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L'ULTIMA LETTERA
(Angelica).
Signora,
Voglio scrivere a voi, in quest’ora di morte. Non voglio mandare a mio padre, così amabile e così indifferente, così indulgente e così freddo, l’ultima mia parola: non a mio marito, tanto cortese e tanto crudele, voglio scrivere io, per dargli l’ultimo saluto. Quando sentiranno che io mi sono uccisa, ne avranno grande sgomento, perchè la morte fa paura agli indifferenti e ai crudeli: dopo, diranno che così dovea finire. Dieci lettere, mille lettere, scritte nel dolore di questa lenta agonia, innanzi alla piccola rivoltella scintillante come un prezioso gioiello, non giungerebbero a dare a mio padre, a mio marito, la pietà, o il rimorso. La loro glaciale e confortante ragione ripeterebbe loro che dovea finire così e lo strazio mio soffrirebbe una postuma ingiuria. No, no, ad essi non voglio scrivere nulla. Solo a voi, signora, mentre non vi conosco, mentre non mi conoscete, voglio dire che muoio, uccidendomi, voglio dire perchè mi uccido. Vi è un uomo che adoro, Francesco Sangiorgio: ma è inutile che io gli scriva, è inutile che io gli mandi l’estremo addio, è inutile che io gli raccomandi la mia memoria, è inutile tutto. Francesco Sangiorgio vi ama: voi lo amate. Ecco perchè tutto è inutile, il mio amore come il mio dolore, la mia vita come la mia morte. Egli vi ama e voi lo amate: ecco perchè debbo morire. Scrivere a voi, significa scrivere a lui: voi siete lui. Gli leggerete questa lettera: la leggerete insieme. E il soffio tragico della morte che ne spira, darà un sapore più profondo di emozione ai vostri baci; la immensa dolcezza della vostra passione avrà una vena di amarezza, che legherà più solidamente i vostri cuori; all’impeto dell’amore, si unirà il supremo orgoglio di aver fatto soffrire, l’orgoglio che hanno le persone più buone e più dolci: egli vi sembrerà più bello, più nobile, più degno di essere amato, poichè non ha saputo tradirvi e ha lasciato che me ne andassi alla morte; voi gli sembrerete più bella, più cara, più preziosa, poichè una donna è morta per voi. Per voi muoio, signora: morire per voi, significa morire per lui: voi siete lui. E le ultime torbide visioni di quest’ora terribile, queste visioni che mi fanno fremere di angoscia, di gelosia, di odio, mi mostrano sempre voi e lui, sempre insieme; e le schernitrici visioni mi dicono che, morendo, io vi unisco più saldamente, che eravate amanti e che io vi rendo complici. Oh Dio, Dio, Dio, non avere scampo neppure nella morte!
Signora, vi odio. Mi hanno detto che siete stata amata, che uomini austeri hanno singhiozzato d’amore alle vostre ginocchia: so che Francesco Sangiorgio vi ha dato tutto sè stesso, nell’abbandono della più ardente passione. Ma nessuno amore del vostro passato e del vostro presente può arrivare alla misura dell’odio profondo, cieco, invariabile che trabocca dal mio cuore per voi: ma tutti gli amori presi insieme, compreso quello di Francesco, non giungono all’altezza del mio odio. Ho ventiquattro anni: sono piena di gioventù e di salute: ho dritto alla mia parte di gioia, di felicità — eppure debbo morire disperata, senz’avere avuto il conforto di un bacio, senza sperare il conforto di un rimpianto. Muoio a ventiquattro anni, lascio la mia famiglia, la mia casa, il mio paese dove è tanto sole e sono tanti fiori, me ne vado nella morte, sette palmi nella terra nera e pesante, chiusa in una bara di legno, nell’ombra eterna, nella morte, nella morte: e questo per voi, e per questo vi odio, così mortalmente vi odio, che il mio sangue abbrucia e le mie tempie scoppiano, quando l’anima mia pronunzia il vostro nome. Vi odio. Se voi non foste, ora, non morirei: se voi non foste, Francesco Sangiorgio mi avrebbe amato. Era l’uomo del mio cuore, Francesco: era l’uomo dell’anima mia, destinato a me dalla legge arcana della passione e voi me lo avete tolto, per sempre. Sentite, sentite, quando io penso al passato tutta la mia collera si abbatte e si trasforma in una tenerezza immensa, tutte le lacrime della mia esistenza piovono dai miei occhi e io piango già — saranno le sole lacrime versate su me — su questa povera creatura a cui hanno portato via l’unica forza e l’unica speranza. Ah signora, signora, che siete così dolce, così soave, così umile, che vi chiamate Angelica, come avete potuto far questo, come avete potuto volere la morte di una donna, di una cristiana, perchè mi avete fatto questo, voi che siete una buona e mite anima femminile? Signora, signora, voi siete innocente: ma veramente, ve lo dico, voi avete armato la rivoltella che mi deve uccidere e voi mi avete detto che debbo morire.
Poichè, se voi non foste, egli mi avrebbe amata. Ci conoscevamo da tanti anni, siamo nati nello stesso paese e nello stesso anno, amiamo le stesse cose, abbiamo insieme desiderato un ideale di esistenza più buono, più semplice e più intimo. Mi avrebbe amata! Io conosceva tutto il morboso vagabondaggio del suo spinto irrequieto e dolente; io conosceva tutte le miserie di una volontà ribelle, di un ingegno potente e incompleto, di un cuore che fluttuava fra il cinismo e l’entusiasmo; e dove il mondo lo misconosceva e lo biasimava, io aveva pietà per questa nobile tempra di uomo, in lotta con le idee e con le cose.
Egli mi conosceva: egli aveva pietà di me! Francesco Sangiorgio sapeva che sotto la vivacità insolente dei miei discorsi e del mio sorriso, si celava la piaga insanabile di una esistenza sbagliata; egli sapeva che la seducente dama che appariva a tutti i teatri, a tutte le feste, sempre lieta, col diadema fulgente sui neri capelli, tornando a casa, soffocava i suoi singulti nell’origliere, piangendo sopra la vita frivola e sciocca che faceva; egli sapeva che non avevo conforti nè dalla ricchezza, nè dal nome, nè dai trionfi della vanità, perchè l’anima vuole il suo pascolo, perchè è l’amore che serve all’anima, perchè niuno sfuggirà a questa necessità dell’anima. Come egli aveva compassione di me! io leggevo nei suoi occhi, quando mi guardava, una così infinita tristezza, che mi faceva fremere di dolore: io sentiva tale compassione, nella sua voce, quando mi parlava, che mi veniva una disperazione immensa, come se tutte le sorgenti segrete della mia infelicità fossero interrogate, insieme. Ah egli era il fratello dell’anima mia, era il mio fratello e il mio amante, il mio protettore e il mio sposo: i suoi occhi eran tristi tanto, guardandomi, e la sua voce era triste, parlandomi, perchè egli doveva essere il balsamo malinconico delle mie sofferenze — e l’ho perduto, l’ho perduto! Una sera di estate, mi rammento, io sono escita sulla terrazza della mia villa, lasciando nel salone tutti i miei invitati, cercando un po’ di pace nella fresca notte, volendo respirare l’odore inebbriante dei bianchi gelsomini del giardino: e sono restata lì, nella notte, abbandonata a una stanchezza improvvisa, sentendomi crollata in fondo a un precipizio. Non so quando Francesco mi raggiunse; ma lo trovai accanto a me, improvvisamente, e un gran tremore mi colse, come nell’imminenza di un grande pericolo, di una grande gioia. Fumava una sigaretta: e i suoi occhi, fissi su me, avevano una tristezza, una dolcezza! Io lo guardava, tremante, aspettando che mi dicesse una parola. Tacque, per qualche tempo.
— Perchè ridete tanto? — mi chiese, con una profonda malinconia nella voce. — Non ridete più tanto.
— È il mio modo di piangere, — mormorai.
L’ho veduto impallidire, nella notte. Poi la sua mano ha preso la mia e l’ha tenuta un minuto brevissimo: tutta la mia vita è corsa in quella mano e mi sono sentita vacillare.
— Povera e cara donna, — egli soggiunse, pianissimo.
Egli lasciò la mia mano e se ne andò, lentamente. Così l’ho amato.
E quanto ho pianto, su quella terrazza dove giungevano tutti i profumi dei voluttuosi fiori dell’estate. Lo aspettavo ogni sera, tendendo l’orecchio a ogni rumor di carrozza che arrivasse da Napoli: e arrivava un indifferente, una qualunque delle tante inutili conoscenze che ci contristano minutamente la vita. Egli non giungeva e io continuava a chiacchierare, e ridere, sfogando in parole e in sorrisi la mia agitazione: tutti andavano via: la notte era avanzata, egli non sarebbe più venuto e io diventava pallida come un lenzuolo funebre, mi colpiva il freddo dalla desolazione. Signora, egli era presso voi, in quelle sere, perchè voi me lo avevate preso, quando ancora egli non mi aveva detto di amarmi: e ora non me lo dirà mai più, non udrò mai la sua voce pronunziare le più vibranti parole dell’amore, le due parole, ti amo, oltre le quali nessun’altra parola esiste! Egli giungeva, talvolta molto tardi, e subito ogni mia pena si dileguava: ma voi mi mandavate, signora, un uomo assorto, chiuso nel suo segreto che non aveva più occhi per vedere, nè orecchie per udire. Veniva da voi! L’ho saputo dopo. Una volta, signora, voi lo avete accompagnato in carrozza, sino all’angolo del grande viale della mia villa: e io non ho sospettato nulla, a quella carrozza che se ne tornava indietro. Dopo l’ho saputo. Lo accompagnavate da me! Non eravate gelosa, voi. Ah quanto vi odio, creatura debole e timida, che rubate i cuori, che rubate gli amanti e ve li tenete per sempre, e non siete gelosa, di nessuna donna, tanto il vostro fascino, fatto di debolezza, è più forte di ogni cosa e di ogni persona. Quanto vi odio, per questi due anni di atroci dolori segreti, che mi avete inflitti, per queste roventi lacrime che hanno consumata la freschezza del mio volto, per questa rovina quotidiana di tutte le mie speranze: quanto vi odio, per le torture che mi avete fatto soffrire, voi che siete, dicono, un’anima semplice e tenera; quanto vi odio perchè voi amate Francesco Sangiorgio e perchè egli vi adora, perchè in due anni egli non ha mai cessato di adorarvi, perchè in tutti i giorni, in tutti i minuti di questi due anni, egli ha preferito sempre voi a me, così, naturalmente, con la inconscia crudeltà degli amanti. Quanto vi odio, per quello che siete, per quello che rappresentate! I miei occhi sono neri e anche se l’amore m’ispira tutta la sua tenerezza, io non posso dominarne il fiero lampo: i vostri occhi sono azzurri, con un’espressione d’infantile candore. I miei capelli sono neri e si torcono in masse brune: i vostri biondi capelli vi mettono un’aureola dolcissima alla fronte e alle tempie.
Io sono alta e non so piegarmi: e voi siete piccola, voi avete la piccolezza che piace all’amore, poichè l’amore dell’uomo vuol essere anche protezione. Io rido, sempre: voi sorridete, talvolta. Io mi nascondo, quando piango, per superbia: quando l’amore vi fa piangere, voi piangete innanzi a lui e Francesco non resiste al pianto di una donna. E mentre in me, in tutto quel che faccio, in tutto quel che dico, vi è l’orgoglio sterile della mia nascita e della mia tradizione, in voi vi è la infinita umiltà della donna che è semplicemente donna, che sa soltanto amare e immergersi in questo amore. Ah come io odio questi vostri capelli biondi e questi vostri occhi azzurri, come io odio il vostro tenue sorriso e la vostra profonda umiltà, come io odio il vostro nome che è quello degli angioli, mentre io mi chiamo Teresa, un duro nome di donna che ha spasimato ed è morta nella passione! Come vorrei che tutto questo non fosse, che i vostri capelli cadessero, che i vostri occhi perdessero il loro innocente azzurrino fulgore, che il vaiuolo divorasse le pure linee giovanili del vostro volto, come vorrei che voi non esisteste, che non foste mai nata! Maledetto quel giorno e quell’ora in cui siete nata, maledetto il primo vostro respiro, maledetto chi vi ha dato questi bei capelli e questi cari occhi che Francesco adora, maledetto chi vi ha messo il nome di Angelica, maledetto chi vi ha insegnato a sorridere, maledette, maledette tutte le persone che avete conosciute, tutti i paesi dove avete abitato, tutte le cose fra cui siete vissuta, maledetto il primo bacio che avete dato a Francesco, maledetti tutti i baci di voi due, essi sono la febbre delle mie vene, la pazzia del mio cervello, la dannazione della mia anima!
Ho cercato di salvarmi, io. Sono giovane, l’istinto della vita combatte in me. Ho viaggiato, ma il mio tormento mi ha seguito dovunque, nei paesi più lontani; ho cercato di riamare il mio cortese e crudele marito, ma non sono giunta che a violare la mia coscienza; ho cercato di amare qualcun altro, di farmi amare, ma non ho potuto, non ho potuto. L’immagine di Francesco Sangiorgio, nitida, imperiosa fin nella dolcezza, gloriosa fin nella tristezza, è restata in me, intangibile. Nessun uomo, nè io stessa, nè Dio potranno giammai cancellarla da me: e io vado a chiedere alla morte la salvazione. Ho tentato di vivere, ho tentato di sperare. Ho tentato! Ho sperato che il suo amore per voi s’illanguidisse, ho sperato che voi lo tradiste; ho negato fede all’amore, ho negato fede alla costanza femminile, mentre io amava sino a morirne, mentre nulla al mondo mi potea consolare di non essere amata! Ho aspettato, poichè dicono che l’amore, l’arte, la felicità sono il risultato di una sublime pazienza. Ma da tutte le parti, da tutte le persone, ogni giorno io sapeva una novella pruova del vostro amore; ma quasi che tutto mi spingesse alla perdizione, la cronaca sentimentale dell’amor vostro mi era riferita, da mille testimoni indifferenti, che credeano di narrarmi una cronaca indifferente. Quanto vi odio! So tutto: e per quel che so, vi odio. Vivevate, vivete quasi sempre insieme, uscite insieme, insieme tornate a casa e voi suonate il pianoforte, assai dolcemente — egli odiava il pianoforte, un tempo — ed egli vi ascolta, e vi parlate teneramente, soavemente, e quando egli è nei suoi periodi di collera, la vostra soavità è tale, che lo vincete. Oh io sono una donna appassionata, io ho l’impeto dei temperamenti generosi, io non so essere dolce, io non so che amare violentemente, sino a morirne: e così voi mi avete vinta, voi che siete dolce, mentre che io amo con tutte le forze del mio spirito e della mia gioventù, debbo fra cinque minuti tirarmi un colpo di rivoltella al cuore. Signora Angelica, l’altro giorno, per la grande via lungo il mare, vi ho incontrati. Era la prima volta, che vi ho visti insieme. Andavate accanto, senza tenervi a braccetto, senza darvi la mano, senza sfiorarvi, ma andavate così uniti, avevate così le anime assorte nello stesso sentimento, vi amavate tanto, senza parlarvi, senza guardarvi, che io ho inteso tutto. Ho inteso che nulla vi avrebbe divisi giammai e che io dovea morire. I miei occhi non vi vedranno per la seconda volta insieme. Qualcuno di noi tre dovrebbe morire, se rivedessi questo spettacolo atroce: e siccome vi amate e vi amerete sempre, sono io che muoio. Addio dunque, signora Angelica: io amo Francesco Sangiorgio e odio voi. Il resto è silenzio.
Teresa.
FINE.