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XIII.
Andrea rincasò tardi.
— È venuta la solita cameriera, — gli disse Elvira. — Lo cercava con urgenza. Quando le dissi che sarebbe partito col treno delle undici, non volle più attendere. Tornerà.
Andrea non potè frenare un movimento di dispiacere.
— Non voleva che si sapesse?
— Oh, non è nulla — rispose dopo aver guardato l’orologio.
La partenza, una fuga, era stata risoluta la notte avanti, dopo una grossa vincita fatta lassù, nel mezzanino della Pantera.
— Con venti mila lire, era libero! Un colpo di fortuna aveva spezzato tutt’a un tratto l’ultimo anello della sua catena! Andar via di nascosto, senza lasciar traccia; perdersi a Milano, a Torino, a Napoli, in una grande città, vivervi di lavoro!... Egli non voleva far altro... Ma, era sicuro della propria volontà, se Giacinta avesse conosciuta l’intenzione di lui?
E partiva, come un colpevole che volesse sottrarsi alle ricerche della polizia.
— Non gli pareva vero!
Elvira, quasi risanata e più bella, era rimasta nel vano dell’uscio a guardare, mentr’egli dava un’occhiata attorno, sui mobili, prima di chiudere le valigie.
— Quando tornerà — ella disse — troverà sempre una stanza da noi, dovessi anche cederle la mia!...
— Chi non muor si rivede! — rispose Andrea, guardando nuovamente l’orologio. — Lei mi scorderà presto; è naturale. Per me lo scordarla non sarà tanto facile, mi creda... Il cocchiere è puntuale — s’interruppe con un gran respiro, non appena intese nella via il rumore della carrozza fermatasi al portone.
Elvira, preso in mano il lume, andò di là per far entrare il facchino che doveva portar giù le valigie.
— È partito? — domandò Giacinta, arrestandosi su la soglia.
E guardava sospettosamente Elvira che, diventata rossa in viso, la precedeva col lume verso le stanze d’Andrea. Senza darle il tempo d’annunziarla, si spinse avanti, attraversando rapidamente il salottino, chiudendo dietro di sè l’uscio della camera da letto dove Andrea si trovava. Egli, allibito, non si mosse.
— Perchè vai via?
— Zitta! Non alzare la voce!
— Non temere. Non vengo a farti una scenata. Lo so: tutto è finito tra noi. Ma partire così, di nascosto, oh! è un’indegnità.
Aveva buttato in un canto la veletta e lo scialle. La spalliera della sedia su cui appoggiava le mani, scricchiolava.
— Hai torto. Avresti dovuto avere il coraggio di confermarmi colle tue labbra quello che tante volte ti dissi d’averti letto nel cuore. Perchè hai mentito? Perchè vuoi ora lasciarmi sotto l’insulto d’un abbandono che mi renderebbe favola delle persone che ho sfidato a viso aperto unicamente per te? Confessalo: stai per commettere un’infamia inescusabile. Ti trattenevo con altre catene che queste mie braccia d’amante? Ho forse abusato del tuo affetto? Mi son forse risparmiata in nulla, da farti così presto scordare ch’io son di quelle che si danno una volta e per sempre?
— Non alzare la voce! — balbettò Andrea.
Era alla tortura. Temeva che Elvira non origliasse, per curiosità femminile.
— Resterai, è vero? — riprese Giacinta, accostandoglisi di più. — Per una settimana, per due, tre giorni, finchè non avremo trovato un pretesto! Facciamo almeno le viste di dividerci amici. Sarò tranquilla; mi sforzerò. Eviteremo uno scandalo. Resterai, dunque?... Ma rispondi! Resterai?
— Sì... Sì...
— Non menti?
— Resterò; te lo giuro.
— Sta bene. Non mi uscirà di bocca una sola parola di rimprovero. Perchè illuderci ancora? Sarebbe stoltezza. Da questo istante, sei libero; farai quello che ti parrà. Non pretendo troppo, mi pare!
Avendogli messo inavvertitamente una mano sulla spalla, Andrea fece un leggero movimento per evitarla.
— Oh, non temere! — ella disse. — È la mano di un’amica che vuole ringraziarti per l’amante. Povere donne! Dobbiamo esservi grate anche del male, immeritato, che v’astenete di farci!... Taci. Non occorre scusarti... Doveva essere così!... Poteva accadere anche a me; ma io sarei stata sincera. T’avrei detto: Non t’amo più; finiamola! E, senza ipocrisie, senza menzogne, sarebbe finita. Basta: è finita egualmente... Chi lo avrebbe sospettato?... Eppure è così! Che importa? Ci siamo amati come pochi in questo mondo. Abbiamo provato gioie così grandi, così intense, che la parola non può esprimerle... E ora tutto è finito! Per sempre! Vivremo... vivrai di ricordi. Chi dimentica, lascia morire gran parte di sè...
Andrea, che s’aspettava ben altro, era stupito. Sentendo quella voce fatta di singhiozzi repressi; osservando quelle labbra contratte a un sorriso desolato, e quelle dita armeggianti inconsapevoli, l’egoistica rigidezza, di cui s’era armato al primo apparire di Giacinta, non seppe resistere.
— Come sei buona! — le disse. — Siedi.
Aveva quasi vergogna di non amarla più; e si sentiva già pungere dal rimorso di aver voluto abbandonarla di soppiatto.
— Non partirai dunque — riprese Giacinta. — Ti farai vedere, ancora una volta, in casa mia da tutta quella gente che ci crede innamorati e felici! Lasciamola nell’inganno. Non vorrai farmi un inutile sfregio...
— Resterò due, tre giorni, anche più; quanto vorrai. Cercheremo un pretesto; dici bene.
Voleva contentarla, gli sembrava giusto. Povera donna! Si meritava questo piccolo sacrifizio!
— Siedi — replicò, prendendola per una mano.
— No — rispose Giacinta, che guardava fisso le due valigie pronte per la partenza.
— Come sei buona!... Ti ho fatto soffrire... Ma, credimi, ho sofferto anch’io! Se avessi avuto il coraggio... di confessarti....
— Senti Andrea, — lo interruppe Giacinta — è una mia debolezza... Assicurami, con una prova, che manterrai la promessa... Disfa quelle valigie, sotto i miei occhi... Non vuoi?...
Andrea, in risposta, le porse le chiavi. E mentre le mani febbrili di Giacinta cavavano fuori ogni cosa, buttando vestiti, camicie, goletti, polsini qua e là, alla rinfusa, sul letto, sulle poltrone, sul tavolino, egli provava la strana sensazione di qualcosa che gli veniva sconvolto dentro; e cominciava a pentirsi d’aver così facilmente acconsentito a quel capriccio di donna.
Vuotata la valigia, Giacinta apriva l’altra; ed era di nuovo un volar di pantaloni qua e là, di panciotti, di cravatte, di guanti, di stivaletti, di spazzole, di libri.
— Così! — ella esclamò, sorridente d’una gioia convulsa, d’una soddisfazione fanciullesca, guardando la camera stranamente ingombra.
— Ed ora andiamo.
Andrea le porse lo scialle. Nell’acconciarsi il velo sulla testa, Giacinta parve, tutt’a un tratto, ricordarsi di qualcosa.
— Chi è quella bambola?... Quella che è venuta ad aprirmi?
— La figlia della padrona di casa... Una vera bambola — soggiunse, intimidito dagli sguardi di Giacinta.
Ella lo trascinava con sè, come una preda, senza sapere precisamente perchè lo trascinasse via.
— Doveva essere suo, fino all’ultimo momento!
E gli si stringeva al braccio, battendo i denti, convulsa, con un gelo di morte in tutto il corpo, quasi brancolante fra le tenebre della pazzia che le oscurava il cervello.
Davanti al portone, Andrea s’arrestò.
— Non vieni su? — ella disse, insospettita.
— Fra dieci minuti. Bisogna che disdica un appuntamento, non voglio che l’amico con cui dovevo partire perda la corsa per me.
Giacinta lo tratteneva pel braccio, guardandolo in viso.
— Fra dieci minuti — replicò Andrea, rassicurandola con una stretta di mano.
— Fa’ presto, fa’ presto!
E rimase un po’ sulla soglia, seguendo con l’occhio Andrea che s’allontanava frettoloso.
Era sfinita; montava a stento le scale. Aveva diacce le mani; ma, dentro, sentiva un’arsura insopportabile, un fuoco che le bruciava il sangue.
Passando davanti la camera del conte, si fermò un istante; poi spinse l’uscio.
Battista, che trovavasi troppo familiarmente seduto allato al conte, con i gomiti appoggiati sul tavolino dove questi cenava, si levò tutto confuso, all’inaspettata apparizione, balbettando una scusa.
Giacinta gli accennò d’uscire.
Il conte, voltandosi per vedere chi fosse, seguitava a masticare facendo scoppiettare le labbra, fissandola.
— Giulio! — disse Giacinta, inginocchiandoglisi accanto.
Il conte si nettò la bocca col tovagliolo, le mise una mano sulla testa, come per raffigurarla meglio; poi, lentamente:
— Che cosa volete? — balbettò.
— Giulio, muoio!... Perdonami! — singhiozzava, baciandogli la scarna mano. — Muoio!... Perdonami!
Egli la fissò un poco, senza comprendere.
— Va bene! va bene! — poi disse.
E riprese a mangiare.