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IL CONVEGNO
(La piccola Maria).
I.
Due o tre volte, durante il pranzo, Paolo, guardando gli occhi dolci e maliziosi della sua ospite mentre essa lo guardava, aveva avuto un subitaneo moto di stupore, immediatamente represso. Gli era parso di rivedere gli occhi di Maria nella loro perfida dolcezza e nella loro trionfale malizia. Ma la cortese signora ospite si rivolgeva agli altri suoi convitati e i suoi occhi mutavano di espressione, si facevano pensosi, o schiettamente ridenti, o serenamente indifferenti nella gentilezza esteriore: e Paolo rientrava in sè, fuggito il lieve e pure sorprendente inganno. Tre volte, egli ebbe la illusione che gli occhi di Maria gli fossero riapparsi: e alla terza volta, nel salone dove si conversava, dopo il pranzo, lo scintillìo di quello sguardo fu così teneramente dolce e così vividamente malizioso, che egli non resistette e attraversò la sala, per raggiungere l’amabile donna che l’ospitava, non sapendo bene quello che le avrebbe detto, nell’intimo turbamento che lo aveva invaso. Quando le fu vicino, tutto era finito: gli occhi della signora avevano assunto un’aria placida e lo sguardo aveva una limpidità dove l’anima mite della donna si rivelava. Nulla più: si era ingannato. Restò ancora qualche tempo, muto, lasciando discorrere gli altri, aspettando come una riapparizione. Ma non vi fu: si era perfettamente ingannato. Prese commiato, con quel suo fare rispettoso ma distratto, con quella attitudine di uomo che, assorbito da un’idea, non perde mai l’equilibrio della gentilezza. Un amico che andava via, anche lui, lo voleva condurre a teatro: si rifiutò di andarci. Si separarono sul portone, in piazza Vittoria. L’amico risalì per la via di Chiaia: Paolo se ne andò per via Caracciolo, camminando piano. Nel tempo in cui Maria lo amava, erano andati spesso, molto spesso, per quella strada che, nelle ombre della notte, è cara agli amanti poetici e appassionati. Si erano anche baciati, nell’intervallo di penombra fra un lampione e un altro: ella, non lasciando il suo braccio a cui si legava, incrociando le manine lunghette e magrette, levandosi in punta di piedi, poichè era molto piccola, per arrivare colle molli labbra un po’ pallidine, sino alle labbra di lui. Talvolta, mentre il doganiere si allontanava, sorvegliando la banchina contro i contrabbandieri, ma non contro gli amanti, Paolo si voltava, si chinava un po’ e lievemente baciava i capelli di Maria, nerissimi, così morbidi, così fini, così lucidi che sembravano bagnati. Per una consuetudine triste, ora che Maria non lo amava più, egli aveva preso la nota strada, fermandosi ogni tanto, con gli occhi chini a terra, ricordando ancora qualche episodio brevissimo, di un nonnulla, ma che nell’anima dell’amante abbandonato assumeva una grande importanza. Egli non guardava punto il mare: si rammentava che ella aveva avuto sempre una seria antipatia pel mare, di piccola persona paurosa e freddolosa, e che aveva finito per ispirargliela, a lui, uomo, forte e coraggioso. Maria era scomparsa: ma in lui era restato tutto quello che ella ci aveva voluto mettere.
Verso l’angolo del Chiatamone, egli ebbe uno schianto. Una coppia di amanti scendeva dalla più popolosa via di Santa Lucia e veniva verso le care ombre di via Caracciolo. Dovevano essere una sartina e uno studente: non si tenevano a braccetto, ma per mano, con le dita intrecciate, giovenilmente. Un po’ intimiditi dalla presenza di Paolo, essi si lasciarono, camminarono pian piano, come due passeggiatori quieti e freddi, discorrendo semplicemente: ed egli, guardando la donna, sotto la luce del lampione non vide che il pallore del suo volto e trasalì dolorosamente. Maria era pallidissima, come se mai una goccia di sangue fosse venuta ad animare quella carnagione: proprio esangue. Quante volte, nell’amore più alto di temperatura, nelle loro grandi giornate, egli si era sgomentato, così, di quel volto esangue che nessuna emozione di tenerezza, di entusiasmo, di languore coloriva, giammai! Il bacio più impetuoso rendeva più pallido il posto dove le labbra lo mettevano, sul viso esangue: e un morso vi poteva lasciare un livido, mai mettervi un rossore. Egli si voltò, mentre i due amanti allontanatisi ridevano fra loro: di lui, certo. Egli aveva sempre riso degli uomini che incontrava, in quelle sere, quando Maria lo amava.
Quell’incontro aveva dato un’acuzie di spasimo al suo sonnolento dolore. Così era, per lui, sempre, lo spettacolo dell’amore altrui, da che ella lo aveva lasciato, per sempre. Tutta la sua vita, dopo l’abbandono, dopo il periodo violento del furore e della ribellione, non era che un voler addormentare la sua segreta tortura. Vincerla non poteva, questa tortura, e nessuna persona, nessuna cosa lo avrebbe potuto: egli non poteva che toglierle l’asprezza, cullandola, tenendola chiusa in sè, preziosamente chiusa, e carezzandola, e dandole il beveraggio che fa sonnecchiare, che fa dormire, ma che non può togliere il senso e il sentimento. Colui che ha un dolore fisico, intollerabile, finisce per ricorrere alla morfina: egli sa bene che la morfina non è la morte del dolore: egli sa bene che il dolore rimane, quietato, ma esistente, ma vivo, ma pronto a trafiggere: pure, la morfina è il sonno molle dove la potenza del male si attutisce. Paolo sentiva, in fondo al suo spirito, dormire questo spasimo, e, già debole innanzi alle furibonde e mordenti sofferenze dell’abbandono, tentava di non risvegliarlo, che quando gli era impossibile di vincere sè stesso. Ma se, in una giornata, egli si procurava qualche ora di torpore spirituale, andando fra la gente, parlando, fumando, fingendo di vivere, fingendo di fare tutto quello che fa la gente che vive, bastava il più piccolo incidente, perchè il suo dolore uscisse vividamente dal sopore e gli schiantasse il cuore: bastava il più umile aspetto dell’amore, perchè egli sentisse tutta la crudezza della sua insanabile ferita. Quanto aveva cullato il suo tormento, lassù, in quel pranzo dove tutti sorridevano e ridevano, dove anche lui avea sorriso, sonnambulo della vita! Ma tre volte aveva visto lampeggiare gli occhi di Maria, o gli era parso, in quelli della padrona di casa: ma la passionale consuetudine lo aveva portato per via Caracciolo, dove si erano amati e dove si erano baciati: ma aveva incontrato due amanti felici ed essi avevano riso di lui, che era solo, ed egli era veramente così solo, come mai nessun uomo fu solo al mondo!
Adesso, in tutta la sua sensibilità risvegliata e fremente, mentre risaliva per Santa Lucia e per Toledo, andandosene alla sua casa, abbassava gli occhi, ogni volta che incontrava una donna, per non soffrire tanto della sua solitudine e del suo abbandono. E il rientrare a casa, ora che strideva in lui la sottile e permanente angoscia di un amore per sempre perduto e infinitamente desiderato, sempre, con tutti gli ardori dell’anima e dei sensi, gli fece spavento. Pensò, disperatamente, se non fosse meglio tentare di tradire sè stesso e il suo postumo amore, cercando una donna presso cui finire la serata, Chérie, la ridente Chérie. Ma gli tornò in mente tutto l’orrore del primo tradimento che egli aveva tentato, con Chérie, per cercar di guarire, per un giorno o per sempre, della sua inutile e inefficace passione per Maria che non lo amava più. Ricordò tutto il falso entusiasmo, tutta l’amarezza dei baci, tutta la profonda nausea dell’ora amorosa che gli pareva mai finisse, tutto il disgusto di sè stesso e la pietà per quella poveretta che sapeva così graziosamente ridere e donarsi, tutto il ribrezzo per la violazione che aveva commessa, non rispettando neppure, miserabile e vile uomo, l’altezza di un amore che può essere disprezzato, ma che resta inviolato e puro. Ah, come più seducente, più suggestiva, più affascinante, dopo il tradimento con la bionda e sempre ridente Chérie, gli apparve nella mente Maria piccola, dal volto lunghetto ed esangue, dagli occhi tutti dolcezza e tutti malizia, dalle labbra rosee ma pallide, dai capelli neri, fini, che formavano un mucchietto lucido, come bagnato: come essa lo riprese, subito dopo l’ora amorosa, più vivacemente, nei ricordi dei sensi, nei ricordi delle consuetudini, in modo da renderlo folle di desiderio, nella solitudine della sua stanza, donde Chérie, che nulla aveva compreso, era partita, portandosi via dei dolci e delle rose, tutta felice, ridendo con sè stessa, nelle scale! Come egli si pentì, bruciando di amore, di avere ridestato l’uomo in sè e come desiderò di ritornare alle dolorose e solitarie contemplazioni spirituali, dove, almeno, non soffriva anche nel sangue vivificato ed eccitato e non tendeva le braccia a una vana piccola ombra che gli sfuggiva! Tradire nuovamente? No, gli bastava il veleno della prima e inutile pruova: sentiva che non avrebbe neppure la forza di mentire, come disperatamente aveva fatto la prima volta, a Chérie. A che avvilirsi di nuovo? Il suo cuore e le sue fibre si sarebbero ribellati alla violazione, adesso. Il tempo che era trascorso, poteva rendere sonnolento il suo dolore: ma lo aveva reso inguaribile e inconsolabile. Tutto era inutile. Andò a casa.
Giunto colà, nella sua stanza da studio che era anche il suo salotto, egli fece accendere il fuoco nel caminetto dal suo servo che l’aspettava. Prese dei libri, dei giornali, delle riviste e le ammucchiò innanzi alla sedia a sdraio, dove leggeva, accanto al fuoco: si fece portare del tè, del cognac, delle sigarette: fece chiudere tutte le imposte ed abbassare tutte le tende. La stanza, così, era raccolta e calda e confortante. E, rimasto solo, in quel momento terribile quando, nella casa, nella stanza dove sempre si vive, dove sempre si pensa, dove tutto è segreto, poichè si è soli e niuno vede e niuno ascolta, in quel momento terribile in cui il cuore si apre, stanco della soffocazione impostagli dal mondo, egli tentò di non ascoltare il suo cuore, egli tentò di non sentire e di non pensare, forzandosi a operazioni macchinali, fumando, scorrendo dei fogli, preparandosi il tè, scegliendo la sigaretta più morbida, gittandone una, accendendone un’altra. Così, l’urto atroce del primo minuto fu respinto da lui: e il suo primo nemico, che era il suo dolore, tacque, per poco. Ma le sigarette, tre o quattro, caddero in cenere, sul portacenere di metallo cesellato: ma il tè si raffreddò nella tazzina giapponese: ma egli non distese più la mano alla fialetta di cristallo dal coperchio di argento, dove era il cognac: e i giornali, le riviste, i libri giacquero sparsi, ai suoi piedi, sul tappeto. Non potea nè leggere, nè fumare, nè ubbriacarsi di cognac, per più di mezz’ora, e non erano che le undici e mezzo e non aveva sonno. Sdraiato sulla lunga poltrona, abbandonato sui cuscini che aveva ammucchiato sotto le sue spalle e sotto la sua testa, egli si mise a guardare un orologetto di bronzo antico, delicatamente cesellato, posato sovra una mensoletta, presso a lui. Era un orologetto minuscolo, che egli aveva cercato di mettere in maggior evidenza, appoggiandolo sopra una piccola base di velluto azzurro cupo; e aveva, il picciolo orologio, di un bianco latteo, il quadrante e le ore segnate in caratteri azzurri. Era un dono di Maria: l’unico dono! Quando glielo aveva dato, ella lo amava; e aveva aggiunto, all’orologetto piccolo come ella era piccola, un pezzettino di carta su cui era scritto, col bizzarro caratterino che sembrava fatto di tante manine che si tenevano fra loro, queste parole: Siano azzurre tutte le tue ore! L’orologetto era sempre lì, con le brevi sferette che correvano sulle ore azzurre, ma l’augurio mancava. Paolo lo portava sempre, nel suo portafogli, questo pezzettino di carta e lo rileggeva, ogni tanto, nella giornata: ma un giorno, maliziosamente e dolcemente, quasi senza che egli se ne accorgesse e quasi senza che egli potesse opporvisi, Maria glielo aveva ripreso. Così, pian piano, Maria gli aveva ripreso tutte le sue lettere e i suoi biglietti; e due rosette appassite, che erano la più viva memoria del loro primo convegno; e un nastro scioltosele dai capelli, che egli aveva portato via e che avea baciato, tutte le notti, tornando a casa, e tutte le mattine, levandosi, come un bimbo, egli che aveva trentasette anni, come un devoto della Madonna, egli che non credeva. Non aveva più nulla, di lei: nulla. Crudelmente e ostinatamente, ella si era ripreso tutto: ed era, poi, andata via anche lei. E perchè, allora, gli aveva lasciato quell’orologetto che beffardamente segnava, con le sue sottili piccole sfere, le ore azzurre? Ella lo aveva dimenticato, forse: e le ore di Paolo non avevano più nessuna tinta, erano fatte di una immutabile ombra.
L’orologetto segnava le undici e mezzo. Egli si ricordava che nel tempo in cui Maria lo amava, quest’ora della sua serata passava sempre accanto a lei, non soli sempre, ma sempre insieme. Egli la cercava in qualche teatro, in qualche ritrovo, in qualche casa di comuni amici, e appena entrato nella sala, la vedeva, subito, senza averla neppure quasi guardata, la vedeva col suo visetto un po’ lungo, coi suoi denti minuti e bianchi, che il sorriso delle pallide labbra scovriva intieramente, con le gengive roseo-smorte, con quegli occhi castani dove si mescolavano così perfidamente e trionfalmente la malizia e la dolcezza, agitando la testina, mostrando il piccolo orecchio roseo-tenero sotto l’arco nero dei morbidi capelli che erano moltissimi e pure si chiudeano, per la finezza, in un pugno. Anch’ella aveva l’aria di non vederlo: ma lentamente, senza far mostra di nulla, Paolo e Maria si avvicinavano, scambiavano con semplicità, con disinvoltura qualche saluto. Poi, sedevano vicino. Egli taceva, spesso; ella parlava con lui, o con qualche altro, vivacemente. Egli ne udiva la voce, un po’ infantile, un po’ interrotta, talvolta, da improvvisi languori di creatura debole che si esalta e si accascia facilmente: e ne adorava la voce. Egli le guardava le mani fini, magrette, lunghette, con le unghie così lucide che parea scintillassero, con gli anelli gemmati che ella, nervosamente, passava da una mano all’altra, cambiandoli sempre di posto: ed egli adorava quelle mani. Ella gli parlava e rapidamente, un po’ sorridendo, un po’ lamentandosi, gli narrava una giornata di mali improvvisi e misteriosi, di svenimenti e di soffocazioni, ed egli, mentre la compativa con tutta la più tenera pietà dell’uomo sano e robusto, l’adorava per la sua debolezza. E in quest’ultima ora, egli attendeva una parola da lei, era il segreto della sua felicità che ella gli comunicava, con qualche parola: era il miraggio di un pomeriggio appassionato e delizioso che essa gli faceva balenare innanzi. In quell’ora ultima, essa gli dava il convegno pel giorno seguente, se era libera. Ogni volta la maliarda glielo diceva in un modo diverso: o attraverso una frase ingarbugliata, in cui appariva una cifra, così, stranamente, ed egli solo la intendeva: o sottovoce, in un soffio, che egli solo ascoltava: o salutandolo, mentre egli s’inchinava devotamente innanzi a lei: o con la massima disinvoltura, scherzando, tirandolo da parte, come se continuasse lo scherzo e dicendogli all’orecchio l’ora del convegno. Ah egli ne aveva di felicità, per tutta la notte, andando a casa, ripetendosi quell’ora e rivedendo l’adorata immagine che gliel’aveva data, come una magica promessa di bene!
Quasi mezzanotte. Il fuoco si covriva di cenere, nel caminetto; la stecca che sfogliava i libri era caduta dalle mani di Paolo, a terra; non un rumore saliva dalla deserta via di Costantinopoli, dove egli abitava; non un rumore nella sua stanza. L’ampio paralume concentrava la luce in un cerchio presso la gran poltrona dove egli giaceva sdraiato; e il resto della stanza era in penombra. Egli non vedeva più, fra le palpebre socchiuse, le sferette dell’orologetto, su cui ancora era fissato il suo sguardo; e tutto si era rallentato in lui, il pensiero e il sentimento, nel sonnambulismo di una indicibile, ma torpente amarezza. Era voltato sopra un fianco, con la faccia appoggiata ai cuscini di raso e le mani abbandonate lungo la persona. A un tratto, di lontano, gli parve che avessero aperta e richiusa la porta di casa. Chi poteva venire, a quell’ora? Nessuno. Era una fantasia. Ma poco dopo gli sembrò che si schiudesse chetamente la porta del suo salotto e che un piccolo piede camminasse alle sue spalle. Restò immobile, ascoltando, aspettando. E bene chiaramente, bene limpidamente, egli udì la voce di Maria al suo orecchio, dirgli questo, mentre vedeva, un po’ velata, un po’ imprecisa, la sua piccola figura, innanzi a lui, col viso esangue, con gli occhi brillanti di dolcezza e di malizia, piegarsi e dirgli questo e lui udire perfettamente queste parole, da una voce che egli distingueva fra tutte, dire questo:
— Domani, alle cinque.
Balzò dalla poltrona, come folle. Il lume urtato vacillò, fu per cadere: egli lo rèsse, gittò via il paralume, si guardò intorno, follemente. Non vi era nessuno. Eppure egli aveva visto Maria e udito le parole, dalla sua voce:
— Domani, alle cinque.
Chiamò il servo, suonando a lungo. Quello venne, sonnacchioso. Non era venuto nessuno? No, nessuno, proprio nessuno era entrato. No, no. Il servo uscì. Paolo rimase, in mezzo alla stanza, tremante di terrore e di gioia, poichè egli aveva inteso la voce di Maria, così precisa, così nitida, dirgli le parole del convegno:
— Domani, alle cinque.
II.
Tremante di terrore e di gioia! Tutta la notte egli sentì questa duplice convulsione partire dalla più intima essenza della sua anima e allargarsi nei suoi nervi e nel suo sangue: e fu pieno di sgomento ed ebbro di felicità. Egli non volle lasciare quella stanza dove aveva inteso, ancora una volta, quella cara voce seduttrice, dirgli le parole che sempre avevano sconvolto il suo essere e che adesso gli avevan dato l’indicibile tumulto interiore. Immoto nella persona e pure fremente, egli udiva ancora le sillabe precise che gli davano il convegno, che lo chiamavano alla consueta ora, quando già è declinato il giorno, nella casa dove li conduceva l’amore e che egli non aveva mai più riveduta, da che l’amore lo aveva abbandonato. Era la voce di Maria quella che gli aveva parlato, all’orecchio, bassa, ma netta e viva, battendo sulle lettere e sempre un po’ imperiosa, malgrado il velo della dolcezza. Tutta la notte egli stette cogli occhi fissi sulla porta della sua stanza, come se ella dovesse apparirvi, come l’aveva vista, alla mezzanotte, nelle fantastiche contemplazioni piene di tristezza e di desiderio: e stette con l’orecchio teso, coi nervi vibranti, come se ancora l’adorata voce dovesse ripetergli il giorno e l’ora dell’amoroso convegno. Talvolta, la sua ragione tentava di vincere questo tremore di paura e di piacere, per cui egli invocava la presenza e la voce dell’amata, dicendogli che egli era solo, che niuno entrava per andare da lui, che niuno parlava, e che la notte era alta e la stanza si faceva fredda; ma l’uomo giaceva sotto l’impressione indimenticabile di quell’avvertimento e di quell’invito, dove si riussumeva ogni suo desiderio, dove si chiudeva il segreto unico della sua vita. Nella notte gelida e nella solitudine, nel bizzarro giro dei suoi pensieri e dei suoi sogni, egli credeva francamente che la donna, che l’amata, fosse arrivata fino a lui, mirabilmente, misteriosamente, per dirgli che ella lo voleva l’indomani, alle cinque, in quella casa, come nel tempo che si amavano: e silenziosamente e quietamente era sparita, detta l’amorosa parola. Lo credeva, poichè le ore notturne nei loro singolari eccitamenti avevan vinto la sua fredda ragione: e non si domandava, nelle esaltazioni tenere e appassionate, come ella fosse giunta, come fosse partita: e vedeva solamente quell’ideal piccolo volto esangue piegarsi verso lui e dirgli all’orecchio, che il domani, alle cinque, l’amore lo chiamava, l’amore lo voleva.
Le bianche e tristi chiarità dell’alba diradarono la sua febbre e calmarono i suoi sgomenti: la sua ragione parlò: e dopo che ebbe detto le sue calme cose, non restò, a Paolo, che l’ebbrezza della felicità. Forse, Maria non era penetrata nel suo appartamento, in quella notte strana, ed era una visione della sua fantasia, l’averla vista accanto a sè, come nelle migliori sere della loro passione; forse, Maria non aveva pronunziata, con la sua voce, quella parola vicino al suo orecchio, ed era un inganno del suo udito, quel suono lusinghiero. Che importava, però, il fatto materiale? L’appello vi era stato, l’appello sentimentale di un’anima languente d’amore, l’appello lontano a cui la volontà ardente dell’amore da tanta forza, che l’altra anima lo sente, a traverso il tempo e a traverso lo spazio, come se la persona e la voce fossero presenti. Talvolta, nel felice tempo del loro amore, questo legame fra le loro anime e fra i loro sensi, li aveva colpiti coi più bizzarri fenomeni di contemporaneità spirituale: talvolta, l’uno aveva intuito il muto desiderio dell’altro, essendo lontano: talvolta, l’uno aveva obbedito alla volontà dell’altro, senza conoscerla. Il metallo delle loro anime, troppo spesso si fondeva insieme, nel rovente crogiuolo dell’amore, perchè i due metalli si dividessero, dopo, perfettamente. Si rammentava, Paolo! E come la mattinata di questo suo grande giorno si avanzava, egli riteneva sempre più fermamente che alla mezzanotte Maria aveva pensato a lui con improvvisa passione e che aveva vivamente invocato la sua presenza, per questo pomeriggio, alle cinque. Ah, ella doveva averle ripetute a sè stessa, nella nostalgia del bacio, le parole del convegno, le doveva aver dette con quell’impeto e quella imperiosità che dicevano l’ardore della piccola debole donna esangue, e l’amante lontano le aveva intese ripercuotersi nel suo spirito, nitidamente, come un invito e come un ordine!
E perchè non avrebbe ella inteso, a un tratto, la perfida e crudel donna, il rimpianto di un amore così schietto e così tenace? Non era ella stata di una brutalità feroce, quando aveva voluto morto l’amore, a qualunque costo, ostinandosi ciecamente nella sua ferocia, calpestando ogni senso di bontà e di gentilezza muliebre? Non aveva egli reagito, in tutte le forme, contro questa morte dell’amore, non aveva egli esaurito le sue violenze e le sue lacrime? Non aveva egli pregato alla porta di questa donna fragile e smorta, come un fanciullo lasciato nella via, al freddo, alla fame e al terrore, senza che la porta si aprisse mai più? Non aveva ella opposto la grande idea, l’idea semplice, l’idea liberatrice, a tutti i furori e a tutte le sue desolazioni, dicendogli: non ti amo più? Non aveva egli inteso, ahimè, con tutte le più dure e le più gelide intonazioni, questa idea semplice e definitiva e inappellabile: non ti amo più? Non aveva egli sentito che tutto periva, in lui, uomo, giovane ancora, sano, robusto, non corrotto; giacchè questa piccola donna capricciosa e malaticcia lo aveva scacciato da sè, per sempre? Non aveva egli voluto che tutto perisse, se veramente, nel tempo avvenire, questo amore non potesse mai più rivivere? Nei mesi che trascorrevano, non vincendo il suo dolore, ma addormentandolo, non era restato nel fondo di tutte le amarezze, nella feccia di tutti i calici, una speranza lieve e breve, ma viva, ma imperitura, che l’anima immortale di quella donna si ricordasse un giorno di quell’amore, e lo rimpiangesse, e lo desiderasse? Ebbene, ebbene, era accaduto il miracolo spirituale: il tragico capriccio era fuggito e la crudel donna aveva sentito intenerirsi quel suo piccolo cuore di pietra: ella aveva, forse, pianto su sè stessa e sul fedele cuore di uomo che ella aveva gittato via, nella strada: e a mezzanotte, in un momento di solitudine, Maria era stata presa dal soffocante desiderio di essere ancora amata e di amare ancora. Il fato si era compiuto: e Paolo non aveva sofferto invano.
Egli visse, dunque, in quel giorno del convegno, in preda alla letizia indicibile di un amore rinnovellato: e le ansietà e le trepidazioni del primissimo loro convegno, di cui egli si rammentava, non avevano il suggello di questa gioia suprema. Egli uscì tre volte di casa, camminò per le vie, parlò con la gente, assorbito e sorridente, col suo segreto che gli saliva alle labbra in parole di tenerezza e gli velava gli occhi con lacrime di gioia: e tre volte tornò a casa sua, tanto impaziente, tanto morente di amore e di felicità che, talvolta, pensò non avrebbe avuto forza di resistere all’apparizione di Maria, nella casa del loro amore. Era in questo momento che si concentravano tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sogni. Si sarebbe egli inginocchiato innanzi all’amata che ritornava a lui e le avrebbe baciato il lembo dell’abito? Avrebbe egli detto, all’amata, una parola di adorazione? Le avrebbe forse fatto qualche rimprovero per quel lungo anno di dolore e di solitudine, a cui Maria lo aveva condannato? No, no. Gli sarebbe, certo, mancata la voce, per dire nulla: gli sarebbero, certo, mancate le forze per prostrarsi e adorare. Non avrebbe fatto altro che aprire le braccia e chiudere sul suo petto affannoso e scoppiante pel palpito, la cara piccola persona, deciso a non lasciarla fuggire più, poichè ella era solamente il suo amore e la sua vita. Nulla dirle: poichè niuna parola potea compendiare quello che egli aveva sofferto e quanto era felice. Chiudere nelle sue salde braccia la diletta, null’altro: e tacere: e lasciare che scorressero le ore e il tempo, senza sapere di esso: e credere che il mondo fosse chiuso in quell’abbraccio. Quando egli si fermava, col pensiero, con la fantasia, su questo minuto profondo e intenso, egli abbassava il capo e impallidiva mortalmente. Queste emozioni, qualche volta, sono superiori alle forze umane.
Erano le tre e mezzo quando, lentamente, per calmare la sua esaltazione, Paolo si avviò alla casa del loro amore. Non era molto lontana, proprio nel centro della città e nel mezzo di una via popolosa. Allora, Maria aveva preferito che fosse così, ella che odiava la campagna quanto odiava il mare: e voleva aver l’aria disinvolta di una signora che passeggia, o che va a visitare una signora sua amica, mentre si recava al convegno di amore. Egli aveva obbedito, schiavo di tutte le volontà della delicata e pallida donna: e il loro nido era posto in un qualunque volgare ambiente, circondato, sopra e sotto, da volgare gente. Soltanto che Paolo vi aveva profuso internamente, non il lusso, ma la gentile poesia di un’anima presa e che non vive che per le feste dell’amore. Giammai le tende che velavano le finestre delle tre piccole stanze si levavano, per paura di farsi vedere, le pareti erano foderate di stoffe leggiadre e i tappeti non facevano udire il rumore dei passi. Ebbene, dal giorno in cui era stato abbandonato da Maria, Paolo non vi era mai più tornato. Ne portava sempre la chiave in tasca, devotamente: ma non osava neppure accostarsi al portone di quella casa, senza sentire il ribrezzo della paura e un cocente dolore togliergli ogni forza. Spesso, nelle sue crisi più terribili, egli aveva pensato di andare colà, di salire nel tempio, di lacerare i veli e le stoffe, d’infrangere le statuette e le porcellane, di spezzare ogni cosa e, devastato tutto, di richiudere per sempre quella porta e fuggire. Spesso, nelle sue ore desolate, egli aveva pensato di andare a piangere colà, solo, solo, solo, sperando che quel fiume di lacrime avrebbe deterso la torbida anima sua e l’avrebbe rinnovata. Ma non ne aveva avuto il coraggio, mai. La casa era chiusa da un anno. Anche Maria aveva una chiave. Ella, certo, non vi era tornata, mai. Ma vi sarebbe andata oggi, lo aveva avvertito, ed egli, vinto il terrore di ritornare colà, vi andava con l’ebbrezza dell’amante felice, le cui braccia già si stendono all’abbraccio, le cui labbra già si protendono al bacio.
Pure, innanzi al portone, ebbe un singolar trasalimento. La sua emozione era diventata acuta e il respiro gli mancava. Era quasi sera, già. Faceva freddo, ma egli affogava di fiamme che gli invadevano il sangue. Non intese mai come fosse salito, a quel terzo piano. Quando fu innanzi alla porta, vacillò. Il suo amore lo faceva agonizzare prima del tempo, dunque? E che sarebbe stato, fra un’ora, alle cinque, quando Maria, Maria sarebbe entrata da quella porta e gli sarebbe caduta nelle braccia? Vacillando, egli mise la chiave nella serratura; questa stentò ad aprirsi. Pensò, un istante che gli parve lunghissimo, eterno, che quella porta non si sarebbe aperta mai. Ma si schiuse: egli vide innanzi a sè il vano nero: e vi entrò: quasi, vi si precipitò: e la porta si richiuse, dietro a lui, con un bizzarro fragore.
Ah quando egli fu dentro, nell’oscurità, nel silenzio, e quando gli ebbe fatta un po’ di luce, con le mani tremanti che tentavano accendere la candela e quasi non vi riuscivano, quando gli ebbe dato uno sguardo intorno, egli richiuse gli occhi, per non vedere, e si lasciò cadere, sfinito, sopra un divano, nascondendo la faccia fra le mani. Fra un’ora ella doveva qui venire, la diletta. Ma come tutte le cose parlavano di lei, prima, sempre, parlavano alto, insieme, di lei, solo di lei, dell’amore, del solo amore, dell’unico amore, che era lei! Qui, sulla spalliera del divano dove egli appoggiava la testa, ella soleva appuntare gli spilloni del suo cappello, per ritrovarli subito, quando voleva scappar via: e ancora vi era un mezzo spillone, rotto, nella fretta di strapparlo. Ella sarebbe venuta, più tardi, cara, piccola, affascinante: ma ella era già là, in quella fotografia sul tavolino, nella brillante cornice d’argento che circondava la testina dai nerissimi, lucidi e fini capelli, che ne delineava il profilo sottile mostrando lo sguardo un po’ levato, dolcemente, maliziosamente e l’angolo di un sorrisino delicato, sulla delicata bocca. La fotografia non portava nome di dedica: ma ella vi aveva scritto il suo nome e la parola sempre. Lei, sempre, sì, sempre e sopratutto, ma specialmente qui, sull’ampio divano dove erano ancora ammucchiati i cuscini, come essa li aveva lasciati l’ultima volta: e uno portava la forma della sua testa, ancora, ancora! Ah egli non resistette a quella impronta del raso, dove la testina si era posata, egli si trascinò là innanzi e vi cadde in ginocchio e baciò lievemente quella impressione concava, temendo che un troppo rude bacio la distruggesse. Un singhiozzo di amore, di gioia e anche di sommo dolore gli sollevava e gli spezzava il petto. Qui, era la casa, era il nido, era il santuario, dove egli aveva vissuto il tempo più inebbriante della sua vita: qui, egli aveva raggiunto quel supremo limite dell’umana felicità, che pare voglia infrangere l’umana natura cui è dato arrivarvi: qui, solamente, egli aveva inteso che la esistenza non è un gretto e miserabile volger di giorni, ma che ha una sublime ragione di essere, quando l’amore la nobilita e la slancia nelle armonie infinite, dove l’anima trascina e purifica i sensi! Quante donne erano passate, nella sua vita? Tre, quattro forse; e anche egli le aveva amate, forse. Dove erano questi glaciali fantasmi? In quale tomba erano spariti? Qual nome portavano? Egli non se ne ricordava più. Già, le aveva dimenticate subito, come Maria gli era apparsa e piaciuta. E invece lei, lei, perfida e crudele, lei che egli non vedeva da un anno, lei che lo fuggiva, beffandosi di lui, era così trionfante, ancora, sempre, non nella memoria soltanto, non nelle testimonianze del passato solamente, ma nel presente, ma in quel minuto, che a lui bastava vedere l’angelo dal fine sorriso, sulla fotografia, per fremere di amore desideroso; e bastava di vedere la traccia della sua testina sul raso abbassato del cuscino per sussultare di passione, di voluttà e di un ignoto spasimo! Ah, egli lo sapeva che quella casa, che quell’ambiente gli avrebbero detto la grande verità, la verità unica, la verità innegabile, che egli viveva solo per l’amore di quella donna e che senza quell’amore egli non poteva vivere; lo sapeva bene ogni mobile, ogni stoffa, ogni piega del merletto, il profumo antico ma persistente di tutto quello che ella aveva toccato, gli avrebbero parlato di una seduzione unica, di un fascino unico, di una voluttà unica, di una passione unica! Perciò, nell’ora della desolazione e dell’abbandono, non aveva osato venirci: perciò vi era venuto solo per aspettarla.
Erano le cinque, l’ora del convegno. Egli balzò in piedi, tendendo l’orecchio. Nessun rumore. Passarono dei minuti; poi, varii minuti; poi, molti minuti. Ritto, immobile, in mezzo alla stanza, rigido di ansietà, egli aspettava. Nulla. Udì, una volta, un passo: ma nessun giro di serratura vi corrispose: e la sua persona s’irrigidì, di nuovo, in una intensità terribile di aspettativa. Nulla. Si mosse: andò sino alla porta, origliò, se per le scale alcuno salisse. Nulla. Andò presso alla finestra, sollevò una tenda, guardò nella via: i passanti erano rari, rarissime le donne, niuna si fermava. Talvolta, prima, tardava; anche oggi, dunque, poteva tardare. Cavò il suo orologio e si mise a seguire le sfere del minuti secondi col tichettìo che gli cresceva di fragore, nel cervello. Guardava, ma non vedeva: sentiva che il tempo passava, ecco tutto. Minuti secondi, minuti primi, ore? Tempo che passava. Adesso quel silenzio, intorno, lo terrorizzava; e uno strazio nasceva, germogliava, cresceva dal fondo del suo essere convulso. Nulla, intorno. La candela ardeva, con un battito leggiero e appena diradava le ombre. Le altre stanze erano oscurissime. Non le aveva visitate, preso e vinto dall’attesa. Ora, non levava gli occhi verso esse, come se racchiudessero paurose e terribilissime cose. Volle provare a parlare, per dar della vita a quella stanza oramai tetra e taciturna: ma la voce non gli uscì dalle labbra. Avrebbe voluto andare ad aprire la porta, così per farla entrare più presto: ma una misteriosa volontà lo inchiodava al suo posto. Quanto tempo? Lo ignorava. Aspettava il suo unico amore e la unica donna. Non conosceva altro. Ella doveva venire, poichè lo aveva detto e poichè lo aveva chiamato, alla mezzanotte del giorno prima, dandogli il convegno. Forse era in via; forse già arrivava; forse era quello il suo passo. Egli aspettava, la creatura, unica, la sola per cui egli vivesse, la sola per cui egli avesse del sangue nelle vene e un palpito nel cuore: Maria.
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Egli non si levò dal divano dove si era buttato, che udendo battere mezzanotte a una chiesa poco lontana, con suono cristallino. La candela era quasi consumata. Maria non era venuta. Freddamente si rammentò tutto quello che era accaduto, fra loro, nel passato, come se ne vedesse la rappresentazione in uno specchio: egli si guardò attorno, freddamente, trovando sopratutto quell’amore e quella donna riflessi e viventi e pur finiti, dapertutto. Poi, si ricordò quello che aveva visto e inteso la notte prima, il convegno datogli da una voce che pareva la sua, il convegno a cui era venuto, ineluttabilmente. E intese subito. In quella casa, gli aveva dato convegno la Morte.