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XXIII. La personalità di Leopardi
XXII. 1826-27: Epistola «Al conte Carlo Pepoli» XXIV. Filosofia di Leopardi

XXIII

LA PERSONALITÀ DI LEOPARDI

Siamo a un punto del nostro racconto, che possiamo oramai volgere lo sguardo indietro su tutta la via percorsa. Leopardi non è giunto che assai tardi a conquistare la sua personalità. Ricevea vivissime le impressioni che gli venivano dalla casa paterna e dall’ambiente paesano, e dai suoi libri e da’ suoi malanni e dagli amici. Queste diverse influenze sono visibili nel suo pensiero. E come è naturale, dapprima ricevea più che non dava. Pure, anche nell’età più giovane si vede una libertà di giudizio, un acume di riflessione ed una indipendenza di carattere, che ti fanno intravvedere una individualità distinta e precoce.

Prima fu tutto suo padre, vale a dire un miscuglio di secolo decimottavo e di secolo decimonono reazionario. Aveva nel cervello molta parte della biblioteca, ma tutte quelle sue conoscenze erano erudizione, non erano ancora pensiero. Fin d’allora aveva uso, come fanno gl’ingegni eletti, di osservare e notare tutto quello che gli faceva impressione, sia in sé stesso, sia nelle cose di fuori: osservazioni e note, che poi raccolte furono pubblicate sotto il nome di Pensieri. Nei suoi manoscritti, depositati nella Biblioteca Nazionale di Firenze, trovi questo pensiero:

Tutto è o può essere contento di sé stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella delle altre cose.         Quando scrisse questa osservazione credeva ancora alla immortalità dell’anima. E in quei manoscritti troviamo notate alcune canzonette popolari di Recanati, tra le quali questi due bei versi:

Io benedico chi t’ha fatto l’occhi.
Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati. . . . .

E insieme trovi alcuni fattarelli, che gli avevano fatto impressione, come di quel villano recanatese, che, venduto a un macellaio il suo bue, e vedutolo stramazzare, si pose a piangere dirottamente.

Quest’abitudine a mettere in iscritto le sue osservazioni mostra già un cervello attivo, che reagisce sulle sue impressioni. E anche nei suoi Progetti d’inni e nel suo Saggio sugli errori popolari degli antichi si veggono i segni di questa reazione, rivelatrice di animo non servile.

La conoscenza del Giordani dové molto conferire ad aprirgli la mente. Anzi Monaldo, suo padre, credé addirittura che fosse stato colui il demone tentatore. — E non pensava, nota il figlio, che se mi voleva altro da quello che sono, doveva farmi in altro modo. — Il giovane, a diciotto anni, fu quello ch’era in gran parte la nuova generazione, un patriota e un libero pensatore. E venne a questo più per imitazione e per moda che per crisi intellettuale e morale. Niuna orma rimane di questo passaggio: tanto parve a lui medesimo cosa naturale. E in verità, se noi riandiamo i primi anni nostri, ci vediamo lo stesso fenomeno. Ci trovammo patrioti e liberi pensatori senz’accorgercene. Di quest’età un’orma brillante sono le due canzoni patriottiche.

Animo concentrato e meditativo, aguzzato dalla solitudine e dal dolore, inetto all’azione, ammalato di noia, venne presto per lui il momento critico dell’esistenza. E già negl’Idillii si vede tutta una serie di sentimenti e d’impressioni, fissata e compendiata sotto forma di sentenze nella canzone al Mai. In quel tempo cominciavano í suoi studi filosofici; aveva studiato le parole: allora studiava le cose. I libri acquistano un nuovo significato; ei fa osservazioni sue, nota le sue impressioni, vedi libertà ed originalità di giudizio. Ecco una nota sopra Anacreonte:

Io, per esprimere belletto indefinibile che fanno in me le odi di Anacreonte, non so trovare similitudine ed esempio più adatto di un alito passeggero di venticello fresco nell’estate, odorifero e ricreante, che tutto in un momento vi ristora in certo modo e v’apre come il respiro e il cuore con una certa allegria; ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere, ovvero analizzarne la qualità e distinguere perché vi sentite così refrigerato, già quello spiro è passato: conforme appunto avviene in Anacreonte; che è quella sensazione indefinibile e quasi istantanea; e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più; tornate a leggere, vi restano in mano le parole sole e secche; quell’arietta, per così dire, è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la sensazione che v’hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi.

Ed ecco un’altra nota sopra Monti:

Nel Monti è pregiabilissima e si può dire originale e sua propria la volubilità, armonia, mollezza, cedevolezza, eleganza, dignità graziosa o dignitosa grazia del verso . . . . . Ma tutto quello che spetta all’anima, al fuoco, all’affetto, all’impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero, gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo.

Curiosità ed esattezza di osservazione, rettitudine d’impressioni, giustezza di giudizio, sono qualità virili di un ingegno penetrativo, che qui si manifestano chiaramente. Conoscenze filosofiche ne aveva, di quelle sparse, più simili a notizie che a dottrina. Conosceva soprattutto la filosofía greca, affezionatissimo a Platone, come sono per lo più i giovani. Aveva simpatia non piccola per la filosofia stoica, come quella che mirava più a regola di vita che a disquisizioni metafisiche. Cartesio, Leibnizio, Malebranche, Pascal non gli erano ignoti, quantunque non risulti che ci abbia fatti sopra studi peculiari. Quando, sopraccarico di studi classici, si gittò ai moderni, cominciò con la lingua italiana, e per consiglio di Giordani fece studio paziente de’ trecentisti, e voltatosi poi alla filosofia o, come egli dice, alle cose, non poté sottrarsi all’influenza di Voltaire, di Locke, di Condillac. La lettera che scrisse a Jacopssen nel suo ritorno da Roma è in linguaggio prettamente di sensista; fino la virtù è chiamata sensibilità: «je ne fais aucune différence de la sensibilité á ce qu’on appelle vertu».

Questa lettera, scritta con chiarezza e fermezza di linguaggio filosofico, suppone non solo una lunga elaborazione di questa materia, ma ch’essa sia già nella mente dello scrittore architettata a modo di sistema. E il sistema non rimane nella mente, anzi penetra in tutte le forme della sua esistenza, attinge tutto l’uomo. Questo fa la sua differenza da Schopenhauer, suo coetaneo, il quale nel 1819, quando Leopardi scriveva gl’Idillii, pubblicava la sua opera principale sulla Volontà. S’incontrano nello speculare; ma nel tedesco la speculazione ha nessunissima influenza sulla vita, dove in Leopardi è tutta la vita in tutte le sue forme. Quel complesso di idee e di sentimento, che a poco a poco s’era andato raccogliendo nel suo spirito in forma di sistema e che fu la sua filosofia, diviene lo spirito de’ suoi versi e delle sue prose; uno spirito originale, fuori dell’ambiente comune, espressione di una personalità spiccata ed indipendente. Così Leopardi acquistò un carattere ed una fisonomia.

E a quel tempo mirava pure a farsi una forma propria nel verso e nella prosa, secondo certi tipi che gli giravano per la mente. La grande difficoltà era soprattutto per la prosa. Scriveva prima un italiano mezzo francese, poi cadde nell’affettazione del purismo; vagheggiava un tipo di prosa semplice ed efficace, e non lo contentava Giordani; assai meno padre Cesari. Già fin da parecchi anni scriveva pensieri, note, riflessioni, prosette satiriche, abbozzi e progetti; il tutto tirato giù alla buona, in forma provvisoria, che pur ti colpisce per la chiarezza e la concisione. Fece pure volgarizzamenti dal greco, nei quali è visibile quella sua rara perizia e padronanza della lingua. Con questi apparecchi ed esercizii pose mano a’ dialoghi, intermessi a quando a quando da subitanee ispirazioni poetiche. Non c’era più il petrarchista e non c’era più il purista. C’era Leopardi.

Venivano fuori nuove canzoni e nuove prose. Era il tempo che la sua salute era tollerabile, e s’era assuefatto alla vita ordinaria, e il cuore stava cheto, e l’immaginazione e l’intelletto lavoravano. Studiava il vero, per mera curiosità, come scrive a Giordani. E in quella esplorazione acquistò un abito di sottigliezza ed un cotal risetto falso, che sono come il demone delle sue prose. Felice quando gli venivano momenti d’ispirazione, e il sangue gli ribolliva, e scriveva le Nuove canzoni!, dove pure filtrava quello spirito e prendeva forma di umor nero e denso.

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