< Giacomo Leopardi
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XXXI. Posizioni fantastiche
XXX. Il ragionamento nel dialogo XXXII. Gli ultimi «Dialoghi»

XXXI

POSIZIONI FANTASTICHE

Ci è nel pensiero leopardiano qualche cosa di così alieno da ogni opinione ricevuta e di dotti e d’indotti, che dovea parere a molti una stravaganza, una singolarità di cervello solitario. In un tempo che il divino era scomparso nell’umano, e l’uomo era posto in cima della creazione, quasi come fosse lui l’assoluto, sentire che la terra era appena una pallottola, e l’uomo appena visibile ed osservabile nell’infinito universo! Sentire che il secolo dei lumi sia il secolo della morte, o dei morti! che il non vivere è meglio del vivere! che la vita è necessariamente infelice, e più nei grandi uomini! che l’uomo non è la più perfetta creatura dell’universo! che tanto vale un diletto sognato quanto un diletto vero, anzi più! che la vita è dolore e noia! che la natura opera senz’altro scopo che di produzione e distruzione! che la morte è piuttosto piacere che altro!

Questo spifferare sentenze, che doveano parere paradossi nel secolo dei lumi e del progresso, aveva il suo lato comico. Lo scrittore che si allontana in modo così risoluto dalle opinioni correnti, dovea provare un certo gusto a solleticare e pungere i contemporanei, ridendo in cuor suo di quei loro pregiudizii. Non gli basta dire loro la verità; vuole che la verità giunga a loro per via di sorpresa e con aria di paradosso, sì che aprano la bocca e facciano gli occhi grossi, ed ei si spassi un po’ a spese loro. Perciò non gli basta il discorso, e neppure quel ragionamento a due che si chiama il dialogo; vuole proprio la commedia, nella quale l’opinione contraria sia, non solo confutata, ma beffata. E a questo doveva inanimarlo anche l’esemplare platonico, dov’è non solo la confutazione, ma anche lo scherno dei sofisti.

Più volte aveva espresso questa opinione, che gli scrittori italiani lavorano con la memoria e mancano di virtù inventiva. Ed egli, vagheggiando queste scene comiche, voleva appunto mostrare questa virtù inventiva. La commedia ha per base una data posizione trovata con la fantasia, da cui scaturiscano tutti gli effetti comici, com’è nelle Nuvole di Aristofane. Qualcosa di simile gli passava pel capo.

Aveva nella mente un arsenale copiosissimo di favole e di storie antiche e nuove, e ne trae materia per le sue posizioni fantastiche. Vedi sulla scena Ercole e Atlante, la Moda e la Morte, la Terra e la Luna, il Folletto e lo Gnomo, la Natura e un Islandese, Tasso e il suo Genio, Ruysch e le sue Mummie. Ciascuna di queste posizioni è ben trovata, tale che ne possano venire i più felici e straordinarii effetti estetici, specialmente comici.

Si capisce che invenzioni simili non possono essere a solo fine d’introdurre un ragionamento a due, sì che non sieno altro che una occasione o esordio al dialogo. Non val la pena di mettere in moto la fantasia, per aver come cominciare un discorso. La fantasia non dee essere semplicemente principio o introduzione, ma sostanza di tutto il dialogo, dee costituire un dialogo «sui generis», una scena comica.

Ora, la fantasia, che è stata potente a trovare una posizione artistica, si ritira subito e lascia fare all’intelletto. Appena spunta, pare sia colpita di sterilità, e la scena comica rimane un aborto. Si può dire che l’autore, felicissimo a trovare il tema, si mostri incapace di svilupparlo, e non sappia che farsi del suo tesoro, che pur molto ha sudato a scavarlo.

Non mi si dica che questo nasca da partito preso, dallo storto concetto che s’è fatto della prosa, nella quale, a suo avviso, non debbe entrare immaginazione, né sentimento. Egli sa che il dialogo non è un discorso e non è un trattato; che è un conflitto d’idee espresso nella lotta delle persone e che ci può benissimo aver luogo l’eloquenza e la immaginazione. Sa che il dialogo è uno stato mezzano tra la nuda prosa e la nuda arte, e può ricevere in sé tutti i motivi drammatici. E se è ricorso a posizioni fantastiche, è stato appunto per creare una favola atta a suscitare essi motivi.

In effetti, perché affaticarsi a trovare il Folletto e lo Gnomo, Prometeo e Momo? a tirarci con lo spettacolo nelle regioni dei fantasmi e dei morti? A che, se appena alzata la fantasia, conclusione doveva essere un ragionamento ordinario? Davvero non ne valeva la pena.

Ma no. Egli ha la mira ad una vera scena drammatica; vuol produrre effetti comici e porre in giuoco i pregiudizii volgari. Vuole e non riesce.

Posizioni fantastiche inducono singolarità non nel modo di ragionare, che è sempre quello, ma nelle impressioni e ne’ moti dell’anima. Prometeo e Momo ragionano come tutto il mondo, ma con proprie impressioni e sentimenti, dov’è lo spirito comico. Non si vede che il disinganno commuova Prometeo, e non si sente la festività epigrammatica di Momo: tanto valeva mettere in quel dialogo di Prometeo un Tizio e un Caio.

Il cartellone ti dà grande aspettazione; è nientemeno una Scommessa di Prometeo; leggi e rimani freddo, ti par d’essere nella età della pietra, dove la vita é quasi ancora cristallizzata. In Ercole e Atlante il concetto è fino, e l’invenzione piccante: figurarsi la terra, tanto superba di sé, palleggiata tra due, come fosse una pallottola! Simile singolarità di concetto e d’invenzione è in Moda e Morte, nel Folletto e lo Gnomo. Sono soggetti comici, senza vena comica. E se comico c’è, è nella frase, manca lo spirito. Tentativi di caricatura e d’ironia ci sono, non manca qualche frizzo. Ma tutto è debole, «telum sine ictu». Il riso non ha fiato, muore sulle labbra.

Gli è che Leopardi, com’è stato detto, potentissimo a esprimere i moti del proprio petto, non avea forza di trasferirsi al di fuori, e rappresentare una vita disforme alla sua. I suoi Momi e Atlanti e Prometei non sono cosa viva; sono trovati di uno spirito acuto a esprimer concetti intorno alla vita, più che la vita essa medesima. Chi è Tasso? Chi è Ruysch? Chi è Colombo o Gutierrez? Sono posizioni sterili, da cui non escono fuori che concetti e ragionamenti.

Poi Leopardi non sa ridere, malgrado che lo si proponga e vi si sforzi. Il riso è in lui un atto di dispetto e di rivalsa verso gli uomini, perciò senza grazia. Le sue opinioni sono così immedesimate coi suoi dolori, che non ci entra scherzo. Manca a lui la serenità e la bonarietà, che sono le due genitrici della forza comica.

Neppure mi par che riesca negli effetti serii e tragici dell’arte, appunto per quella sua impotenza a rappresentare il mondo di fuori. Colombo, vicino a trovar terra, entra in discorso con Gutierrez. Non crediate già sia Cristoforo Colombo, quel così ardente e così credente. La scoperta dell’America si dee a questo, che Colombo era annoiato, e fuggiva la noia nel lontano Oceano. Le azioni umane non hanno altro fine che di fuggir la noia. Non è Colombo, è Leopardi che discorre così, e Leopardi non avrebbe scoperta l’America. Gli uomini atti all’opera non sentono la noia.

Né altri che sé stesso è il suo Tasso, nel quale riflette pensieri e sentimenti proprii, com’è: che l’amore rinnova l’anima, che la solitudine ravvalora l’immaginazione, che il piacere è più nell’immaginazione che nella realtà, che la vita è noia; cose dette già da lui in verso, e qui ricomparse, come gli avviene in altri dialoghi. Ma qual bisogno era di sciogliere in prosa quello che aveva così felicemente condensato in verso? Veggo un Leopardi rifritto: mi manca Torquato Tasso.

Pauroso e altamente tragico è il Dialogo della Natura e di un Islandese. Qui troviamo lungamente proseggiato quello che disse mirabilmente in verso:

                Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro bene o nostro mal si cura.
L’impassibilità della Natura, che noi sogliamo chiamare madre, spaventa qualunque abbia cuore d’uomo. Quel sentimento che c’induce al culto e alla preghiera, è qui non messo in giuoco, ma strozzato dalla verità. Sotto l’Islandese intravvediamo tutto il genere umano, alle cui sorti rimane indifferente la natura e il mondo. È il pensiero di Bruto. Ma quello che rivelò a Bruto la disperazione e poteva parere bestemmia di suicida, è qui verità intuita con tranquillità filosofica, pure con tali colori e in tal forma, che te ne viene brivido, e te ne senti male. E ci par di vedere fiele in quella tranquillità; e che lo scrittore ci derida e ci dia una coltellata, con la gioia di chi si vendica. Qui s’intravvede una inimicizia della stirpe umana, nella quale ci si sente il «repulso». Una certa misantropia balenava in quell’anima, nata all’amore, in alcuni cattivi momenti, e gli compariva sulla faccia il verde di una ironia amara, che voleva rendere piacevole, come si vede nella fine del dialogo.
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