< Giacinta < Parte terza
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X.

Da una settimana, per espiazione, come un po’ superstiziosamente se l’era imposto, ella passava un paio d’ore al giorno in camera del conte, da solo a solo.

Quella mattina, tornando da una visita a Elisa Gessi che aveva partorito il suo primo figlio, Giacinta era entrata distrattamente dal marito col largo cappello all’Ernani, stretta nella mantiglia ornata di trina, le mani infilate nel manicotto di volpe azzurra che le pendeva dal collo.

Il conte, ancora a letto, sollevatosi sul gomito, a bocca aperta, agitando la punta della lingua fuori dei denti, la guardò un pezzetto con aria attenta e concentrata: non la raffigurava. Il malefico germe, trasmessogli nel sangue dalla sua nobile razza deperita, si era sviluppato in cinque anni con sì spaventevole rapidità, ch’egli già pareva un vecchio decrepito; si reggeva male sulle gambe infrollite, connetteva poco e riconosceva le persone soltanto a intervalli.

— Battista!... Battista!... — cominciò a urlare.

— Che vuoi, Giulio? Son qua io — disse Giacinta.

Ma non osava accostarglisi. Un senso di paura e di repugnanza invincibile la inchiodava dappiè del letto, a quattro passi di distanza.

— Battista!... Battista!...

Il conte si voltava di qua e di là, chiamando, brancicando la coltre, cercando sulla seggiola vicina qualcosa che non trovava:

— Il mio vestito?... Mi han portato via il vestito...

— Rimani a letto; il dottore vuole così.

— Mi han portato via il vestito — egli ripeteva. — Siete voi il dottore?... Tastatemi il polso... Mi han portato via il vestito!

Ogni giorno, a ora fissa, verso le undici, la idea di levarsi da letto, per andar via, gli si ridestava ostinatissima nel cervello ringrullito:

— Che faccio qui solo?... La contessa mi aspetta... Voglio tornarmene a casa mia...

— Ma non t’accorgi che son qui, e che sei in casa tua?

— Sei qui?... Oh, bene!... Mi fa proprio piacere... Battista!... Battista!... Non trovo più il mio vestito.

Urlò, divagò, ancora un pezzo, per quella fissazione di tornarsene a casa sua dove la contessa lo aspettava; poi rannicchiatosi tra le lenzuola, chiuse gli occhi e parve dormisse.

Giacinta gli si era seduta dirimpetto, presso la finestra, ripetendo le stesse risposte alle stesse domande incoerenti, rispondendogli sempre con dolce pazienza, quantunque lo spettacolo di quella creatura umana ridotta a una vita quasi animale, la facesse soffrire. E restava lì, con gli occhi intenti su quel corpo immobile, agitata da una idea che non le riusciva di scacciare, dall’idea che il povero cervello di lei non dovesse, un giorno o l’altro, sconvolgersi parimenti, come un orologio in cui si sia rotto qualcosa.

— Certe volte... oh Signore!... le pareva d’impazzire?

E col restar lì, costretta soltanto dall’impero della propria volontà, ella intendeva di fare un grand’atto d’espiazione, una vera penitenza, a fine di scongiurare quella cattiva stella da cui sentivasi minacciata più da vicino in quei giorni...

— Lo capiva da certi indizi, chiaramente!

Il conte riaperse gli occhi, brontolando:

— Mi lasciano solo! Mi fanno patire la fame!

Una forte scampanellata fece accorrere Battista.

— Il conte non ha ancora fatto colazione?

— La colazione è già pronta, signora contessa. Ma io non sapevo se...

— Portatela subito.

Accostò ella stessa alla sponda del letto il tavolinetto a tre piedi e vi stese il tovagliolo.

— Suonerò, quando avrà finito — disse a Battista, levandogli di mano il vassoio con la zuppierina.

Deposto il manicotto sulla poltrona, ella serviva il conte, porgendogli ad uno ad uno i biscotti ch’egli andava intingendo nei tuorli di uova sbattuti mescolati col caffè; mettendogli in mano il cucchiaio, se un pezzettino di biscotto cascavagli nella zuppiera; badando a rincalzare sulla rimboccatura delle coperte, che il conte scompigliava, l’altro tovagliolo messovi sopra perchè non le insudiciasse. Egli intanto mangiava golosamente, senza alzare il capo, lanciando bieche occhiate ai biscotti e alle mani di Giacinta, se mai non gliene rubasse qualcuno.

— Grazie, grazie! — disse all’ultimo. — Ora mangiate voi... Non volete mangiare?

Giacinta uscì di camera lentamente, voltandosi a ogni due passi. Quella creatura umana tornata a rannicchiarsi sotto la coltre con la voluttà d’un animale sazio di cibo, le stringeva il cuore.

— Come sei bella quest’oggi! — le disse Andrea, vedendola entrare in salotto e andandole incontro.

Giacinta alzò la testa e si fermò, tutto commossa dall’orgogliosa soddisfazione che ravvivava così inattesamente la moribonda fiammella della sua speranza:

— Ah!... Poteva dunque strappargli ancora una parola d’ammirazione?

Da più giorni un penoso silenzio rattristava il salotto, quando ella e Andrea rimanevano soli, l’uno di faccia all’altra; e Andrea, disteso sulla poltrona, con gli occhi mezzo addormentati, le braccia stirate sui bracciuoli, le mani ciondoloni, lasciava sfuggire annoiatamente gli intermittenti sbuffi di fumo del suo virginia.

Giacinta riprendeva spesso, ad alta voce, la lettura d’un romanzo, per forzarlo a tendere l’orecchio, a prestare attenzione, per impedirgli così d’andarsene via col pensiero lontano da lei. Talora, smettendo di leggere, gli domandava a un tratto:

— Ti pare una cosa possibile? Non è, per lo meno, un’esagerazione?

— Tu prendi i romanzi sul serio!

— Ma infine, sul serio o no, è assurdo che una donna parli e agisca in questo modo. Riflette troppo, si osserva troppo da sè. La passione ragiona forse?

— Dovresti dirlo all’autore.

Egli non voleva discutere. Temeva che dai finti casi del romanzo non si passasse — gli era accaduto due volte — al loro caso reale. Perchè inasprire la piaga?

— Dovresti dirlo all’autore — ripeteva, senza voltarsi.

— Non l’ho mica con te!... Mi fai stizza.

Giacinta chiudeva il libro, imbronciata; e il silenzio tornava a pesare nell’aria del salotto, sinistramente Andrea, osservando con la coda dell’occhio, sotto le palpebre abbassate, l’irrequieto incresparsi delle labbra, l’abbuiarsi degli occhi di lei, dove passavano e ripassavano nuvoli di dispetto, non osava neanche rimettersi il sigaro alla bocca, per non provocare una scena. I diverbi già scoppiavano così facilmente tra loro! Così facilmente le parole, le frasi più dure prorompevano dalla collera di tutti e due!

— Non era un divertimento!... E il suo destino lo teneva lì, legato mani e piedi, peggio d’uno schiavo!

Allora egli scattava dalla poltrona, per riscotersi, per difendersi contro la tormentosa oppressione di quell’uggia...

— Sei già stanco... d’annoiarti? — gli diceva Giacinta.

— Chi dice che m’annoio?

— Lo veggo, tuo malgrado.

Andrea si lasciava ricadere sulla poltrona:

— Hai ragione! Hai ragione!

E l’ironica amarezza della voce costringeva Giacinta a non insistere.

Ma quell’esclamazione: "Come sei bella quest’oggi!" le parve così spontanea e così sincera, ch’ella si mostrò in tutta la giornata più compiacente, più sommessa del solito. Risero anche, come da gran tempo non accadeva, quando Andrea, ritornato di buon umore, prese a parlare del bambino dei Gessi.

— Uno scimmiottino! L’Elisa dovrebbe vestirlo col casacchino rosso e il cappellino a tre punte, mettergli in mano i piatti di latta e portarlo attorno per le fiere. Il Gessi suonerebbe la grancassa: bum, bum, bum! Avanti, avanti, signori! lo scimmiottino addestrato che balla, suona e fa l’esercizio a fuoco! Avanti, signori? Bum, bum!

Però quando fu sola, ripensando a quell’esclamazione, si sentì offesa e avvilita:

— Come sei bella quest’oggi!... E il mio affetto, i miei sagrifizi, la mia abnegazione non contano dunque nulla per lui?... Non c’è dunque altro per lui che questa vana apparenza?

E pur cedendo ogni giorno all’impulso dell’amor proprio con le minute cure per rendersi più bella, più attraente, tremava, convulsa, nell’abbigliarsi, nell’arruffarsi le ciocchettine sulla fronte, nell’appuntarsi un fiore, nell’annodarsi un nastro al collo:

— Come una meretrice! — esclamava, portando le mani agli occhi, per non vedersi nello specchio.

Aveva ribrezzo di sè stessa, quasi acconsentisse a denudarsi a poco a poco in pubblico, per far piacere a quell’uomo.

— Fin dove arriverebbe?

Vi rifletteva su, atterrita di sentirsi in tutto il corpo il sordo rinascere delle brutali sensualità che l’educazione e la vita civile comprimono o uccidono in germe. E nei soliti mercoledì, che conservavano sempre la loro voga e le servivano a mascherare una sconfitta che sarebbe stata un trionfo pei suoi nemici, se incontrava lo sguardo del Follini, così sereno, così pieno di compatimento, abbassava gli occhi mortificata. Il disgusto del suo stato la rivoltava, le dava la nausea.

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