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LIBRO QUARTO.
Del rugiadoso mel, celeste dono,
Restami a dir. Tu a questa parte ancora
Benigno volgi, o Bice, il guardo.
Meraviglioso di minute cose
5Spettacolo vedrai: tutte io de l’api
Con ordine dirò l’arti e i costumi,
I duci audaci, e i popoli, e le guerre.
Tenue soggetto ha il mio lavor, ma lode
Forse non tenue avrà, se avverso nume
10Nol vieti, e m’oda l’invocato Apollo.
Prima di tutto è da cercarsi a l’api
Riparato soggiorno, ove nè il vento
Penetri, che le trepide lor ali
Sbatte, e a l’albergo la raccolta preda
15Vieta portar, nè pecora, o capretto
A i fiori insulti, nè giovenca errante
Ivi al mattin la tremula rugiada
Scuota, o prema col piè l’erbe nascenti.
Lungi sien pur le squallide lucerte
20Dipinte il tergo, e la dolente Progne
Tinta di sangue il seno, e la vorace
Merope, e gli altri augei, che a tutto intorno
Danno la caccia devastando, e l’api
Pigliano a volo, e portanle nel rostro
25Esca söave a i barbari lor nidi.
Ma chiare fonti, e pelaghi muscosi
Sien ivi intorno, o limpido ruscello,
Che tra l’erbe serpeggi; e di sue foglie
Il vestibolo adombri o palma, od ampio
30Silvestro ulivo, onde allor quando al primo
Tepor di primavera i re novelli
Guidan gli sciami, e fuor de i favi uscita
Scherzando va la giovinetta prole,
A se l’inviti la vicina sponda
35Da i caldi soli, e ne l’opaco seno
Fresco e comodo ospizio offran le piante.
Tu poscia in mezzo a l’onda, ossia che in lago
Ristagni, o scorra in rio, rami a traverso
Gitta di salcio, e rilevati sassi
40Di ponti a guìsa, ove posare il piede
Possano l’api, ed a l’estivo sole
L’umid’ale spiegar, se pioggia a caso
Per soverchio indugiar di poche stille
Spruzzolle, o vento le tuffò ne l’onde.
45Del serpillo odoroso, e de la verde
Casia fiorisca, e de l’acuta timbra
Il suolo in copia, e de l’irrigua fonte
Bevan l’umor le mammole vïole.
Ma gli alvëari, o di cortecce cave
50Sien fabbricati, o di flessibil giunco,
Stretto l’ingresso avranno, onde per freddo
Non geli il mel, nè per calor si sciolga.
E l’uno e l’altro, ove soverchio ecceda,
Pur nuoce a l’api, e non indarno a gara
55De le lor celle ogni spiraglio, o buco
Turan di cera, od empiono di fiori;
E a stuccar gli orli serbano riposta
Una lor gomma, che del visco istesso
E’ più tenace, e de la pece idéa.
60Sovente ancor, se narrò fama il vero,
Sotterra si scavarono le case
A più difeso asilo, e dentro i tufi,
E le porose pomici, e ne i tronchi
Di vecchie piante s’annidaro ascose.
65Tu dunque il genio ne seconda, e attento
Il rimosso alvëar d’umida creta
Vesti al difuor ristuccando, e sopra
Di rare lo ricopri ombrose foglie.
Presso a gli apiari non soffrir, che metta
70Radici il tasso, o che bruciati al foco
Fumino i rossi giunchi; e i luoghi fuggi,
Dove o l’acqua impaludi, o greve esali
Odor di fango, e i curvi colli, e gli antri,
Dove nascosta a le lontane voci
75Imitandone il suon l’eco risponde.
Ma Febo già serena il cielo, e guida
Cacciando il verno la stagion migliore;
Tutte allor fuor le industrïose pecchie
Escon, pe i boschi e per le verdi selve
80Peregrinando, e i rugiadosi fiori
Suggono, e lievi a vol radendo i fiumi
L’onda somma delibano, e pasciute
E prese poi da non so qual dolcezza
A nutrire, e a covar la prole, e i nidi
85Tornano allora, e le tenaci cere
E il mel con arte a fabbricar si danno.
Ma quando il nido abbandonando i folti
Sciami vedrai lungi involarsi, ed alto
Nuotar per l’aër liquido e sereno,
90Quasi spinte dal vento oscure nubi,
Osserva il corso lor, chè di dolci acque
In cerca andran su la vicina riva,
O d’arbore frondosa; ivi tu spargi
Trita melissa, e de la vil cerinta
95Il gradito sapor, poi fa d’intorno
Tintinnar cavo rame, o di Cibele
Il cembalo percoti, e le vedrai
Con presto vol su i medicati seggi
Volontarie calarsi, e mano a mano
100Ne i buchi entrar del preparato albergo.
Che se a battaglia sanguinosi in campo
Dispongasi ad uscir (chè avvien sovente,
Che odio e discordia fra i due re s’accenda).
Tu molto pria ne gli agitati petti
105L’ire nascenti antiveder potrai,
Poichè le pigre ad eccitar già s’ode
Un fremer sordo, e un bellico fragore,
Che il rotto squillo de le trombe imita:
Di quà di là con trepido tumulto
110Attruppando si van, le stridul’ali
Snodan vibrando, e arruotano co i rostri
I lor pungoli acuti, e braccia e piedi
Atteggiano a pugnar: schieransi dense
Ai re d’intorno, e da la tenda il noto
115Segno aspettando con querriero strido
Sfidano a l’armi le falangi ostili.
Ed ecco al primo estivo dì, che in cielo
Spunta sereno, ne gli aperti campi
Slanciansi fuor de le porte, e a fronte
120Già stansi; arde la zuffa, ed alto in aria
Ne ronza il suono, agglomerate in globo
Pugnano, e giù precipitando a terra
Piombano estinte, nè si spessa cade
La grandine dal ciel, nè in tanta copia
125Da scossa quercia piovono le ghiande.
Distinti a l’ali d’oro i re per mezzo
Van de le schiere, e intrepidi pugnando
Chiudono in picciol seno anima grande,
Ostinati a non cedere, se prima
130O l’uno o l’altro vincitor non forzi
L’oste fuggendo a rivoltar le spalle.
Ma quest’ire feroci, e sì gran guerra
Un pugno ammorza di scagliata arena.
Poichè i due re da la battaglia avrai
135Tratti, uccidi il peggior, che a i fiori e al mele
Prodigo nuocerebbe, e in vôta reggia
L’altro poi solo a governar rimanga.
Di due specie ve n’ha: d’aureo colore
Ad un l’ali biondeggiano, e di squame
140Lucide ei brilla, e di leggiadre membra,
Ed è questo il miglior; deforme ha l’altro
E sozzo aspetto, e neghittoso a stento
Sul suolo il ventre tumido strascina.
Come diversi i re, diverso è pure
145Il popolo de l’api; altre son turpi,
Livide, e come i glutinosi sputi,
Che trae da l’arse ed assettate fauci
Il polveroso viaggiator; son altre
Lucide, e d’oro fiammeggianti, ed hanno
150D’eguali macchie colorato il corpo.
Tu queste eleggi, e in sua stagion ne avrai
Più dolce il mel, più liquido, e de i vini
Più quindi acconcio a mitigar l’asprezza.
Ma quando incerti e vagabondi i sciami
155Van per l’aria scherzando, e vôti e freddi
Lasciano i favi, e in abbandon gli alberghi,
Tu la licenza raffrenar procura
De l’incostante popolo; nè il farlo
Difficile sarà, solo che l’ali
160Tarpinsi a i re; che se rimangon essi,
Niuna oserà lungi scostarsi, o svelte
Dal campo altrove trasportar le insegne.
E a rimanerne le lor celle invito
Facciano pure gli odorosi fiori
165De l’ameno orticel; dove custode
Sieda Priapo con la falce in mano
Gl’ingordi augelli a spaventare, e i ladri.
Quel poi; che cura avrà de l’api, ei timo
Semini intorno a gli alvëari, e pini
170Vi trasporti da i monti, egli la mano
Incallisca al lavor, rivesta il suolo
D’utili piante, e sovra i fiori e l’erbe
Prodigo versi i fecondanti umori.
E se non fosse che sul fin del corso
175Già le vele a raccorre, e verso il lido
Deggio affrettarmi a rivoltar la prora,
Ben io qui canterei, qual sia de gli orti
La cultura miglior, come di Pesto
Due volte rifioriscano i rosai,
180E in verdi rive la cicoria, e l’apio
Godan le barbe inumidire, e il torto
Cocomero fra l’erbe il ventre ingrossi:
Nè il narciso a fiorir lento vorrei,
Nè l’acanto flessibile, o la smorta
185Edra tacer, nè a i lidi amico il mirto.
Poichè d’aver già visto io mi ricordo
Sotto l’ebalie torri, ove l’ombroso
Galeso irriga le pianure amene,
Un vecchierel di Corico nativo;
190Piccolo campo ei possedeva, e questo
Sterile e ignudo, nè a l’aratro adatto,
Nè a piantar viti, o a pascolar la greggia.
Eppur con l’arte la natura avara
Ei giunse ad emendar; sterpò le spine
195Che ingombravano il suol, più nobili erbe,
E bianchi gigli a seminar vi prese,
E verbene, e papaveri; e tal frutto
Da l’orto in breve, e dal giardin raccolse,
Che le ricchezze nel suo cor contento
200Uguagliava d’un re: stanco da l’opre
Del dì tornava ne la tarda sera
Al fido albergo, e la sua parca mensa
Di semplici copria non compri cibi.
Primo ei le rose in primavera, e primo
205Cogliea d’autunno i saporosi pomi,
E quando il crudo gel fendea pur anco
Le pietre, e il corso imprigionava a i fiumi,
Del molle acanto a ritosar la chioma
Ei si occupava, i zefiri accusando
210Lenti al ritorno, e la lontana estate.
D’api feconde, e numerosi sciami
A lui ronzavan gli alvëari, e in copia
Spremea da i favi lo spumante mele:
E a lui di tiglie, e resinosi pini,
215E pingui piante frondeggiava il campo,
E quanti fior su gli alberi fecondi
Spuntavano in april, tanti da i rami
Pendevano in autun maturi frutti.
L’arte egli pur di trapiantar sapea
220E in ordine schierar gli olmi già vecchi,
E i duri peri, e gl’innestati spini
Carchi di prugne, e i platani frondosi,
Che già cresciuti a i bevitor fean ombra.
Ma queste cose io fra i confin ristretto
225Di breve spazio ometterò, lasciando
Che altri con degno stil poscia le adorni.
E qui de l’api l’ingegnoso istinto
Dirò, che in premio ottennero da Giove
Fin da quel tempo, che a i sonori bronzi
230De’ Coribanti accorsero, e ne l’antro
Dittéo nutrir bambino il Re del cielo.
Sole però fra gli animali tutti
Hanno il tetto comun, comune i figli,
E patria riconoscono, e penati
235Stabili, e fisse ed ordinate leggi:
E de l’inverno memori al travaglio
Attendono l’estate, e tutti poi
Pongono in serbo ed in comun gli acquisti.
Altre al vitto provvedono, e pe i campi
240Vanno predando i fiori, altre nel chiuso
Seno de gli alvëar con le stillanti
Lagrime de i narcisi, e con la gomma
De le cortecce resinose a i favi
Pongono i primi fondamenti, e a i muri
245Stendono sopra le tenaci cere.
Educan altre i pargoletti figli
Speme del popol lor, purgano alcune
E condensano il mele, e tutte poi
Del nettare söave empion le celle.
250Molte ancora ve n’ha, cui tocca in sorte
Di custodir la foglia, e stan le nubi
Queste a vicenda speculando, e i venti,
O il peso alleggeriscono di quelle
Che arrivano da i campi, o fatta schiera
255Scacciano i fuchi, neghittoso gregge,
Lungi da gli alvëar: l’opera ferve,
E olezza il mele d’odoroso timo.
In quella guisa che i Ciclopi ignudi
Stan le säette fabbricando a Giove;
260Altri a i ventosi mantici dan fiato,
Altri ne l’acqua che gorgoglia e stride,
Attuffano l’acciar; sovra le incudi
Con la tenaglia l’infocata massa
V’è chi volgendo va, mentre le braccia
265Alzano gli altri, e a numerati colpi
De gli alterni martelli Etna rimbomba.
Non altrimenti, se a le grandi cose
Paragonar le piccole è permesso,
L’innato amor del mel fa l’api intente
270Ognuna al suo lavor. Han le più vecchie
Cura de gli alvëari, e debbon esse
Munire i favi, e fabbricar le celle.
Stanche la sera e cariche di mele
Tornano le più giovani che in giro
275Vanno pascendo il dì la casia e il timo,
Le corbezzole, il salcio, e il rosso croco,
Le pingui tiglie, e i pallidi giacinti.
Tutte han travaglio uguale, e ugual riposo;
Escono al primo albor, nè indugio o tregua
280Soffrono mai durante il dì, poi quando
Espero spunta in ciel tornano a casa
Le forze a ristorar: dense a la soglia
S’affollano aleggiando, e a i buchi intorno
Suona un confuso fremito e ronzìo;
285Ma poichè tutte s’annidár, non s’ode
Voce la notte più; placida ognuna
S’adagia, e cheta s’abbandona al sonno.
Nè de la pioggia al sovrastar da casa
Osano lungi discostarsi, o in alto
290Fidarsi al cielo, se minaccia vento;
Ma de la lor città sotto le mura
Stansi a riparo, e a i più vicini fonti
Van d’acqua a provvedersi, e brevi scorse
Tentano, e spesso ancor, siccome nave
295Col peso suol de la savorra a l’urto
Resistere de i flutti, in simil guisa
Sogliono anch’esse piccole pietruzze
Tra le zampe afferrar, e contro al vento
Reggersi in aria equilibrando il volo.
300Ma strano in loro, e non credibil quasi
Ti parrà forse il virginal costume,
Perocchè schive di lascivi amori
Nè s’accoppiano insiem, nè i turpi e molli
Conoscono di Venere diletti,
305Nè di Lucina le materne doglie;
Ma sviluppati accolgono dal seno
D’erbe söavi e d’odorosi fiori,
E i lor germi fomentano, e in tal modo
E i giovanetti cittadini, e il gregge
310Rinnovano, e i lor re, cui cereo regno
Fabbrican esse, e cerea reggia e trono.
Quindi, benchè di breve spazio e frale
Sia la lor vita, che l’ottava estate
Mai non giunge a veder, pur vive e resta
315La lor razza immortal, ed a molt’anni
Dura l’onor de le famiglie, in cui
Gli avi si ponno numerar de gli avi.
Sovente errando a pascolar su l’aspre
Aguzze coti col frequente attrito
320Consuman l’ali, e sotto il troppo peso,
E nel lungo lavor lasciano oppresse
E volontarie vittime la vite.
Tanto è l’amor de i fiori, e tal le infiamma
Senso di gloria a fabbricare il mele!
325Nè, come l’api, o l’ampia Lidia, o i Parti,
Nè i Medi tanto, o i popoli d’Egitto
Rispettano i lor re. Lui vivo, han tutte
Concordi un sol voler; estinto appena,
Ogni patto fra lor cessa, e divise
330Mettono a sacco il radunato mele,
E le celle distruggono ed i favi.
Ei presiede a i lavor; fisso in lui solo
Tengono il guardo, ed affollate intorno
Stangli fremendo; il portano sovente
335Su gli omeri in trïonfo, e scudo in guerra
De i lor petti gli fan, bella cercando
Fra l’armi e il sangue glorïosa morte.
A questi indizii, e prodigiosi esempi
Riflettendo talun pensò, che l’api
340Abbian celeste origine, ed un raggio
Chiudano in sen de la divina mente:
Poichè diffuso per le terre e i mari,
E pe i campi del ciel vuolsi che immenso
Spirito il mondo informi, e da lui vita
345Traggan uomini, armenti, augelli e fiere;
E in lui di nuovo poi da i corpi sciolte,
Non soggette a perir, tornino l’alme
A rïunirsi, e redivive il volo
Spieghino al cielo ad abitar le stelle.
350Quando al tempo opportun schiuder ti piaccia
Gli angusti alberghi, e a coglierne del mele
I raccolti tesor, tu d’acqua un sorso,
Quanta in bocca ne cape, accogli, e a l’api
Spruzzala in faccia, ed un tizzone acceso
355Presenta a i buchi, onde le sforzi il fumo
A uscir da gli alvëar; ma cauto in guardia
Sta da gli assalti lor che a la vendetta
Ardon rabbiose, e dove alcun le attizzi,
S’avventano a ferir con aspri morsi
360E velenosi, e ne la piaga fitti
Lascian gli acuti pungoli e la vita.
Sogliono l’api a due stagioni ogni anno
Il mele fabbricar, e il puoi tu quindi
Cogliere a due stagioni; e quando pura
365La vergine Taigete in ciel s’affaccia,
E alzandosi dal mar col piè sosponge
L’onda soggetta; e da l’acquoso Pesce
Quando rifugge, e a l’autunnale occaso
Pallida e mesta a tramontar ritorna.
Ma se del verno la futura fame
370Provvido temi, e de gli afflitti sciami
Pietà ti prende, ah tu discreto allora
Risparmia i lor tesor: di timo i tetti
Profuma, e dentro a gli alvëar recidi
Le vôte cere; chè sovente ascosa
375Entra ne i favi la lucerta ingorda,
E di nemici al dì vermi voraci
S’empion le celle; il neghittoso fuco,
Che le fatiche altrui siede pascendo,
S’intrude, e il calabron d’armi e di forze
380Ahi troppo a l’api superior; la ria
Tignuola anch’essa a rodere s’appiata,
E a l’alta soglia le sue tele appende
L’odïoso a Minerva astuto ragno.
Ma quanto più predati i favi, e guasti
385Gli alberghi resteran, tanto de l’api
Sarà lo sforzo a ripararne i danni
E l’industria maggior, nuove ricchezze
Prederanno da i fiori, e nuove case
Rifabbricando colmeran di mele.
390Se poi (gicchè co l’uom comun han l’api
De la vita mortal gli affanni e i mali)
Da crudo morbo languiranno oppresse,
Certi gl’indizi avrai: sogliono tosto
Cangiarsi di colore, e smunte in volto
395Deformarsi, e smagrir: gli estinti corpi
Trasportan altre con funebre pompa
Fuori de gli alvëar, altre co i piedi
In denso gruppo avviluppate insieme
Pendono da la soglia, o chiuse dentro
400Stansi ne i favi, ed a le ceree mura
Vaccillanti s’aggrappano, dal freddo
E da la fame indebolite e pigre.
Quindi un ronzìo più cupo odesi, e un mesto
Di tratto in tratto sussurrar confuso,
405Qual ne le selve sibilare il vento,
O il mar gemere a i lidi, o chiusa suole
Ne le fornaci stridere la fiamma.
Qui l’odoroso galbano d’intorno
A gli alvëari d’abbruciar t’esorto,
410E per canali di bucate canne
Introducendo il mele al noto pasto,
E al vigor primo richiamar le inferme.
E trita galla, e diseccate rose
Gioverà insieme frammischiarvi, e mosto
415Cotto a gran foco, e grappoli impassiti
Di psitia vite, e del cecropio timo,
E de l’acuta centauréa le foglie.
Trovasi pur ne i prati un fiore, a cui
D’amello dier gli agricoltori il nome,
420Facil erba a trovar: da un cespo solo
Folta una selva di rampolli cresce;
Silile a l’oro è il fior, ma ne le frondi,
Che numerose spandonsi, traluce
De la vïola il porporin pallore.
425Aspro al palato e disgustoso in copia
Cogliesi da i pastor lungo le curve
Sponde del Mella, ed in votivi serti
Spesso de i numi a i sacri altar s’appende.
Or di questa erba in generoso vino
430Tu le radiche cuoci, e grato a l’api
Salubre cibo a larga man ne appresta.
Chè se per rio destin la stirpe tutta
A mancar venga d’improvviso, e modo
Non abbi altronde a rinnovar gli sciami,
435Tempo è che il memorabile secreto
Io scopra qui de l’arcade Pastore,
Ed in qual guisa avvien che dal corrotto
Sangue de’ buoi si riproducan l’api.
Da la sua prima origine il racconto
440Ripigliar gioverà; poichè là dove
I fortunati del peléo Canopo
Abitator per gl’inondati campi
De lo stagnante Nilo errando vanno
Su le dipinte barche, e dove il fiume,
445Da i colorati Etïopi disceso,
Per quella parte che a la Persia guarda,
Di oscuro limo il verdeggiante Egitto
Feconda, e va per sette bocche al mare,
Tutte quelle contrade in questo solo
450Costume antico, ed in quest’unic’arte
Tutte de l’api la salvezza han posto.
Atto a tal uso un piccol luogo pria
Scelgasi, e il copra basso tetto, e cinto
Sia d’anguste pareti, e a i quattro venti
455Quattro finestre s’aprano, per cui
Penetri obbliqua a riscaldar la luce.
Poscia un vitello bïennal che appena
Le brevi corna su la fronte incurvi,
Cercasi, e a lui, che si dibatte invano,
460Ambe le nari turansi e la bocca
A impedirne il respir; poi sotto a i colpi
Di nodoso baston livido e pesto,
Non piagato però, lasci la vita.
Morto così nel piccolo recinto
465Chiuso si lascia, e fresche foglie, e rami,
E verde casia, ed odoroso timo
A i fianchi sottopongonsi, e a le coste.
E ciò si fa, quando comincia i flutti
Zefiro ad increspar, pria che di fiori
470Si colorino i prati, e pria che a i tetti
La rondine loquace appenda il nido.
L’umore intanto ne le putrid’ossa
Bolle e fermenta, ed oh stupore! a un tratto
Pullular vedi di minuti vermi
475Folto uno sciame, e informi prima, e tronchi
Le braccia e i piè commoversi strisciando,
E a poco a poco su le stridul’ali
Tentar di sollevarsi, indi cresciuti
Spiegare il volo, e per l’aperto cielo
480Uscir densi così, come da nembo
Cadon l’estive gocce, o da i tesi archi
Al cominciar de la feroce mischia
Scoccano fuor le partiche säette.
Muse, qual Dio ne rivelò, qual caso,
485O quale umana esperïenza a noi
Scoprì da prima, e tramandò quest’arte?
Il pastore Aristéo, dappoi che fame
E morbo rio, come ne corse il grido,
Gli tolser l’api, di Penéo fuggendo
490La natìa Tempe, lagrimoso e mesto
A la sorgente s’arrestò del fiume:
Ed oh! madre, lagnandosi ei proruppe,
Madre Cirene che nel fondo alberghi
Di questi gorghi, e perchè mai de l’alta
495Stirpe de’ numi (s’è pur ver, qual dici,
Che Apollo a me fu padre) in odio al Fato
Mi generasti? Ove n’andò quel tuo
Per me tenero amore, e perchè un seggio
Farmi sperar, vana lusinga! in cielo?
500Lungi da tanto onor, quel breve istesso
Vanto mortal, che industrïosa cura
De la greggia e del campo a me con lungo
Sudore appena procacciato avea,
Ecco che quello ancor perdere or deggio,
505E tu madre mi sei. Su via, ciò solo
Rimane ancor, queste felici piante
Svelli tu di tua man, ne le mie stalle
Porta la face ostil, tronca le messi,
Abbrugia i campi, e l’implacabil falce
510Stringi le viti a sterminar, se tanta
Hai de le lodi mie noia, o dispetto.
Da l’imo fondo udì Cirene il suono
Dei lamenti del figlio. Intorno a lei
Varie ninfe sedevano filando
515Di marino color milesie lane,
Drimo, Xanto, Filodoce, Ligéa,
Sparse la chioma su l’eburnee spalle,
E Spio, Neséa, Cimodoce, e Talia;
E la bionda Licoride, e Cidippe,
520Questa vergine ancor, quella già madre;
E Boroe, e Clio sorelle, ambedue figlie
Del gran padre Ocëáno, ambe vestite
D’oro trapunto, e di macchiate pelli,
E l’asia Deiopeia, Efire, ed Opi,
525Ed Aretusa, di Dïana un tempo,
Ninfa or de’ fiumi, e senza strali al fianco.
Stava Climene in mezzo a lor le vane
Cure gelose di Vulcano, e i dolci
Furti di Marte, e l’amorose frodi
530Narrando, e fin dal primo Caos i varii
Amor frequenti ritessea de’ numi.
Chete le ninfe, e ad ascoltarla intese
I molli velli ravvolgeano intorno
A i volubili fusi, allor che il misto
535Pianto del figlio le materne orecchie
Ferì di nuovo. Attonite ed immote
Su i cristallini lucidi sedili
Tutte restar: ma frettolosa e prima
Corse Aretusa, e a riguardar che fosse
540Il biondo capo sollevò da l’onda:
Ed oh! da lungi, oh! non indarno, esclama,
Da tanto grido spaventata, oh! cara
Cirene, il figlio tuo, l’unico e dolce
Tuo pensiero, Aristéo mesto e piangente
545Sta qui sul lido, e te chiamando a nome
Te madre sua di crudeltade accusa.
A questo annuncio da novel timore
Scossa la madre: oh il figlio! disse, ah presto
Guidalo a noi: lecito è a lui le soglie
550Toccar de i numi, e in così dire al fiume
Di ritirarsi comandò, lasciando
Libero il calle: ubbidïente al cenno
L’onda s’aperse, e in doppio argine e curvo
Divisa intorno a lui nel vasto seno
555L’accolse illeso, e die’ passaggio a l’antro.
Se ne giva Aristéo gli umidi regni,
E le materne case, e in quelle grotte
I chiusi laghi, ed i sonanti boschi
Muto ammirando, e attonito a l’immenso
560Fragor de le acque i sotterranei fiumi
Qua e là scorrenti contemplar godea;
Il Fasi, e il Lico, e la sorgente prima,
Ond’alto sbocca il tessalo Enipéo,
E il padre Tebro, e l’Anïene ondoso,
565E il misio Caìco, e fra gli scogli
L’Ipani infranto, e di dorate corna
Il tauriforme Eridano, di cui
Non altro fiume per fecondi campi
Più gonfio corre, e impetüoso al mare.
570Ma poichè al fine a la pumicea grotta
Giunse, e del pianto giovanile intese
Cirene la cagione, acqua a le mani
Versangli a gara le compagne ninfe,
E mondi lini apprestangli: di cibi
575S’empion le mense, e colmansi le tazze,
E già d’arabi odor fumano l’are.
Cirene allor rivolta al figlio: or questo
Di mëonio liquor nappo ripieno
Prendi, gli disse, e a l’Ocëáno liba.
580Indi ella stessa, e l’Ocëán che padre
E’ de le cose, e le sorelle ninfe,
Quante a i boschi presiedono, ed a i fiumi,
Chiamò pregando, e su gli accesi fochi
Versò tre volte il vin, tre volte in alto
585Stridula ascese, e sfolgorò la fiamma.
Con questo augurio confortando il figlio
Così prese a parlar. Abita in seno
Del mar Carpazio l’indovin famoso
Ceruleo Proteo che aggiogando al carro
590Marini pesci e bipedi cavalli
Tutto d’intorno l’Ocëán trascorre.
Or egli appunto de l’Emazia a i porti
Giunse pur dianzi la natia Pallene
A riveder. Lui veneriam noi ninfe,
595E Nereo stesso, vecchio Dio, rispetta
I vaticinii suoi, chè tutto il vate
Scopre, e col guardo le passate cose,
E le presenti, e le future abbraccia;
Così piacque a Nettuno, a cui le informi
600Foche egli pasce, e i numerosi armenti.
A lui dunque ten va, figlio, e da lui
La rea cagion del contagioso morbo,
E il rimedio saprai; ma d’uopo fia
Costringerlo e legar, chè di sua voglia
605Nulla ei dirà, nè il vincerai pregando.
Usa la forza, e funi addoppia; in questa
Guisa sol puoi deluderne gl’inganni.
Io stessa poichè al fervido meriggio
Il sol giunto sarà ne l’ora, in cui
610Languono l’erbe inaridite, e a l’ombra
Sdraiasi il gregge riposando, io stessa
Ti guiderò ne la segreta grotta,
Ove adagiasi il nume, onde lui possa
Agevolmente in alto sonno immerso
615Cogliere e ritener: ma bada, o figlio,
Che non sì tosto con robusto braccio
Afferrato l’avrai, che varie forme
Ad ingannarti ei vestirà di fiere,
Ed irsuto cignal, squammoso drago,
620E bionda lïonessa, e fiera tigre
Farsi a un tratto il vedrai, nè ciò giovando
Assottigliarsi, e liquido da i lacci
Vibrarsi in fiamma, e dileguarsi in onda.
Tu però quanto ei più si studia e tenta
625Di svilupparsi varïando aspetto,
Tanto più stringi i vincoli tenaci,
Finchè ripresa la natia sembianza
Tale il vedrai, qual si mostrò nel sonno.
Così diss’ella, e di sua man sul figlio
630Stillò liquida ambrosia, onde repente
Söave odor da l’unto crin si sparse,
E vigor nuovo confortò le membra.
Entra nel fianco di scavato monte
Un ampio seno, ove da i venti spinto
635Rompesi il flutto, e placido s’appiana;
Sicuro asilo in tempestoso mare
A i sorpresi nocchier: più dentro in vasta
Grotta s’asconde, e con opposto sasso
Proteo si chiude. Ivi Cirene il figlio
640Colloca in angol buio, ed ella in fosca
Nube non vista ad osservar si scosta.
Già l’infocato Sirio alto su gl’Indi
Ardeva in cielo, e a la metà del corso
Era il sol giunto: inaridivan l’erbe,
645E il cavo letto de gli asciutti fiumi
Fendea cocendo l’infiammato raggio,
Quando da l’onde a la spelonca usata
Ecco Proteo s’avvìa; del vasto mare
Il multiforme popolo festoso
650Guizzagli intorno, co le code alzando
Marini spruzzi, e tutto al fin sul lido
Sdraiasi sparso, e s’abbandona al sonno.
Egli, come pastor, quando a l’ovile
Espero invita le pasciute agnelle,
655Che col loro belar svegliano i lupi
A le notturne insidie, in su lo scoglio
Siede nel mezzo a numerar l’armento.
Sofferse appena il giovine Aristeo,
Che coricato i lumi stanchi al sonno
660Proteo chiudesse, e con acuto grido
L’assalì, l’annodò. Memore il Dio
De l’arti sue si svincola e dibatte,
E in mille forme varïate e strane,
In foco, in fiume, ed in orribil fiera
665Più volte si cangiò; ma poichè tutto
Tornagli in van, nè per insidia, o sforzo
Spera più di sfuggir, spossato e vinto
In se ritorna, e con umana voce
Ad Aristeo rivolto: e chi mai, disse,
670Giovane imprudentissimo, ti spinse
In questa grotta ad inoltrar? Che brami,
O pretendi da me? Proteo, tu il sai,
L’altro rispose, il sai ben tu, cui nulla
Occultarsi non può; deh meco dunque
675Cessa di finger più: per divin cenno
A te non vengo a mali miei cercando
E consiglio e conforto. A questi detti
Le glauche luci furibondo in lui
Proteo ritorse, e in guisa tal gli occulti
680Fati fremendo a disvelar s’accinse.
Te reo di grave error l’ira d’un Dio
Persegue, e questi meritati mali,
Ed altri più, se a lui non vieti il Fato,
Suscita e move l’infelice Orfeo,
685Furente ancor per la rapita sposa.
Ahi! che da te la misera fuggendo
Precipitosa lungo il fiume, il crudo
Serpe non vide, che fra l’erbe ascoso
Su la sponda giacea. D’alti ululati
690Il coro de le Drïadi compagne
Le valli, e i monti empì: pianserla estinta
I traci campi, il Rodope, e il Pangeo,
E l’Ebro, e i Geti, e l’attica Orizìa.
Ei del vedovo amor la lunga doglia
695Disacerbando co la cava lira,
Te solo errante sul deserto lido
Te dolce sposa, al nascere del giorno,
E te del giorno al tramontar piangea.
Nè di ciò pago a le tenarie fauci,
700Varco di Dite, e al formidabil bosco
Del nero stige penetrare osando,
Al re tremendo s’affacciò de l’ombre,
E a le spietate Eumenidi, cui mai
Prego mortale ad ammollir non giunse.
705Commosse al canto suo da l’ime sedi
De l’Erebo accorrean le pallid’ombre,
E i lievi simulacri in lunga folla,
Quasi stormo d’augei, quando nel bosco
S’annidano la sera, o giù da i monti
710Cacciali il verno procelloso, o il nembo;
Uomini e donne, e spenti eroi, fanciulli,
E donzelle già nubili, e maturi
Giovani, in fresca età posti sul rogo
In faccia a i padri lor: misera turba!
715Cui l’alga oscura di Cocito e il lento
Fango imprigiona, e la stagnante intorno
Di Stige irremëabile palude
Con nove giri circondando affrena.
Stupir lo stesso Tartaro, e le oscure
720Case di morte, e implacidiro i serpi
De le Furie sul crin, tacquero aperte
Le tre gole di Cerbero, e fermossi
L’aura, che aggira d’Issîon la ruota.
E già tornava, superato e vinto
725Ogni periglio, per le cieche vie
Orfeo di nuovo a rivedere il giorno,
E la renduta Euridice non vista
Dietro, e cheta il seguia, chè questa legge
Proserpina intimò, quando improvvisa
730Insana voglia trasportò, sedusse
L’incauto amante, ahi! di perdon ben degno,
Se ignoto a l’ombre il perdonar non fosse.
Ei colà giunto, ove la dubbia luce
Già cominciava a penetrar del giorno,
735Da l’amor vinto e dal desio fermossi,
E del divieto immemore si volse
La sposa a riguardar. Tutto in quel punto
De l’opra il frutto egli perdè; di Pluto
Fur sciolti i patti, e un triplice fragore
740Dal conscio Averno rimbombar s’intese.
Ed ella allora: ahi! chi me, disse, Orfeo
E te perde ad un tempo? Onde mai tanto
Sconsigliato furor? Ecco di nuovo
Me chiama il Fato, e le natanti luci
745Aggrava, e chiude in un ferreo sonno. Addio
Per sempre omai; già in tenebrosa notte
Sento rapirmi, e languide e cadenti
Stendo a te in vano, ahi! non più tua, le braccia.
Disse e repente agli occhi suoi, qual fumo
750Disperso in aria, dileguossi, e lui
Che disperato brancolando intorno
L’ombre stringea, chiamandola per nome,
Non vide più, nè su l’opposta riva
Caronte a lui di ripassar permise.
755Or che far più? Dove n’andrà, perduta
Già due volte la sposa? E con qual pianto
Placar l’ombre di nuovo, o con quai prieghi
I numi impietosir? Fredd’ombra e nuda
Ella di Stige su la nera barca
760Varcava già l’irremëabil’onda.
Fama è di lui, che sette interi mesi
Sotto gelida rupe entro uno speco
De lo strimone in riva i suoi dolenti
Casi piangesse, intorno a se traendo
765E querce, e tigri impietosite al canto.
Tal Filomena tra populee frondi
Duolsi, piangendo gl’involati parti
Che non pennuti ancor trasse l’accorto
Crudo villan da l’appostato nido:
770Tutta la notte immobile da un ramo
Piange ella, e allunga il flebil canto, empiendo
De’ suoi lamenti i silenziosi campi.
Non di talamo più, non d’altri amori
Voglia il tentò; vedovo e solo i lidi
775Del Tanäi nevoso, e i duri ghiacci
De gl’iperborei monti, e le deserte,
Non mai prive di gel, rifée campagne
Scorrea, piagnendo la perduta sposa,
E il vano don rimproverando a Dite.
780Indarno a lui sprezzate nozze offriro
Le tracie donne, che a vendetta mosse
Da’ suoi rifiuti, e da furor sospinte
In mezzo a i sagrificii a le notturne
Orgie di Bacco il trucidar, spargendo
785Pei vasti campi i lacerati membri.
Tronco dal collo, e galleggiante il capo
Volgea l’Ebro su l’onde, e in fioca voce
La fredda lingua: ahi misera Euridice!
Euridice! negli ultimi respiri
790Gía mormorando, e d’Euridice il nome
Meste d’intorno ripetean le rive.
Proteo sì disse, e rapido d’un salto
Nel mar lanciossi; e in vortice spumoso
Si squarciò l’onda, e sovra lui si chiuse.
795Al timido Aristeo Cirene allora
Pronta accorrendo: or su, mio figlio, il pianto
Tergi omai, disse, e il tuo dolor consola.
Nota è del morbo la cagion. Le ninfe
Già compagne d’Euridice, che in questi
800Boschi con lei danzavano, vendetta
Preser ne l’api tue de la sua morte.
Supplice dunque con preghiere e doni
Chiedi pace, e le facili Napée
Venera, o figlio, che pietose a i voti
805Daran perdono, e placheran lo sdegno.
Or quale il modo di pregar, qual sia
L’ordine a te dirò. Dal pingue armento,
Che a te pasce l’erbifero Liceo,
Quattro di vaghe forme esimii tori,
810Ed altrettante di cervice intatta
Giovenche eleggi, e quattro altari innalza
Nel tempio de le ninfe; indi le sacre
Vittime svena, e lasciane gli esangui
Corpi insepolti nel frondoso bosco.
815Poi quando al nono dì sorga l’aurora
Tu di letéi papaveri ad Orfeo
Offri l’esequie, ed una negra a lui
Pecora svena: d’Euridice l’ombra
D’una vitella placherai col sangue.
820Ciò fatto il bosco a visitar ritorna.
Lieto Aristeo tronca gl’indugi, e i cenni
Va de la madre ad eseguir: nel tempio
Erge a le ninfe i comandati altari,
Quattro di vaghe forme esimii tori,
825Ed altrettante di cervice intatta
Giovenche ei guida, e sorta in cielo appena
Del nono dì l’aurora, offre ad Orfeo
L’esequie, e il bosco a visitar ritorna.
Là nuovo ed ammirabile portento
830Stupido ei mira, de gli uccisi buoi
Fra le corrotte viscere, e nel cavo
Ventre aggirarsi sussurrando un folto
Popolo d’api, e da le rotte coste
Fuori a sciami sbucando immensa nube
835Stendere in aria, e su le piante al fine
Agglomerarsi, ed oscillar da i lenti
Rami a guisa di grappoli sospese.
Questi sul culto, e i rustici lavori
De la greggia, de gli alberi, e de i campi
840Versi io tessea; mentre a l'Eufrate in riva
Fulmina in guerra, e vincitore Augusto
I volontarii popoli governa
Con giuste leggi, ed anelando a gli astri
Calca eroe non mortal la via d'Olimpo.
Fine del libro quarto.