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LIBRO SECONDO.
Finor de i campi la cultura e gli astri;
Or io te, Bacco, e le tue dolci vigne
Canterò teco, e le silvestri piante,
E i lenti germi del fecondo ulivo,
5Vieni, o padre Lenéo, de’ doni tuoi
Qui tutto è pien, di pampini vestito
A te ride l’autun, frondeggia il campo
E fuor da gli orli dei capaci tini
Fuma spumante la vendemmia; vieni,
10Divo padre Lenéo, vieni, e slacciati
Gli aurei coturni, nel novello mosto
Meco l’ignudo piè tinger non sdegna.
E tu del canto mio sostegno e meta,
Tu gloria del mio nome, augusta Bice,
15Scendi propizia, e agevolando il corso
Meco trascorri l’intrapresa via,
E ne l’aperto mar reggi le vele.
Lungo e vasto è il cammin, nè tutto io posso,
Se cento lingue avessi e ferrea voce,
20Co’ miei versi abbracciar: la prima spiaggia
Del vicin lido costeggiando andremo
Del suolo a vista; or vien, non io qui voglio
Con finto carme in favolosi errori,
O in lungo esordio trattenermi invano.
25Diversi modi a generar le piante
Tien da principio la natura: alcune
Senz’opra, o studio di cultor dal suolo
Spuntano volontarie, e i campi intorno
E i curvi lidi ombreggiano de’ fiumi.
30Nel numero di queste è il silio molle,
Il pioppo e la flessibile ginestra,
E in verdi foglie biancheggiante il salcio.
Altre a l’opposto dai sepolti semi
Nascono sol, come il castagno e l’ischio
35Che nei boschi di Giove ampio frondeggia,
E l’alta quercia, oracolo a gli Achei.
A molte poi da l’infime radici
Pullula intorno numerosa prole
Di teneri germogli, e in questa guisa
40Crescono a l’olmo ed al ciregio i figli,
E il sacro allor le piccole sue foglie
Sotto l’ampie solleva ombre materna.
Questi tre modi adoperò da pria
La provvida natura, e sol da questi
45Ogni genere poscia origin ebbe
Di fruttifere piante e di selvagge,
Per cui verdeggia il sacro bosco e il campo.
Molte altre vie l’esperienza e l’arte
In seguito scoprì. V’è chi dal molle
50Materno seno un ramoscel divelto
Depon nel solco; seppelliscon altri
Barbuti ceppi, o in quattro parti fesse
Pertiche, o duri acuminati pali.
Tal pianta v’è, che ripiegarsi in arco
55Mira le sue propagini e sepolte
Dal suo ripullular: molte bisogno
Di radici non han, quindi le tronche
Cime a la terra il portator ne affida.
Ma de l’ulivo risegato in mezzo
60Vedi con ammirabile portento
Dal secco tronco germogliar le barbe;
E impunemente d’una pianta i rami
In altra trasformarsi, e sovra il pero
Spuntar le mele, e su pedal di prugna
65Rosseggiare i durissimi cornioli.
Osservi dunque il buon cultore e impari
Quale a ciascun de gli alberi convenga
Suolo e cultura; e il rozzo frutto ed aspro
Con l’arte in lor di raddolcir procuri;
70Nè il terren lasci inoperoso, o a piante
Ch’egli non ama, inutilmente il forzi:
L’Ismaro giova rivestir di vigne,
Ed il Taburno popolar d’ulivi.
Le piante che per se spuntano a l’aura
75Senz’opra e studio altrui, sterili è vero,
Ma vigorose crescon e robuste,
Alimentate dal fecondo umore
Del nativo terren: pur queste ancora
Se alcun le innesti, o in preparate buche
80Trappianti altrove, l’indole selvaggia
Spogliar vedransi, e del cultore industre
Docili e pronte secondar la mano.
Lo stesso avvien de’ teneri rampolli
Che da l’ime radici al ceppo intorno
85Nascono de le piante, ove divelti
Sieno e disposti ne gli aperti campi:
Or con le foglie adombrali e coi rami
L’opaca madre che i crescenti figli
Sterili rende, o i già fecondi aduggia.
90Gli alberi poi che nascono da i semi
Posti sotterra, cresceran più lenti
Ed a i tardi nipoti ombra faranno:
Ma questi ancor degenerar negletti
Sogliono infine; imbastardisce il pomo
95Dimenticando il suo primier sapore,
E disgustosi grappoli produce
L’uva, a gli augelli abbandonata preda;
Chè assidua cura e faticosa esige
Ognun di loro, e trapiantar schierati
100Devi, e nutrirli, e procacciarne a costo
Di sudor lungo e di dispendio i frutti.
Ma diversa a ciascun cultura ed arte
Però conviensi: dal reciso tronco
Meglio sorge l’ulivo, ama la vite
105Multiplicar propaginata, e spunta
Da rami accuminati il pafio mirto:
Dai ceppi e tronchi lor nascono i duri
Nocciuoli, e il grosso frassino, e di Giove
L’albero e il pioppo, ombrifera corona
110D’Ercole, e l’alta palma, e il dritto abete
Che va i perigli ad affrontar del mare.
Ma l’ispido corbezzolo l’innesto
Brama del noce, e inserte mele anch’esso
Fruttar si vide il platano infecondo;
115Sovente a l’orno incanutir le chiome
Dai bianchi fior del pero, irte castagne
Crebbero in cima al faggio, e appiè degli olmi
Cadute ghiande masticaro i porci.
Nè d’inserire e inocular le piante
120Unico è il modo; perocchè là dove
Le gonfie gemme da la rotta scorza
Sbucciano a germogliar, nel nodo istesso
Apre taluno con leggero taglio
Un picciol seno, e di straniera pianta
125L’occhio v’innesta, onde a legare impari
Incorporato a l’umida corteccia.
Altri là, dove è senza nodi, il tronco
Spacca, e col conio la profonda piaga
Internandosi allarga, indi v’intrude
130L’ospite germe fecondante, e guari
Poscia non v’ha che di felici rami
L’albero onusto al ciel s’inalza e lieto,
Le ignote frondi e i non suoi frutti ammira.
Non tutti inoltre d’una specie sola
135Produce ogni terren gli olmi robusti,
I salci, il loto ed i cipressi idéi;
E non di succo e di figura uguali
Nascon le pingui ulive: altre rotonde,
Bislunghe altre vedrai, polpute alcune
140E d’amaro sapor; varie le mele
Son pur fra loro, e variano i lor frutti
D’Alcinoo gli orti; nè dal germe istesso
Nascon le sirie e le crustumie pere,
E le succose e turgide voleme;
145Nè da i nostri olmi pendula matura
Quell’uva istessa che dai bassi tralci
De’ colli metimnéi Lesbo raccoglie.
L’uve di Marëotide e di Tasso
Sogliono biancheggiar; amano quelle
150Più leggero il terren, queste più grasso.
Ottimo è il vino che di psitia vite
Da gli appassiti grappoli si spreme.
Tenue il legéo non ha color, ma lega
Spesso la lingua al bevitore e il piede.
155Nè senza pregio le purpuree, o senza
L’uve precie non son; tu pur distinta
Lode da versi miei, retica, avrai;
Ma non però co le falerne viti
Oserai contrastar: e nome e fama
160Hanno pur le propaggini amminée
Di vin robusto produttrici, a cui
E il frigio Tmolo cedono, e lo stesso
Re de’ colli vitiferi Fanéo,
E l’Argite minor, con cui non trovi
165Chi possa o in copia gareggiar di mosto,
Od in più lunga e vivida vecchiezza.
Nè de’ tuoi grossi grappoli, o Bumaste;
Nè di te tacerò, libata a i numi,
Rodia, e gradita a le seconde mense.
170Ma nè le specie numerare e i nomi
Tutti potrei, nè giova, e chi ’l volesse
Del mar vorrebbe i tempestosi flutti,
E de la Libia numerar le arene.
Nè finalmente ad ogni pianta adatto
175Ogni suol crederai; nascono i salci
In riva ai fiumi, nei fangosi stagni
Gli ontani, e gli orni su i petrosi monti;
Godon di mirti coronarsi i lidi,
E colle aprico esposto al sol le viti
180Amano, e i tassi l’aquilone e il freddo.
Scorri del mondo a gli ultimi confini
E da le orientali arabe spiagge
Fino a i pinti Geloni; ovunque il suolo
Coltivato vedrai, diverse piante
185Patria diversa avran. L’ebano nero
Sol da l’India a noi viene e non d’altronde,
Che dai tronchi sabéi stilla l’incenso.
E che dirò del balsamo che suda
Da gli odorosi legni in su le rive
190Del felice Giordan? Che de le bacche
Del sempre verde Egiziano acanto
Del morbido cotone, onde son bianche
L’Etiopi selve e dei sottili stami,
Che dagli alberi lor spogliano i Seri?
195E che de i boschi in fin che l’India estrema
Presso al golfo Gangetico produce
Alti così, che a le lor piante mai
Di quelle genti al säettare esperte
Freccia non giunse a superar la cima?
200L’acido sugo ed il sapor tenace
Vanta la Media del felice pomo,
Di cui non avvi antidoto più pronto
Al rio veleno che talor prepara
Malefiche mescendo erbe e parole,
205A i non suoi figli la crudel matrigna.
Grande è la pianta e di color, di forma
Somigliante a l’allor, e alloro forse
La crederesti, se diverso intorno
Non diffondesse il penetrante odore.
210Verdi ha le foglie, e non le stacca il vento,
Tenacissimi i fior: usanlo i Medi
A medicare e l’alito che pute,
E lo stentato anelito senile.
Ma nè le selve rinomate e il ricco
215Suol de la Media, nè l’ameno Gange,
Nè il torbid’Ermo di dorate arene,
Nè il Battro o l’India, nè l’Arabia tutta
Pingue d’aromi pareggiar le lodi
De l’Italia potran. Questi felici
220Luoghi arati non furono da tori
Spiranti foco, nè d’immane drago
Videro uscir da i seminati denti
Orrida messe di guerrieri e d’aste;
Ma le campagne lor di bionde spiche
225Coperte lussurreggiano, e di vigne,
E d’oliveti, e di fecondi armenti.
Qui generosi e fervidi destrieri
Veggionsi errar pei campi ergendo
L’alta cervice, e là candide gregge
230E bianchi tori pascolar, di Giove
Ostia maggiore, che sovente aspersi
De l’onde tue, sacro Elitumno, e cinti
Di fior le corna per le vie di Roma
Guidano al tempio i trïonfali cocchi.
235Qui ne l’inverno ancor tepida regna
La primavera, e prolungato usurpa
L’estate i mesi altrui; due volte i frutti
Su le piante maturano, e due volte
Soglion ne l’anno partorir le agnelle.
240Nè qui tana, o natal non ha rabbiosa
Tigre, o fiero leon, nè in torti giri
Squammoso drago sibilando striscia,
Nè incauta man fra le salubri coglie
Venefic’erba. Aggiungi a ciò le tante
245Cittadi egregie e monumenti illustri
D’arti operose e fabbricate rocche
Su l’erte rupi, e tortuosi e vasti
Fiumi lambenti il piè d’antiche mura.
Forse l’adriaco mar, forse il tirreno
250Che del felice suol la doppia costa
Bagnano circondando, o i tanti laghi
Che chiude in sen, ricorderò? Te forse,
Massimo Lario, o te Benaco, i flutti
Imitante ed il fremito marino?
255O forse i porti ed al lucrino seno
Le molli aggiunte a rintuzzar l’orgoglio
De lo sdegnoso mar, là dove ei freme
Da l’onda giulia risospinto, e imbocca
Le aperte foci del vicino Averno?
260Questo stesso terren ricche di rame
E d’argento nutrì miniere e d’oro:
Questo produsse di guerriero seme
Robuste genti, e i popoli Sabini
E i Marsi arditi, ed al travaglio avvezzi
265I Liguri, e di spiedo i Volsci armati:
In questo ebbero cuna i Decii, e i Marii,
E gl’invitti Camilli, e i due Scipioni,
Fulmini in guerra, e tu fra questi, o divo
Cesare, tu che ne l’estreme spiagge
270Ora de l’India vincitor l’imbelle
Da le romane rocche Indo allontani.
Salve, o feconda d’ogni frutto, salve
Ricca madre d’eroi, saturnia terra.
A te lodati studii ed arti avite
275Intraprendo a cantar, novelle fonti
Schiudere osando, e tessere primiero
Tinto d’ascréi color carme romano.
Or luogo è qui d’esaminar qual abbia
Ogni diverso suol forza e colore;
280E quale ed a quai frutti indole adatta.
Primieramente i magri colli e ingrati,
Dove l’argilla sterile di sassi
Suole e dumi abbondar, palladia selva
Aman d’ulivi; e manifesto indizio
285Ivi ne danno gli oleastri amari
Che spuntano in gran copia, e il suol coperto
Tutto d’intorno di silvestri bacche.
Ma il fertile terren, pingue d’umori
E di folt’erbe verdeggiante e lieto,
290Qual sovente il veggiam ne l’ime valli,
Cui giù dai monti con felice piena
Scendono i rivi a ricoprir di molle
Fecondo limo, e le colline inoltre,
Che a i caldi venti ed al meriggio esposte
295L’odïosa a l’aratro umida felce
Nutrono in copia, di robuste viti
Abbondanti saran, d’uve succose
E di söavi prezïosi vini,
Quai da le coppe d’or libansi a Giove
300Nei sacrificii allor che le fumanti
Viscere imposte su l’altar, dà fiato
A l’eburnea sua tibia il pingue Etrusco.
Che se fecondo pascolo agli armenti
Cerchi piuttosto, e teneri vitelli
305Educar brami, ed agnelletti e capre
A gli arboscelli e a i seminati infeste,
Vattene i prati ed i lontani paschi
A ricercar del fertile Tarento,
O campi altrove somiglianti a quelli
310Che ha l’infelice Mantova perduti,
Ove canoro stuol di bianchi cigni
Scherza del Mincio su l’erbosa riva.
Ivi non pingui e tenere pasture
Mancano, o fresche acque correnti, e quanto
315D’erbe consuma la pascente greggia
Nel lungo esivo dì, tanto di breve
Notte compensa il rugiadoso umore.
La terra poi, che di color nericcio
Umida e crassa al vomero s’attacca,
320Di molle e trita superficie, quale
Suolsi arando ottener, acconcia ed atta
Al frumento sarà; nè d’altro campo
Vedrai più bovi ricondurti a casa
Carchi di grano a lento passo i carri.
325E quella pure ottima fia, da cui
Con mano irata l’aratore i boschi
Da lungo tempo sterili e le selve
Svelse da le radici, e i nidi antichi
De gli augelli atterrò: veggionsi questi
330Fuggir per l’aria spaventati, e lieto
Ringiovenir sotto l’aratro il campo.
Ma l’arsa ghiaia di terren declive
Fuggi che a l’api somministra appena
Poca rugiada e rosmarin; lo scabro
335Tufo arenoso e la tenace fuggi
Creta, corrosa da le nere serpi
A cui non altro suol più grato cibo,
Nè più secreti nascondigli appresta.
Quel poroso terren facile a bere
340L’umor del pari, e ad esalarlo in lieve
Nebbia sottil che di tappeto erboso
Verdeggia ognora, nè giammai di scabra
Ruggine offende il vomero che il solca,
Si presterà, se coltivando il provi,
345A qual uso vorrai: facile a gli olmi
E a le viti ei sarà, di pingui ulivi
Lieto e fecondo, e a pascere la greggia
Del par disposto, ed a soffrir l’aratro.
Tai son di Capua i ricchi campi, e tali
350Quei vicini al Vesevo, e quei che il Clanio
Bagna, inondando la deserta Acerra.
Or io t’insegnerò, come si possa
Ogni terren conoscere, se denso
Oltre il dovere, e raro ei sia, che il primo
355Ama Cerere più, Bacco il secondo.
Dunque nel campo ch’esplorar vorrai,
Scelto il luogo opportun, fa che si scavi
Profondo pozzo, e la sommossa terra
Ch’estratta avrai, rimettere di nuovo
360Nel fondo stesso, ed uguagliar tu déi
Calcandola co i piè; se sotto gli orli
S’abbassa, e manca non empiendo il vuoto,
Rara e leggera al pascolo e a le viti
Meglio acconcia sarà; ma se dal pieno
365Pozzo compressa sopravanza, e tutta
Capir dentro non può, più dense glebe
Ivi t’aspetta che tenaci e crasse
Gemer faran sotto l’aratro i buoi.
La salsa poi, o così detta amara,
370Che per arar non domasi, e del pari
A l’uva nuoce ed a le biade, e nome
Cangia a i frutti e sapor, ecco in qual guisa
Conoscere potrai. Stacca da i tetti
Affumicati le pendenti gabbie,
375Di ben connessi vimini intrecciate,
Con cui colasi il vin; queste del tristo
Terren riempi e d’onda pura, e tosto,
Se dentro il calchi distillar vedrai
Giù l’acqua, lungo i vimini scorrendo
380A grosse gocce che assaggiate indizio
Certo daran, di sali a te pungendo
La lingua e d’amarissimo sapore.
Magro il terren che maneggiato in polve
Si stritola disciolto, e grasso invece
385Quello sarà che infra le dita a guisa
Di lenta pece si ammollisce e attacca.
L’umida terra rigogliose e folte
Erbe alimenta, e vigorosa appare
Oltre il dovere: ah! il suo soverchio lusso
390Non io vorrei ne le nascenti biade.
Qual sia lieve e pesante, e qual sia nera,
O d’ogni altro color, chiaro tel dice
L’occhio e la man: difficile a scoprirsi
E la fredda assai più; le picce solo
395Indicarla potran ch’ivi talvolta
Nascono, e l’edre, e i velenosi tassi.
Premesso ciò, tu preparar la terra
Gran tempo innanzi, e scavar déi ne’ colli
E solchi e fosse, e le supine glebe
400Lasciare al verno lungamente esposte
Ed al freddo aquilon, pria che le viti
Intraprenda a piantar: ottimo è il campo
Che trito e molle abbia il terreno; e tale
Rendonlo i venti, e le gelate brine,
405E di robusto zappator le braccia.
Chè se nulla obbliar brami che possa
A le viti giovar, sceglier procura,
Ove da prima seminarle, un suolo
Che in tutto a quel sia somigliante, in cui
410Trapiantarsi dovranno; onde la nuova
Prole non soffra, e a disgustar non s’abbia
Tenera ancor de la cangiata madre.
Anzi alcun v’è, che su la scorza segna
Del ciel l’aspetto, onde poter le piante
415Altrove in guisa collocar, che quella
Parte che l’austro riguardava, o il polo,
Il polo, o l’austro a riguardar ritorni
Ne l’ospizio novel: tanto di forza
L’abito preso in gioventù conserva!
420Prima però se al colle, o al pian fia meglio
Le viti por, deciderai: se pingue
Campo avrai scelto, più frequenti e fitti
Pianta i magliuoli; chè in terreno opimo
Prospera Bacco; ma declivi colli
425Se in vece, o curvi monticelli eleggi,
Più rare allor distribuir le piante
Devi, in guisa però, che ordine esatto
Serbin tra loro, e con distanza eguale
Intersecate da sentieri aperti
430Sorgano in dritte, e riquadrate schiere.
Così talor, se a la battaglia spiega
Lunga legion le sue coorti, e tutto
Schierato a fronte de’ nemici in campo
L’esercito già stia, di lucid’aste
435Vedi, e di squadre in simetria disposte
La pianura ondeggiar, finchè sospeso
Marte s’aggira, e non ancor sanguigna
Mischia confonde le ordinate file.
Pari di spazio e numero i sentieri
440Dei quadrati saran; nè solo a vano
Piacer de l’occhio, ma perchè divise
Possan le piante un alimento eguale
Trar da la terra, e in libertà crescendo
Spingere in aria, e dilatare i rami.
445Forse qui chiederai, qual de le fosse
La misura esser debba: a lieve solco
Puoi le viti affidar, più dentro terra
Gli alberi invece sepellir dovrai.
L’eschio fra gli altri più, che quanto al cielo
450Erge la fronte maestosa, tanto
Le sue radici al tartaro profonda.
Quindi nè il verno, nè la pioggia, o i venti
Lo svelgono dal suol: saldo ed immoto
Stassi, ed a gli anni resistendo il giro
455Vive di molte età; gli opachi rami
A se d’intorno e le robuste braccia
Ampiamente diffonde, ed ei nel mezzo
Sublime tronco la frondosa e immensa
Chioma sostien, che il vasto campo adombra.
460Non mai del sole al tramontar rivolte
Sien le tue vigne, nè il nocciuolo ingordo
Fra lor si pianti, e a scegliere i magliuoli
Non de le viti taglierai le cime,
Ma i bassi tralci, che a la terra avvezzi
465Vi si adattano più; nè ottuso ferro
Tagliando adopra, e sovra tutto poi
Ne la tua vigna non soffrir, che alligni
Silvestro ulivo. Che sovente ahi! cade
A gl’incauti pastor di mano il foco,
470Che lento appiè de gli alberi da prima
Serpe, ed occulto ne la pingue scorza
Nutresi, e il tronco attacca; indi scoppiando
Spiccasi in vampa stridula, e a le secche
Frondi s’appiglia, e rapido scorrendo
475Di ramo in ramo vincitor le cime
Domina, e tutto di lontano in fiamma
Presenta il bosco, e d’olëoso fumo
Densi globi ondeggianti al ciel solleva.
Ed allor più, se procelloso spira
480Dal polo il vento, e per la folta selva
L’appreso incendio dilatando incalza.
Ove ciò sia, ne le radici aduste
Il succo muor; nè mettere potate
Novelli tralci, nè qual pria potranno
485Verdi dal suolo pullular le viti.
Solo ivi resta, e co le amare foglie
Lo sterile olëastro il campo ingombra.
Nè ascolterai chi persuader ti voglia
Borea spirando ad iscavar le fosse
490Nel duro suol; chè le campagne allora
Orrido stringe acuto gel, nè soffre
Che il tenero magliuol radice attacchi.
Ottima ed opportuna a piantar viti
Di primavera è la stagione, allora
495Che a noi ritorna la nemica a i serpi
Bianca cicogna; o de l’autunno a i primi
Freddi, allor quando da gli estivi segni
Uscito già, co’ suoi destrier non giunse
Nel cerchio ancor di Capricorno il sole.
500Utile pure al frondeggiar de i boschi
Ed a le selve è primavera, e in lei
Di nuovi umor rigonfiasi, e bramosa
Chiede la terra i genitali semi.
Co le feconde piogge il sommo padre
505Etere allor de l’avida consorte
Discende in grembo, ed a l’immenso corpo
Si mesce immenso, e ne alimenta i germi.
Odonsi allora di canori augelli
Garrir le selve, ed a i concessi giorni
510Tornan gli armenti a rinnovar gli amori.
Ride il mondo e rinasce; il suol per tutto
Lieto germoglia, ed a le tepid’aure
De l’amoroso zefiro aleggiante
Aprono i campi il sen; di vivi umori
515Ogni terreno abbonda; e a i nuovi soli
La tremolante e tenera lor fronte
Osano l’erbe alzar, nè più temendo
D’austro le offese, o d’aquilon sicura
Mette i fiori la vite, e tutto spiega
520De le sue foglie il pampinoso lusso.
Nè certo io credo, che al nascente mondo
Altri giorni splendessero, o diverso
Ne la sua prima origine ei trovasse
Tenor di cose: temperata e dolce
525Primavera fioria, nè gelid’euro
Soffiava allor, che da le dure glebe
La ferrea stirpe dei mortali al giorno
Il capo alzò la prima volta, e i boschi
Furon di fiere, e di volanti augelli
530L’aria, e di stelle popolati i cieli.
Che non del verno, e de l’estate allora
Tenero il mondo tollerante avria
Le alterne ingiurie, nè il potrebbe adulto,
Se più mite stagion tra il caldo e il gelo
535Posta non fosse, che la stanca terra
In dolce calma riposar lasciasse.
Resta ora a ricordar, che qual ei sia
L’arbor che pianta il buon cultor, di molta
Terra e letame lo ricopra, e intorno
540Poroso tufo vi raduni, ed aspre
Scaglie, per cui penetri l’acqua, e passi
Il sottile vapore, onde ristoro
Prenda la pianta, e si ricrei: taluno
Pur v’è, che sassi, od ampii cocci al tronco
545Suole addossar, da le dirotte piogge
Schermo, e dal sirio can che i campi aduggia.
De’ piantati magliuoli al piè dovrai
Poscia sovente accumular la terra;
Rincalzarla co i rastri, e ne la vigna
550L’aratro esercitar, destro cacciando
Tra pianta e pianta i riluttanti bovi;
Poi lisce canne accomodarvi, e verghe,
O pertiche di frassino scorzate,
E bicorni forcelle, a cui la vite
555Appoggiata sostengasi, e de i venti
L’impeto disprezzando a gli olmi in cima
Di ramo in ramo a rampicarsi impari.
Mentre però giovine ancor s’ammanta
De le novelle frondi, ah tu perdona
560A la tenera età; nè, perchè s’alzi
Lussureggiante e senza fren, la falce
Tentar severo, ma legger con l’unghie,
Quà e là scegliendo, le soverchie foglie
Sterpar ti basti, e del nemico acciaro
565Risparmia a lei l’intempestivo oltraggio.
Ma quando poi da le radici adulte
Cresce a l’olmo abbracciata, allor la folta
Chioma ne afferra, e i pampini recidi
Senza riguardo, e de i diffusi rami
570Rintuzza, e scema l’infecondo orgoglio.
La vigna inoltre circondar di siepi,
E armenti e gregge allontanarne è d’uopo,
Singolarmente poi fin ch’è la vite
Tenera ancora, e il più leggero insulto
575Non avvezza a soffrir; chè oltre gli estivi
Soli, e il gelo invernale, i buoi silvestri
Recanle oltraggio, e le seguaci capre,
E le pecore, e l’avide giovenche;
Anzi nè l’aspro gel, nè il sol cocente
580Tanto a lei nuoceran, quanto del gregge
Il velenoso dente, e la deforme
Nel roso tronco cicatrice impressa.
Nè per altro delitto il capro a Bacco
Svenasi in ogni altar, e premio posto
585Fu da gli antichi cittadin d’Atene
Ne i rozzi giuochi a i scenici istrioni
Che per le strade e i grossi borghi in giro
Declamando scorrevano, e ne i molli
Prati in mezzo a le tazze ebbri e baccanti
590Saltavano su l’unte otri gonfiate.
E a i nostri giorni ancor le ausonie genti,
Già troiana colonia, i giuochi a Bacco
Con rozzo canto ed incomposte risa
Usano celebrar, di cave scorze
595Mascherandosi il volto, e te con lieti
Versi invocano, o Bacco, e del tuo nume
A un alto pino attaccano sospese
Da un lungo fil le immagini di creta.
Quindi ogni vigna di rigonfi grappi
600Vedi intorno abbondar, d’uva ripiene
Son l’ime valli, e i cupi boschi ovunque
Con lieto augurio a lo spirar del vento
Volge la faccia il mobile idoletto.
A Bacco dunque i consueti onori
605Con patrii carmi, e di focacce e vini
Grati doni offrirem; tratto pei corni
Cadrà l’irco su l’ara, e in duri spiedi
Poi di nocciuol ne arrostirem le carni.
Ma la cultura de le viti un altro
610Lavoro esige, a cui sudore, o cura
Non è, che basti mai: chè ogni anno è d’uopo
Smover più volte e rivangar la terra,
E senza posa le tenaci zolle
Romper co i rastri, ed il soverchio lusso
615De le frondi troncar: giorno di tregua
L’agricoltor non ha, nuova rinasce
Fatica ognor; su l’orme stesse in cerchio
Volgesi l’anno, e con perpetuo giro
I giorni si rinnovano, e i lavori.
620Ed anco allor, che l’ultime sue foglie
Gittò la vigna, ed aquilon de i boschi
Spogliò le chiome, il buon cultor le cure
A l’anno che verrà provvido estende,
E co la falce a fior di terra assale
625L’ignuda arida vite, e i vecchi tralci
Tronca, e potando la riforma e assetta.
Primo ad arar sarai, primo già i secchi
Sarmenti ad abbruciar, e primo i pali
A trasportar da la spogliata vigna;
630Ultimo in vece a vendemiar: due volte
Cresce a le viti il pampinoso ingombro,
E due dei tralci al piè pullula ogni anno
D’erbe e di vepri soffocante selva.
E a l’uno e a l’altro mal dura fatica
635E lunga è il rimediar: loda le vaste
Campagne altrui, ma piccolo coltiva
Poder per te. Fia necessario in oltre
Viminei fasci di spinoso rusco
Tagliar ne’ boschi; e in riva a l’acque i rami
640Del pieghevole salcio, e le palustri
Canne a le viti e vincolo e sostegno.
E quando ancor già in ordine è la vigna,
Già piantate le viti, e già riposta
L’inutil falce del compiuto omai
645Lavor s’allegra il vignaiuol cantando,
Non però cessa ogni travaglio; il suolo
Con le marre eccitar, smover sul campo
Vuolsi la polve, e dopo ciò dovrai
Temer, che l’uve a maturar vicine
650Grandine, o pioggia a danneggiar non scenda.
Niuna a l’opposto è il coltivar l’ulivo
Fatica o studio, chè di falce o rastri
Ei bisogno non ha. Poichè nel suolo
Ferme piantò le sue radici, e l’aria
655A soffrir s’avvezzò, la terra stessa
Smossagli intorno co l’adunca zappa,
O dal vomero aperta umore al tronco,
E frutti in copia somministra a i rami.
E tu, però, se saggio sei, provvedi,
660Che nè tuoi campi numeroso alligni
Questo caro a la pace arbor fecondo.
E le piante pomifere pur anco
Poichè le forze lor crebbero, e il ceppo
Senton robusto, de l’aïta altrui
665Non bisognose per virtù natia
S’ergon feconde al ciel. Spontanei pure
Fruttano i boschi; di sanguigne bacche
Rosseggiano i spiniferi cespugli,
Nido e pasco a gli augei; citiso al gregge
670L’erboso piano, e la più folta selva
Faci ministra, onde alimento i fuochi
Abbiano, e lume le invernali notti.
E vi sarà chi queste utili piante
Nutrire, o almeno seminar non curi?
675Che de l’altre dirò? gli acquosi salci,
E l’umili ginestre ombra a i pastori,
Pascolo a l’api, e frondi al gregge, e siepi
Somministrano al campo: utili, e al guardo
Son di diletto le naricie selve
680Pingui di pece, ed i lugubri bossi,
Che sul Citoro ondeggiano, e le tante
Terre e boscaglie che la falce e i rastri,
E del cultore ignorano la mano.
Le tristi anch’esse e sterili foreste,
685Che l’euro procelloso agita e schianta
Su le caucasee rupi, offrono ad uso
Diverso adatte piante; ottimo a l’alte
Navi l’eccelso pin, cipressi e cedri
Le case a fabbricar; e trae da quelle
690Legni il villano, onde a le ruote il mozzo
Tornire e i raggi, ed a le cave barche
Le carine incurvar: di frondi è l’olmo
Fecondo, e il salcio di tenaci vinchi;
Dei dardi a l’aste, e ad armi varie è il mirto
695Opportuno, e il corniolo; in cretic’arco
Piegasi il tasso, e sul volubil torno,
O dal ferro incisor forma e figura
Prendon la liscia tiglia, e il duro bosso.
Sovra l’onde del Po nuota e galleggia
700L’ontano lieve, e ne la cava scorza
De l’elci antiche, e nel viziato tronco
A lavorarvi il mel l’ape s’annida.
E quando mai sì gran vantaggio i doni
Recarono di Bacco? Ahi! che di colpe
705E’ Bacco invece, e di sanguigne risse
Spesso cagion. Bacco egli fu, che a morte
Infra le mense di Pirìtoo trasse
Gli ebbri Centauri, e Reto, e Folo, e il vasto
Iléo che inerme ai Làpiti feroci
710Fea col cratere in man guerra e spavento.
Oh fortunati appien, se i loro beni
Conoscer san, gli agricoltori! a cui
Lungi da l’armi e da i furor civili,
Provvida e giusta al fecondo seno
715Versa la terra un facile alimento.
Se non ad essi le marmoree scale
E gli atrii inonda adulatrice turba
Che sul mattino a salutar s’affolla;
Se di liscia testuggine le porte
720Intarsiate non vantano, e trapunte
D’oro le vesti, e di Corinto i bronzi;
Se ad uso e pompa lor le bianche lane
Tiro non tinge, e il liquid’olio e puro
D’erbe e d’aromi estranio odor non beve,
725Sicura pace almen godono, e vita
Semplice e ignara d’ogni frode, e ricca
Di varïati beni: ozii tranquilli
In libera campagna e aperto cielo,
E laghi limpidissimi, e spelonche
730E colli, e prati ameni, e sotto ombrose
Piante al muggir de’ buoi sonni quïeti.
Ivi caccia di fiere, opachi boschi,
Ivi robusta gioventù, di parco
Vitto contenta, ed al travaglio avvezza;
735La pietà culta, rispettati i numi,
Venerabili i vecchi; e fu tra loro,
Che abbandonando il profanato mondo
L’ultim’orme lasciò l’esule Astrea.
Ah me, se i voti miei compiano i numi,
740Ma pria di tutto a sacri studii amico
E sacerdote lor le sante muse
Accolgano, e del ciel mostrin le vie,
E gli astri erranti, e le diverse ecclissi
De la luna, e del sol; d’onde il tremuoto
745E per qual forza il mar gonfiasi, e i lidi
Sforza e soverchia, e poi di nuovo i flutti
Dentro il suo letto ritirando appiana:
Perchè ne i freddi giorni il sol si affretti
A tuffarsi ne l’onde, e pigra tanto
750Tardi a spuntar l’estiva notte in cielo.
Che se a me questi di natura arcani
Pigra vecchiezza d’indagar divieti,
La villa allora, e de le amene valli
Mi piaceranno i tortüosi rivi,
755E lungo i fiumi, e tra le selve ignoti
Passar godrò privo di gloria i giorni.
Ah dove i campi son, dove le sponde
Del pindarico Serchio? Ove dai gridi
De le baccanti vergini spartane
760L’eccheggiante Taigete? Oh chi de l’Emo
Me ne le fresche valli a l’ombra opaca
Di quelle piante a riposar trasporta?
Fortunato colui che de le cose
Le cagioni conobbe, e sotto ai piedi
765Ogni vano terror pose, e sprezzando
Il fato inesorabile tranquillo
Dorme al romor de l’Acheronte avaro.
E fortunato ancor chi puri mena
I giorni in mezzo ai boscherecci numi,
770E il buon vecchio Silvano, e le Napée,
E il capripede Pan cole ed onora.
Lui non desìo di consolari fasci,
Nè insana tenta ambizïon di scettro,
O porpora regal; lui rea non turba
775Civil discordia, che i fratelli infidi
Provoca a l’armi, o il congiurato Daco,
Che giù da l’Istro a guerreggiar discenda.
Non ei di Roma, o dei caduchi regni
Cura il destino, e di ricchezze, o inopia,
780Nè invidia il rode, nè pietà l’attrista.
Quei che produce la spontanea terra,
Quei che dai rami pendono, ei raccoglie
Facili frutti; e in placido ritiro
E le pubbliche tavole, e le dure
785Leggi, ed il foro clamoroso ignora.
Oh delirii de l’uom! altri co i remi
Solca il mar periglioso, incontro a l’armi
Altri s’avventa, o de le regie corti
Ne l’auree soglie ambizïoso inoltra.
790Chi per dormir su l’ostro tirio, o in tazza
Bever gemmata, le città col ferro
Nemico invade, e le infelici case
Arde e saccheggia, e chi ricchezze aduna
Con lungo stento, ed inquïeto veglia
795Sul sepolto tesor: quello da i rostri
Stupido pende, e i tëatrale arena
Questo de i Padri e de l’accolta plebe
Cupido beve i raddoppiati applausi.
E v’ha per fin chi di fraterno sangue
800Gode lordarsi, e le paterne case
Esule abbandonando e il dolce nido,
Cerca sott’altro ciel patria novella.
Ma in sua tranquilla oscurità l’industre
Agricoltor col vomero a la terra
805Squarcia il fecondo seno; e al lungo attende
Annuo travaglio, ond’ei sostenta e nutre
La patria a un tempo, a i piccoli nipoti,
La greggia e i buoi del suo lavor compagni
Nè riposo si dà: variano l’opre
810Al varïar de le stagioni, or tempo
E’ di curar de le feconde agnelle
I già maturi parti, ora la falce
Chieggion sul campo le ondeggianti spiche,
Onde ricolmi gemano i granai.
815Di varie frutta e di fatiche abbonda
Il pomifero autun, che su gli aprici
Colli a più tardo sol l’uve matura.
L’inverno arriva, e non però del tutto
Sterile anch’esso, e inoperoso; al torchio
820Spremonsi allor le pingui ulive, onusto
Di corbezzole è il bosco, e lieti a casa
Tornan di ghiande satollati i porci.
Pendono intanto i pargoletti figli
Dal collo al genitor; nido è la casa
825Di pudica onestà; le lattee poppe
Stendon le vacche, e su gli erbosi prati
Scherzano lieti, e colle basse corna
S’urtan cozzando i teneri capretti.
Egli fra l’ozio e il culto pio divide
830I dì festivi, e co i compagni suoi
Steso su l’erba a i sacri fuochi intorno
L’ampie tazze corona, e a te su l’ara
Versando il vin, te buon Lenéo, da prima
Supplice onora; indi a i guardian del gregge
835Piccol premio di giuochi a un olmo appende,
A chi di loro le scagliate frecce
Pianti nel segno, o con ignude membra
Vinca lottando in rustica palestra.
Questa innocente un dì semplice vita
840E gli antichi Sabini, e Remo stesso
Menarono, e il Fratello; in questa guisa
Crebbe la forte Etruria, e i sette colli
Roma nel giro di sue mura accolse,
E meraviglia diventò del mondo.
845E pria di Giove ancor, pria che ai mortali
Fossero cibo gli svenati buoi,
Visse così l’aureo Saturno in terra:
Nè a quei felici tempi erasi ancora
Lo squillo udito di guerriere trombe,
850Nè viste al suon de le percosse incudi
Sotto i martelli scintillar le spade.
Ma noi trascorso di cammino abbiamo
Immenso spazio; e sarà tempo omai,
Che ai fumanti destrier sciolgasi il freno.
Fine del libro secondo.