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XII.
Giacinta era rimasta, tutta la nottata, seduta a piè del letto, con il capo rovesciato sulla sponda, le braccia abbandonate, agonizzante sotto i colpi di quel dolore che tardava ad ucciderla. Di tanto in tanto alzava la testa, apriva gli occhi smarriti, si passava le mani sulla fronte.
— Non era dunque un orribile sogno?...
E ricadeva nella prostrazione che la teneva lì senza moto, quasi senza pensiero, da tante ore; da un’infinità di anni, le pareva!
Dalle stecche rialzate della persiana, il sole accendeva strisce e punti di luccicanti riflessi sui mobili, sugli oggetti di cristallo e di porcellana, lasciando in penombra uniforme tutto il resto dove non frangevasi la viva punta dei suoi raggi. E a un tratto, in quel silenzio e in quel tepore, che sembrava tenessero in deliziosa sonnolenza anche gli oggetti inanimati, arrivava, da la via, la stridula voce d’un organino suonante una melodia del Ruy Blas.
— No, non era un sogno! Era la verità! Aveva parlato lui! Proprio lui le aveva ingratamente rinfacciata la sua passione... e le si era rivoltato contro...
Uno sbuffo di pazzia tornava a montarle al cervello.
Oh!... Avrebbe voluto meritarselo almeno! Avrebbe voluto meritarselo con qualcosa di spregevole, di ributtante, dove la sua coscienza, la sua volontà fossero intervenute deliberatamente!... Quel suo miserabile cuore diceva di no, quelle sue vilissime carni fremevano di ripugnanza, avrebbe dovuto buttarle in preda al primo capitato, per sbarazzarsi d’ogni scrupolo, d’ogni pudore! A che le servivano pudore, scrupoli, cuore? Solo a renderla infelice!... E poichè non poteva, no, no!... e poichè non sapeva...!
L’organino aveva ripreso da capo: Oh dolce voluttà! Desio d’amor gentil! Uno scherno, in quel punto. E le pareva che il letto, le poltrone, i mobili della camera le danzassero attorno una ridda infernale, gridando confusamente, gettandole in faccia tutte le gioie da lei godute in quel santuario d’amore, quando la loro felicità era al colmo ed ella non chiedeva più nulla nè alla terra, nè al cielo! E le pareva che quei testimoni di tante dolcezze ora ghignassero, irridendola, in una perversa esultanza: e facessero volar per aria, a folate, tutte le sue parole d’affetto, tutte le sue carezze, tutti i suoi baci, come inutili cenci, a ludibrio contraffacendola, sbertandola fra ringhi e fischi, quasi volessero chiudere con tal chiasso indecente quell’ultima scena del suo dramma.
— E poichè non poteva!... E poichè non sapeva... Ah! meglio morire!
La testa le scoppiava. La bocca era riarsa. Ella aveva già avvertite delle interruzioni nella sua intelligenza, lungo la nottata, quando il passato e il presente le erano, a poco a poco, spariti dinanzi; quando, stupidamente fissa verso un punto luminoso, un oggetto vicino, un fiore della tappezzeria, era rimasta a guardare a lungo, a lungo, senza vedere, senza capire, proprio come una pazza...
— Meglio morire!
Il castello incantato della sua passione era crollato, da cima a fondo, alle terribili parole di Andrea. Perchè più vivere, dunque?
— Meglio morire!
Cessò di piangere, s’asciugò il volto. Aperti i cristalli, aspirò avidamente l’aria fresca che invadeva la camera: poi corse all’armadietto d’ebano.
— Dev’essere qui — mormorava, rovistando i cassetti. — Deve essere qui.
Frugava, disfaceva gl’involtini che le capitavano tra le mani, ributtando indietro oggetti e carte, impazientissima. Non trovava nulla. Arrivata all’ultimo cassetto, lo vuotò intieramente; dal fondo un boccettina ruzzolò.
— Eccola!
Ella sorrideva tristemente, scotendo il capo. Il cuore le batteva forte. Una lassezza dolcissima, simile a quella provata alcune volte nei più bei momenti di felicità, le rammollava gambe e braccia, E mentre non sapeva staccar gli occhi dal chicco nerastro chiuso nella boccettina, sentivasi lentamente invadere da una pace profonda. Finalmente era prossima a staccarsi dalla vita e da ogni vanità di essa! Finalmente si sarebbe addormentata per sempre nel fatale sonno del curare!...
— Grazie! Grazie! — mormorava, baciando la boccetta, rivolgendosi verso a un assente, a cui non era mai stata così grata come in quel momento.
Si sentiva forte. Durante la terribile notte, l’energia del suo carattere, che la passione e il dolore avevano negli ultimi mesi alcun poco infiacchita, erasi destata con la vigoria di una volta. Pure, ella stava in guardia contro sè stessa, a quel vivo ripullulare di ricordi, di sensazioni e di sentimenti che pareva cercasse di stornarla dal tristo proposito.
— No; voleva morire... Doveva morire! Era vita la sua? Una continua agonia!
Ma i ricordi insorgevano, la spingevano indietro, fino a quella stanza ingombra di arnesi smessi, dove le ore solitarie della sua fanciullezza eran trascorse in un monotono interminabile soliloquio. Vent’anni volati via in un baleno!
— Com’era stata felice allora, nell’ignoranza di tutto!
Chiuse la finestra. La tepida giornata primaverile, smagliante di luce, che i passeri salutavano col loro cinguettìo dalle grondaie e dai tetti, la commoveva troppo. La vocina limpida e allegra d’un’operaia che cantava Giulia gentil nella casetta dirimpetto, fra il grido dei ragazzi, dei rivenditori, il rumore dei carri e delle carrozze che passavano per la via, già cominciava a turbarla.
— No; meglio morire! — ella disse ad alta voce.
E suonò.
Marietta a vederla straordinariamente pallida, domandò:
— La signora contessa ha passato una cattiva nottata?
— Anzi! Ho dormito troppo.
Nel camerino, seduta davanti allo specchio, tutta avvolta nel bianco accappatoio, Giacinta osservava il suo viso squallido e disfatto, dalle occhiaie livide, dalle labbra contratte. La testa, con i capelli disciolti sulle spalle e gli occhi stralunati, aveva una così strana espressione, ch’ella n’ebbe quasi paura.
Marietta le raccontava intanto la piccola avventura capitatale al veglione la sera innanzi. Il Ratti, scambiatala sotto il domino, chi sa per chi, dopo averle detto un mondo di grullerie, l’aveva invitata anche a cena.
— Cenasti con lui?
— Sempre in maschera. Poi insistette per accompagnarmi a casa...
— E ti lasciasti accompagnare?
— Dovevo affliggerlo? Quando mi vide fermare al portone... Povero signor Ratti!
Giacinta sorrise.
Più tardi, venne il dottor Follini. Chiedeva qualche soccorso per una sua ammalata.
— È giovane? — domandò Giacinta.
— Giovanissima e bella. Il lavoro la uccide.
Giacinta gli diede un biglietto da cento lire.
— Grazie!... È anche troppo. Come sarà contenta quella infelice!
— Guarirà? — riprese Giacinta, dopo una breve pausa.
— Oh, no! E vorrebbe vivere!
— Con una vita così piena di stenti?
— La sua povera mamma, cieca e paralitica, perirà di fame senza di lei. Trista cosa il mondo! Nessuno può saperlo quanto noi medici, che vediamo miserie e dolori incredibili, non possiamo alleviarli. Che sono mai in confronto, i dolori quasi artificiali delle persone ricche, della gente elevata?
— Come s’inganna!
— Può darsi. L’immediato contatto con la miseria ci fa perdere ogni filosofia. Il cuore non ragiona. E lei, sta bene?
— ...Benissimo! — ella rispose, distrattamente. — Va via?
— Vado da quella disgraziata.
Il dottor Follini, in piedi, trattenuto per la mano da Giacinta, sorrideva imbarazzato. Ella comprese l’intimo linguaggio di quel sorriso, e di quella calda stretta di mano:
— Mi perdoni! — gli disse con voce tremante.
— Che cosa?
— Forse le ho fatto del male... senza volerlo.
— Mi ha fatto un gran bene.
— Quanto è generoso!
— Sono stato un fanciullo! — soggiunse quasi subito il dottore, diventando un po’ rosso in viso. — Noi che viviamo nel pantano della più schifosa realtà, sentiamo assai più degli altri il bisogno d’alzar gli occhi a un cielo dove la realtà si purifica, senza punto smarrirsi in vaporose idealità. Sono stato un fanciullo... Avrei dovuto tacere anch’oggi; avrei dovuto contentarmi soltanto del delicato profumo delle anime nostre, aspirato quasi di nascosto... Non importa. Fra tre giorni sarò a Parigi. La lontananza terrà sempre vivo un sentimento che noi, probabilmente, uccideremmo da vicino.
— Ha ragione!
Come gli era grata d’esser venuto a vederla per l’ultima volta! La vita le dava con lui l’estremo sorriso!
Fino a quel momento la figura d’Andrea era rimasta rannicchiata nell’ombra, tenuta in disparte dal sentimento d’odio e disprezzo, scoppiatole nel cuore la sera avanti, quando egli aveva detto: Se mento, è per te, unicamente per te!...
— Ingrato!... Vigliacco!...
Ma ecco, ella cominciava a provare una strana inquietudine, un bisogno di vederlo arrivare da lei alla solita ora. Sul punto di staccarsene per sempre, la stringeva una tenerezza piena di compassione per colui ch’era stato tutto, proprio tutto, per lei.
— Perchè accusarlo? Una forza superiore ci preme tutti e due!... M’amava davvero, senza secondi fini, con lo stesso ardore con cui m’ero gettata fra le sue braccia! Se ora non m’ama più, se il nostro amore, creduto tale da dover durare eterno, è stato più corto d’un sogno, che colpa n’ha lui?... E tarda a venire appunto oggi!... Oh! Vorrei morire perdonandogli, dicendogli che muoio per averlo troppo amato!
Indugiava, con una specie di crudele piacere, più non temendo che la volontà e il coraggio le fallissero nel punto di metter in atto la sua decisione, o che l’istinto della conservazione le arrestasse in mano lo spillo avvelenato. Provava un’intensa serenità; si teneva già morta. Le pareva già di vivere quella seconda vita, di cui aveva parlato una sera il Mazzi, procuratore del re, uomo grave e spiritista convinto.
— E poi, morire come quell’indiano rammentato dal Follini, tranquillamente, senza soffrire, forse senza che nessuno possa sospettare un suicidio...
A un tratto s’accostò alla gabbia del canarino e l’aprì. L’uccellino, addomesticato, uscì fuori, saltandole sul dito, beccandoglielo delicatamente.
Quando Giacinta lo punse con lo spillo avvelenato, ei mostrò appena di risentirsene. Beccò il pezzettino di zucchero immollato nell’acqua ch’ella gli porgeva; e, rientrato nella gabbia, continuò a saltellare qua e là, irrequietamente, dopo aver intinto il becco nel beverino e levato il collo per sorbire l’acqua.
Giacinta, pallida, strizzandosi le mani ghiacce, attendeva.
Dopo alcuni minuti, il canarino non saltellò più. Appollaiato sulla stecca, volgeva la testina attorno, come preso da stupore e da stanchezza. Stirò una zampina, si frugò col becco tra le piume del petto, nascose la testa sotto un’ala... e cadde in fondo alla gabbia.
Immobile col cuore che batteva forte, gli occhi pieni di lagrime, Giacinta quasi credeva di aver assistito alla propria agonia:
— Oh!... Morire in quel modo era quasi un addormentarsi!