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IX.
Questa volta la tranquillità di Giacinta durò appena una quindicina di giorni.
Ella tentava di confortarsi:
— Il dolore ci lascia un’incancellabile impronta; per questo, forse, ora non posso più sentirmi pienamente sicura. Com’è difficile l’esser felici! Ci si abitua più facilmente a le sofferenze, ai tormenti! Già, interrotta una volta la corrente di scambievole fiducia che lega due amanti, non si riesce a rimetterla nello stato di prima. Rassegnamoci! I morti non risuscitano, dice il dottor Follini. È vero! È vero!... E il mio cuore, questo povero cuore, è forse rimasto lo stesso?
Se lo domandava quel giorno con un senso di terrore, risalendo lentamente il corso del suo passato, quasi guardandosi attorno per evitare un’insidia.
Il canarino cantava ne la bella gabbia dorata, riempiendo il salotto d’acuti gorgheggi. Ed ella, con la testa fra le mani, i gomiti appoggiati sul tavolino, lo sguardo perduto nello spazio, riviveva, cullata da quel canto, la sua trista infanzia, la sua dolorosa giovinezza. Rivedeva luoghi, persone da un pezzo non più viste, o sparite; sentiva voci che tacevano da anni; provava di bel nuovo sensazioni dimenticate, palpitando e soffrendo al ricordo delle sue prime lotte, delle sue disperazioni di ragazza; felice, per un istante, dell’immensa felicità allora conquistata a un prezzo senza pari, al prezzo di tutta sè stessa.
— E poi?... E poi?... Oh, sì, il suo cuore era anch’esso cambiato! Restava, tuttavia incredula, per riflettere, per fare il suo esame di coscienza, per scrutarsi l’anima spietatamente...
— Che? Poteva illudersi ancora?... No, no!
E intanto la bionda visione del dottor Follini continuava a starle dinanzi. Le sembrava ch’egli le parlasse con un accento di grande pietà, la guardasse compassionevolmente, come quando ella aveva dovuto dirgli: Non mi guardi così; mi fa soffrire!
Nel vederlo comparire in persona, quasi evocato da quell’intima voce che le ragionava di lui, Giacinta rimase muta.
— Entro soltanto per salutarla — disse il dottore — e per avvertirla d’una cosa. Quel Battista è un imbecille. Il conte, nel suo stato, avrebbe bisogno di un servitore più abile, più rispettoso. Or ora ho sorpreso Battista che si divertiva a contrariarlo, a farlo arrabbiare. L’ho sgridato; lo sgridi anche lei.
— Lo sgriderò — rispose Giacinta macchinalmente.
— Si sente male? — riprese il Follini, dopo alcuni istanti di silenzio.
Ella lo guardava, quasi non avesse inteso, con le sopracciglia corrugate e gli occhi mezzo chiusi.
— È un cattivo momento — disse il dottore, sorridendo. — Scappo via; ho fretta pe’ miei malati.
— Non sono un’ammalata anch’io?
— Oh, sì! Ma una di quelle capricciose che si ostinano a non voler guarire, e si compiacciono anzi del proprio male.
— Non mi ha mai dato un rimedio.
— Il rimedio verrà da sè. Per certi mali, del corpo e dell’anima, bisogna lasciare che agisca la divina Natura mediatrice... Scrolli pure la testa... Vedrà.
— Non sa dirmi altro!
Il dottore, un po’ piccato, rispose subito:
— A rivederci. Scappo via.
Giacinta lo trattenne per la mano ch’egli le stringeva con brevi scossettine.
— A rivederci! — soggiunse anche lei, tutt’a un tratto.
E lo lasciò libero, reprimendo un sospiro.
— Ah! Dinanzi a lui perdeva ogni sua forza; diventava timida; non sapeva neppur parlare! Ma che avrebbe potuto dirgli?... Vi amo?... Non lo amava; non sarebbe mai divenuta la sua amante, oh, no!... Che cosa dunque?
Eppure sentivasi attratta verso quell’uomo da un così forte sentimento d’elevazione purificatrice, che il semplice contatto della mano le produceva una sensazione d’inesprimibile conforto, di ristoro, di calma.
Ed ora, rimaneva lì, chimerizzando dietro quella visione bionda che pareva fuggita rapidamente via, portando seco qualcosa di lei nell’ardue altezze dello spazio, dove era impossibile raggiungerla...
— Perchè non l’ho conosciuto prima!... Perchè non l’ho conosciuto prima!
Si rizzò, subitamente impallidita, come se una voce insultante le avesse soffiato in un orecchio: e Beppe, eh?
— Ah!... Beppe! — balbettò, nascondendo il volto fra le mani.
Così aveva fatto dianzi, quando il testone arruffato, i grandi occhi neri e le labbra carnose di quel tristo l’avean fatta fremere tutta, con un brivido ghiaccio, ricordando.