Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XXXV. «Il risorgimento» | XXXVII. «Silvia» | ► |
XXXVI
IL NUOVO LEOPARDI
In marzo 1829, scrivendo Leopardi a Colletta, pone tra i suoi castelli in aria, in primo luogo:
Storia di un’anima, romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche e queste sarebbero delle più ordinarie: ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle prime ricordanze fino alla morte.
Or questa Storia di un’anima non era altro che la storia della sua anima, le cui note fondamentali sono nel Risorgimento, dove con vivace profondità è rappresentata tutta la sua vita intima. Il mondo nella sua mente è già fissato, ridotto a domma, il cui catechismo è nel Risorgimento. Egli è giunto alla conclusione della infelicità universale ed irrimediabile, come ha dimostrato già ne’ suoi dialoghi. Ora non discute più, non dimostra, non lotta, non s’illude. Quel mondo, divenutogli chiaro e fisso come un assioma, è oramai il dato e l’antecedente di ogni sua concezione. E lo tratta come cosa sua, e lo situa e lo fa suonare, cavandone tutte le note che l’istrumento può dare.
Questo concetto del mondo non gli viene innanzi così improvviso che induca nel suo essere una mutazione violenta. Ci è giunto per gradazioni quasi insensibili, e, quando ci si è trovato in mezzo, gli è parso un fatto quasi naturale ed ordinario. Perciò non ci è alcuna proporzione tra un concetto così disperato e la sua vita divenuta per l’abitudine cosa tollerabile. Non è che i suoi mali fossero diminuiti; ma l’uso quotidiano ne aveva rintuzzato il sentimento. E non gli mancavano conforti preziosissimi, soprattutto quello dell’amicizia, che raddolcivano la sua ipocondria.
Molte donne gli furono amiche vere, come l’Adelaide Maestri, e la patriottica Antonietta, e la Lenzoni, e più tardi la Paolina Ranieri.
Anche di alcune letterate ebbe l’amicizia, come fu della Franceschi e della Malvezzi. Furono relazioni brevi, perché l’ultima volta che manda un saluto alla Franceschi, per mezzo del bravo Puccinotti, dice: «Se se ne cura», e di un lavoro della Malvezzi parla con compassione sprezzante: «Povera donna! lo avevo già letto». Pare che la nobile signora volesse fargli correggere il manoscritto, e che egli se ne schermisse.
Pure, non gli bastava l’amicizia, voleva l’amore, e facilmente s’illudeva e s’impaniava, facendo triste esperienza delle donne, e volgendo talora l’amore in disgusto. Così fu con la bolognese, intorno alla quale scherzava Papadopoli; né incontrò meglio in Firenze; anzi scrive a Giordani:
Questi viottoli che si chiamano strade, mi affogano; questo sudiciume universale mi ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe, mi fanno ira.
Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né d’altre cose simili; ma ho bisogno d’amore.
E ne ha bisogno tale, che talora con gli amici e con le amiche prende linguaggio d’amore, col Giordani, col fratello Carlo, con la Tommasini, con l’Adelaide. Questo non era artifizio ed abitudine di frase, come in Pietro Giordani, ma sfogo inconscio di un cuore vergine. E meritò di avere intorno a sé non solo ammiratori, ma amici veri e caldi, come il Giordani, il Pepoli, il Tommasini, il Brighenti, il Puccinotti, il Papadopoli, lo Stella, il Capponi, il Ranieri, il Colletta. Così s’era ito formando intorno al caro sventurato un ambiente morale, che gli ammolliva il carattere, e gli concedeva un’espansione socievole.
Non è a credere che questi amici fossero tutti concordi nelle opinioni; anzi Leopardi, in mezzo a loro, spesse volte si sentiva solo. Un vincolo letterario c’era. I suoi amici stimavano perfetto esemplare di lingua le sue Operette morali, trombettiere il Giordani; e non videro con piacere conferito il premio alla Storia d’America del Botta dagli Accademici della Crusca, i quali pregiarono più l’affettazione e l’esagerazione dell’uno, che la modesta naturalezza dell’altro.
Ma se lodavano assai le sue prose e poesie, soprattutto per l’odore di classicismo, o, come dicevano, per bontà di lingua e di stile, in tutto l’altro erano distantissimi dal loro amico. In quel tempo gli animi, piegati dalla reazione che successe al Ventuno, già s’andavano rialzando, massimamente in Toscana, dove parecchi esuli o emigrati illustri s’erano raccolti, militando attorno al Vieusseux co’ letterati nativi. Sotto a quel mite governo si rinfrancavano. E già l’Antologia avea presa molta voga: ove scrivevano i migliori, non senza qualche allusione politica. E Colletta scriveva le sue vendicatrici storie, e Niccolini le tragedie. Si formava una letteratura, la cui eco, trasmessa dalle sette, s’insinuava all’orecchio, penetrando nelle scuole e ne’ convegni in tutte le parti d’Italia. Il programma dell’azione immediata avea cesso il luogo al programma educativo, o evolutivo, come si direbbe oggi, e con questo intento Leopardi più giovine avea scritto le canzoni alla Paolina e al vincitore del pallone. I due programmi erano uno negli spiriti, sicché s’andava dall’uno all’altro, secondo l’occasione. Le menti si volgevano a nuovi studi, alle scienze storiche, all’economia, alla statistica, e cercavano miglioramenti civili, o, come si dice oggi, sociali, vietati i politici. In luogo di libertà si dicea civiltà e cultura: sotto altri nomi era la stessa musica; le più umili e le più audaci aspirazioni si comprendevano tutte sotto il nome di «progresso». Comparvero liberali e democratici anche tra’ cattolici, come il Tommaseo e il Manzoni. Pur allora erano usciti i Promessi sposi, e il successo era universale. La finezza italiana capiva e celebrava tutti, così il religioso Manzoni, come l’ateo Giordani, e così i moderati, come i settarii e i rivoluzionarii.
Or questo movimento degli spiriti non trovava più forza, capace di riceverlo, nell’anima stanca di Leopardi. Da questo lato si può dire veramente ch’egli era vissuto. Biasima un suo concittadino morto per l’indipendenza greca. Antonietta gli scrive una lettera con ardore patriottico, ed egli la loda augurando sentimenti simili alle donne italiane, ma con stile rimesso e ordinario; il cantore di Paolina non ci è più. A lui, ch’era giunto al concetto della infelicità universale, quelle economie e statistiche, quelle riforme civili, quelle teorie di progresso e di felicità dei popoli movevano il riso, e gli doveva far male quella sicumera, quella burbanza de’ più a sciorinar dottrine venute in moda. Ecco in che modo scrive da Firenze a Giordani nel 1828:
Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli Stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la felicità degl’individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini, né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente e certamente di tutte quelle discipline secchissime, le quali, anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità vera degli uomini, che sono individui e non popoli; ma quando poi gli ottengono questi loro fini? Amerò che me lo insegni un de’ nostri professori di scienze storiche.
Con questa disposizione d’animo e con queste opinioni, si può facilmente intendere che la corda patriottica non rendeva più suono, credendo egli così poco alla felicità dei popoli come a quella degl’individui.
La guerra greca, la Rivoluzione francese, i moti italici, i tedeschi nello Stato papale, sono cose quasi a lui indifferenti.
Essendo così scarsa comunione intellettuale tra lui e i suoi amici, si potea credere che non gli fosse molto cara quella compagnia. Pure lì era il suo conforto. Tornato di Pisa in Firenze, vi si sentiva «come in un deserto», quando gli mancava Vieusseux e la sua compagnia; l’amicizia copriva qualsiasi difformità di sentimenti. Già non potea dissimulare a sé stesso quanto di nobile era in quelle loro aspirazioni. Poi, per indole era tollerantissimo e dolcissimo; nelle conversazioni non aveva né pretensioni, né ostinazioni, e non puntigli e non dispetti, com’era del Tommaseo; s’accomodava col silenzio alle opinioni altrui, nemico di dispute e di brighe, e inetto a far proseliti, a far valere i suoi concetti. I sentimenti del Manzoni stavano a gran distanza dai suoi; pur sempre lo nomina con lode. Scrive al padre sempre misurato e accorto, e talora con linguaggio e sentire paterno, per non dispiacergli. Il padre trova ne’ dialoghi del figlio troppo abuso di miti e di forme velate; e il figlio risponde debolmente a difesa, quasi assentendo. Lo Stella gli comunica le critiche milanesi de’ suoi dialoghi, e lui risponde pacato:
Non mi riesce impreveduto. Che i miei princìpi sieno negativi, io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran meraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle, che in religione e in morale la ragione non può edificare, ma solo distruggere.
Così non venne mai meno l’amicizia tra quei nobili intelletti, dei quali alcuni volevano la fede riconciliata con la ragione, altri predicavano la ragione creatrice e madre del progresso, e guardavano con affettuosa sollecitudine al povero Leopardi, che affermava la negazione e il mistero universale. Dissentendo, s’amavano e si stimavano. Singolare fu l’amicizia verso di lui di due illustri medici, il Tommasini ed il Puccinotti, che dovevano ben ridere di quel mondo teologico-metafisico, che era il pensiero massonico e filosofico del secolo, e credevano più alla forza della materia, che della fede o della ragione. Leopardi aveva in molta reverenza il Tommasini, e si sentiva stretto verso il Puccinotti di un affetto uguale all’ammirazione.
Questo era quello stato tollerabile ed ordinario di vita, che egli chiama indifferenza filosofica. L’ambiente contrario in mezzo al quale viveva, quelli studi statistici, quelle teorie di progresso, quelle vanterie patriottiche, lo trovavano triste o ironico, con qualche sforzo mal riuscito di buon umore. Si deve a questo stato psicologico l’ispirazione dalla quale uscì la Palinodia. E forse in questo tempo concepiva e abbozzava i Paralipomeni, ai quali metteva mano più tardi. L’indifferenza era quella quietudine che nasce da uno stato di cose tenuto inevitabile, effetto dell’assuefazione e della prostrazione morale. È la sorte spesso dei vecchi, che lasciano correre le cose così come vanno, conservando in sé le antiche opinioni, senza colore e senza efficacia. E Leopardi in verità era invecchiato sotto il peso della sua tristezza. In quello stato di apatia morbosa, che egli chiama indifferenza, il suo intelletto rimane solitario e come ripiegato in sé in un ambiente non simpatico, anzi contrario.
Questa era la sua individualità e originalità, che lo rendeva singolare dalle genti. Il suo risorgimento non mutò il suo essere dirimpetto a questo mondo esteriore; ma gli dava la forza di allontanarlo da sé, come cosa estranea, e rimanere concentrato in quel solitario suo pensiero, che tornava a vivere innanzi alla sua immaginazione; ritornava l’antico «io» con quel suo cuore di una volta. Risorto dalla sua apatia, riacquistata la facoltà di immaginare e di amare, si sentì redivivo al cospetto del Fato e della Natura, con quell’amore dei campi, con quel bisogno di amare e di fantasticare, con quel dolore della speranza scomparsa e della giovinezza spenta, da cui erano usciti gl’Idillii. La società, in mezzo a cui era vissuto, non lasciava traccia nel suo spirito; gli era passata innanzi come ombra. Di vivo, di presente non c’era che lui co’ suoi ideali, e l’universo coi suoi misteri. Risorto era il poeta dell’Infinito e del Sogno e della Sera; nessun vestigio rimaneva più del poeta delle Canzoni. Tutto quel moto di erudizione e di patriottismo, che lo aveva tirato fuori di sé e gittatolo in mezzo all’Italia moderna e antica, in mezzo a’ Patriarchi e alle favole, in mezzo a’ Bruti ed alle Saffo, alle Virginie e ai Simonidi, non rende più una favilla. Giovine, avea creduto all’opinione volgare che il gran genere nella lirica fosse la canzone, e sperava, affaticandosi in quello, di perpetuare il suo nome. Ora sente che l’eccellenza non è del genere, e, lasciando lí canzoni, idillii, elegie, inni, chiama le sue poesie Canti, parola generica, che comprende tutti i generi, perché non ne comprende nessuno. Egli è vero che aveva in serbo per un’altra edizione «due nuove canzoni», e non furono più pubblicate, e debbono forse essere tra le carte da lui rifiutate. Finite sono le canzoni, e finite con esse le contraddizioni ed i tentennamenti nel pensiero, la crudità e la spessezza ne’ concetti, la solennità e sonorità nella frase, gl’involucri mitici e storici, il colorito locale, le varie apparenze di un mondo esteriore, un certo non so che di denso e nebuloso: tutte cose, che qua e là si notano nelle Canzoni. L’uomo ha gittato via una parte di sé, quasi mutilando sé stesso; ma condensando in quello che rimane, tutta la vita e tutta la luce. Abbiamo in questo mondo concentrato del dolore e del mistero situazioni nette e decise, spesso originali e interessanti, chiarezza e coesione nel pensiero, formazioni intere e diafane, semplicità e proprietà nel linguaggio, espansione ed emozione nello stile, nessun vestigio d’imitazioni, di costruzioni e di reminiscenze. Quell’umor denso di una malinconia nera e solida si era liquefatto in quella malinconia dolce, che sfugge le sventure reali e cerca asilo nell’immaginazione. Il mondo esterno non era stato mai per lui cosa solida; ora è cancellata ogni orma di questo o quel mondo storico, e anche della società contemporanea. Vive co’ suoi fantasmi e co’ suoi ideali, solitario; vive nella sua immaginazione forte e calda.
Leopardi ritrova così sé stesso, quale la natura lo aveva fatto e quale si era rivelato negli Idillii. Ritorna il pittore dell’anima sua, con un senso più spiccato di vivo e di moderno. La semplicità, la grazia, l’ingenuità, la dolcezza che si ammirano negl’Idillii, e che gli venivano non pur dalla sua natura, ma dal suo lungo uso degli scrittori greci, sono ora qualità spesso congiunte con un brio di espansione, con un calore, con una disinvoltura, che lo rivelano moderno. Il commercio de’ vivi, la dimora nelle principali città italiane non fu senza effetto. Soprattutto dové giovargli la «civilizzatissima» Firenze, alla quale egli contrappone Roma, così lontana dal mondo «civilizzato». Quel dolce parlar toscano, così vivace e nella sua semplicità così pieno di grazia, quella dimestichezza di conversazioni con gli uomini più celebri, quel suo affiatarsi con gli scrittori più recenti, come Goethe, Byron, Sismondi, Manzoni; fino quegli studi della Crestomazia poetica, che gli misero innanzi antologie di altri paesi, come quella del Brancia, non furono senza efficacia su di una anima delicata, aperta alle impressioni. Giovarono forse anche i lunghi colloquii col Manzoni, che dovettero stornarlo da quelle forme solenni e clamorose, le quali egli aveva ereditato dall’uso de’ latini, da Monti e da Foscolo. Tra i libri acquistati o donati in Firenze, de’ quali pensava arricchire la biblioteca patema, c’erano le opere del Manzoni, che egli promette in dono al fratello più piccolo. Ma, più che altro, dové giovargli la separazione della sua anima da tutti gli accidenti del mondo esterno e il suo ritiro assoluto in sé stesso. Terminata la Crestomazia poetica, prende commiato dallo Stella, ponendo fine a questi lavori di pazienza, ancoraché abbia innanzi ricchi materiali intatti, e mulini progetti, che egli medesimo chiama castelli in aria. Consegnando i suoi manoscritti al Sinner, aveva già lasciati per sempre gli studi e i libri, vietatigli dalla cattiva salute. Nella sua vita solitaria e monotona ci sono intervalli felicissimi, nei quali si rivela il poeta che fantastica sopra sé stesso, alzandosi all’universo, o fantastica sull’universo, con ritorni frequenti in sé stesso. La bellezza, l’amore, la rimembranza, l’uccello, il fiore, la lapide sepolcrale non l’interessano solo per sé, ma come motivo al perpetuo ritornello di sé e dell’universo; sono le variazioni di quella formidabile ripetizione.
Vita idillica, se mai ci fu, nobilitata dall’altezza del pensiero, dall’orgoglio dell’uomo nel dolore, dalla perfetta sincerità del sentire. Il concetto stesso dell’arte gli si era purificato. Quell’arte per sé stessa, quel puro gioco dell’immaginazione, quell’andar cercando forme e modelli, gli doveva parere una profanazione. Era salito a quel punto di perfezione, che la forma non ha più valore per sé, e non è che voce immediata di quel di dentro. L’uomo era venuto nella piena coscienza e nel pieno possesso di sé.
Si può credere che nota dominante di questo mondo psicologico chiuso in sé con frequente ritorno degli stessi pensieri e sentimenti, fondato sulla infelicità universale, sia tristezza e monotonia. Ma il poeta ha ricuperato il suo cuore e con esso la facoltà di immaginare e di sentire. Questo regno della morte e del nulla è pieno di luce e di calore. Il poeta dovea sentirsi felice in quei rari momenti che poteva cantare la sua infelicità; e felice tu lo senti nel brio e nella eloquenza della sua rappresentazione. Riempie di luce i sepolcri, inspira la vita nei morti, anima le rimembranze, ricrea l’amore, con un tripudio di gioventù. Niente è più triste e niente è più gioioso. È la tristezza della morte ed è la gioia dell’amore, fusi insieme in una sola persona poetica; come, non sai. Appartengono a questo tempo Silvia, le Ricordanze, la Quiete dopo la tempesta, il Sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, poesie nuove che comparvero, oltre il Risorgimento, nella edizione del Piatti in Firenze, e forse anche il Passero solitario e il Consalvo. Questi caratteri si mantengono anche nelle altre poesie pubblicate nell’edizione di Napoli, e tutti insieme costituiscono il «nuovo Leopardi».