< Giacinta < Parte terza
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XI.

Oramai ella viveva alla giornata, aspettandosi da un momento all’altro una catastrofe. Quale? Non avrebbe saputo dirlo; ma l’ansia, la prostrazione, benchè si sforzasse di nasconderle, le si leggevano in viso.

Si abbandonava. Ogni giorno che passava le pareva tanto di guadagnato. Andrea mostravasi buono, affettuoso? Mostravasi freddo, quasi indifferente? Era lo stesso per lei.

— Mi pare che tu non stia bene — le disse una sera la signora Villa.

— No, — rispose Giacinta. — Che ti passa pel capo?

Rideva, scoteva la testa, come se Ernesta Villa avesse detto qualcosa d’assurdo. Ma colei la guardava un po’ incredula, un po’ intrigata: in quel riso, in quella vivacità di risposta c’era un che di così sforzato, di così eccessivo da far pena.

Giacinta se n’accorse.

— E tu? Come ti trovi ora? — le domandò, per deviare il discorso.

— Chiodo schiaccia chiodo — rispose la signora Villa tranquillamente.

— Dev’esser una cosa assai triste!

— La prima volta sì; ma ci si abitua subito. Gli uomini, cara mia, al giorno d’oggi... Provatone uno, gli hai provati tutti. Comincio a credere che i mariti (sia detto tra noi) valgono più degli amanti. Se non che, capisci?...

Giacinta non capiva nulla.

Nei momenti più desolati, quando giungeva ad esclamare: — Perchè non faccio come le altre? — all’idea d’un secondo amante abbrividiva.

— Come fanno a mutar d’amante ogni stagione?

Allora non si abbandonava più alla fatalità della sua sorte, non si lasciava andare come un corpo morto in balia delle circostanze e del caso; la impotenza della rassegnazione si mutava in furore. E voleva riprenderselo tutto per sè quell’uomo, che tentava di fuggirle; trattenerlo fermo, col valido polso d’una volta, anche a dispetto di lui; fargli sentire nuovamente la saldezza del suo carattere, la prepotenza del suo affetto, domarlo, prostrarlo, attaccarselo con ogni mezzo, poichè sapevasi la più forte.

E la tempesta scoppiava.

— Come sei ingiusta!— disse Andrea uno di questi giorni.

— Sta zitto!... Non recitar la commedia!

— Come sei ingiusta!

Ella lo squadrava da capo a piedi, fieramente. Era già sicura ch’egli mentiva; pure replicò!

— Se tu menti, commetti un’infamia! Se tu menti, commetti un’infamia!

— Ah!... Commetto un’infamia? — esclamò Andrea, scattando in piedi. — Ma l’ho commessa egualmente, peggio, avvilendo la mia giovinezza con questa catena strascicata al piede sei anni! L’ho commessa nel darti tutto il mio cuore, tutta la mia vita, tutto il mio avvenire, nel sacrificarti la mia dignità d’uomo, la mia coscienza, ogni cosa... corpo e anima... ogni cosa! Ma la commetto tuttavia, non tentando di ribellarmi, non osando d’alzare il capo, continuando nel sagrifizio, mentre il mio cuore mutato, la mia coscienza scossa mi torturano, m’insultano, non mi lasciano in pace un momento!... E tu mi rimproveri? E tu levi la voce? Non ti accorgi dunque ch’io soffro più di te? E che, se mento, è per te, unicamente per te?... Per pietà di noi?...

— Taci! Taci! — ella gridò.

Un groppo di pianto la strozzava.

Andrea, sbalordito a quell’incredibile suo impeto di sincerità e di coraggio, scappava via per le scale, come se avesse commesso un delitto.

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