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Dibattimento L'assurdo

IRONIE

Credo, mia cara amica, che ella abbia ragione. Quantunque tutte le forme di morte dell’amore siano dolorose e strazianti, se esso muore soffocato, strozzato violentemente dalla persona che noi amiamo e che non ci ama più, il dolore e lo strazio sono massimi e veramente insopportabili. Ciò accade perchè allora non solamente l’amor nostro è disdegnato e respinto, ma tutto il nostro amor proprio è ferito e calpestato. Se ella dunque vuol sapere da me in qual modo questa pena estrema dei traditi e degli abbandonati guarisce, già è in grado di indovinare la mia risposta.

Reprimere la nostra passione dicendo a noi stessi e dimostrando che l’oggetto nel quale la riponemmo ne è indegno, non vale a niente: già in una precedente mia lettera io le parlai della contraddizione per la quale proprio l’indegna persona sembra meritevole sopra ogni altra, unicamente.

Alcuni credono che il riso sia un buon revulsivo, e non è infatti da disprezzare. Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio qu ando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui...

Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perchè mai la vista dell’amore, dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?... Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiunga ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo scherno.

Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò.

Un altro amante abbandonato guarì in un modo che è alla portata d’ognuno; perchè non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?... Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: «L’amor mio per te sarà senza fine... tu solo m’hai rivelato l’amore... fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità... non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la mia gratitudine... io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te... tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente...» leggendo queste lettere delle quali aveva avuto paura perchè prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perchè la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro...

Tuttavia questi rimedii, quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero — e come negarlo? — che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perchè la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perchè il merito nostro torni a rifulgere.

Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perchè non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere!

La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perchè ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perchè noi ridiamo — di noi stessi...

Eccole a questo proposito un curioso documenta che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione.

«Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo ottenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: «No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!»

«E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non potevo più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non lo avevo fatto per lei, affinchè ella fosse contenta di me, affinchè le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: «Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?...» E poi? Perchè? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente ch’io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto... Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perchè, infatti, mi ero stancato di certe sue esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?... Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia... Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!... Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perchè dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perchè era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male!

«Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla — ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza...

Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perchè tutto fosse detto?... Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poichè il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii.

«In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri; voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi... Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta... E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: «Perchè sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?...» Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sott’acqua risale rapido a galla appena abbandonato a sè stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, m’abbandonai ad esso, interamente.

«Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?... Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste...

«Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: «Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permettete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera...» Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perchè quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perchè il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio — ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta — forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!... Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca — perchè vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera.

«Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto; ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece... se invece... Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’aveva fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi... Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: «Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me... Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia...» Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!...

«Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: «Grazie! Nessuna attenzione commuove tanto quanto quella che meno si prevede perchè meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli d’un tempo, anche perchè come quelli d’un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni; disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei.»

Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perchè avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che man giai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: «Un’attenzione che si sa di non meritare... i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo... non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire... un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni... se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica...» Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva: «Tornate!» ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?... Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: «Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo...»

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