< Gli amori
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Dibattimento
Le prove Ironie

DIBATTIMENTO

   Contessa mia,

Già: l’amore nasce, vive e muore — muore specialmente, troppo presto, in mille modi. Ella giudica che il modo nel quale morì l’amore delle due persone di cui le narrai ultimamente la storia sia molto triste; ma crede ella che vi siano forme di morte grata?... Io non dimenticherò mai una strana conversazione alla quale assistetti una volta; una conversazione di soli uomini, dove fu appunto proposto e discusso questo soggetto. Le persone che vi presero parte non le riusciranno forse nuove: erano i tre Tedeschi dei quali altra volta le parlai: Ludwig Kopfliche, Fritz Eisenstein e Franz von Rödrich.

Scena: la sala d’una casetta di campagna; il tramonto d’una scura giornata di novembre, col cielo coperto di tediose caligini fra le quali l’ultima luce filtrava livida e triste; l’agonia del giorno e dell’anno, un senso di freddo in tutte le cose, nella campagna silenziosa e deserta, negli alberi dai rami sfrondati, nel mare d’un grigio metallico flagellato dal vento, nel cuore degli uomini che aveano visto cadere ad una ad una tutte le loro illusioni...

— Pensate voi, — diceva Ludwig, — alle primavere future?... Quante anime nuove esulteranno! Quante speranze fioriranno nelle vergini fantasie! Quante mai vite si schiuderanno ai sorrisi del sole!

— Il nostro egoismo si ribella a questo pensiero, — soggiungeva Franz. — Poichè noi ce ne andiamo, vorremmo che l’universo s’inabissasse con noi, che nessun altro potesse più dissetarsi alla coppa distolta per sempre dalle nostre labbra avide ancora...

— Ma, — ribatteva Fritz, — anche gli altri morranno! Anche gli altri vedranno mancare il dolce liquore prima di averlo assaggiato... Perchè li invidiate? Dovreste compiangerli!... No, i venturi non sono da invidiare; degni d’invidia son quelli che furono o che non sono mai stati...

Quando Fritz tacque, il silenzio ripiombò tutt’intorno; udivasi solamente il gemito lugubre del vento e il leggero tremolìo d’un vetro mal commesso nella intelaiatura della finestra.

Gli sguardi dei tre uomini avevano espressioni diverse. Ludwig guardava il mar grigio con i suoi grigi occhi profondi, e sembrava cercare qualcosa di là dalla linea dove l’acqua e le nubi si confondevano; Franz, con una mano fra i capelli, mirava, come affascinato, un punto del suolo ai suoi piedi, e Fritz batteva rapidamente le palpebre, girando il capo, quasi per sottrarsi ad una molesta visione.

— I morti amori!

Franz, nel silenzio incombente, aveva pronunziato quelle parole; ma, poi che una medesima idea occupava lo spirito degli altri amici, essi si riscossero, ripetendo, a fior di labbra:

— I morti amori...

Vi fu ancora silenzio; poi Ludwig, il curioso, domandò;

— Sapete voi dirmi in quanti modi può morire l’amore?...

— No, nessuno può dirlo, — rispose Fritz. — Possiamo dire questo soltanto: che l’amore muore in tanti modi quante vi sono anime amanti.

— Ma qual morte è più trista?

— Sono tutte tristi del pari.

A quel giudizio, Franz sorse in piedi.

— Non dite così! Non dite così!... Tristi egualmente? Egualmente strazianti?... Vuol dire che voi non sapete!... Allora, sentite. Vi è una potenza terribile, misteriosa, fatale, che se piomba intorno a voi vi fa misurare d’un subito tutto l’abisso della vostra miseria; una potenza contro la quale non v’ha riparo che valga; una potenza che si rivela tutti i giorni, tutti i momenti, ma della quale voi non v’accorgete se non quando colpisce qualcosa di vostro. Questa potenza è la Morte... Sentite. Esiste al mondo una creatura che è l’anima della vostra anima, per cui dareste tutto il sangue vostro, lontano da cui non potete vivere neppure un istante. Questa creatura, bella, buona, soave, nel fiore degli anni, si è data a voi, per sempre; voi avete imparato, ogni giorno di più, ad apprezzarla, ad amarla. Tutte le vostre confidenze più intime, tutte le vostre parole più tenere, tutte le vostre carezze più blande sono per lei. Voi non vedete se non con i suoi occhi, non respirate se non con le sue labbra, non vivete se non della sua vita. Repentinamente la truce potenza si spiega su lei. Voi potete inginocchiarvi dinanzi agli uomini che, per ironia, si chiamano della scienza, scongiurarli piangendo di sottrarla alla potenza malvagia; voi potete giungere le mani, alzare lo sguardo al cielo, ricordarvi le preghiere apprese da fanciullo, dire a Dio: «Io credo in Voi, abbiate pietà di me...,» voi potete dire a lei stessa, con voce rotta, passandole una mano fra i capelli madidi di sudore, stringendo con l’altra la mano sua sempre più fredda: «Per pietà, non morire, non voglio che tu muoia, non mi lasciare, ho paura!....» voi non riuscirete ad arrestare un minuto l’opera di distruzione. E una notte tremenda voi vedrete il suo sguardo rovesciarsi, le sue labbra dischiudersi, irrigidirsi il suo corpo. Vorrete fuggire lo spettacolo orribile, e un’attrazione più forte della vostra volontà v’inchioderà lì dinanzi. Morta!... Morta!... Morta!... Allora esaurirete tutte le vostre lacrime e tutte le vostre imprecazioni. Morta!... Morta!... Morta!... E ripeterete questa parola fino a smarrirne il significato. A un tratto vi sovverrete di quel che un giorno ella vi disse: «Se morrò prima di te, vestimi di bianco, coi capelli disciolti; non voglio che i becchini mi tocchino....» Ella rabbrividiva da capo a piedi, a quest’idea; ora non ha più un sol moto. Voi contemplate il suo viso dove una bellezza nuova, soprannaturale, divina, si va dipingendo; vorrete recidere una ciocca dei suoi capelli, e di repente vi ricorderete di quella che ella stessa recise, che vi diede un giorno, il giorno delle beate promesse. Voi pensate: «Ho ancora molte ore per contemplarla,» e quelle ore passano, volano. Allora vi mettete a gridare, a soffocare le vostre grida. E se un amico pietoso tenta di confortarvi, voi odiate quell’uomo, odiate ogni vivente, abborrite la vita.... Ah, sono tutte tristi egualmente le morti dell’amore? Ma voi non avete composto in una bara le forme adorate che teneste strette fra le braccia; non avete sentito opprimervi il petto pensando all’oppressione che ella soffrirà sotterra; non avete visto la terra cadere sulla bara, coprirla, nasconderla.... Voi non avete provato che cosa vuol dire sognare che ella è ancora accanto a voi, e risvegliarvi pensando alla vostra solitudine, alla vostra solitudine eterna!... E non avete provato, tormento ineffabile, strazio senza parole, il lento svanire del fantasma, dell’imagine, del ricordo, nonostante tutti i vostri sforzi per vivificarlo, per afferrarlo, per trattenerlo ancora....

Egli tacque. Ludwig pareva non avere ascoltato, immerso sempre nella contemplazione del mare. Fritz, che aveva nervosamente arricciato i suoi baffi, replicò:

— Tu dunque credi che la più angosciosa morte dell’amore sia quella prodotta dalla morte della creatura amata? In verità, mi fai ridere.

Alla luce sempre più scialba del fosco tramonto, il suo viso appariva pallidissimo; le sue labbra s’atteggiavano a un ironico riso.

— Tu accusi la morte! Non sai dunque di che cosa è capace la vita?... Ti duole che una potenza fatale distrugga il sogno d’una gioia senza fine? Ma tu non pensi che, in ragione di questa stessa fatalità, il tuo spirito finalmente s’acqueta! Sta dunque a sentire. V’è una creatura che t’ha detto: «Sono tua, per sempre.» Chi distrugge il senso di queste parole? Ella stessa!... Ella t’ha detto che t’ama, e un bel giorno ti dice: «Non t’amo più!» Bada ancora: al tempo dell’amore felice ella ti ripeteva, malinconicamente: «Sarai tu quello che mi lascerai!» Tu allora protestavi, giuravi, non sapevi nè potevi darle una prova del suo inganno. Adesso, quando ella ti ha detto che non t’ama più, quando t’ha fatto comprendere che fra te e lei non c’è più nulla di comune, che cosa fai? Sei preso da un impeto di sdegno, la colmi di rimproveri, la minacci? No!... Tu ti getti ai suoi piedi, le ricordi le sue parole, le dici: «Com’è possibile? No, non è possibile! Tu vuoi mettermi alla prova, tu vuoi farmi paura. Tu sei mia, tu m’hai detto che non potevi vivere senza di me.... Che cosa t’ho fatto? Quali colpe ho commesse?...» Ella tace. Tu ti batti la fronte e riprendi: «Sì, ho una colpa.... Non t’ho provato ancora abbastanza quanto sia forte l’amor mio.... Comprendi: la parola è impotente, il pensiero non si esprime mai tutto. Ma guardami in fondo all’anima: non vedi come è tutta piena di te? Io sento in questo momento che non ti ho mai amata tanto....» Ella scuote il capo, ti oppone fredde ragioni, ti addebita colpe insignificanti delle quali ella stessa non è immune. Tu non le rimproveri le sue; le prendi una mano, la scuoti, la guardi negli occhi, la chiami col dolce nome antico. Ella s’irrigidisce, ti respinge, evita il tuo sguardo; allora la luce si fa nel tuo spirito: ella ama un altro. E la terra ti manca sotto i piedi. Quella creatura, quell’anima, quel corpo, sono d’un altro! È possibile? Glielo chiedi, con voce strozzata, gemendo ed urlando, ed ella protesta freddamente, risponde che non ha conti da renderti. Il tuo orgoglio d’uomo è ferito; ti senti un gran sdegno ribollire nel cuore: non dici nulla. Ti alzi, le stringi la mano, fai per andar via. Ma sei legato con tanti e così sottilissimi fili a quelle mura, a quella persona, che senti il tuo cuore lacerarsi. Che ti dice ella? Ti dice: «Addio!» All’uscire da quella casa, con la fronte in fiamme, un martello alle tempie, la gola stretta, le labbra inaridite, ti metti quasi a correre, incapace di coordinare le tue idee, non riconoscendo nessuna delle persone che incontri per la via, occupato soltanto dell’oscuro pensiero che ormai la percorri per l’ultima volta. E una parola ti risuona all’orecchio: quell’addio terribile, la parola che si pronunzia nelle agonie, nelle separazioni senza ritorno, nelle ore fatali della vita — la parola che fiacca il tuo sdegno, che seda i tuoi istinti di ribellione, e che ti stringe il cuore, ti brucia gli occhi, ti toglie il respiro.... Tu pensi: «Non la vedrò dunque mai più?... Non sentirò il suo capo appoggiarsi al mio petto, non stringerò più la sua mano, non bacerò più la sua fronte?...» Passano giorni vuoti, monotoni, eterni. Tu ritrovi le sue lettere, i suoi ritratti; ed hai paura di toccarli, di mutarli di posto. Diventi superstizioso. Ad ogni squillo di campanello pensi: «È lei! Mi scrive, si pente, mi chiama!...» Nulla! Tutto è finito! Tu non la vedrai più, mai più, mai più! A queste parole che tu ripeti incessantemente, disperatamente, la tua ragione vacilla. Perchè mai più? Che cosa può vietare che due esseri viventi si rivedano ancora? Quali insuperabili barriere, quali distese di mari e di terre li posson dividere? Quali catene potranno impedire che tu ti slanci verso di lei? E vuoi rivederla; a costo di tutto bisogna che tu la riveda. Davanti a lei la tua passione scoppia selvaggiamente. Minaccioso e supplice, le dici dapprima: «Ti ammazzerò!» e poi le mormori piano: «Io so ancora tante parole d’amore che non t’ho dette ancora!...» Ella si scuote, ti blandisce, ti prega di non farle male, ti scongiura di rassegnarti, di farti una ragione, di accordarle la pace. Naturalmente non si può sempre parlare, gridare, piangere, mordersi. E stanco, esausto, sfinito, vai via; questa volta, comprendi bene, per sempre. Solo, in silenzio, riprendi a piangere, la piangi come morta; ma ella non è morta per gli altri; è morta per te. Tu la scorgi, talvolta; e provi il bisogno pazzo di andare a piangerle vicino, di toccarla, di contemplarla. Se ella fosse morta, se la terra la ricoprisse, il tuo cuore s’acqueterebbe: tu non avresti queste tentazioni, la tua piaga non si riaprirebbe continuamente. Tu non penseresti di tentare ancora una volta la resurrezione di quel passato il ricordo del quale ti brucia come un carbone ardente — perchè, rammentalo, l’idea dell’impossibile, dell’irreparabile repugna in grado supremo all’anima nostra; perciò la speranza è l’ultima a morire. La morte ha questo di buono: uccide la speranza. Invece tu speri ancora; tu dici: «È forse impossibile che questo passato risorga? No: basta che ella voglia....» Allora pensi a tutti i suoi momenti buoni, a tutte le prove di tenerezza che ti diede; vorresti gettarti un’altra volta ai suoi piedi, affidarti alla sua pietà. Tu pensi: «Se ella dice di sì, che tripudio scoppierà nell’anima mia! Questa benda di ferro che mi fascia la testa cadrà! Che aria ravviverà il mio petto oppresso! E come impazzirò di gioia dopo essere stato sul punto d’impazzir di dolore!...» Ed ella ti risponde: «No!...» Accusa la morte, adesso!... Per la creatura morta tu provi una infinita pietosa dolcezza, una soave malinconia rassegnata; per questa creatura viva il rancore, il livore si mescola alla tua passione e la intorbida e la corrode e ti strugge.

Tacque anch’egli, ansando un poco. Franz non aveva opposto nessuna ragione agli argomenti di lui; Ludwig se n’era rimasto sempre a guardar l’orizzonte che adesso, nella sera già calante, si veniva perdendo.

— Conosco, — diss’egli finalmente, portandosi le mani alla fronte e passando le palme sulle sopracciglia, — conosco una fine d’amore più triste ancora di tutte coteste.

I due amici lo guardarono.

— La fine d’amore più triste, più tormentosa, più tragica, è un’altra. Non è la brutale che segue alla morte, o all’abbandono, al tradimento: è la fine lenta, lunga e quotidiana, l’esaurimento continuo prodotto dall’azione del tempo, dal fatale svanire d’ogni cosa umana. Il giorno che voi avete confessato l’amor vostro, che ne avete ottenuto il ricambio, avete detto a voi stesso: «E’ per sempre! per sempre!» Voi credete a questa parola, pensate che se qualcosa d’indipendente dal vostro volere non accadrà, l’amor vostro durerà eternamente. Ed è, dapprima, il tripudio più puro fra le proteste più pazze. Un sentimento di meraviglia occupa il vostro spirito: pensate alla creatura che vedeste un giorno da lontano, a cui parlaste col rispetto più timido, per cui sentiste nascere il desiderio più disperato — e questa creatura adesso è vostra, vi appartiene, tutta! Voi quasi nol credete; se la vedete, talvolta, passar da lontano, il dubbio rinasce nel vostro spirito. Nel cuor vostro una gratitudine immensa, una devozione sconfinata raddoppia l’amore. Tutti i giorni voi le scrivete, le mandate qualcosa del vostro pensiero, del vostro cuore. Ella impara a memoria le vostre lettere, ve le ripete, ve ne chiede altre. Voi ricominciate, ancora, sempre; ma, senza accorgervene, le antiche espressioni vi ritornano sotto la penna e, a poco a poco, naturalmente, vi ripetete. Vi mancano le parole? Che importa! Voi pensate che da tutti i vostri atti, da tutta la vostra vita, ella dev’essere assicurata della saldezza del vostro affetto. Ella non pensa così; si lagna perchè vi crede intepidito, fa consistere il bene in certe cose che per voi non hanno significato. State in guardia: voi cominciate a scorgere i difetti nell’idolo. E se chiudete gli occhi per non vederli, altri invece se ne rivelano. Allora voi ve ne fate una ragione; tutte le creature umane non hanno forse i loro?... Sapete che cosa vuol dir questo? Vuol dire che dal periodo epico voi già passate a quello critico. Voi vi ammirate per la vostra penetrazione, per la vostra ragionevolezza. Il vostro egoismo vi mantiene pertanto in una illusione; vi dimostra che, dal canto vostro, voi non avete difetti di sorta; ella non può, non deve trovarne in voi. Un bel giorno, una sua parola, l’accento col quale ella la pronunzia, vi aprono gli occhi; ella ha scoperto i vostri difetti secreti, le vostre debolezze intime, quel che c’è in voi di manchevole, di meno bello. Allora il vostro amor proprio s’impunta. E vi chiudete in un offeso riserbo, o vi vendicate dicendole apertamente i suoi torti. Adesso ciascuno di voi giudica l’altro, senza riguardi, per quel che vale. Un istinto d’avversione vi domina; ma i legami che vi stringono sono tanto forti che non si spezzano. E sapete a che cosa somiglia allora la vostra situazione? Somiglia a quella di due forzati avvinti da una stessa catena, ciascuno dei quali è costretto a non fare un passo che l’altro non faccia. Quando voi pensate all’illusione dei primi giorni, chiedete: «Come mai s’è dissipata?» E non sapete rispondere; il disinganno s’è venuto operando lentamente, inavvertitamente. Presto s’accresce ancora; presto voi domandate un’altra cosa, la cosa opposta: «Come ho potuto illudermi?» Tanto è profondo l’abisso scavatosi!... Tutto ciò vi fa paura, perchè quel complesso di moti diversi ed opposti che si chiama l’amore è ancora in voi. Ecco: voi chiudete gli occhi, abolite la percezione del mondo circostante, guardate in fondo alla vostra memoria. Il ricordo dei giorni sereni vi brilla: perchè non potreste riafferrarli? La donna che voi amate non è morta, non v’ha abbandonato, è sempre vicina a voi; ma sapete che avviene? Ella non è più la stessa che conosceste un giorno. L’assiduità con la quale l’avete contemplata, esaminata, studiata, ha finalmente alterato le linee del suo viso, della sua persona; vi ha fatto scoprire in lei aspetti, attitudini, espressioni che prima non avevate visti. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo che nacque l’amore; per questo la rimettete nella stessa luce nella quale prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei, non può esser più lei... Le sue carezze d’ora non sanno più come le prime; le sue parole d’ora non hanno il suono delle antiche. Voi comprendete che uno stesso mutamento accade in lei, ma nessuno di voi ha il coraggio di dirlo. Ella vi domanda di ripeterle le parole innamorate che le prodigaste; le ripetete, e una ironia amara vi torce le labbra. Lontano da lei vi proponete di dirle tutto, sinceramente, di non rappresentare più oltre una commedia; trovate le parole, cominciate una lettera, ma non avete la forza di compiere il vostro proposito. Se qualche momento di tenerezza ritorna, dovreste esultare, è vero? Invece il vostro scontento s’accresce; vi accusate di fiacchezza, di imbecillità; avreste voglia di percuotervi, d’insultarvi...

L’ultima luce agonizzava, un chiarore verdastro si diffondeva sotto le nuvole pesanti, illividiva i volti dei tre uomini al cui sguardo la desolata campagna e il mar flagellato formavano come un paesaggio appartenente ad un altro mondo, più vuoto, più freddo, più lugubre.

— Chi non ha conosciuto questo, — riprendeva Ludwig, — non sa nulla delle agonie sentimentali, della vanità degli affidamenti, dei giuramenti umani. Per sempre!... Non una potenza ineluttabile, non una volontà estranea alla vostra distrugge questa promessa; ma il vostro stesso cuore; siete voi che ridete di voi! La fine più brusca, la rottura più repentina non hanno nulla di tanto lacrimevole quanto questa agonia. La pietà si mescola allo sdegno ed all’ironia; in certi momenti dimenticate il vostro scontento pensando al dolore che si rovescerà su voi due quando le parole irrevocabili saranno pronunziate... E prolungate l’inganno, e soffrite, e fate soffrire; finchè, un giorno, quando meno ve l’aspettate, a proposito di nulla, tutto finisce... Sapete allora che accade?

Nessuno rispose. L’oscurità invadeva la stanza; nessuno pensava a far accendere il lume.

— Accade, al morale, qualcosa di simile a quel che avviene al fisico, quando una parte del vostro corpo, mortificata, distrutta, è portata via dal ferro del chirurgo. Sapete quel che si legge nei libri: l’infermo, spasimante, s’acqueta sotto l’azione torpente dell’etere. Dapprima un senso di liberazione, un’aura esilarante gli rinfrescano il cervello. Egli ride, si sente più leggiero, quasi trasportato su per l’etere, per quell’altro etere, l’imponderabile. Poi s’accascia, s’addorme, non sente più nulla. Quando riapre gli occhi alla luce, tutto è finito; il suo piede sfracellato, il suo braccio incancrenito non sono più attaccati al suo corpo. Egli guarda il posto vuoto; ma che cosa è il nuovo portento che adesso si compie? Egli sente che il piede, che il braccio portati via aderiscono ancora a lui; le sue sensazioni vi si localizzano ancora; egli vi avverte come un formicolio, crede di poterli muovere, adoperare... Così accade nell’anima. Quando la passione mortificata ne è stata staccata, quando il ragionamento vi dice che non potrà più tornare, il vostro sentimento si proietta ancora in essa e, più di ogni altro moto reale, più d’ogni altro affetto presente, l’anima avverte la presenza dell’amore perduto...

La notte era fonda e la voce moriva.



IRONIE

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