< Giacomo Leopardi
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XXXIII. A Firenze
XXXII. Gli ultimi «Dialoghi» XXXIV. A Pisa

XXXIII

A FIRENZE

Leopardi, tornato di Bologna in Recanati gli 11 di novembre del 1826, vi dimorò sino al 23 aprile del 1827. Cosa fece in questo tempo? Curò la stampa del suo Petrarca, lavorò intorno alla Crestomazia, oltre cose di minor momento. Appena fu in Recanati, già desiderava Bologna. Il 15 dicembre scriveva al Brighenti:

Sento qui un poco men freddo che a Bologna, di corpo; ma d’animo ho un freddo che mi ammazza, e ogni ora mi par mille di fuggir via.

Quel freddo dell’animo era la tristezza di una «solitudine continua e assoluta», come scrive il 9 febbraio. E s’aiuta scrivendo lettere, o qualche articolo per il Nuovo Ricoglitore, cercando spesso notizie letterarie, ricordando con desiderio gli amici e le amiche di Bologna, soprattutto il Brighenti e il buon Pepoli e l’amorosa Antonietta Tommasini. S’affaticò tanto intorno alla Crestomazia, che a’ primi di marzo aveva già fatto lo spoglio di oltre settanta autori. Aggiungi le correzioni di stampa delle Operette morali che il fido Stella pubblicava in Milano. E se si pon mente che qualche dolcezza gli dovea pur venire dall’usanza domestica, volendo egli un gran bene alla Paolina e a Carlo, e che di salute non era male, cessatogli anche quel mal d’intestini che lo travagliava a Bologna; si vede che quel suo freddo d’animo e quella sua tristezza di solitudine non si deve poi prendere alla lettera. Potea ben sentirsi tristo in certi momenti; ma la tristezza non era il suo stato normale in quel soggiorno di Recanati. E si vede anche dallo stile sciolto e ricordevole, se non affettuoso, ch’è nelle sue lettere.

Di una qualche importanza sono le due ultime lettere che troviamo di lui scritte in Recanati. L’una è del 18 aprile, alla sua cara Antonietta Tommasini, in risposta ad una «graziosa» ed «elegante» lettera, occasionata dal suo «piccolo» articolo stampato nel Ricoglitore. L’articolo non era altro che il suo Discorso in confutazione del Giordani, premesso al suo volgarizzamento dal greco di una orazione di Gemisto Pletone.

In quel discorso Leopardi stima non inglorioso e non inutile il volgarizzare, contro la sentenza di Pietro Giordani; loda Pletone, come vicinissimo agli antichi greci per bontà di lingua; e piglia occasione a magnificare la nazione greca, la quale

per ispazio dintorno a ventiquattro secoli, senza alcuno intervallo, fu nella civiltà e nelle lettere, il più del tempo, sovrana e senza pari al mondo, non mai superata: conquistando, propagò l’una e le altre nell’Asia e nell’Africa; conquistata, le comunicò agli altri popoli dell’Europa... All’ultimo, già vicina a sottentrare a un giogo barbaro, e perdere il nome, e, per dir così, la vita, parve che a modo di una fiamma, spegnendosi, gittasse una maggior luce: produsse ingegni nobilissimi, degni di molto migliori tempi; e caduta, fuggendo molti di essi a diverse parti un’altra volta fu all’Europa, e però al mondo, maestra di civiltà e di lettere.

In questo tempo la Grecia faceva sforzi grandi per rivendicarsi a nazione, accompagnati dalla simpatia dell’Europa civile. Un lampo di questa simpatia splende nel magnifico elogio, che Leopardi intuona alla Grecia a proposito di Gemisto Pletone, lui alieno da distrazioni e da digressioni. Pure, si astiene da qualunque accenno alla immane lotta. E questo par freddezza all’entusiastica Antonietta, e gli grida che i greci sono nostri fratelli. Leopardi risponde:

Ancor io riguardo i poveri greci come nostri fratelli; e se più si fosse potuto dire in loro favore, lo avrei detto certamente in quell’articolo: nondimeno, considerata la impossibilità in cui siamo di parlare liberamente, mi pare di averne detto abbastanza. Metto pegno che l’Antonietta non dové rimaner contenta di questa secca risposta. Quella caldezza di cuore, che ispirò le canzoni patriottiche, non c’è più. Tutto ciò che vive al di fuori, opera tardamente e scarsamente sopra questo essere concentrato.

L’ultima lettera è a Puccinotti, secca al solito, e finisce in uno scoppio di bile:

... porca città, dove non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti; so bene che son l’uno e l’altro.

E conchiude;

La prima volta che in Recanati sarò uscito di casa, sarà dopo dimani, quando monterò in legno per andarmene.

Questo fu il suo addio a Recanati. L’anima era già a Bologna, in mezzo alla cordialità delle famiglie Tommasini e Brighenti, tra cari e stimati amici, come il Costa, lo Strocchi, il Marchetti, il Pepoli, l’Orioli, il Maestri, il Colombo, il Taverna. Il povero Leopardi vi si sentiva stimato e amato, e questo era il balsamo che gli raddolciva il carattere.

La sua breve, ma lieta dimora in Bologna fu dal 26 aprile al 20 giugno. Alla sua Paolinuccia scrive:

La stagione qui è ottima, e io mi diverto un poco piú del solito, perché, grazie a Dio, mi sento bene,... e perché gli amici mi tirano, sono stato all’Opera già due volte.

Vi continuò lo spoglio degli autori e le correzioni de’ Dialoghi, attendendo l’arrivo dello Stella.

Il buon libraio gli confermò le sue commissioni, co’ soliti dodici scudi al mese. Voleva da lui anche un Cinonio; ma Leopardi, che dopo il Petrarca e la Crestomazia non voleva sobbarcarsi a un altro lavoro di schiena, promise di tentare il Costa, e non fece nulla, saputo esser l’uomo divenuto, «così pigro, che sarebbe quasi impossibile indurlo ad assumere una lunga fatica».

Ripartì lo Stella per Milano, recando seco come trofeo la Crestomazia, alla quale non mancava altro che la prefazione. E Leopardi co’ dodici scudi nell’immaginazione, tutto lieto andò nella sospirata Firenze.

Viaggio ottimo. Ma appena giunto, quel suo «brutto mal d’occhi invece di migliorare peggiora», e lo costringe «a stare in casa tutto il dì, senza né leggere né scrivere», e non può uscir fuori «se non la sera al buio, come i pipistrelli». Aggiungi un mal di denti, che lo tiene inquieto: «la malinconia che mi dà questa sciocchezza da un mese in qua, non è credibile». L’operazione chirurgica gli sta sempre nel pensiero, «come una condanna da eseguirsi», e che lo «spaventa come un ragazzo». Ma questi suoi incomodi, ch’egli dice senza conseguenza, non gli impediscono di scrivere alla sorella il solito «grazie a Dio, sto bene». Nelle sue lettere tocca appena di questi piccoli accidenti della vita, e se ne lamenta solo, perché gli tolgono di scrivere agli amici così spesso come vorrebbe, e perché non gli è dato di vedere molte cose notabili di Firenze. La sua tristezza non gli reca impazienza e non dolore, come di uomo che vi sia già avvezzo. La sua facoltà di affetto non pare scemata. Scrive con effusione a Carluccio, a Paolinuccia, alla cara Adelaide, alla signora Antonietta, e si ricorda volentieri degli amici di Bologna, nome per nome. Se non potea veder Firenze, era pur visitato da’ primarii cittadini, da tutta quella compagnia di letterati ch’erano intorno al Vieusseux, e di cui dice: «Sono tutti molto sociali, e generalmente pensano e valgono assai più de’ bolognesi». Tra quelli era Giordani, e Niccolini, e Frullani, e Capponi, e Lambruschini, e Montani. Più tardi conobbe il «signor» Manzoni, col quale si trattenne a lungo: «uomo pieno di amabilità e degno della sua fama». Impressioni molto vive non pare che ricevesse dalle amichevoli e interessanti conversazioni, di cui non è cenno nemmeno ai più famigliari. Dice a Brighenti:

Io vivo molto malinconico, nonostante le molte gentilezze usatemi da questi letterati: tra i quali, tutti i primari, compreso Niccolini. Scrive al papà che ha fatto conoscenza e amicizia «col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l’Italia parla». Esposizione secca del fatto, quasi egli fosse marmo, quantunque indovini la sua soddisfazione della visita del Niccolini, e della conoscenza col Manzoni. Questo stato marmoreo è detto dall’autore stoico de’ Dialoghi «indifferenza filosofica», ed è quel medesimo che, giovane, quando sentiva più, chiamava con disperata energia «ferreo sopore». Talora se ne stanca, e presente e chiama la morte:

Sono stanco della vita, scrive al Puccinotti, stanco della indifferenza filosofica, che è il solo rimedio de’ mali e della noia, ma che infine annoia essa medesima. Non ho altri disegni, altre speranze che di morire.

Il ferreo sopore era pur poetico, perché congiunto con la fresca rimembranza di un altro stato, e col sentimento e il dolore della privazione. L’indifferenza filosofica è affatto prosaica, divenuta un’abitudine contro la noia, ed essa medesima noiosa.

In qualche momento d’umor nero Leopardi si ribella contro l’abitudine, sente il peso dell’indifferenza, e può dire: «Certo è che un morto passa la sua giornata meglio di me». Quel passar la giornata «con le braccia in croce», quell’ozio «più tristo assai della morte», a cui lo costringe il mal d’occhi, è talora più forte della sua indifferenza filosofica, e gli abbuia la vita, non sì che gli dia virtù di fame una rappresentazione poetica, come fece già del ferreo sopore. Ma in generale la sua vita è tollerabile, messe le distrazioni che gli venivano dalle «molte conoscenze» e dai «buoni amici» e più in là dalla vista di Firenze, quando lo stato degli occhi gli consentiva uscire di giorno. Nelle sue lettere troviamo un umore uguale e prosaico, simile allo stato ordinario della più parte degli uomini, ciò ch’egli chiama indifferenza; il quale gli vieta o gl’inaridisce le impressioni, così tardo il sentire, come è tardo il suo respiro e la sua digestione.

Scrivendo al carissimo signor padre il 4 ottobre, sappiamo che gli occhi sono migliorati e che comincia a uscire di giorno. Ma s’affanna pe’ «quartieri d’inverno», perché il clima di Firenze «non è molto freddo», ma è «infestato continuamente da venti e da nebbie», come a Recanati, e il vento è «suo capitale nemico». Cerca un clima caldo. Stella offre Como. Ma è troppo lontano. Pensa a Roma. Ma il lungo viaggio e la lontananza dal «mondo civilizzato» ne lo distoglie. Si risolve per Massa di Carrara, clima ottimo, simile a quel di Nizza: «non vi nevica mai, si esce e si passeggia senza ferraiuolo; in mezzo alla piazza pubblica crescono degli aranci piantati in terra». Ma in sul più bello muta pensiero, ed eccolo in Pisa, spintovi da Giordani, ch’era tornato di colà contentissimo. Partì da Firenze la mattina del 9 novembre, e fu a Pisa la sera, viaggio di cinquanta miglia.

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