< Giacomo Leopardi
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XXIV. Filosofia di Leopardi
XXIII. La personalità di Leopardi XXV. La morale di Leopardi

XXIV

FILOSOFIA DI LEOPARDI

Nella canzone al Mai è già bella e formolata tutta questa filosofia. Leopardi aveva allora ventidue anni. E ci batte e ci ribatte tanto, in prosa e in verso, che oramai non è difficile darne un concetto giusto.

In quella canzone è affermata in forma di sentenza la nullità delle cose, e solo cose vere il dolore e la morte. Rimanevano le illusioni, il caro immaginare; e la scienza ha distrutto anche questo.


          A noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

          Conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema. . . . .

Ecco tutto è simile e discoprendo,
Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar. . . . .

          Or che resta? or poi che il verde
È spogliato alle corse? Il certo e solo
Veder che tutto è vano altro che il duolo.

          Morte domanda
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

Tutto questo potrebbe apparire una rettorica di occasione, suggerita dalla scoperta del Mai. Ma questa rettorica sarebbe in aperta contraddizione con l’argomento, perché cancella tutte le speranze di risurrezione italica, che quella scoperta potea far sorgere nel core del patriota. No, non è rettorica, è l’eco dolorosa d’impressioni e di sentimenti, che già prendevano nella mente del poeta forma di dottrina.

Continuando negli studi filosofici, non cercò il vero con imparziale curiosità, come scrive a Giordani, ma cercò sostegni di erudizione e di ragionamenti alla sua dottrina, divenuta la sua idea fissa. E perciò la sua filosofia non ha un colore di questo o di quel sistema filosofico, ma un color suo proprio e personale. Trovi nelle diverse sue parti reminiscenze stoiche, platoniche, sensiste, una erudizione varia, soprattutto classica. Ma il tutto è pensiero originale, e per la inesorabilità delle conclusioni e per la sua compenetrazione in tutte le forze della vita.

L’infelicità sua propria, in età così giovane, lo condusse di buon’ora alla meditazione sul male e sul dolore: problema agitato molto e poco ancora risolto, non sapendosi spiegare resistenza del male nella vita.

Questo, che potrebbe parere un problema secondario, è per lui tutta la filosofia, come quello che implica in sé lo scopo e il significato della vita. Le religioni e le filosofie non hanno altra origine e non altra base che darci una spiegazione del mondo, e determinare secondo quella la nostra condotta morale. Cercare questa spiegazione non fu per Leopardi mera curiosità, anzi lo vediamo alienissimo da speculazioni astratte e metafisiche. Non è che lui non abbia pure la sua metafisica; ma è un semplice presupposto della sua filosofia, la quale è indirizzata principalmente alla vita pratica. Perciò egli è più un moralista che un metafisico.

Del resto la sua metafisica è compendiata in una sola frase: «Arcano è tutto». Cosa è il mondo e a che nato e come: mistero. Rigetta tutte le spiegazioni religiose e filosofiche. Il «nihil scire» è il suo sapere. Ciò che dà al suo filosofare un carattere scettico, leggermente ironico.

Non è per nulla disposto ad ammettere cause soprannaturali, o ipotesi fantastiche. Ingegno positivo e chiarissimo, s’accosta più ai sensisti.

E in fondo in fondo le sue opinioni sul mondo sono quelle che si trovano messe in bocca di Stratone da Lampsaco, e che si possono ridurre a quel sistema, la cui base è «materia e forza», o in una sola parola «Natura» personificata e poetizzata. Al di sopra non c’è altro che il «Fato», forza misteriosa e cieca. Natura e Fato sono due persone poetiche, sotto le quali si nasconde una concezione del mondo essenzialmente materialista. A qual fine operi Natura, anche questo è mistero.

O la vita non ha scopo, o non può avere altro scopo che la felicità. Ma l’esperienza insegna subito che la felicità non può esser raggiunta. Questo, che è il luogo comune di poeti e di filosofi, antichi e moderni, ha in Leopardi l’originalità di un sentimento personale. La sua costituzione fisica, la solitudine, la concentrazione, dovettero di buon’ora avvezzarlo a vedere scuro, e sentire nella propria l’infelicità della vita. Nella prima innocenza delle cose si può credere che l’essere felice o infelice sia premio del bene e pena del male. Ma l’esperienza toglie via anche questa illusione, e al giovine pare di aver fatta una scoperta quando fa gridare a Bruto irritato:

          ... dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela?

Appunto queste contraddizioni fra la teoria e la pratica, questa felicità posta a scopo della vita, e nondimeno irraggiungibile anche a’ buoni, e spesso l’empietà fortunata e la virtù infelice, costituiscono il problema dell’esistenza del male, che tutte le religioni risolvono col porre una seconda vita, dove l’equilibrio sia restituito e fatta la giustizia.

Il mistero delle cose e l’infelicità della vita sono temi comuni a tutte le religioni, specialmente al Cristianesimo. Dio è l’inarrivabile, l’inesplicabile, il mistero che nessun occhio può indagare senza empietà. E l’infelicità umana è uno dei misteri di Dio, che bisogna accettare con rassegnazione, perché al prosuntuoso che vuol ficcarci l’occhio dentro, Dio dice: — Chi è costui che oscura il consiglio con ragionamenti senza scienza? — Il libro di Giobbe, i Salmi, i Proverbii, i Treni esprimono con grande energia questo doppio sentimento, la cui Musa eloquente e pensosa ispirava Agostino e Pascal.

Fin qui Leopardi s’incontra con la Bibbia, quantunque sia in lui assai poco di biblico e molto di pagano e di classico, e quando va in cerca di compagni, cita più volentieri Omero e Pindaro, che Davide e Giobbe. Ma dove la Bibbia e tutte le teologie risolvono le contraddizioni nella seconda vita, sì che la tragedia si volti in una divina commedia, Leopardi, che vuol stare in su l’esperienza, a una seconda vita non crede, rimane in tutte le ansietà e i dolori della tragedia umana.

Posto che lo scopo della vita sia la felicità, come anche i sensisti ammettevano, e a lui non doveva essere ignoto Elvezio, e posto che nel fatto la felicità non può essere raggiunta a confessione di tutti, viene che la vita non ha scopo. E poi che la vita è moto o azione, «vivre est sentir, aimer, espérer», viene che tutte le nostre azioni non hanno scopo, e sono non altro che ozio, com’egli dice a Pepoli, sono vanità e nulla.

Questo sentimento della vanità universale è pure biblico, è il detto di Salomone, è il «pulvis et umbra». Ma dove nella Bibbia e ne’ Padri l’eterno sparire ha dirimpetto a sé un eterno apparire in Dio, solo realtà e verità, in Leopardi la conclusione di questa infinita vanità delle cose, e sola verità e sola realtà, è la morte. Il fine naturale dell’essere è il morire. La natura partorisce e nutre per distruggere. Adunque la sola cosa vera, il solo scopo dell’essere è la morte. Tutto l’altro è falsa apparenza o illusione, è vanità. Il sentimento di questa vanità è la noia, e perciò nella vita non ci è altro di reale che la noia e il dolore: «Amaro e noia la vita». La verità della vita è il «patire»; è l’infelicità.

Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa.

Infelicità e mistero, ecco l’ultima parola di tutto il discorso.

Maggiore è la civiltà, e più chiare appariscono queste conclusioni. Più l’intelletto è adulto, e meno possono le illusioni e le immaginazioni. Il mondo nella sua giovinezza e l’uomo nella prima età, prendono per cosa reale e salda tutto quello che la ragione chiarisce poi ombra vana: perciò sono meno infelici. Adunque la civiltà, la ragione, la scienza, il progresso non sono medicina, anzi sono veleno, e aumentano, non scemano, la nostra infelicità.

Questa maledizione alla scienza è anche cosa biblica. Tutte le religioni hanno in sospetto la scienza, come distruttiva della fede. E la scienza a volta sua, quando ha coscienza del suo potere, ne ha anche la superbia. Tutto l’orgoglio del razionalismo è in quel motto di Pascal: — L’uomo è «una canna pensante», così fragile per la sua natura, così forte per la sua ragione —. Leopardi rigetta fede e scienza, nega teologia e filosofia, rimane nel nulla, l’infinita vanità del tutto. Perciò la sua teoria è morte di ogni teologia, di ogni poesia e di ogni filosofia: il nulla universale.

Pure, chi guarda in fondo, vede Leopardi più vicino alla fede che alla scienza, invidiando quasi quelli che credono a Dio e alla immortalità dell’anima, come sono le nazioni e gli uomini giovani, e riandando con l’occhio lacrimoso di desiderio quella sua prima età, quando sapeva meno e credeva più. Il poeta desta una simpatia, la quale si tira appresso anche il filosofo.

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