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L'IMPERFETTO AMANTE
(Giustino Morelli).
Anna così racconta:
Per lungo tempo, l’amore che mi portava Giustino Morelli fu la mia segreta consolazione e il mio segreto orgoglio. Io era una donna assolutamente infelice, con mio marito: una di quelle infelicità coniugali intime e inesauribili che assumono le più tormentose e quotidiane forme, che mettono al cimento la maggior pazienza femminile e che sconvolgono nell’anima più ferma ogni idea di giustizia. Mio marito non mi era soltanto infedele, era volgarmente infedele; la scortesia verso me, talvolta, non gli bastava, egli aveva bisogno di esser villano; il suo disprezzo di ogni delicatezza giungeva alla brutalità: e tutto questo con tale una sicurezza oltraggiosa, con tale una severità tirannica, con tale preconcetto di avvilirmi, che io mi domandava spesso se, proprio, io fossi la persona al mondo che egli più odiava. Io ho sofferto immensamente, allora, poichè anche, mi vergognava di soffrire: poichè, io non voleva che la gente conoscesse il mio stato; poichè io celava con cura gelosa tutti i miei dolori, non volendo perdere, oltre la felicità, anche il mio decoro di donna.
Il solo che mi ha aiutato in quel tempo a soffrire, è stato Giustino Morelli. Egli sapeva tutto. Io non gli diceva nulla, per fierezza, ma egli solo, oltre me, possedeva la misura esatta di tutte le mie torture. Egli sapeva tutto, da prima. Quando io volli sposare mio marito, tutti approvarono la mia scelta; solo Giustino Morelli impallidì all’annunzio, si turbava ogni volta che gli si parlava di questo matrimonio, tentò qualche vaga rimostranza, non osò insistere innanzi alla mia cieca ostinazione, partì, sparve, non ritornò che dopo un anno dai miei sponsali. Più tardi, amaramente, io gli rimproverai le sue troppo tenui difficoltà, la sua fuga: gli rinfacciai di avermi gittato nelle braccia di un uomo violento e perverso insieme. Ricordo ancora il dolore che si manifestò sulla sua fisonomia a questo rimprovero: era confusione, rimpianto, rimorso, umiliazione. Mi pentii del rimproccio, sentendo per la prima volta che il cuore di Giustino Morelli era troppo debole innanzi a me e sentendo che io doveva risparmiarlo. Ma perchè non salvarmi quando lo poteva? Egli mi amava, non avrebbe dovuto lasciarmi cadere in un precipizio di dolore. Dopo, non gli restava che versare il balsamo del suo amore sulle mie insanabili ferite, perchè io ne sentissi meno l’asprezza.
Così, il suo amore fu un balsamo nascosto, soavissimo, purissimo. Io lo vedeva raramente, Giustino Morelli: giacchè mio marito lo teneva in sospetto, mentre lo irrideva, e giacchè egli aveva ribrezzo di stare con mio marito. A me stessa, in nome del santo e tenero amore di Giustino, mi ripugnava di vedere i due uomini insieme. Ma da lontano, divisi per giorni, per settimane, spesso per mesi, io sapeva bene che il vigile cuore di Giustino Morelli era mio, tutto mio, così completamente mio, che niuna donna, niuna assenza, nessun tempo, avrebbe potuto togliermi mai nulla del mio possesso. Nelle ore più misere e più affrante della mia esistenza coniugale, quando pareva per me crollato ogni senso di tenerezza, di bontà, di compatimento, a traverso le crisi terribili e negli accasciamenti profondi, il pensiero che Giustino Morelli mi amava, di un amor silenzioso, tenace, costante e certissimo, veniva a confortare le mie forze esauste. Talvolta, lo incontrava, dopo uno di questi tremendi periodi: ed egli mi appariva quale io lo aveva sognato, buono, affettuoso, di una dolcezza così grande, che io mi sentiva struggere di riconoscenza, innanzi a lui. Soli, c’incontravamo: egli mi guardava con una pietà carezzevole, prendeva la mia mano senza stringerla, ne baciava leggermente le dita, mi chiamava per nome, niente altro, ma con una voce così amorosa e soave, che lo sguardo, la voce, la parola, la carezza, mi avvolgevano in un’atmosfera d’amore. Quando c’incontravamo, poco mi parlava: si contentava di guardarmi, con infinita tenerezza: mi ascoltava parlare, come se udisse una mistica e misteriosa musica, percepita solo dalla sua anima: e io, sentendo la rarità dell’attimo amoroso, non gli dicevo nulla delle mie sofferenze, volevo godere in tutta la sua essenza purissima quel momento di suprema consolazione. Io intendeva che egli leggeva nel mio spirito, senza che io gli parlassi: e che tutti i più segreti pensieri gli fossero noti, per questa intuizione nobile e sapiente dell’amore. Se io era triste tentavo nasconderlo: mi pareva di averla nascosta bene la mia tristezza: ma subito io la vedeva in lui, riflessa magicamente. Oh, egli sapeva tutto, di lontano, senza che io gli narrassi le mie sventure, senza che io gli scrivessi di ciò una sola parola! Quando mi rivedeva, dopo una lunga assenza, egli prendeva la mia mano e diceva, in un impeto di compassione per tutti i miei mali che indovinava, che aveva indovinato:
— Poveretta, poveretta!
Io piangeva, udendo questa parola. Egli non soggiungeva nulla, lasciandomi piangere, asciugando le mie lacrime col suo fazzoletto, con un moto gentile quale dovette esser quello di Veronica con Gesù, carezzando fugacemente i miei capelli, come benedicendomi. Non altro. Lentamente, le mie lacrime s’inaridivano, la mia anima si quietava e io comprendeva che, ancora una volta, l’amore di Giustino Morelli era stato il mio unico conforto. Tornavo a casa tranquilla, con una novella forza in me e con una lieta luce negli occhi. Mio marito mi guardava, diffidente: e la sua diffidenza lo spingeva all’ira, e nell’ira egli m’infliggeva una di quelle brevi o lunghe scene che erano il tossico della mia vita. Che importa? Io aveva il contravveleno. Chiusa nella sublime fiducia dell’amore che Giustino Morelli mi portava, sapendo che vi era nel mondo, nel vasto mondo così deserto di ogni gioia, qualcuno che mi voleva bene, che mi adorava in una dedizione continua di sè stesso, io opponeva a mio marito una glaciale indifferenza. Mio marito mi lasciava: io andava nella mia stanza, mi buttava sul letto, con la bocca sul cuscino per poter ripetere il nome soavissimo di colui che era il mio salvatore. Tutta l’anima mia, allora, si prostrava, si abbandonava, in un’estasi di tenerissima gratitudine per il beneficio di quell’amore che era il liquore essenziale di ogni mia forza. Non sapendo come sfogare ciò che mi soffocava, trovavo modo di scrivergli, lungamente, confusamente, delle lettere che, spesso, dovevo lacerare senza potergliele inviare: raramente, arrivavo a spedirgliene una. Di lontano, io calcolavo sentimentalmente che effetto gli avrebbe fatto la prova che il cuore di Anna, della sua Anna, gli apparteneva e si dava a lui, novellamente e sempre con entusiasmo. Ma i miei calcoli sentimentali fallivano spesso. Io non lo rivedeva subito. Egli non mi rispondeva mai. Finivo per non sapere nulla. Dimenticavo la mia lettera. Quando, per una scarsa e fortunata
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combinazione, mi ritrovavo con lui, non gli parlavo più di nulla, felice solo di essere accanto a lui. Sentivo che l’impetuosità del mio temperamento lo turbava un poco: e mi moderavo. D’altronde, era troppo nobile e troppo alto il nostro sentimento, per disperderlo nei minuti fatti dell’amore. Anzi, il nostro amore era senza fatti. Ci vedevamo troppo raramente, perchè le due esistenze si unissero nella fusione degli avvenimenti quotidiani. Parlavamo di amore, pianamente, soavemente, anzi con quella cautela delle persone che molto soffrono, che molto temono di soffrire: e vi era in ogni suo sguardo tanta effusione spirituale: vi era nelle sue mani che tenevano le mie quasi senza stringerle, tanto fluido di affetto: vi era nella sua voce tale onda di amore; che io mi scordava tutto il passato, che io non aveva più paura dell’avvenire, e mi sentivo accanto a Giustino Morelli assolutamente felice. Certo, mi dividevo da lui con un intenso rammarico, sempre più forte come il tempo passava: certo, appena lo avevo lasciato, un senso di vuoto e di morte mi coglieva, orribile. Ma egli era partito da me, almeno in apparenza, senza dolore; ma egli era calmo e tenero. Sempre, anche quando si separava, anche quando mi vedeva turbata e agitata, separandosi da me, e poichè egli, vagamente, profondamente mi amava, io dicevo che solo la sua calma era saggia e pura, che solo il suo spirito intendeva l’amore in una forma sublime. Quando ero sola, di nuovo, io pensava, sì, che Iddio mi aveva legata ad un uomo odioso, che mi odiava: che ogni mia felicità innanzi alla fede e innanzi alla legge, era morta, ma che, in compenso, segretamente, io aveva per me la più bella forma di amore che dar si possa nella limitata e misera natura umana, e che potevo esser superba dell’adorazione di Giustino Morelli come del tesoro fra i tesori.
Pure, da questo esaltamento spirituale che io celava con tanta meravigliosa dissimulazione, nacque in me una sete più ardente di veder l’uomo che mi amava e che io amava, di stare con lui, di vivere insieme a lui. La mia casa e mio marito rappresentavano per me l’avversità, la tristezza, la mala compagnia, mentre la fantasia si fingeva il sole, la lietezza, la cara unione soltanto dove era Giustino Morelli. Cominciai a cercarlo più spesso: e quando lo ritrovavo, insieme alla espressione di immensa tenerezza, io vedeva in lui un senso di pena. Mi pentivo della mia ricerca, subito. Gli chiedevo:
— Ho fatto male, a cercarti?
— No, cara, hai fatto benissimo — diceva lui, dolcemente.
Ma quella dolcezza era anche triste. Forse, egli temeva per me.
— Perchè ti dispiace che io t’abbia cercato? — gli domandavo, ancora, crudelmente verso me e verso lui.
— Non mi dispiace.
— Sì, sì, ti dispiace!
— Oh Anna, non ripetere ciò.
— Allora, se non ti dispiace, vediamoci anche domani.
— ...sì — diceva lui, dopo un minuto di esitazione.
Quella esitazione avvelenava la mia gioia. Scorgevo in lui, adesso, quello che prima non vi era mai stato, cioè una titubanza continua, una inquietudine che non arrivava a reprimere.
— Di che temi? — gli chiedevo, guardandolo negli occhi.
— Di nulla, cara — mi rispondeva, guardando in su, per isfuggire alle mie indagini.
— E mi ami, mi ami?
— Ti adoro — mormorava lui, con la intonazione antica, così schietta, così sgorgante dall’imo cuore. Ma presto, la mia insofferenza divenne spasimante. Io non poteva stare un giorno senza vederlo; avevo annullato in me ogni repulsione, venuta dal contatto di mio marito con Giustino Morelli, e pretendevo che egli, l’adoratore tenero e soave, vincesse il proprio ribrezzo.
— Non posso — mi diceva lui, piano, con amore, per togliere a questo rifiuto ogni durezza.
— Perchè non puoi?
— Non lo so, ma non posso, Anna. Venire in casa tua, dove vi è lui, mi è insopportabile.
— Allora, non mi vuoi bene.
— Anna, te ne voglio infinitamente.
— Non è vero. Se me ne volessi, verresti da me. Vieni domani, vieni....
— Anna, non posso.
— Non mi ami, non mi ami! Se mi amassi, vorresti vedermi sempre.
— Io so amarti anche da lontano.
— Senza soffrire della lontananza?
— Senza soffrire.
— Avendo un’altra amante, allora? — arrivavo a dire, io, esasperata.
— Non commettere sacrilegio, cara. Io non adoro che te.
— Così, a traverso le sfere, come le stelle?
— Così — replicava lui, con tanta nobiltà, che io mi riteneva subito la più volgare fra le donne.
In quel tempo, per mia colpa, dunque — più tardi, poi, intesi che era per colpa di Giustino Morelli — io finii per intorbidare la sorgente di ogni mia consolazione. Mentre prima ogni sua tenerezza mi sembrava una ricca parte fattami dal destino, e ne ringraziavo questo destino, adesso non me ne contentavo più. Egli era sempre lo stesso uomo, aveva per me, sempre, un amore tutto di pietà, di rispetto, di ammirazione, di adorazione, ma mi sembrava freddissimo. Infine, io era giovane, bella, elegante, molto corteggiata, poichè la pessima condotta di mio marito, purtroppo, non era ignorata, malgrado le mie premure per nasconderla: e sentivo intorno a me, come l’incenso di un omaggio continuo che uomini giovani e belli abbruciavano nel desiderio dell’amor mio. Giustino Morelli mi pareva freddissimo. La passione violenta di Nino Stresa per Grazia, la mia amica, mi destava curiosità e invidia. Il paragone che facevo, ogni tanto, di Nino Stresa con Giustino Morelli mi faceva sempre più insistere nell’idea, che il mio amante — era egli, forse, un amante? — non provasse per me un amore forte e vivo, come si sente quando si è giovani, quando il sangue è caldo, quando la donna si è già data a voi col suo cuore.
— Perchè sei così freddo? — era la mia interrogazione costante.
— Freddo, ti pare?
— Non mi pare: sei freddo.
— Niuno ti può amare più di me, Anna.
— Non ti vantare. Tu mi ami poco.
— Taci, anima mia. taci.
— Io non ti piaccio — soggiungevo io.
— Nessuna persona mi piace più di te, te lo giuro.
— Non ti credo.
— Che debbo fare, perchè tu lo creda? — mi replicava lui tristamente.
— Non so — rispondevo io, glacialmente.
Giacchè egli diventava più triste, a ogni nuovo colloquio e la mia anima si gelava. Talvolta, lo sorprendevo che mi guardava con ansietà, soffrendo di non so quale strano e ignoto dolore: il mio sgomento diventava grande. La sua voce era infranta, nel parlarmi: più spesso taceva, assorbito.
— A che pensi, amore?
— Non penso, sogno, cara.
— Che sogni?
— Un solo sogno, il tuo amore, Anna.
— Non lo hai qui, presente, reale, vivo, caldo?
— ...sì — diceva lui dopo un dubbio.
— Come? Ti piace meglio il sogno?
— Forse — mormorava lui brevemente.
Invece, in me, la vita urgeva. Nella mia casa e con mio marito, ogni pazienza, ogni indulgenza era finita. Il legame con quell’uomo mi era insoffribile, e tutte le ribellioni accumulate nel fondo del cuore sorgevano in armi per vincere. Io voleva la mia parte di bene, di amore, di ebbrezza: ero stanca di lacrime, di abnegazione, di mortificazioni. Mentre Giustino Morelli si concentrava nelle poetiche visioni, in me tutti gli istinti della vita e della giovinezza fremevano, rivoltandosi, contro il dolore. L’amante mio — ma forse egli era l’amante? — mi guardava come spaventato, e bene spesso io ho visto in lui la mestizia di una immensa delusione. Sentivo, così, vagamente, di decadere nel suo spirito, e mentre ciò mi esasperava, mentre io lo trovava un gelido sognatore, un poeta dell’amore, un ardor di passione mi spingeva a lui potentemente, come alla sola creatura umana degna dell’amor mio.
La sua profonda tristezza innanzi alle lotte che si combattevano in me e che egli conosceva, tutte, era un insulto; ma io glielo perdonava, giacchè lo amavo, giacchè egli mi amava, giacchè un solo poteva essere il mio amante, ed era lui, Giustino Morelli. Questa ultima, estrema verità non gliela dissi, io. Ero donna. Ero vissuta nelle altitudini di un amore sublime e mi ero avvezza a una temperatura spirituale delle più fini e squisite. Questa verità, che egli solo poteva e doveva essere il mio amante, io, ve lo giuro, non gliela ho detta, ma tutto di me glie lo disse, involontariamente, glielo disse la vita istessa con le sue fervide e imperiose parole. Io non so quello che accadde in lui, quale lungo sogno egli ricacciò nel mondo delle tenere e pure fantasie, quale saluto egli dette a una sublime illusione, quale suprema divisione accadde fra l’uomo e il suo sentimento. So questo, che Giustino Morelli fu veramente e propriamente il mio amante, e che ciò gli produsse un dolore grandissimo.
Grandissimo! Egli era sempre la cara anima che mi adorava in ogni pensiero e in ogni sentimento, che vibrava a ogni vibrazione mia, che per un miracolo sentimentale aveva fatta sua la vita del mio cuore, che non divideva ma assorbiva tutte le mie sofferenze, che non solo asciugava ma faceva inaridire le mie lacrime, che mi dava la pace e la serenità: sempre il Giustino Morelli che mi aveva aiutato a vivere, che, ancora, in tutti i momenti, era il mio sostegno e la mia guida. Ma oltre questi, per lui non vi era che dolore intimo e represso, non vi era che la rassegnazione a un fatto necessario, fatale, e immensamente triste. I convegni che rassomigliavano agli antichi, austeri e nobili, con la lieve carezza delle sue labbra sulla mia mano, erano un sollievo per lui, lo vedevo: mentre i convegni della passione a cui lo spingeva la voce di un amore diverso, lo affascinavano e gli facevano male, un male orribile, il male del sogno violato, il male della illusione fuggita, il male dell’irrimediabile errore. Così, la passione si faceva tetra: e l’ebbrezza sembrava anche uno spasimo di tutto l’essere che subiva la legge comune dell’amore, ma aveva ribrezzo di quella fatalità.
Nulla vi dirò di me. Sarebbe troppo duro rammentare quello che io provai, dinanzi a tale complicazione nel nostro amore. Ricordo solamente di essere trabalzata, in quei tempi, dai sentimenti più limpidi, alti e luminosi, alle vittorie della passione più oscure e più contristanti: ricordo che io ho sentito, per Giustino Morelli e per me, insieme, il disprezzo più profondo e l’ira più cieca. Ricordo che, un giorno, quando più avevo visto il mio amante innamorato, sì, ma quasi insorto contro le imprescindibili obbligazioni della passione, quando più avevo inteso che Giustino Morelli era infelicissimo, perchè era diventato il mio amante, quando più avevo compreso che l’anima bella e pura e salda di quell’uomo si sentiva deturpata nel suo sogno, allora ricordo di essermi sentita perduta, perduta.
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— Voi, forse, avrete intuito la conclusione della mia istoria. Io ho tradito Giustino Morelli, bruscamente, violentemente, malamente. Con un uomo qualunque, io l’ho tradito. Non me ne chiedete il nome, la condizione, l’età, la bellezza. Un uomo qualunque! Non potevo fare diversamente, credetelo. Ho sentito tutto l’orrore della mia mal’azione, eppure mi è stato impossibile di non farla. In fondo, credo che avessi una ragione oscura e atroce di far quello; e non seppi neppure dirla a me stessa. Giustino Morelli me la disse, nel giorno in cui ci dividemmo, per sempre.
— È vero che mi avete tradito? — mi domandò senza tremare, sebbene fosse così smorto nella onesta faccia.
— È vero — gli risposi con molta alterigia.
— Perchè avete fatto questo?
— Non lo so.
— Lo so io.
— Voi? Voi? Ditemelo, dunque!
— Perchè ero un imperfetto amante, mia povera Anna.
— E allora, perchè mi avete amato?
— Questo, nessuno lo sa, nessuno.
Sì, sì, Giustino Morelli era una grande anima, un grande cuore, ma è a lui, è a questo imperfetto amante che io debbo tutte le mie sciagure.