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XXXII. Gli ultimi «Dialoghi»
XXXI. Posizioni fantastiche XXXIII. A Firenze

XXXII

GLI ULTIMI «DIALOGHI»

Una delle fantasie più allegre di Giacomo Leopardi è il suo Ruysch, con tutto che vi si tratti di morte e di morti. Quella dolcezza del morire, che espresse con sentimento voluttuoso in Amore e morte, è il concetto intorno al quale si svolge questo dialogo. I morti testimoniano contro il pregiudizio volgare che la morte sia dolore; anzi è, come essi mostrano con l’esperienza propria e col ragionamento, piuttosto piacere che altro, quel piacere che consiste in qualche sorta di languidezza. Il canto dei morti riflette quella beltà severa e intellettuale, che troviamo in certi antichi inni teologici o filosofici, una beltà che è tutta nelle cose e dicesi sapienza, e non dà luogo a immaginazione né sentimento. Così erano i dettati de’ sette sapienti; e così sono questi dettati de’ morti.

E poi che Ruysch sente cantare le sue mummie, nasce una scena comica, che non ha alcuna importanza in sé stessa, e non è che una introduzione piacevole al discorso. In verità non valeva tutto questo affannarsi per venirci a dire che l’uomo non si accorge dell’istante che muore, e che negl’istanti che precedono sente meno vivamente il dolore, anzi prova una languidezza che è quasi un piacere. Ruysch, che è filosofo, fa qui il volgo, e filosofi sono i morti. La plebe rimane paurosa innanzi a quel gran dolore e a quel gran male che è il morire, innanzi a quella separazione violenta dell’anima dal corpo. Pregiudizii simili voglion esser distrutti col ridicolo, e ce lo facea sperare questa invenzione comica, che pure, secondo il solito, è rimasta sterile. Nondimeno, come il ragionamento è breve e spigliato, e non vi mancano movenze e frasi comiche, il dialogo si legge d’un fiato, con molto diletto.

Anche più dilettevole riesce il Copernico, dove con brio è rappresentato il sistema copernicano con le sue conseguenze. Motivo comico è la superbia dell’uomo che si credeva imperatore dell’universo, e si trova parte minima e quasi impercettibile di quello. Il quale motivo si sviluppa naturalmente nel discorso, con una certa bonarietà allegra. Il dialogo è nato in un buon momento, quando lo scrittore se lo godeva seco stesso, con l’anima netta di ogni fede e di ogni amarezza. L’originalità non è nelle cose, ma nella invenzione non priva di umore, che è quel prendere in gioco non solo l’errore, ma la verità, non solo l’ignoranza, ma la scienza, con quella noncuranza scettica generata dal sentimento della vanità universale. La forma è spigliata e veloce, intarsiata di motti felici. Il comico non si sviluppa sino al riso; pur ti mantiene la faccia serena e contenta, come di chi si sente in un buon momento della vita, in uno stato di benessere.

Composti più tardi furono i dialoghi: il Venditore di almanacchi e il Tristano. Nel primo è notevole quella forma di ragionamento per via d’interrogazione, di cui aveva già dato esempio nel Malambruno, e qua e là in parecchi dialoghi. È un seguito d’interrogazioni, a cui la risposta non può essere altra se non quella che presume l’interrogazione, e mena a una conclusione a cui l’interrogato stretto dalle sue risposte non può ripugnare. L’interrogato è il venditore di almanacchi, vale a dire il volgo nel suo modo di concepire e nei suoi pregiudizii. L’interrogante, sotto nome di passeggere, è Leopardi medesimo. Il discorso è avviato naturalmente come di cosa nata lì per lì per associazione d’idee. Nelle interrogazioni e nelle risposte si vede, senza che sia espresso, il carattere dei due. L’uno, stupido, formato così a casaccio, con tardo ingegno e a bocca aperta, il quale non capisce che gli si dice, né a che gli si dice, e non gli rimane di tutto il discorso niente, e ripiglia: «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi». L’altro, uomo superiore, che tira da quella mente grossa quello che non sa uscire da sé, e lo conduce al punto che vuole, con una beffa sottile che si sente dappertutto, e non si coglie in nessuna parte.

Il ragionamento socratico è in sé stesso una ironia, un riso a fior di labbra, che l’avversario incalzato e soverchiato non è neppure nello stato di scorgere. L’ironia non è nei pensieri o nelle frasi, ma nella natura stessa del ragionamento, nel quale colui che interroga, dissimula la sua superiorità, scende a paro con l’avversario, fa l’ingenuo e l’ignorante, insino a che nella conclusione te lo accoppa. Colui, andando via confuso e ripigliando gli spiriti, può dire: — Per Dio, s’è beffato di me — . Qui non solo c’è il discorso, ma c’è il dramma, l’urto dei due caratteri nell’urto delle idee, parendo pure che tutti e due dicano il medesimo. Leopardi vi è riuscito mirabilmente; ed è certo questo dei suoi dialoghi il meglio ispirato.

Non è così felice l’ironia nel Tristano. È qualcosa di simile a quella che è nella Palinodia, un «errai, candido Gino». Ma perché l’ironia abbia consistenza e non degeneri in freddura e in caricatura, deve pur prendere una qualche apparenza di serietà. Proporre, per esempio, un premio all’inventore delle donne fedeli e della felicità coniugale è materia di caricatura, attesa l’impossibilità della cosa; e l’ironia ti riesce fredda, perché la sua base è una finzione che per poco acquista la tua fede; e qui l’impossibilità è patente.

Perciò quella Proposta di premi fatta all’Accademia dei Sillografi e volta a porre in ridicolo il secolo delle macchine, la quale dovrebbe essere una caricatura umoristica, fallisce al suo scopo trattata con ironia; malgrado che lo scrittore con modo ingegnoso cerchi di render credibili cose impossibili. Il medesimo può dirsi dell’ironia nel Tristano. Leopardi vuol far credersi un convertito, o che abbia fede ora a tutte quelle cose a cui crede il secolo, cioè a dire alla felicità della vita, alla perfettibilità indefinita dell’uomo, sì che la umana specie vada ogni giorno migliorando e i buoni crescano continuamente, e che il secolo sia superiore a tutt’i passati e cose simili. Ma l’ironia è uccisa quasi nel tempo stesso ch’è nata, per la serietà delle cose che dice in contrario, ed è di fattura così grossolana che non la può dare a intendere neppure a quel melenso amico che l’ode. Il quale, destituito di ogni personalità, e piuttosto automato o pappagallo che uomo, sta lì unicamente perché Leopardi si sfoghi, e dica tutto quello che gli sta nel cuore.

Ma se l’ironia è insipida e riesce una freddura, il dialogo, posto pure che sia in sostanza un soliloquio, è una prosa piena di sentimento. Leopardi s’è dimenticato di quel suo tipo astratto e rigido di prosa intellettuale, ove non debbe entrare immaginazione, né sentimento, e si lascia dietro ogni imitazione antica e classica. Ci si sente la prosa de’ suoi diciotto anni, quando scriveva a Giordani, un ritorno di gioventù. Il cuore, lungamente cruciato e compresso, trabocca. Gli altri dialoghi sentono più o meno di solitudine, di attriti astratti, non sperimentati nella comunanza umana. Ora quei filosofi del progresso e de’ lumi ch’egli erasi sforzato di berteggiare socraticamente, gli stanno lì in presenza, e berteggiano lui a loro volta. A sentire questi felici mortali, Leopardi aveva linguaggio di malato, e giudicava il mondo col suo umor nero, e la sua salvatichezza, e la sua nimicizia degli uomini era dispetto di vanità offesa, e non intendeva il secolo, e da’ suoi libri veniva molto male. Leopardi piglia un tuono ironico, ma il cuore è pieno, e prorompe fin dal principio. Faccia livida e labbra convulse non possono ridere. E alza subito il tuono sdegnoso, altiero, sprezzante. Diresti che, già sentendo la morte, si alzi egli medesimo il piedistallo e scriva il suo epitaffio. Il Tristano ha la solennità di un testamento.

Qui la prosa ha calore e pienezza e rigoglio, e corre svelta e libera, con andatura quasi moderna. Ci si sente il fiato del secolo, un ambiente vivo. Il frizzo è amaro, il sarcasmo è pungente, l’ira è eloquente; tutto viene da passione vera. L’ultima pagina sembra una variazione dell’ultima strofa in Amore e morte, una melodia che si continua.

I dialoghi e le altre prose di Giacomo Leopardi sono inferiori alle sue poesie, e valgono meno per sé stesse che a illustrar quelle. Nondimeno vi si scorge un ingegno superiore, e una formidabile coesione e consistenza d’idee. Come filosofo, gli manca sufficienza di studi, esattezza di analisi e altezza di sguardo. Pure è in lui un vigor logico, di cui in Italia è raro l’esempio, e spesso non sai come cavarti da quella stretta. La sua infinita erudizione e l’educazione del suo spirito, classica e antica, ricoprono di una cert’aria pedantesca la sua originalità.

Un serio valore filosofico non hanno i suoi scritti in prosa. E quanto a’ dialoghi, se qua e là possiamo notare potenza d’invenzione e fecondità di posizioni, cavate dallo stesso fondo d’idee, la sterilità dello sviluppo e il difetto di genialità comica toglie ch’essi sieno perfetta opera di arte.

Il Tristano ci annunzia un Leopardi già da un pezzo mescolato tra gli uomini, in ambiente vivo e moderno. Di questo nuovo Leopardi è tempo che noi ci occupiamo.

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