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L’Amor supremo
Lettere di commiato Nessun maggior dolore

L’AMOR SUPREMO


   Amabile amica,

La fiducia della quale ella mi onora è veramente grande e — lasci parlare una volta la modestia! — immeritata. Nonostante la disparità delle nostre opinioni, e perdonandomi la vivacità di certe mie argomentazioni, ella si degna ricorrere ancora a me per farmi una domanda e propormi un quesito: «Ma insomma, qual è, a vostro parere, l’amore migliore?»

Ahi, contessa! Io potrei risponderle al modo molto laconico della duchessa di San Severo, e dirle: «Nessuno!...» Questa passione è talmente difficile, si dibatte fra tanti contrasti, ha da superare così formidabili ostacoli, che la sua vita è troppo breve e tutta avvelenata. Io non le ripeterò a questo proposito i miei ragionamenti d’un tempo, poichè ella, bontà sua, li rammenta ancora e giudica che, nonostante le «solite» esagerazioni e l’«insoffribile» preconcetto di scetticismo, io potrei anche avere, in fondo in fondo, ragione. Ma ella dice — e la ragione è questa volta con lei! — che se pure in tutti gli amori c’è qualcosa di amaro e di guasto, nondimeno, paragonati gli uni con gli altri, si dovrà pur trovare che alcuni furono pessimi ed altri, se non ottimi, migliori. Il mio dovere è dunque di rispondere meno laconicamente alla sua domanda; ed ella si disponga anzi a temere che la risposta mia sia per essere troppo prolissa.

Vuol dunque sapere quale sarebbe, secondo me, per un uomo e una donna, l’amor supremo? Sarebbe questo. L’uomo, fino a trent’anni, ha fatto sua l’antica divisa: Je prends mon bien où je le trouve. Egli ha amato in tutti i modi, e di tutti i suoi amori è rimasto scontento. A trent’anni — non un giorno di più! — incontra una vergine, il cui solo sguardo gli rivela — a lui che crede di conoscere tutta quanta la vita — come vi sia ancora un mondo nuovo, inesplorato, insospettato: il mondo dei sentimenti puri, delle cose degne e sante. Questa vergine non è neppur lei una bambina che s’affaccia appena alla vita: ha visto altri uomini, ha creduto d’amarne alcuni; poi, all’idea di legarsi con uno di costoro indissolubilmente, s’è accorta che le sue inclinazioni non erano forti e prepotenti. Quando incontra quest’uomo, ella comprende che il suo sentimento d’ora è invincibile; e questa vergine e quest’uomo si uniscono, per sempre. La loro gioia è l’invidia del mondo. Crede ella che sarebbe maggiore se entrambi fossero stati del tutto inesperti, e che la reciproca gelosia del passato li turbi? No, no. Appunto perchè entrambi hanno altra volta creduto d’amare, la vergine soltanto con l’anima, l’uomo in tutti i modi, appunto per ciò possono ora dire di amar veramente. Ella non è gelosa delle donne che lo sposo suo in altri tempi amò, non le pensa neppure; o se anche le fa oggetto d’un pensiero, accorda loro la sua pietà, perchè ella è buona, sovranamente; ma, nonostante la bontà sua — io le presento creature di carne ed ossa, non perfezioni fuor dell’umano — costei pensa con un moto di superbia: «Per me, per virtù mia, quest’uomo che poteva continuare a prendere il suo piacere dovunque, liberamente, ha fatto il sacrifizio di tutto sè stesso.» Egli non è geloso degli uomini che ella altra volta pensò; egli dice: «A me, a me solamente questa vergine che tanti sospirarono invano ha dato gl’intatti tesori.» E poichè egli conobbe la vita, è ora in grado di difendere, di tutelare la sua fortuna. A questa vita egli inizia, accortamente, la sposa; e come ella gli ha rivelato cose ignorate ed ha fatto di lui un uomo nel miglior senso della parola, così egli fa d’una fanciulla una donna. L’amor loro è fruttuoso; le loro due vite, che essi vorrebbero veramente confondere in una, ma che restano pur separate, si confondono nella vita dei figli.

Il tempo passa, e col tempo l’impeto della loro passione si è venuto sedando. Fatalmente, perchè tra due volontà diverse l’accordo non può essere costante ed eterno, essi non potranno evitare i malintesi e i dissensi; ma, comprendendone entrambi la fatalità, si accorderanno reciprocamente indulgenza. Conoscendosi sino in fondo, ciascuno avrà compreso, — ma nello stesso tempo scusato — i difetti dell’altro — perchè essi sanno che nessuno al mondo è senza difetti. La passione sedata non è più passione; e, per una legge ancor essa fatale, nelle anime tranquillate i germi di passioni nuove, le tentazioni d’altri amori si verranno insinuando. Ma se ciascuno di essi avrà pensato di poter ritrovare altrove una scintilla della gran fiamma, avrà pure preveduto che la nuova fiamma si spegnerà troppo presto; e se pure questa previsione non sarà stata capace di trattenerlo, un sentimento che in queste due anime vince tutti gli altri avrà combattuto e distrutto il germe della nuova passione. Questo sentimento al quale entrambi sono educati, è il sentimento dell’onore, del rispetto, della dignità; è, in una sola parola, il Dovere. Obbedirne le voci imperiose sarà facile ad essi se ciascuno sarà, com’è, compreso di gratitudine per la gioia che l’altro gli diede e per il bene che gli fece; sarà ancora più facile solo che essi pensino ai figli, ai quali debbono nascondere gli esempii del male. E se la tentazione fu molto forte, se per seguire la via doverosa uno dei due ebbe a sostenere uno sforzo grande, tanto meglio: la sua soddisfazione sarà tanto maggiore, tanto maggiore sarà la stima che l’ altro gli deve. Così varcheranno l’età delle prove, finchè uno chiuderà con mano tremante gli occhi dell’altro.

Ecco quale sarebbe l’amor supremo. Ella vede bene, mia cara amica, che io non ho imaginato un idillio, una favola troppo romantica, tutta ideale e fuor della vita. Io ho fatto molte concessioni alla realtà, tante concessioni che nessuno dirà impossibile un tale amore. Eppure di questo amore possibile, possibilissimo, di questo amore che è il sogno delle migliaia e migliaia di sposi che escono ogni giorno nel mondo dal municipio e dalla chiesa, quanti esempii le potrei addurre?... Ahimè! Gli esempii, ho paura, sono rarissimi...

Eccomi pertanto costretto, per rispondere alla sua domanda, di cercare altrove.

Una volta io andai in casa del mio amico Hans Ruthe. Costui è, come ella sa, Don Giovanni redivivo. Sui mobili del suo salotto vidi molte fotografie di uomini e un solo ritratto di donna. Io pensai tra me: «Senza dubbio costei dev’essere stata la favorita di questo sultano; perchè egli si tenga sotto gli occhi il solo ritratto di lei bisogna che ella gli abbia lasciato i ricordi migliori.» E poichè, per natura e per necessità di mestiere, io sono molto curioso, così non mi contentai di pensare questa cosa, ma la dissi all’amico mio. Il quale, udendola, si mise a ridere di quel suo riso che è pieno di tanta amarezza. «Mio caro,» rispose, «tu hai un intuito proprio meraviglioso! Sì, questa è la donna che m’ha lasciato migliori ricordi. I ritratti di tutte le altre io non li ho più: alcuni li dovetti restituire, quando i tristi amori finirono; altri li lacerai quando ebbi ben conosciuto gli originali; altri sono andati dispersi perchè non avevo proprio ragione di serbarli, giaceranno inutili in mezzo a chi sa quali carte inutilissime. Questo solo ho custodito e tengo dinanzi agli occhi, perchè questa è la sola donna che avrei amata ma che non amai, che forse m’avrebbe amato ma che non m’amò...

Ecco, ella dirà, una risposta «delle mie,» cioè una risposta che non significa niente. Infatti, di re che il migliore amore è quello che non fu provato, potrebbe parere una cosa insensata. Vengo pertanto senza perder tempo a più concrete risposte.

«Io ero,» mi narrò una volta un amico, «in uno stato d’animo quasi disperato per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegarti, quando una sera fui condotto in casa d’una signora, e poniamo che si chiamasse Donna Paola. La dama, proprio quella sera, stava poco bene e non riceveva. Tornai indietro con la stessa tristezza con la quale ero venuto, ma in cuor mio avveniva qualcosa di nuovo; quel contrattempo mi procurava un certo senso di contrarietà. Il nome di Donna Paola non mi era ignoto; anzi avevo molto udito parlare di lei dalle sue amiche; la marchesa Antonietta, specialmente, m’aveva detto: «Vedrete, vedrete: quando l’avrete conosciuta dimenticherete noi tutte.» Chi era dunque costei? Forse una bellezza straordinaria? No: io avevo sentito dire, non solo dalle donne, probabilmente sospette, ma anche dagli uomini, giudici certamente credibili, che Donna Paola era tutt’altro che bella; uno, anzi, aveva soggiunto che non gli pareva neppure desiderabile. La fantasia non poteva dunque farmi intravedere, dietro quel nome, una figura affascinante; io non potevo costruire per mio uso e consumo un tipo ideale al quale attribuire tutte le perfezioni. La fama di Donna Paola era fondata sulle qualità intellettuali di lei, sul suo spirito, sulla sua coltura, sulla sua scienza del mondo; ora tu mi concederai che queste doti sono le meno capaci di sedurre da lontano. Nondimeno io ero curioso di conoscere questa donna, e la mia curiosità era alimentata dall’insistenza con la quale la marchesa voleva presentarmi e dallo strano rinnovarsi del primo contrattempo. Tre, quattro volte ancora io mi credetti sul punto di incontrarla, e Donna Paola rimase invisibile. Una sera che arrivai tardi in casa della marchesa, verso la mezzanotte, l’amica mi disse con un tono di irritazione quasi comica: «Ma dunque lo fate apposta?... Va via in questo momento!... Parrebbe quasi che ne abbiate paura!...» Io provai di dimostrare la mia innocenza; ma la marchesa non volle sentir ragione: «Lo fate apposta, la fuggite; non mi darete mai ad intendere che arrivate e andate via, per puro caso, proprio quando ella mi lascia o sta per venire! Adesso spero che la finirete; le ho promesso di presentarvi!» Io risposi, con un fare complimentoso che nascondeva un certo senso di stupore: «Dica piuttosto che ha promesso a me stesso!...» ma ella insistè: «Nossignore, ho promesso a lei, proprio a lei, proprio a lei;» e con un’espressione del viso che diceva molto più delle parole, soggiunse: «Vi conosce di nome, ha sentito parlare di voi. Vuol sapere se è vero tutto il male che se ne dice. L’altra sera non eravate al Costanzi? Qualcuno vi ha additato a lei...» Dopo una breve reticenza, concluse: «Badate: le piacete!» A un tratto la mia faccia s’imporporò, poi il sangue mi corse tutto al cuore, e da quel momento non ricordo più che cosa mi accadde nel resto della serata. Fu un vero coup de foudre, un fulmine senza lampo — poichè le tenebre che avvolgevano la figura di quella donna restavano impenetrabili. Fu anche come l’ebbrezza prodotta da un liquore dolce, un’eccitazione di tutte le sopite facoltà del corpo e dello spirito, il repentino sollevamento dell’anima oppressa, la rifioritura del sorriso negli occhi, del canto sulle labbra. E cantando i versi musicali di un Poeta come me tremante di gioia:

   Io sarò forse l’amante,
   Io felice le mie notti
   Dormirò sopra il suo cuore,

mi misi a vagare per le strade deserte, guardando il cielo, ignaro della terra. No; io ricordo qualche cosa di quella notte: ricordo il pianto muto e soave che sgorgò dai miei occhi quando la gioia die’ luogo alla tenerezza, quando tutta la gratitudine della quale ero capace esalò dal mio cuore, come un vapore d’incenso, verso l’Ombra... E lo strano incontro di casi che m’aveva impedito di conoscere Donna Paola si rinnovò ancora: la marchesa partì improvvisamente per Parigi, chiamata da una malattia del marito; gli amici si dileguarono a uno a uno perchè la stagione s’inoltrava; io stesso dovetti finalmente tornare a casa. La stessa ombra dell’ombra scomparve, io non udii più ripetere il nome di Donna Paola; ma il sentimento destato da quel nome sopravvisse, dolce e tenace, a lungo; e se non potei raffigurarmi quella creatura dalla quale ero stato pensato, alla quale pensavo, la vidi nell’anima quale doveva essere e provai per lei la vitale dolcezza della fede più pura. Questo è stato il mio più degno amore.»

Ella dirà: «Se non zuppa, è pan bagnato!» Infatti la passione dell’amico mio per una donna di cui non aveva visto neppure la punta del naso sarà stata, secondo egli dice, degnissima e suprema; ma difficilmente potrà esser presa sul serio. Ma che posso io farci, amica, se solamente gli amori che non hanno lasciato ricordi sono ben ricordati? Oda quest’altra storia; è un poco diversa, ma poco, in verità. E’ una confessione anonima, ma come tutte le altre autentica.

«Io conobbi questa donna da bambino, quando avevo otto anni. Ella ne aveva il doppio di me. Bella, bella, tanto bella che non posso dire. Udrete fra poco quanto forte fu l’impressione che ne riportai. Aveva il doppio dell’età mia, era una signorina. Era intimissima della nostra famiglia, anzi mezza parente. Un giorno, salutandoci, ci baciammo in viso. Il domani ella mi disse, senza che altri potesse udire: «Come fu dolce il bacio che mi desti!» Io non seppi dir nulla e quasi non credetti alle mie orecchie; ma le inaudite parole s’incisero nel mio pensiero, indelebilmente. Cresciuto di qualche anno, ella soleva prendere il mio braccio e passeggiare con me «come due sposi,» diceva. Io non dicevo nulla, trattenevo il fiato per paura che quella felicità finisse, e mi pareva che tutta la bellezza fosse in lei, e tutta la dolcezza, e tutto l’amore. La notte io la sognavo; e nel sogno, con lei, conobbi la voluttà. C’era fra noi troppa differenza di età perchè potessi pensare a sposarla: quando ebbi sedici anni ella ne aveva ventiquattro. Ella mi aveva detto un giorno: «Ti aspetterò». Neppure allora io avevo risposto nulla; ero bambino ancora, ella si divertiva a giocare all’amore con un bambino. A venticinque anni andò a marito, in un’altra città. Io che ne avevo diciassette feci quello che fanno tutti, a diciassette anni. E quando provai la realtà dell’amore, risi dei miei sogni, dell’amoretto infantile. Ma accadde questa cosa: che il sogno, di tanto in tanto, tornò: io la vedeva in sogno, l’udivo dire arcane parole d’amore, la vedevo offerirmisi; e tra le sue braccia incorporee io spasimavo come non mai con le creature viventi. Alla lunga me ne venne quasi un senso di sdegno, anzi di vergogna: era possibile che solo un’ombra mi facesse tanto felice? Non dovevo io essere infermo perchè questa cosa accadesse? Pensavo, per confortarmi, che ciò accadesse perchè le creature viventi con le quali potevo trovarmi erano indegne; aspettavo pertanto di avere un’amante, un’amante che fosse mia soltanto e non già di tutti, affinchè la realtà trionfasse finalmente del sogno. Ed ebbi l’amante e con l’anima i sensi tripudiarono, e mi credetti guarito; ma una notte, uscendo io dalla casa di lei estenuato dalla voluttà e caduto pieno di sonno sul mio letto, Ella, l’Altra, m’apparve. La sua fronte era velata dalla tristezza, il suo sguardo era pieno di lacrime. «Tu m’hai tradito! Hai potuto tradirmi!... Non ti rammenti più il nostro primo bacio? Come fu dolce il bacio che mi desti!...» Io le risposi, sentendomi struggere dal dolore: «Tu stessa m’hai tradito, sei d’un altro, te ne sei andata lontano...» Ella mi guardò con gli occhi lacrimosi e stupiti. «D’un altro? Ma non sai che io sono la sposa tua, soltanto? Non sai che mi sono serbata a te, intatta? Non sai che tu sei il mio desiderio, la mia speranza, il mio sospiro?...» E le nostre braccia si strinsero, e le nostre bocche si unirono, e io mi destai morente d’ebbrezza... Orbene: questo sogno tornò e tornò ancora, molte volte, durante quell’amore, durante altri amori. Tornò a intervalli or brevi ed or lunghi, talvolta di un anno, talvolta di due; ma quando l’ombra m’appariva e dopo che era svanita, io sentivo, destandomi, che quell’ombra, che quel ricordo trionfava d’ogni realtà. Un giorno, dopo moltissimo tempo, la rividi in persona; era una rovina, invecchiata, disfatta, non più donna. E dopo averla riveduta così nella vita, io la sognai ancora una volta, più bella di prima: «Che cosa hai creduto? Guardami bene: non sono sempre la stessa? Non sono la tua sposa, l’amante tua unica?...» E ancora le sue parole e i suoi atti d’amore m’inebriarono come non mai. Ora ella è morta; intendete: ella è putrefatta sotterra, è ridotta uno scheletro fra quattro assi marcite; e quantunque ella sia morta, e quantunque io stesso sia sulle soglie della morte, pure ella continua ad apparirmi, a quando a quando, e a deliziarmi; e oramai ho compreso: il supremo amore della mia vita è il primo, l’amore dell’infanzia, perpetuato nella memoria, vivificato dal sogno...»

Siamo sempre lì: ella dice che questi non sono amori nel vero senso della parola. Ella vuole che io le parli di gente che abbia amato creature di carne e d’ossa, non già sconosciute o meri ricordi. E il mio imbarazzo è troppo grande, perchè tutti gli amori dei quali ella vorrebbe ch’io ragionassi lasciano tante amarezze che nessuno pare da preferire ad un altro. Senza le nequizie del tradimento, gli stessi malintesi inevitabili, il disaccordo, lo svanire dell’illusione, il ribadirsi d’una catena che pareva di rose ma che diventa un triste giorno di spine, sono causa di troppa pena. La vita è tanto malvagia e l’amore è tanto difficile, che bisogna quasi augurarsi il caso orribile del quale invece ci dogliamo, il caso di veder morire la creatura amata prima di odiarla e quando il piacere non s’è mutato ancora in disgusto... Se in questo augurio c’è un troppo feroce egoismo, non si potrà far altro che capovolgerlo e desiderare che la morte colga noi stessi nella troppo rapida fase dell’amore felice. Non sa ella del resto che questo è il voto istintivo d’ogni coppia amante? Quasi una profetica voce ammonisca i due amatori della caducità della loro fortuna, quasi presaghi che questa fortuna è la ma ssima e l’ultima ad un tempo, essi chiamano la morte, la pregano, e sfogliando le cronache dei giornali non è difficile trovare l’esempio di alcuni che se la sono procurata. E se pur vogliamo lasciar da parte la morte, vuole ella sapere quali sono gli amori migliori, quelli dei quali serbiamo una tutta pura e tutta dolce memoria? Sono gli amori troncati bruscamente, ma in tempo, cioè quando ancora il verme della dissoluzione non ha cominciato la nefanda opera sua. Quando Carlo Landini perdette, senza saper perchè, Anna Solari; quando la contessa Bianca des Fayolles dovè lasciare per sempre Roberto Berni — ella forse rammenta ancora queste antiche storie — i ricordi di questi amori restarono nel cuore dei due uomini come uno struggimento ineffabile, come l’aspirazione suprema, come tutta la poesia della loro vita.

E se finalmente le risposte che le ho date finora non la contentano, se ella vuole l’esempio d’un amore che sia sommamente raro e ineffabile, io ho ancora qualcosa per lei. È l’avventura della quale una sera, a Ginevra, udii la narrazione da uno degli stessi protagonisti. Non posso dirle i loro nomi, ma non le sarà difficile indovinarli. Per sapere chi è l’uomo cerchi fra gli scultori che in più fresca età sono venuti maggiormente in fama; se vuol sapere chi è la donna, cerchi fra la breve schiera delle scrittrici — italiane s’intende, — di romanzi e di novelle. Lo scultore e la novellatrice non si conoscevano ancora di persona, vivendo in città lontane, ma molto di nome; e, senza conoscersi e neppure prevedendo di conoscersi un giorno, avevano pensato l’uno all’altra e l’altra all’uno. Udendo parlare dell’ingegno della scrittrice, ed anche della sua bellezza — ecco che ella ha indovinato chi è — lo scultore s’era messo a pensare a lei come a una creatura l’amor della quale doveva essere una gran cosa. E la scrittrice, pensando all’ingegno dell’artista ed alla sua maschia venustà — è uno dei più belli campioni del sesso mascolino, e un’altra volta, all’orecchio, le dirò un particolare inaudito e quasi incredibile — s’era messa a pensare a l ui con lo stesso sentimento fatto di desiderio. Ora un giorno, a una festa giornalistica, a Roma, inopinatamente si incontrarono e qualcuno fece la presentazione. Restarono entrambi come fulminati. Tutto scomparve ai loro occhi: la gente che li circondava, il luogo dove si trovavano, lo scopo per il quale ciascuno d’essi era venuto. Un impeto, un’ansia, una febbre di vedersi, di toccarsi, di unirsi, faceva tremare i loro polsi. Egli le disse: « Vieni?» Ed ella rispose: « Andiamo». Uscirono; non seppero, non rammentano più come; non dissero una parola per via. Egli la condusse nel suo studio. E appena entrati caddero sul tappeto disteso al suolo, avvinghiati furiosamente.

Se la nativa freddezza o l’acquisita ipocrisia suggeriscono alle donne una resistenza che annoia ed offende gli uomini fervidamente amanti; se la diversità dei sessi fa che la coppia non si formi tosto; questo accordo fulmineo, questa perfetta intesa, questa esatta reciprocità degli impulsi sarebbero, come già dicemmo, l’ideale. Se non che le leggi della natura non sono arbitrarie. Ora l’amore del nostro scultore e della nostra scrittrice è per questo il loro migliore ricordo: perchè durò un’ora e non ebbe domani. La donna partì quando lasciò quella casa; e i due non si sono riveduti mai più...

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