Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | La veste di crespo (Madame Héliotrope) | Il convegno (La piccola Maria) | ► |
UN SUICIDIO
(Julian Sorel).
Egli saliva, lentamente, per via Nazionale, movendo i passi con fatica: e sul bel volto pallido, consumato, disfatto, vi era l’espressione di una mortale stanchezza. Andava con gli occhi bassi e le mani prosciolte lungo la persona, urtato, sospinto dalla gente che camminava in fretta ed egli pareva che nulla vedesse, nulla sentisse: solo, ogni tanto, squillava, passando, la cornetta del tram che ascende da piazza Venezia a Termini, e Julian Sorel sussultava a quel suono acuto, si voltava, si fermava e fissava coi suoi occhi smorti e dolorosamente stanchi il carrozzone, che traballava sulle ruotaie con un sordo fragore. Poi, Julian Sorel riprendeva la sua strada, sempre più lentamente, fermandosi a guardare le vetrine delle botteghe, i cui cristalli erano appannati dalla pesante umidità di quella mattinata di marzo: ma i suoi occhi avevano l’atonia, la stupefazione fredda di chi non vede. Pure, restò varii minuti dinnanzi a una mostra di giocattoli, guardando una fila di bambole dai capelli biondi come la stoppa, dagli occhi più azzurri di qualunque azzurro cielo, dalle guancie più rosee di qualunque rosa: bambole in camicia merlettata, o sontuosamente vestite di raso e di velluto, bambole impellicciate come grandi dame russe, bambole col loro corredo e con i loro mobili. Una nube di pianto venne a velare gli occhi aridi di Julian Sorel, innanzi a quella biondezza tutta ricca di stoffe, innanzi a quelle creature rosee cariche di adornamenti di lusso: ed egli dovette appoggiarsi allo stipite della bottega, per non cadere. Se ne staccò, più affranto di prima. Ma per quanto il suo passo fosse quello di chi non ha forza di raggiungere la meta o teme di raggiungerla, egli giunse all’angolo di via Torino, dove doveva voltare: si fermò, restò immobile, quasi incapace di giungere fino al bigio villino, che già si vedeva, fra la sottile fascia di verdi alberi che lo circondavano. Adesso, una espressione di spavento si era unita, sulla sua faccia, alla profonda stanchezza che ne trapelava: il grazioso villino sorgente fra i rami che cominciavano a fiorire, gli faceva paura. Fu in preda a mille esitazioni che egli attraversò quel breve spazio di strada; la sua mano, pigiando il bottone bianco del campanello elettrico, tremava. Un cameriere, ancora in giacchetta da mattina e con un grembiule di cotonina azzurra davanti, gli venne ad aprire:
— La signora dorme ancora? — chiese Julian Sorel, con una debole voce infranta, sperando tristemente di avere una risposta affermativa.
— No, Eccellenza: ha già chiamato da un’ora.
Gli aveva dato, è vero, dell’eccellenza, quel cameriere, ma lo aveva guardato con tanta freddezza disinvolta, si era avviato innanzi con tanta indifferenza, senza guardare neppure se Julian Sorel lo seguisse, che costui fremette di dolore, cogliendo subito con la sua sensibilità malata quella sfumatura di disprezzo, in quel servo. Julian Sorel aveva attraversato una grande anticamera e due salotti, ammobiliati col lusso più autentico, più austero, e più artistico e si era fermato nel hall, nel salone-serra, tutto coperto a cristalli e velato da sottili ma impenetrabili tende di garza orientale, tutto pieno delle piante più rare e dei mobili più ricchi e più bizzarri, distese sul pavimento le più morbide pelli e sorgenti da ogni vaso di rara porcellana di Delft o di Cina i fiori più esotici. L’aria vi era riscaldata, tiepida: e un assai strano e inebriante profumo era in quell’aria. Seduto in una poltrona di bambù, con i gomiti appuntati sulle ginocchia e il mento appoggiato alle mani, egli si abbandonava, direi, a tutto il suo accasciamento, senza levare il capo, senz’udire neppure il lievissimo passo di Gwendaline Harris; e la bionda e snella donna gli era avanti, lo fissava coi suoi freddi e brillanti occhi azzurri, più azzurri di qualunque cielo, passando le dita rosee e sottili nella piuma bianca volitante onde era guarnita la sua vestaglia di lana bianca, tutta ricamata di argento come una stola.
— Dunque? — chiese la voce fresca e nitida della donna.
— Oh Gwendaline.... — egli mormorò diventando più pallido ancora, non reggendo a sostenere lo sguardo di quei glaciali occhi azzurri.
Ella si sdraiò, tutta bianca, in un divano di riposo bianco, coperto di cuscini di seta bianca così molli che vi affondò. Si vedevano i due piedini calzati di pianelle di velluto bianco con l’orlo di piuma e di calze sottilissime di seta nera, sottilmente ricamate di argento. La massa dei capelli biondi era sostenuta da un gran pettine, tutto seminato di minute perle, e due grosse perle bianchissime le pendeano dalle orecchie. Ella giuocava coi fili delle piume, pian piano, come un uccellino che liscia le sue piume. Il roseo della sua candidissima pelle era più veramente roseo di qualunque rosa.
— Dunque? — domandò, di nuovo, a Julian Sorel.
Costui non osò ancora rispondere, e la guardò con gli occhi preganti. Gwendaline crollò un poco la testa biondissima e si mise a giuocare coi suoi fulgidi anelli, che le coprivano le dita sino alla prima falange, sino all’indice, come a un idolo di Egitto.
— L’affare è andato a male? — chiese poi Gwendaline con la pura voce cristallina.
— A male, — egli rispose fievolmente.
— Per sempre?
— Per sempre, — egli ripetette come un’eco fatale.
Nessuna impressione di meraviglia, di tristezza, di pietà venne a turbare quel roseo volto di donna, quella nitida e serena fronte, quei gelidi occhi di cielo.
— Tu sei un uomo morto, — ella dichiarò, freddamente.
— Già, — disse Julian Sorel, terreo nel volto come un cadavere.
— Che sei venuto a fare, qui? Questo non è un cimitero e nessuno dei miei cofani antichi può servirti da bara, — disse Gwendaline, senza collera, alitando sopra un suo anello di opale per farlo ridiventare lucido.
— Ero venuto a salutarvi per l’ultima volta.
— E ieri sera, non ti avevo detto addio? Non lo hai capito?
— Non lo avevo capito: e avevo la speranza del banchiere Colzado, stamane.... — egli mormorò, umilmente.
— Speranza inutile: ai morti nessuno dà denaro.
— Hai ragione, — sentenziò lui, a bassa voce, a capo chino.
Ella lo sogguardò stranamente. Pareva che misurasse la morale profondità di quell’abbattimento e che volesse sapere di che fosse capace quella immensa debolezza. Egli taceva, perduto, esausto.
— A che cifra ascendono i tuoi debiti? — ella domandò, a un tratto, con la voce fredda e limpida.
Julian Sorel alzò la testa e guardò Gwendaline, trasognato: quasi non avesse udito, o non avesse inteso.
— A che cifra ascendono i tuoi, debiti? — ella replicò, dominandolo coi suoi azzurri occhi glaciali.
— Non lo so.... non so.... non me ne parlare, — egli pregò fremendo, passandosi una mano sulla fronte.
— Tu devi duecentosettantamila lire, ho fatto io il conto.
Parve che le sillabe di questa dura frase battessero tutte sul cervello dell’infelice, perchè il suo volto si decompose.
— E non hai un soldo per pagare; e non hai più nessuna risorsa, le hai esaurite tutte; e non hai nessuna speranza di eredità, perchè ti sono morti tutti i parenti, nessuna speranza nel tuo lavoro, perchè non sai lavorare, sei stato un uomo dato all’amore e al piacere, nessuna speranza di affare, di speculazione perchè fra un mese, fra una settimana, tu sarai un fallito, un truffatore.
— Gwendaline, se mi vuoi bene, taci, taci....
— Io non ti voglio bene, — ella proclamò, ma quietamente.
— Se me ne hai voluto, taci, non mi uccidere tu....
— Io non ti ho mai voluto bene, — ella insistette a negare, serrando fieramente le belle labbra rosse e fresche.
Julian Sorel la guardò, con tale una novella disperazione negli occhi che la superba donna sorrise di orgoglio.
— Qualche volta.... mi hai detto che mi volevi bene.... — egli balbettò.
— Ho mentito, naturalmente, — spiegò ella, — e tu sapevi bene che mentivo. Ti faceva piacere che io mentissi, ecco tutto.
— Sì, è vero, la tua bugia era la mia più grande felicità.
— ...... e così, — ella concluse, — tu hai speso tutto quello che possedevi e tu hai fatto duecentosettantamila lire di debiti per pagare questa bugia. Per questa bugia sei alla morte.
— Alla morte, — ribattè lui, aprendo le braccia, col gesto dell’ultima desolazione.
— Era una dolce e bella bugia, diciamolo, — riprese Gwendaline, incrociando i suoi piedini leggiadri, calzati finemente, delicatamente di nero e di bianco, — e vale la pena di morire per essa. Non sperare che i tuoi creditori ti lascino tregua! Tu devi fra cinquanta e sessantamila lire di denaro, a Giacomo Levi, a Francesco Sangiorgio, a Giovanni Lamarca, tuoi amici, che ti sei inimicati per sempre e che ti perseguitano assai peggio dei due strozzini, Pietro Toscano e Angelo Cabib a cui devi meno, molto meno, ma gli interessi sono saliti così in alto! Tu devi, poi, ai fornitori di Parigi, a Worth, a Morin, a Redfern, tutti vestiti che sono serviti per me e ti han fatto credito, perchè avevi speso da loro la metà della tua fortuna: devi ai sarti italiani, a Bellom, a Pontecorvo, alle sorelle Borla, alla Tua; devi a tutti i negozi di gioielleria, a Marchesini qui, a Franconeri di Napoli; e devi a tutti i negozianti di mobili e di ninnoli eleganti, a Janetti, a Cagiati, a Maria Beretta, devi anche a Guglianetti di Milano; tutti costoro ti han fatto credito, perchè avevi tanto e tanto comperato, prima, da loro! Ma vogliono il loro denaro, e hanno ragione; perchè lo dovrebbero perdere?... Sono della brava gente!
— Gwendaline, Gwendaline, non essere senza carità, taci, taci, io muoio.... — gridò lui, con gli occhi stravolti dal dolore acutissimo.
— Sai quale è il bilancio della bella e dolce bugia? — continuò ella, come se non lo avesse udito. — Un milione e ottocentomila lire. Tu, m’immagino, non hai neanche il denaro per comperare una rivoltella....
— Non l’ho, — egli gemette, dal suo abisso di dolore.
— Un milione e ottocentomila lire: e dover anche ricorrere a un suicidio economico, a un suicidio poveretto, a quello degli straccioni, delle serve tradite, al fiume, al Tevere! — mormorò ella, con un vago sorriso, come se parlasse a sè stessa.
Egli levò i suoi occhi dolorosamente stupefatti, su lei. E Gwendaline comprese il senso di quella stupefazione.
— Tu, adesso, dici fra te stesso, che io sono un mostro di crudeltà....
— Non dico nulla.... — balbettò la debolissima creatura.
— Lo dici. Hai torto. Facciamo il nostro bilancio, poichè non dobbiamo vederci più. Tu, che hai voluto da me?
— Che mi volessi bene, che io potessi essere il tuo amante, il tuo amico, il tuo servo....
— E io che ti ho chiesto?
— Niente.
— E tu mi hai dato tutto, per farti amare o perchè io fingessi di amarti. Ecco il bilancio. Ora io, per farti vedere che non sono crudele, non posso darti che un solo savio consiglio: ucciditi. Avevi una fortuna, non l’hai più; avevi un’amante, non l’hai più; avevi un onore, esso è naufragato: sei un’anima fine e molle, un temperamento sensibile e debole, un cuore tenero e sentimentale e hai, insieme, un bisogno di godere, di esser felice, che è il tuo maggior bisogno; non puoi, dunque, combattere contro la miseria, contro l’abbandono, contro il disonore. Ucciditi, ucciditi, non ti puoi salvare diversamente. A che vivresti? Chi si uccide, paga i suoi debiti: chi si uccide, non ha più bisogno nè di onore, nè di amore, nè di denaro: chi si uccide, conquista la pace suprema. Non hai più nulla da fare, nel mondo; vattene via, nella fossa comune, ivi non sono creditori, nè appariscono più i divini e dannati occhi azzurri che furono la causa della tua morte.
Lampeggiarono, gli azzurri occhi, a queste ultime parole. Julian Sorel li guardava e ne beveva il veleno di morte, Julian Sorel udiva la chiara e ferale voce e ne sentiva, al cuore, le mortali, le lugubri vibrazioni.
— Sono due mesi che ho deciso di uccidermi, quando non vi fosse più rimedio, — egli disse, fiocamente.
— Hai aspettato troppo: va, va a buttarti nel Tevere, — diss’ella, guardandolo, ipnotizzandolo, dandogli la suggestione dell’amore, del dolore, del terrore.
— Vado, — disse Julian Sorel e si levò.
Ma non fece un passo. Ella lo guardò ancora, per vincerlo intieramente nella sua infinita debolezza.
— Va, va, sarai più felice, morto, — gli disse ancora, Gwendaline.
— Dammi un bacio, — chiese egli, umilmente, inginocchiandosi innanzi al divano dove ella giaceva sdraiata, per non darle il fastidio di levarsi.
Ella si voltò leggiermente, all’uomo inginocchiato: gli prese la testa fra le mani sottili e ingemmate e gli posò le belle e fresche labbra, sulla fronte. E a lui parve che, ancora, in quel lungo bacio, le labbra di Gwendaline gli avessero detto:
— Va, va, sarai più felice, morto.
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Scendendo, per via Nazionale, Julian Sorel andava alla morte. Non trascinava più a stento le sue gambe stanche, ma non correva neppure; non si fermava più, a certe vetrine, ma gli occhi che fissava sui viandanti, avevano la stessa dolente espressione di chi non vede; non trasaliva più, quando squillava la cornetta del tram, ma il pallore del suo volto era diventato livido. L’uomo agonizzante aveva ricevuto la estrema ferita: ma gli era anche stata indicata una via ed egli vi andava, senz’affrettarsi, ma fatalmente, alla luce azzurrina e glaciale di due occhi divini che lo conducevano, al suono funebre di una cristallina voce muliebre che lo accompagnava, alla carezza di due mani sottili sulle tempie e nei capelli, all’ultimo bacio dalle labbra parlanti, ultimo bacio e ultime parole, penetrate nel cervello, nell’anima, nel cuore, in tutto l’essere. Adesso, camminando, Julian Sorel pensava soltanto in quale punto del gran Tevere egli si dovesse andare a buttare: Gwendaline Harris non glielo aveva detto. Non a Ripetta, poichè il ponte è troppo frequentato di giorno e vi sono le imbarcazioni dei canottieri e il suicidio vi fa fiasco quasi sempre: non all’Albero Bello, perchè un posto prediletto alla morte e vi è una barca di salvataggio; non a Ripa, perchè vi sono troppe tartane cariche di vino di Sicilia; dove, dunque? Si rammentò una sera di agosto, in cui, di passaggio per Roma con Gwendaline Harris, venendo da Vienna e andando a Sorrento, erano andati a Ponte Molle, borghesemente, come tutti coloro che sono costretti a restare in Roma nell’estate: e avevan passeggiato, su e giù, lungo il fiume, verso i vasti prati di Tor di Quinto, verso la ombrosa via Angelica: Gwendaline era vestita di molle seta bianca, come sempre di bianco, e aveva un gran mantello leggiero di lana bianca: sì, sì, egli sarebbe morto a Ponte Molle, verso Tor di Quinto o per la riva di via Angelica, era ancora lei che gli suggeriva questa idea. Era a piazza Venezia, quando si decise. E prese per il Corso, sulla diritta. Qualcuno lo salutò, egli non riconobbe chi fosse e passò innanzi: varii lo fermarono, eran creditori di piccole, di grandi somme e la domanda variava, ora brutale, ora piagnolosa, ma insistente, ma implacabile, lo avean saputo ricco e gli avean fatto credito, e credevan che avesse denaro ancora, credean che si negasse per mala volontà. Tutta la traversata del Corso fu una lunga tortura, per lui fu il tormento immeritato, ingiusto, poichè, infine, egli andava a morire, di questo passo, fra un concerto di voci, di parole, di frasi che gli dicevan, tutte, cercandogli i denari:
— Va, va a buttarti nel fiume: sarai più felice, morto.
Tanto che giunto verso piazza del Popolo, fu preso, nella mitezza sentimentale della sua debole natura, da un furore di morte. Andò contro un pesante omnibus di albergo che correva, per farsi arrotare: ma il cocchiere lo schivò bestemmiando, gridando. A quell’ora, in quella giornata umida e triste di marzo, fuori porta del Popolo non vi era quasi nessuno: e quella crescente solitudine lo calmò un poco, mentre si metteva per il fangoso marciapiede che per la via Flaminia, lungo i colli Parioli, porta a Ponte Molle. Nessuno nel piccolo caffè dove si fermano i cocchieri da nolo e i carrettieri; nessuno, nelle piccole osterie che pullulano ogni cinque passi, sino alla metà di via Flaminia; nessuno, pei campi deserti, tutto un deserto di mota, dove cresce a stento qualche alberetto nerastro. Egli pensò, se avesse dovuto scriver qualche cosa prima di morire, una spiegazione, un saluto: e un novello fiotto di disperazione lo soffocò, non aveva nessuno, nessuno cui scrivere, nè un parente, nè un amico, nè una conoscenza, non lo avrebbero rimpianto e maledetto che i suoi creditori: aveva vissuto come un gaudente, solo per l’amore, pel lusso, pel piacere, e moriva così, per queste cose, portando nell’anima come ultimo addio le parole di Gwendaline Harris per cui aveva speso un milione e ottocentomila lire, le parole con cui gli diceva di uccidersi, perchè sarebbe stato più felice, morto. Nessuno, nessuno, non la madre, non una sorella, non una fidanzata, non un amico, niente, niente, non una lacrima umana, su lui: e l’estrema scena della sua vita nella gran solitudine, nel gran silenzio della campagna romana, in quel tristissimo giorno di marzo, camminando e affondando nel fango, era il degno compimento della sua esistenza.
A un tratto, sentì un urto contro una gamba: si voltò. Gli veniva dietro un cane e lo guardava. Era un bruttissimo, sporchissimo e magro cane, che pareva avesse addosso dieci giorni di vagabondaggio e di fame, pel fango della campagna; un cane che faceva schifo. Donde era sbucato? Julian Sorel non avrebbe potuto dirlo. Non vi erano più case, sulla via Flaminia: forse era sbucato, inopinatamente, dalla viottola dell’Arco Scuro che porta alla piana dell’acqua Acetosa. Gli veniva dietro, forse, da qualche tempo: e guardava Julian Sorel, coi suoi buoni e dolci occhi di cane.
— Passa via, — gli disse costui sgarbatamente.
Il lurido cane si fermò un minuto: poi, ricominciò a seguire Julian Sorel.
— Passa via, — e gli diede un calcio.
Il povero cane prese il calcio in una spalla e guaì dolorosamente: ma sempre guardando Julian Sorel, lo seguì ancora. Quello si fermò, turbato assai. Perchè lo seguiva, quel cane, così ostinatamente, anche dopo essere stato battuto? Perchè lo guardava con quegli occhi che parevano umani, tanto esprimevano la pietà e il dolore?
— Sarà un cane perduto e affamato e cerca un padrone, — egli pensò, mentre stava fermo a contemplare quella bestia singolare.
Anche il cane si era fermato: e teneva il capo basso aspettando.
— Va via, va via, — gli disse Julian Sorel, — io ho da morire.
La bestia levò il capo e guardò, con quegli occhi di animale caritatevole, povero e dolente. Tutta l’anima di Julian Sorel tremò, di sgomento, di stupore. Ma chi, chi lo guardava, in quel tenero sguardo animalesco, quale novella ossessione di pietà veniva a dargli un ultimo dolore, un dolore fatto di tenerezza umile, di struggimento amarissimo e dolcissimo?
— Ho da morire, ho da morire, — egli disse, parlando a quella bestia come a un uomo, — sarò più felice morto.
E si avviò, di nuovo, verso Ponte Molle, reprimendo tutte le lagrime di una ignota tristezza che gli salivano agli occhi, reprimendo l’acutezza di un misterioso rimpianto. Il cane lo seguiva, passo passo: e Julian Sorel lo udiva, dietro a sè, camminare fedelmente, sudicio fino alla nausea, brutto fino al disgusto, mezzo morto dalla fame e dalla fatica, ma deciso a seguirlo, fin dove voleva andare l’uomo che andava alla morte. In preda a un invincibile turbamento, fra una bizzarra novella disperazione e fra un bizzarro disfacimento di tutta la sua volontà, Julian Sorel fremeva, udendo quel passo di animale, vigile, quasi inflessibile nella sua affettuosa persecuzione: avrebbe voluto fermarsi, batterlo, buttargli delle pietre, ucciderlo a calci nel ventre, ma l’idea di affrontare quei teneri occhi canini così impregnati di umana pietà, lo spauriva. Ah certo, certo, qualcuno lo guardava per quegli occhi! Non osava fissarli, quegli occhi di animale quasi che essi gli parlassero di tutte le bontà umane che egli aveva disdegnate, di tutte le sofferenze umane che egli aveva disprezzate, di tutte le umane lacrime che per lui erano scorse invano: non osava fissarli, quasi che vi si trovasse, in essi, il rimprovero ignoto, mistico e austero che fa la Vita a chi non seppe conoscerla e non seppe, quindi, meritarla. Chi lo guardava, per quegli occhi così profondi di compassione, chi piangeva ancora, su lui, sulla esistenza di bruto capriccioso e gaudente che egli aveva vissuta, chi piangeva su quella nobile anima trascinata nella vergogna da un amore impuro? Ah quella bestia non se ne voleva andare, lo seguiva, lo seguiva sino al suo ultimo passo, nessuna forza umana avrebbe potuto liberarlo da quella compagnia.
— Venga, dunque, a vedermi morire, — egli pensò.
Ma a Ponte Molle incontrarono tre carretti di pozzolana che venivano lentamente verso Roma, al fischio malinconico dei burberi carrettieri: e verso Tor di Quinto parve a Julian Sorel che il paesaggio fosse troppo largo, troppo aperto per uccidersi, buttandosi nel fiume. Meglio la grande e sinuosa via di porta Angelica, che costeggia, sotto i grandi alberi, il vasto fiume giallo pieno di gorghi e i prati alla Farnesina.
Sarebbe disceso sulla proda e tacitamente, cadendo più che buttandosi, senza nessun rumore, sarebbe morto nel profondo e truce fiume. Ma il cane era dietro a lui, lambendogli le gambe, ma il cane avrebbe latrato vedendolo cadere nel fiume, ma il cane si sarebbe forse buttato nel fiume per salvarlo, ma il cane non voleva che egli morisse, ecco l’idea terribile sorta nello sconvolto cervello di Julian Sorel. Ed allora, quasi che quello sconosciuto animale fosse un uomo, quasi che egli potesse intendere, tutto, Julian Sorel, nella via deserta e fangosa, sotto i grandi alberi neri e nudi, innanzi a vasto e giallo fiume, gli gridò, desolatamente:
— Io debbo morire, io debbo morire, ho duecentosettantamila lire di debiti e non posso pagare, debbo morire, lasciami morire....
La povera bestia, sordida e laida, guardava Julian Sorel, cogli occhi spiranti pietà, come velati dalle lacrime: non una voce, non un passo per la campagna ampia e fumante umidità dal fango dei campi: non una voce, non una barca, sul largo fiume dai gorghi esiziali: soli, quell’uomo e quel cane. Quello sguardo! Non diceva forse, a Julian Sorel, quell’umile sguardo d’animale che la morte non salva dal disonore, che è più onesto vivere scontando la pena del grande errore anzi che rifugiarsi nella tomba? Chi, chi, glielo diceva, in quegli occhi e nella sua coscienza? Tutti i suoi che erano morti, alla loro ora, quietamente, toccati dal destino, ma onorati, ma ridenti di esser rimpianti, glielo dicevano, forse, in quegli occhi: tutti quelli che lo avevano amato e che erano lontani, e che non potevano salvarlo, adesso: tutti coloro che egli aveva amato, nell’infanzia, nella giovinezza, dieci anni, un giorno, un’ora, costoro, forse, o le loro ombre amate, o le loro lontanissime tenere voci o i loro occhi buoni che lo volevan salvare, o le loro mani carezzevoli che lo volevan trattenere: costoro, in quello sguardo! Vinto da una immensa debolezza, Julian Sorel si lasciò andare sulla proda arenosa del fiume, nascondendo la faccia nella umida arena, con le braccia aperte, singultando lievemente, ogni tanto, ma senza piangere. Il cane si era seduto accanto a lui, aveva posato il muso infangato sulle sporche e scarne zampe: e per tutto quel tempo in cui Julian Sorel giacque, lungo disteso, nella fatalità della Vita e della Morte che si combattevano la loro preda, la povera bestia non si mosse, tenendo fissi i suoi occhi sull’uomo che spasimava. Spasimava la debolissima creatura che aveva sempre vissuto pel sorriso del minuto, senza volontà, senza fede, senza bontà: spasimava, l’anima fiacca, l’anima vinta, l’anima immeschinita dalle piccole idee e dagli impuri desiderii: spasimava la creatura che aveva gittato via la parte nobile di sè, e che temeva il castigo, e che voleva fuggire il castigo: spasimava! Correvano le acque torbide del fiume micidiale che avean portato alla deriva tanti cadaveri; taceva la feral campagna romana immobile sotto l’umido fiato maligno del marzo; cadeva il giorno. Il cane, pian piano, lambì la mano aperta di Julian Sorel: quella carezza indistinta fu come un soffio, come una voce, come una parola, fu come l’apparizione di un fantasma. Il corpo dell’uomo disteso ebbe un gran sussulto, e il cuore, veramente, gli si franse nella tenerezza, nel pentimento, nella pietà, nel desiderio dell’umano e del divino castigo. Poi, nel crepuscolo gelido, tornò verso Roma, lentamente: fra la via Angelica e la via Trionfale, il cane disparve, nell’ombra, e Julian Sorel continuò la sua strada verso Roma, verso il castigo.