impotenza. Dal Palazzo del Sant’Ufficio, dove era stato tradotto dopo udita la sentenza e pronunziata l’abiura, potè passare due giorni appresso in quello del Granduca di Toscana alla Trinità dei Monti, con precetto però di doverlo tenere in luogo di carcere; e ad una sua supplica diretta ad ottenere la commutazione del carcere di Roma con altro simile in Firenze, si rispondeva permettendogli di trasferirsi a Siena.
Circondato di cure affettuosissime da quell’arcivescovo Ascanio Piccolomini, presso il quale veniva relegato, riprese subito quegli studi sulla resistenza dei solidi, sul moto dei gravi in generale e dei proietti in particolare, dei quali i primi fondamenti aveva posti fin dal tempo in cui era lettore a Padova; e quando finalmente ottenne di poter far ritorno, sempre però in istato di prigionia, in Arcetri, li proseguì e li condusse a compimento con immenso giubilo dei suoi amici e discepoli. Nulla vale a distoglierlo da questo, considerato ormai come supremo scopo degli ultimi anni di sua vita e che deve riguardarsi come l’opera sua capitale: non l’immenso dolore per la perdita della sua primogenita, non le amarezze procurategli dal figliuolo e dai parenti, non il rammarico per le continue ripulse alle istanze per ottenere la completa liberazione, non infine il pensiero delle difficoltà che avrebbe incontrate per pubblicare l’opera sua dopo la espressa commissione mandata da Roma agli Inquisitori di negare la licenza di stampa a qualunque sua scrittura, ponendo divieto generale de editis omnibus et edendis, in tutti i luoghi, nullo excepto. Steso il lavoro in dialoghi, nei quali rivivono gli stessi personaggi di quello condannato, e non accogliendo il parere di amici che lo consigliavano a deporne copie manoscritte in alcune biblioteche, consegna i due primi al Principe Mattia de’ Medici perchè li porti seco in Germania e ne procuri la stampa, e più tardi quattro ne rimette al conte Francesco di Noailles, già suo scolaro in Padova e che, ambasciatore francese presso il Papa, continuamente s’era adoperato per la sua liberazione.
Aveva Galileo dapprima pensato a far stampare questi dialoghi, i quali, appunto per le materie in essi trattati, son detti delle "Nuove Scienze", in Venezia, ed a questo fine ne era venuto mandando alcuni fogli al P. Fulgenzio Micanzio, col quale s’era legato in stretta amicizia fin dal tempo del suo soggiorno padovano, sin da quando cioè lo aveva conosciuto come coadiutore del Sarpi; ma il divieto del quale abbiamo tenuto parola aveva fatte incontrare inattese difficoltà. Erano pur fallite le pratiche intavolate col mezzo di Giovanni Pieroni per farli stampare in Germania dedicandoli all’Imperatore stesso oppure, come parve poi più opportuno, al Re di Polonia, quantunque il manoscritto avesse già ottenute le debite licenze. Sicchè, cogliendo la occasione del passaggio per Venezia d’uno degli Elzeviri, a spese dei quali era stata già pubblicata una traduzione latina dello sfortunato Dialogo e data per la prima volta alle stampe la lettera a Madama Cristina, il Micanzio gli consegnò quella parte di originale dei nuovi dialoghi che si trovava ad avere presso di sè, affinchè li portasse seco e ne imprendesse la stampa in Leida: poco appresso gliene mandava il compimento, e la stampa, subito incominciata, fu compiuta nel luglio 1638 e comparve con una dedicatoria di Galileo al conte di Noailles, dove egli, per evitarsi altre "mortificazioni" da Roma, fingeva che l’opera fosse stata stampata a sua insaputa.
Ma se a Roma si lasciò passare inavvertita la pubblicazione dei Dialoghi delle Nuove Scienze, non si prestò certamente fede alla finta soperchieria della quale Galileo volle far credere d’essere stata vittima; e dallo stamparsi quest’opera in terra di eretici si trasse forse argomento per giustificare la strettezza nella quale, ad onta di tante interposizioni, lo si teneva, quando si allegò che questo si faceva per meglio sorvegliarlo ed impedire che da Arcetri si allontanasse per andare ad offrire i suoi servigi ai nemici della religione ed in luoghi dove avrebbe potuto avere piena libertà di pensiero e di parola. E quando ciò si affermava, erano forse giunte al Sant’Uffizio le voci delle pratiche che in Olanda erano state fatte per chiamare Galileo ad una cattedra la quale per lui si sarebbe istituita nell’Università di Amsterdam.
Comunque siano avvenute le cose, certo è che, per dichiarazione di Galileo stesso, il timore ch’egli aveva del Sant’Ufficio entrò, almeno in qualche parte, nell’impedire che approdassero le trattative ch’egli aveva intavolate per cedere agli Stati Generali d’Olanda il suo ritrovato per la determinazione delle longitudini in mare.
Ma mentre, per fondati motivi, erano più vive in Galileo le speranze di buon esito per questa, che era stata fra le più gravi preoccupazioni di tutta la sua vita, sul prigioniero di Arcetri, colpito già così fieramente nella sua fede di scienziato e nei suoi affetti di padre, piombava un’altra e gravissima sciagura.
Già fin dal maggio 1636 i molti acciacchi e l’indebolimento della vista avevano costretto Galileo a smettere le osservazioni notturne che egli aveva sino allora diligentemente proseguite, e che ebbero per risultato l’ultima sua scoperta astronomica, quella cioè della titubazione lunare. Nel marzo 1637 egli aveva già l’occhio destro infermo, e così rapidamente ne andarono peggiorando le condizioni che pochi mesi dopo egli lo aveva completamente perduto. Alle gravi infermità, scrive egli ad Elia Diodati sotto il dì 4 luglio 1637, "aggiugnesi (proh dolor!) la perdita totale del mio occhio destro, che è quello che ha fatto le tante e tante, siami lecito dire, gloriose fatiche. Questo ora, Signor mio, è fatto cieco; l’altro che era ed è imperfetto, resta ancor privo di quel poco di uso che ne trarrei quando potessi adoperarlo, poichè il profluvio d’una lacrimazione, che di continuo ne piove, mi toglie il poter far niuna, niuna, niuna delle funzioni, nelle quali si chiede la vista". Tre mesi dopo non poteva più guardare attraverso una lente, e dopo tre altri mesi così rapidamente andava "verso le tenebre" che potè credersi ormai prossimo ad essere definitivamente cieco, e in questi termini egli partecipa allo stesso Diodati l’infelicissimo caso: "Il Galileo vostro caro amico e servitore, da un mese in qua è fatto irreparabilmente del tutto cieco; talmente che quel cielo, quel mondo e quell’universo, ch’io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte, più del comunemente creduto da’ sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch’è non è maggiore di quello che occupa la persona mia".
Nelle condizioni infelicissime alle quali si trovava ridotto potè Galileo sperare che il Sant’Uffizio, o, per dir più esatto, il Pontefice fosse per venire a più miti consigli, e ripetè perciò l’istanza di liberazione; ma dopochè l’Inquisitore accompagnato da un medico forestiero suo confidente l’ebbe visitato, e riferito che è "tanto mal ridotto, che ha più forma di cadavero che di persona vivente", gli si concedeva soltanto di trasferirsi dal Gioiello (così si chiamava il villino d’Arcetri da lui abitato) ad una casa ch’egli aveva comperata per il figliuolo sulla Costa di San Giorgio, vicinissima alle mura della città, per curarsi delle sue indisposizioni. E tanta era la strettezza nella quale, nonostante le miserrime condizioni di salute, era tenuto, ch’ebbe bisogno d’un permesso speciale dell’Inquisizione per potersi recare in una vicina chiesetta ed ivi adempiere l’obbligo pasquale.
Nei primi mesi dell’anno 1639 aveva Galileo presentata una nuova supplica al Papa; non ci è noto che cosa egli chiedesse; questo solo sappiamo che Urbano VIII tutto inesorabilmente rifiutò, benchè da più tempo fosse ormai fatto certo della falsità dell’accusa che aveva determinato quel suo così gagliardo risentimento. Da allora in poi null’altro chiese Galileo: ritirato definitivamente nel villino d’Arcetri, ch’egli chiamava suo "continuato carcere ed esilio dalla città", visitato da pochi amici e da qualche straniero mosso, come il Milton, dal desiderio di vedere l’augusto vegliardo, non attese più che agli studi ed alla corrispondenza scientifica la quale, ancora in questi ultimi suoi anni conserva la freschezza, la copia e la vigoria dell’età sua giovanile. Come nel compimento dei dialoghi delle Nuove Scienze, mancatogli prematuramente il dilettissimo Aggiunti, egli s’era fatto aiutare dal suo "demonio", chè così chiamava Dino Peri, lettore pur egli di matematica nello Studio di Pisa, così, venutogli meno anche questo, nell’aggiungere ad essi due nuove giornate, e nel perfezionare alcune dimostrazioni delle altre quattro, si valse dell’opera del giovinetto Vincenzio Viviani, il quale poi potè gloriarsi del titolo di "ultimo suo discepolo"; ed in fine anco di quella di Evangelista Torricelli.
Richiesto nel marzo 1640 dal principe Leopoldo de’ Medici, lo stesso che diciassette anni più tardi istituì l’Accademia del Cimento, del suo parere intorno ad un libro del peripatetico Fortunio Liceti che opponeva alla opinione di lui sopra il candore o luce secondaria della luna, rispondeva indi a pochi giorni con una lunga scrittura, per nessun titolo inferiore ai più famosi scritti polemici della sua più fiorente virilità. E fu questo l’ultimo lavoro scientifico ch’egli abbia compiuto: chè a molti altri i quali, pur giunto a così tarda età, andava volgendo nella mente, non potè dare l’ultima mano; fra questi vuol essere notata l’applicazione del pendolo all’orologio, alla quale fu condotto a mezzo l’anno 1641 dal desiderio di tor di mezzo una fra le più gravi difficoltà che gli erano state sollevate nelle trattative con gli Stati Generali d’Olanda per il negozio della longitudine; quella cioè di fornire quel misuratore del tempo così esatto e così comodo come si richiedeva per la completa attuazione della sua proposta.
Un altro vivissimo desiderio non fu concesso a Galileo di veder effettuato: quello di dare in luce le principali sue opere insieme raccolte. Parve da principio che se ne volesse incaricare il Carcavy, matematico e letterato francese, che aveva anche visitato personalmente il sommo filosofo nella occasione d’un suo viaggio in Italia; in appresso gli Elzeviri avevano manifestata ripetutamente la intenzione di assumere tale pubblicazione, e per essa appariscono traccie di trattative ancora nel settembre 1641; ma quand’anche avessero potuto allora essere più felicemente avviate, sarebbe stato troppo tardi.
A quattro ore di notte dell’8 gennaio 1642 Galileo rendeva a Dio la sua grande anima.