< Giacinta < Parte terza
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VI.

Andrea rimaneva spesso fino alle undici della mattina a crogiolarsi nel letto, finchè il sole non gli penetrava in camera per l’imposta lasciata socchiusa.

Di tratto in tratto, sentiva nella stanza accanto il lieve fruscìo della veste della sua padroncina di casa, che andava e veniva. Il sottile uscio intermedio lasciava facilmente indovinare le diverse occupazioni della ragazza:

— Prende il caffè. — Ravvia. — Si pettina. — Legge il giornale.

E quando ella tossiva, Andrea sollevava il capo dai cuscini. Quella tosse secca e insistente gli faceva male:

— Povera ragazza!

Se s’alzava un po’ più presto, indugiava volentieri in casa fin dopo mezzogiorno, fumando, leggiucchiando, aspettando di sentire nell’andito il passo lesto e leggero di lei, e allora apriva subito l’uscio:

— Buon giorno, signorina.

— Buon giorno, signor Andrea.

— È freddino oggi.

— Non mi pare.

Andrea trovava ogni volta un piccolo pretesto per trattenerla, per farla ridere.

— Donde le cava tante stramberie? — gli diceva Elvira.

— Sono il mio fondo di cassa.

E se scappava via, accesa nel volto, ridendo ancora, egli si ritirava nelle sue stanze col cuore in un’onda soave di mestizia.

Da un mese rincasava quasi periodicamente verso le otto di sera, per un’oretta.

Era sicuro di trovarla nella camera di lei, insieme col babbo e con la mamma, attorno al tavolino rotondo. La signora Emilia, sempre con gli occhiali sul naso, infilava straccamente gli eterni punti della sua calza; Elvira e il signor Domenico giuocavano a dama.

— Perde, è vero?

— Vinco invece.

— Il babbo, troppo indulgente, la fa vincere a posta.

— Vinco per valore. Ho vinto anche lei.

— Una sola volta.

— Due volte. Ha la memoria corta, a quel che pare.

— Ma io potrei darle scacco in tre mosse, giocata per giocata.

— Si provi.

Allora quella testina chinata sulla scacchiera, con le ciocchette dei capelli che le adombravano la fronte; la bella mano dalle dita affusolate, che muoveva i pezzi bianchi lestamente; il tiepido alito che qualche volta gli arrivava sulla faccia, se le si accostava inavvertitamente un po’ troppo, gli davano una dolce sensazione di calma, d’intimo benessere; gli richiamavano in mente i giorni felici della sua fanciullezza, tra la mamma e le sorelle nella casa nativa, sulla riviera di Posillipo tutta smagliante di sole.

Una mattina, Andrea s’era fermato sull’uscio di quella stanzina tagliata nell’anticamera con un paravento.

Elvira, smesso di cucire, accarezzava il canino nero e peloso che, raggomitolato sul canapè accosto a lei, continuava a ringhiare.

— Non le vuole bene — gli disse. — Ha paura degli estranei.

— Non ha imparato a conoscermi — rispose Andrea — ma ci faremo presto amici. E lei come sta? Badi al riscontro dell’uscio e della finestra; può farle male.

— Oh!

Ella alzava le spalle seccata.

— Vuol saperla? Un bel giorno manderò a spasso il dottore e le sue pillole d’arsenico e digitale. Mi guarirò a modo mio.

— Avrebbe torto.

Andrea, sedutosi presso il tavolino da lavoro che Elvira aveva davanti, riprendeva subito:

— Gli sbocchi di sangue sono cessati?

— Quasi: ma la mamma, benedetta lei! non vuol persuadersene. Ha sempre il nostro povero Eugenio dinnanzi gli occhi. Via, lo dica, francamente: le par viso da tisica il mio?... Ed ho un appetito, un appetito!...

Andrea assentiva col capo:

— Sì, l’appetito è una bella cosa; però l’arsenico e la digitale non bisogna trascurarli.

Un allegro brusio di ragazzi montava dalla corte; e i riflessi della parete dirimpetto, invasa dal sole, diffondevano per la stanzina una luce mite e ridente.

— Perchè non fa delle passeggiate?

— Mi annoio, di tutto.

— Si faccia animo; la bella stagione è vicina.

— Crede che mi dispiaccia di morire? Sono rassegnata. Anzi, anzi!... Una volta o l’altra dovrà accadere. Meglio prima che poi; avrò meno guai... Ma lasciamo questi discorsi. E il suo miracolo, il famoso miracolo delle carte da giuoco che debbono rimanere attaccate al soffitto a un suo semplice comando? Quando me lo farà vedere cotesto gran miracolo?

— Ah! Bisogna pagare per vederlo — rispose Andrea affettando gravità.

— Quanto? Un centinaio di mila lire? Una cosina da nulla; eccole qui.

Stese la mano a un pezzettino di carta e, fattovi su col lapis un ghirigoro, glielo porse, ridendo:

— Un buono per la Banca... dei miei sospiri; sarà pagato a vista. Ora vado di là a prendere le carte e a chiamare la mamma.

Mentre Gerace, levatosi in piedi, rimescolava solennemente il mazzo, era comparsa sull’uscio la signora Emilia, pallida, scarna coi grandi occhiali sulla punta del naso, e la calza pendente dal filo passato dietro il collo. Guardava tristamente la sua povera figliola, che seguiva, attentissima, l’operazione di Andrea.

Questi, rimboccatesi le maniche del vestito, strette le carte fra l’indice e il pollice d’una mano, le faceva scoppiettare con l’indice e il pollice dell’altra, come un prestigiatore:

— Osservi bene. Sono le sue carte; non gliel’ho mica scambiate, attenta, dunque: incomincio!...

— Chi sa quale scherzo sta per farmi, al suo solito?

— Lo crede uno scherzo? Allora, allora...

— No, no; un miracolone!...

Voilà! Al mio comando...

Elvira, sopraffatta da un repentino nodo di tosse, diventata livida in viso, s’era abbandonata sul canapè, portando il fazzoletto alla bocca.

— Non è nulla, — si affrettò a dire, rimettendosi quasi subito. — È passato: non è nulla.

Ma non potè nascondere il fazzoletto senza che Andrea non si accorgesse della macchia rossa rimastavi impressa. La signora Emilia era scappata via per non farsi vedere dalla figlia con le lagrime agli occhi.

Andrea posò le carte sul tavolino:

— Si riguardi; continui la cura...

— Non prenda ora questa scusa...

— È impossibile; non saprei più far nulla. Rimandiamo il miracolo a un’altra volta. Ma si riguardi, si riguardi!

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