< Giacomo Leopardi
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XXXV. «Il risorgimento»
XXXIV. A Pisa XXXVI. Il nuovo Leopardi

XXXV

«IL RISORGIMENTO»

E che è questo risorgimento di Leopardi? Forse è divenuto felice? No. Anzi è più vivace la coscienza della sua infelicità:

Mancano, il sento, all’anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.

Forse gli volse un riso la speranza? No. Anzi la sua trafittura è d’averla perduta per sempre:

Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai piú.

Sono mutate le sue idee sul mondo? L’immagine, l’errore sono non più errore, ma cosa salda; sono la verità? No.

    Dalle mie vaghe immagini
So ben ch’ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa;
    Che non del ben sollecita
Fu, ma dell’esser solo...

La morte della speranza, l’impura vista della infausta verità, il sentimento della sua infelicità non è qui affievolito, anzi vi è ribadito e illuminato. Perché, dunque, si sente risorto? Cosa è risorto in lui? La facoltà di sentire, di cui parlava a Jacopssen, o, come ora dice, il cuore. E perché la vita non è a suo avviso altro che facoltà di sentire, d’immaginare, d’amare, è in lui risorta la vita; si sentiva morto, ora torna a vivere. E canta la risurrezione della sua immaginazione, del suo sentire.

Risorgono i dolci affanni, i teneri moti della prima età; rivede la bella natura, così come la vedeva allora, inesperto delle cose; e ora, malgrado l’esperienza della vita e la vista della verità, sente con maraviglia in sé «rivivere gl’inganni aperti e noti». Questa rappresentazione del suo nuovo stato acquista rilievo da quello stato di sopore, ove le stesse cose gli comparivano innanzi morte. Ed hai una rappresentazione, in antitesi, della natura, così come compariva a lui in quel doppio stato, morta e viva.

Queste cose non le dice già con quel disordine, con quella veemenza, con quell’improvviso ch’è la parola dell’entusiasmo giovanile. Ha racquistato i moti e i sensi della gioventù, ma non l’ingenuità di quella; ora sa troppo, e parla con ironia della sorda Natura che pure allora benediva:

Purché ci serbi al duolo,
Or d’altro a lei non cal.

Il suo piacere non è puro e non è intero. Qui non c’è l’inno e non c’è l’ode. Il piacere è contenuto dal sapere, dalla presenza del vero, che vi apparisce come fosca nuvola in cielo sereno; con questo, che la nuvola qui è l’immutabile verità e il cielo è la mutabile apparenza. Che importa? Se l’apparenza dura, non chiamerà spietato l’autore della vita. Non è una riconciliazione, è una concessione. Consente solo di non chiamarlo spietato, e «sub conditione», «se».

La situazione poetica non è nel primo momento dell’entusiasmo, quando egli si sente rivivere, ma in un momento posteriore o di riflessione, interrogando sé stesso, riandando la sua vita, e descrivendo e spiegando il nuovo uomo che s’è formato in lui.

Perciò la poesia prende una forma storica e riflessiva. Non si dipinge egli nel punto che piange e ammira e il cuore gli batte. Ha pianto, ha mirato, ha palpitato. Ora ci riflette sopra. La mente rimane sovrana, e distribuisce con ordine e con chiarezza tutte le parti, con orditura semplice, con moto diritto e soave, senza indugio e senza fretta. Non c’è immagine e non impressione così viva che lo svii e gli rompa il filo del pensiero.

Le rimembranze non s’affollano, e non s’incalzano, ma si svolgono l’una dall’altra, come onde di mare. Diresti che riviva la sua vita nella sua naturale successione. I dolci affanni della prima età, e quando mancarono, il dolore della mancanza, e quando mancò il dolore, una tristezza ch’era ancora dolore, e infine il sopore, abbandonata ogni resistenza:

Quasi perduto e morto
Il cor s’abbandonò.

questi varii stati della vita gli tornano innanzi l’uno appresso all’altro, l’uno uscito dall’altro. Si può credere che ci sia un po’ di sottigliezza in quel dolore che manca, e nel pianto del dolore mancato, che è una tristezza, la quale è ancora dolore. Ma chi ha studiato bene tutte le diverse stazioni del suo martirio, vedrà che Leopardi è qui non meno acuto che vero esploratore del suo passato. La finezza e profondità dell’osservazione ti costringe a pensare per coglier bene così delicate gradazioni tra dolore, tristezza e sopore e, pensando, gusti il piacere intellettuale di scoprirle vere. Tu senti, e acquisti insieme un abito riflessivo che ti dispone a spiegare quello che senti. E tale appunto è il carattere di questa poesia.

Or che gli sta tutto il passato innanzi, l’uomo nuovo ricorda quale gli appariva il mondo allora, e lo rifà co’ più brillanti colori di una fantasia ridesta. Quella natura, che non valse a trarlo dal duro sopore, era pure così bella: il canto della rondine, la squilla vespertina, il fuggitivo sole, una candida ignuda mano; e ora la rivede con sentimento nuovo, e l’accompagna co’ più cari vezzi dell’immaginazione. Questa rappresentazione vivace dà rilievo a quello stato d’insensibilità ch’egli caratterizza in pochi indimenticabili tratti, con una chiarezza uguale alla finezza. Certi contrasti e certi epiteti, come l’età decrepita e l’aprile degli anni, i giorni fugaci e brevi, imprimono in questa rappresentazione il moto del sentimento.

Con quel grido di maraviglia e di tenera commozione che il cieco senza speranza rivede improvviso il sole, con quel sentimento prorompe qui il grido del redivivo. Non ci è gradazione, non c’è a poco a poco; il passaggio è brusco, violento, come innanzi a un miracolo. Non è una evoluzione, come si dice oggi; è una rivoluzione:

    Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtú nova è questa.
Questa ch’io sento in me?

Quasi non crede agli occhi suoi; non crede quasi a’ proprii moti. Dunque, è vero? dunque, il core è risorto? Oh sì. E raccoglie e accumula le nuove bellezze e le nuove impressioni con così precipitevole impeto ritmico, che pare voglia tutto in un sorso assaporare il suo godimento.

Qui è il tuono piú alto del sentimento, che va lentamente digradando. Comparisce il crudo fato, il tristo secolo, l’ignuda gloria, la bellezza vuota. In lui non ci è altro di risorto che il cuore, se pure... E in questo «se» vanisce il canto, quasi in un sospiro malinconico di una mezza soddisfazione. Qui tutto è vero, tutto è a posto. Forse c’è di troppo l’insistenza sulla vacuità della donna, dove sospetti qualche ricordo personale, che intorbida le proporzioni dell’armonia, chi sa! un momento di cattivo umore contro le fiorentine, al quale dà sfogo in una lettera, o il disprezzo di quella strega bolognese, di cui scrive a Papadopoli. È un «reliquato», come dicono i medici, nella vita nuova. E ci trovi insieme un presentimento dell’Aspasia.

In questo Risorgimento non solo l’asprezza, il latinismo, la solennità è liquefatta, ma anche il metro e il ritmo. Hai settenarii metastasiani, de’ quali il primo versetto sdrucciola nel secondo, richiamato dalla rima nel terzo, che va a declinare subitamente nel quarto, formando periodetti liquidi, veloci, e talora con ripigliate, di una movenza melodiosa. Le immagini sono vaghe, e le diresti note musicali, se nella loro generalità non fossero precise. E sono tutte attirate in un movimento ritmico, che, accompagnato dal gioco vario degli accenti, esprime le gradazioni del sentimento. Chi ha studiato bene il meccanismo de’ nostri versi, e soprattutto del nostro potentissimo settenario, in cui la posizione dell’accento quasi senza limite ti dà le più varie intonazioni, ammirerà gli effetti musicali che ha saputo cavarne il poeta, come nota della intensità e della velocità delle impressioni. Perciò questa si può chiamare la poesia del sentimento o del cuore.

Essa è il preludio musicale alle nuove poesie, alla sua terza maniera.

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