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GIACOMO BANNISSIO
(Tav. VI, N. 1).
Nei Médailleurs Italiens dell’Armand, che voglionsi riputare l’opera più dotta non solo, ma la più completa intorno alle medaglie, coniate dagli artefici italiani ne’ secoli XV e XVI, io ho cercato indarno notizie e ragguagli d’un cimelio de’ primi anni del cinquecento; ho cercato indarno l’illustrazione d’una medaglia, la quale fa parte della collezione numismatica del Museo Civico di Vicenza. Il suo diametro è di sessantotto millimetri e il conio di così squisita fattura da gareggiar, se non erro, con le opere degli artefici più insigni del secolo XVI. Nel diritto raffigurasi il busto d’un uomo nel pieno della virilità, senza barba, vestito di pelliccia, coi capelli lisci e la testa coperta di berretto. Vi si legge all’ingiro: IACOBVS • BANNISSIVS • DALMATA • CAES • MAX • A • SECRETIS • Rappresentasi nel rovescio l’imperatore Massimiliano in trono, coperto da baldacchino e fregiato in un fianco dall’aquila a due teste. Ha la corona in capo, lo scettro nella destra, il globo, sormontato dalla croce, nella sinistra, e i piedi poggiati, quasi in atto di conculcazione, sovra un leone scoraggiato e dimesso. Stagli, prostrato davanti, un individuo in toga che ha tra le mani un diploma spiegato. Il campo è circondato dalla leggenda: DIVVS • MAX • DIVI • FRI • F • ITAL • GERMA • GALL • PANNONI • MAXI •
Giacomo Bannissio, come appare anche dalla leggenda, scolpita nel diritto della medaglia, era dalmata. Il Le Glay dichiara, per di più, ch’egli nasceva nell’isola di Curzola nel 14661. Dove fosse educato e per quali vie entrasse nelle grazie dell’imperatore Massimiliano I, non è dato conoscere. Di lui, come di valente diplomatico, si hanno però le testimonianze nella trattazione d’alcuni difficili negoziati, occorsi durante il periodo delle guerre, suscitate dai Confederati a Cambrai. È notevole, sopratutto, l’opera prestata dal Bannissio presso la corte di Londra, in qualità d’orator dell’Impero verso il 1515: opera della quale è frequente parola nei Diarî di Marino Sanuto. La medaglia ricorda che l’egregio uomo fu inoltre cancelliere, o segretario di Massimiliano: ciò, che risulta anche dalla pubblicazione del Le Glay2, dalla grand’opera del Sanuto3 e da una informazione, affidata a Giangiorgio Trissino, quando da Augusta, ov’erasi intrattenuto nunzio del pontefice Leone X, ritornavasi a Roma orator dell’Impero4. Dire poi in che anno fosse assunto all’onorevole uffizio, non è certo cosa facile a definirsi.
L’età troppo immatura, di ventidue anni, mi dissuade dal credere ch’egli potesse succedere a Nicolò Ruter, morto nel 1509, il quale fu cancelliere di Massimiliano dal 1480 al 1488 e Vescovo d’Arras nel 15015. È certo soltanto che l’ufficio di cancelliere tenevasi già da lui sin dal 15096, né smettevasi in onta ad altri carichi diplomatici, sino alla morte di Massimiliano, avvenuta nel 15197. E nel 1519 entrava egli nell’anno cinquantesimo terzo dell’età sua.
Che la medaglia si coniasse in onore del Bannissio, non vi ha, mi pare, alcun dubbio. Lo attesta apertamente il diritto, che ne reca l’effigie, del pari che la leggenda, incisavi all’ingiro. Non con altrettanta sicurezza si può fissare l’occasione e diciamo anche il motivo, per il quale si ebbe essa a coniare. Dalla menzione di segretario, che si fa nella leggenda del diritto, potrebbesi forse congetturare che vi si volesse ricordare la promozione del Bannissio a quell’ufficio. E la congettura si avvalorerebbe anche da un particolare del rovescio. Badisi che l’individuo, in toga, prostrato davanti a Massimiliano, assomigliasi di molto al Bannissio, che si raffigura nel diritto. Non diversi vi si presentano il profilo del volto, la foggia dei capelli e le rovescie della toga, identiche a quelle d’una pelliccia. Aggiungasi che l’individuo prostrato sostiene con le mani un quaderno co’ sigilli pendenti, somigliantissimo a un diploma. Ma questa non è, ripeto, che una semplice congettura. E la congettura stessa non va suffragata per intero dall’insieme del rovescio. Parrebbe farle contro un particolare di non vano momento.
Ho già detto che dai piedi di Massimiliano si conculca un leone, scoraggiato e dimesso. Il vezzo di simboleggiare nel leone la forza è non solo antichissimo, ma vige tuttora. Lasciamo stare le imprese di Massimiliano, per le quali, o mal riuscite o tronche a mezzo per difetto specialmente di denari, non si può dir certamente che fosse repressa la forza. È noto però che la dignità d’imperatore, considerata sin dall’età del Petrarca non più che un nome
Vano, senza soggetto,
giudicavasi ben altra cosa da lui, che aspirava all’impero universale e per poco anche al pontificato romano e riputavasi l’arbitro delle cose del mondo. Con si fatto concetto era naturale che Massimiliano, superbo e vanitoso com’era, potesse credersi superiore non solo di nome, ma anche di fatto, ad ogni altro sulla terra: era naturale ch’egli potesse anche pensare nell’animo suo d’aver rintuzzato nelle molte lotte, alle quali erasi avventurato, gli sforzi de’ nemici, rivolti a suo danno. E questo concetto, rinforzato da’ consigli e fors’anco dall’adulazione del Bannissio, perchè non potrebbesi ravvisare nell’insieme del rovescio, dove parrebbe avvalorarsi persino dalla leggenda, che di Massimiliano fa il massimo dell’Italia, della Germania, delle Gallie e dell’Ungheria, o altrimenti il più grande de’ monarchi e de’ principi, che reggevano quegli stati?
Ma il leone, conculcato, può anche porgere argomento a congetture di fatti più particolari e più definiti. Le non molte notizie, che mi fu dato raccogliere del Bannissio, non escono da quel periodo in cui si son combattute le battaglio, suscitate dai Collegati a Cambrai. È il periodo fortunoso, in cui lo zelante Dalmatino fungeva da segretario di Massimiliano. Dalle lettere e dalle informazioni, che rimangon di lui, appare ch’egli accompagnasse talvolta in Italia l’Imperatore medesimo, o vi prendesse, per lo meno, il più vivo interesse a’ singoli avvenimenti. Potrebbe cogliere pertanto nel segno chi nel rovescio della medaglia intravedesse un’allusione all’insieme delle vicende fortunose di quel memorando periodo; o meglio ancora un’allusione alle lotte, per le quali Massimiliano, in onta anche a’ disastri toccati, riputavasi d’aver ridotto agli estremi la Repubblica di San Marco, raffigurata nel leone conculcato e svigorito. E più forse che al complesso de’ fatti, l’allusione s’attaglierebbe, mi sembra, a un avvenimento particolare: s’attaglierebbe cioè alla giornata, combattuta alla Motta, una piccola terra a quattro miglia da Vicenza, il 7 ottobre del 1513. È la memoranda giornata, in cui l’armi venete toccarono quella tremenda sconfitta, che gli storici tutti imputano non sai più se all’imprudenza o all’imperizia dell’Alviano, a cui la Signoria aveva commesso il supremo comando dell’esercito veneto. Oso dir questo, non essendomi ignoto che l’accordo degli storici era prevenuto dal giudizio del Bannissio, che in quella rotta aveva veduto e pronosticato nient’altro che l’estrema rovina della Repubblica. “Ciò, che fino ad ora non han potuto fare in eccidio de’ Veneti nè la Maestà Cesarea, nè gli altri confederati, fu compiuto, scriveva egli a Carlo nipote di Massimiliano, dal loro generale, il quale li trasse per la seconda e ultima volta a vera distruzione. Onde è che all’Alviano, ossia ch’egli viva, ossia ch’egli muoia, devesi erigere dai Veneti una statua con la scritta: al distruttor della patria”.8. Non è già che quel disastro incutesse negli animi così profondo lo scoraggiamento da far disperare della salute della Repubblica; ma doveva, com’è facile immaginare, mettere tanto viva la compiacenza nel cuor di Massimiliano, per le cui armi riconoscevasi, in parte, l’esito della giornata campale, da fargli giganteggiare nella mente il concetto, adombrato nel rovescio della medaglia per consiglio forse e per opera del Bannissio stesso, che lo aveva già espresso a parole.
Tutte queste, ch’io son venuto di mano in mano esponendo, non sono del resto che congetture più o meno ragionevoli, più o meno prossime al vero. Di incontestabile affatto rimane che la medaglia fu coniata in onor del Bannissio. Quello, che ignorasi del tutto, è invece il nome dell’artefice. Si sa di certo che il Cancelliere, durante il periodo delle guerre, combattute contro la Repubblica di San Marco, ebbe occasione d’accompagnare più volte in Italia il suo signore. Delle città di terra ferma, sottratte alla Signoria di Venezia, l’unica, ch’ebbe a soggiacere all’impero per il corso non interrotto di quasi otto anni, dal 1509 cioè al 1517, fu Verona. Era la città, alla quale per la non dubbia sicurezza e per le dirette comunicazioni con la Germania facevano capo i rappresentanti dell’Impero e talvolta l’Imperatore medesimo. Che al Bannissio si porgesse occasione di visitarla e d’intrattener visi, fors’anco, non è cosa mi pare che si possa mettere in dubbio. Ciò posto, perchè non si potrebbe pensare che la medaglia si coniasse in Verona, od uscisse per lo meno dal punzone di qualcuno degli artefici veronesi? È questa una congettura, che non mi sembra fuori di proposito, quando si voglia por mente non tanto alle prove di raro valore nel lavoro de’ conii, quanto alle speciali condizioni della città, che, non soggetta allo fortunose alternative delle altre terre della Venezia, concedeva un asilo abbastanza pacifico allo arti. Il grido di Vittore Pisanello e di Matteo Pasti, già fioriti nel secolo XV, proseguivasi allora per una pleiade di artefici veramente meravigliosi nell’arte dell’incisione. Delle medaglie lavorate da Francesco Caroto, da Giammaria Pomedello, da Giulio Dalla Torre, da Matteo del Nassero e da Giangiacomo Garaglio parlano i biografi del tempo e se ne conservano non pochi esemplari ne’ Musei d’Italia, di Germania, d’Inghilterra e di Francia. Lavoro perfetto e non indegno del punzone d’alcuno di que’ maestri famosi potrebbesi giudicare, senza tema d’errore, la medaglia in onor del Bannissio. Ma la finitezza del conio non basta a fare indovinare, anche per larghe congetture, chi ne fosse l’autore. Potrebbe forse cogliere nel segno chi conoscesse da qual mano uscisse la medaglia votiva, fatta coniare nel 1618 da Francesco di Sickingen, ottenuto ch’egli ebbe il perdono di Massimiliano dopo l’accanita resistenza nella lunga controversia co’ cittadini di Worms. È la medaglia, riprodotta e illustrata dal Luckius nella sua Silloge Numismatum Elegantiorum (pag. 39). Tanta è la somiglianza de’ caratteri nelle leggende e l’analogia, che dal rovescio di questa, rappresentante Massimiliano in trono, si offre col rovescio della medaglia in onor del Bannissio. Aggiungasi che come nell’una sta prostrato davanti al trono il Cancelliere, così nelr altra si vede inginocchiato il Sickingen, dalla cui destra esce e si spiega una striscia di pergamena, che ne avvolge, come in un cerchio, tutto il campo recando la scritta:
Armis Mercuriam si non praeponas, maxime Caesar,
Semper eris Victor faustaque regna teneas.
La medaglia in onor del Bannissio non è, come ho pure avvertito,. conosciuta: né so quanto le congetture, ch’io son venuto esponendo per dichiarare l’allusione e indovinarne a un dipresso l’artefice, parranno attendibili. Comunque, sarà sempre per me una vera compiacenza, l’aver potuto additare a’ cultori della numismatica un cimelio degno, non v’ha dubbio, di particolare attenzione e per la storia e per l’arte.
- ↑ Le Glay, Négociations, etc. Tomo II, pag. 40. Paris 1845.
- ↑ Le Glay, Op., cit. Tomo I, pag, 303 e Tomo II, pag. 40.
- ↑ Sanuto, Diarî. Tomo XXI7, pag. 670 e Tomo XXVI, pag. 434. Venezia, 1889.
- ↑ Morsolin, Giangiorgio Trissino, Doc. XXIX, pag. 468. Vicenza, 1878.
- ↑ Armand, Les Médailleurs Italiens. Tomo II, pag. 81. Paris 1883.
- ↑ Le Glay, Op., cit. Tom. I, pag. 303.
- ↑ Sanuto, Diarî. Vol. XXVI, pag. cit.
- ↑ Le Glay, Négociations, etc. Tomo I, p. 552. Parigi, 1845,