< Giacomo Leopardi
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XXX. Il ragionamento nel dialogo
XXIX. La filosofia e l'opinione volgare XXXI. Posizioni fantastiche

XXX

IL RAGIONAMENTO NEL DIALOGO

Il dialogo propriamente detto è un concetto che si sviluppa per via dell’opposto. L’un concetto è il protagonista; l’altro serve a mostrar quello e metterlo in evidenza. Vinta l’opposizione, il concetto ritorna uno.

Il dialogo ha perciò due personaggi, espressione dei due concetti opposti. Può averne anche un terzo, che esprima il concetto di ritorno, o un concetto superiore. Sviluppandosi, ci entrano pure personaggi accessorii come nel Copernico.

Questi personaggi possono essere semplice espressione di concetti, e allora il dialogo non ha altro interesse che filosofico. L’arte ci sta come semplice esteriorità, come colore, lustro, movenza, che dia al pensiero un’apparenza grata.

Al contrario sono dialoghi sostanzialmente artistici, dove i personaggi sono concetti vivi, vale a dire trasformati in caratteri, passioni, temperamenti. Qui i concetti sono calati interamente nelle persone, non hai più concetti, ma veri uomini, hai una vera e propria commedia.

Della prima specie sono il Fisico e il Metafisico, il Timandro, e due scritti più tardi, il Plotino e il Tristano.

Nel primo dei citati dialoghi trovi l’opposizione tra il pensiero leopardiano della infelicità della vita e il pensiero volgare rappresentato dal Fisico, e in altro dialogo da Timandro, e in altro dall’Amico di Tristano. La stessa opposizione vedi in Piotino e Porfirio.

Questo conflitto d’idee, nel quale i personaggi non fanno quasi altro che prestare il nome, è la base del ragionamento dialogico. Il quale non è altro che un’argomentazione «sui generis», distinta dal sillogismo e dalle altre forme aristoteliche. O per dir meglio, queste compariscono nei particolari della discussione; ma la discussione è regolata da un principio superiore, che è lo sviluppo logico del concetto. Per esempio, sì il Fisico e sì il Metafisico usano sillogismi, dilemmi, entimemi, ma la base del ragionamento non è nell’uno e non è nell’altro, è nella natura dialettica del concetto.

Il quale, analizzando sé stesso, trova nel suo corso un intoppo nel concetto opposto, che in fondo non è altro se non un’analisi più compiuta del concetto principale, la sua visione e la sua verità mostrata più chiara nella inanità della resistenza. Si può dire che la resistenza stia lì solo per dimostrare meglio la verità del concetto, come fa un fedel cortigiano, il quale usi la spada in modo che si lasci facilmente disarmare e vincere. Certamente il conflitto può essere più o meno simulato, e talora seriissimo, sì che lasci una certa esitazione nell’animo tuo, com’è nel Plotino. Sono gradazioni, che non alterano la natura dell’argomentazione dialogica.

Questo svilupparsi del concetto per via di antitesi, è il modo della sua dimostrazione, il suo ragionamento. Di che infiniti esempi sono nei dialoghi scientifici.

Il ragionamento a due, espresso per via di personaggi, non è ancora dramma, ma ha del dramma la piacevole apparenza, più o meno vivace, secondo le inclinazioni dello scrittore. Talora l’interesse filosofico è così importante, che poco luogo ci ha l’arte, e hai dialoghi rigidi e severi come pura scienza: di Platone e di Galileo trovi così parecchi. Talora l’arte ci ha molta parte, a fine di aprire l’accesso alla gente meno colta di verità note e ammesse nelle classi più intelligenti, com’è nei dialoghi di Fontenelle, dove l’arte è volgarizzatrice e vi spiega le sue grazie e le sue veneri. Maggior luogo vi ha l’arte, quando qualche personaggio non rimane concetto astratto, ma rivela qua e là impressioni e sentimenti personali, come nel Tristano. Se non che in tutti questi casi l’arte rimane sempre un semplice ornamento, un accessorio; e la sostanza è nel ragionamento dialogico, cioè nello sviluppo del concetto per via dei contrarii.

Prendiamo il Fisico e il Metafisico. Non sono due uomini, ma due forme di concepire, il Fisico guarda alla grossa, sta ai sensi e alle apparenze, e dice del Metafisico che guarda pel sottile. Il concetto è questo: che la vita vacua, cioè a dire senza azione e senza affezione, è durare, non vivere, e vale meglio la morte. E si dimostra meno per sé stesso che per la vanità del concetto opposto, secondo il quale la vita si misura dalla sua durata e non dalla quantità degli atti e delle sensazioni. Il Fisico desidera il quanto; il Metafisico desidera il quale.

Se nel Metafisico sentissimo l’atroce sentimento che Leopardi avea della noia, o se nel Fisico sentissimo il ridicolo dell’opinione volgare, l’arte avrebbe qui un gran posto. Ma l’autore, come s’è visto, era in quello stato apatico, che non lo disponeva al riso e non gli consentiva il pianto. Non ci è dell’arte che la superficie, una forma piana e semplice, che la dimostrazione del concetto rende accessibile e piacevole. Se l’opposizione avesse qualche serietà, ci sarebbe maggiore interesse, com’è nel Plotino, dove il pro e il contro si movono come un dramma in seno allo stesso concetto. Ma qui l’opposizione è apparente, e il Fisico non ci sta se non per dare occasione di parlare al Metafisico, il quale poco gli bada, e prende l’infilata e se la discorre tutto solo. Del dialogo ci è l’apparenza, non la sostanza.

Qui Leopardi ha dirimpetto l’opinione volgare. Nel Timandro ed Eleandro dirimpetto a lui è la filosofia contemporanea, che teneva per dogma il progresso della stirpe umana, vale a dire proprio l’opposto di quello che egli credeva. La quale opinione è messa in bocca di Timandro, che non è un filosofo, né uomo d’intelligenza elevata, anzi non esce dal comune, e ti snocciola quella filosofia come imparata nelle scuole o su pei giornali, riuscendo di troppo inferiore ad Eleandro, sotto al quale nome si cela lo stesso Leopardi.

Incalzato e messo alle strette, Timandro non risponde se non mutando questione, e porge così il destro ad Eleandro di esaurire tutta la materia del suo discorso; sicché Timandro, come il Fisico, privo di ogni personalità e di ogni vigore intellettuale, è semplice personaggio a comodo, posto lì per mettere in evidenza Eleandro.

Il ragionamento è costruito a modo socratico, cioè a dire per via di interrogazioni, a cui non si può rispondere che sì; di guisa che di sì in sì si giunge a una conclusione, dalla quale l’interrogato non può sottrarsi, legato già dalle sue risposte. Timandro è costretto ad ammettere che le opinioni di Eleandro, ancoraché nocive, sono vere, e nascono appunto dalla maggior conoscenza del vero, in che è posto il progresso; sicché è appunto il progresso della scienza, tanto a lui caro, che genera quelle opinioni tanto a lui amare.

Ma l’interesse maggiore del dialogo è nella personalità di Eleandro, che è «Cicero pro domo sua», o piuttosto Leopardi in persona, il quale si difende dalle accuse che sentiva mormorarsi intorno e che pone in bocca a Timandro. Non poteva dissimularsi che quelle sue opinioni sulla infelicità necessaria della vita e la vanità delle cose erano dannosissime nei loro effetti morali e dovevano procacciargli nome di misantropo, odiatore degli uomini, indotto a quel modo di scrivere da infermità o ambizione, o ingiurie ricevute. Alle quali accuse oppone sul principio una ironia fredda, come di chi non curi e non pregi gli accusatori; poi innalza il pensiero e il linguaggio, discorrendo della sua sincerità, e n’esce una prosa calda e quasi eloquente, fluida e animata più che non è solito. Pure, perché quelle accuse erano presupposte nella sua immaginazione e non ne aveva ancora sentita la puntura negli attriti della vita, come fu più tardi, si sente in quel calore del discorso non so che astratto, venuto da moto d’intelletto, anziché di cuore. Ben altro calore, vera passione d’animo troveremo nel Tristano, scritto a trentaquattro anni, nel maggior disgusto della vita e già «maturo alla morte».

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