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L’affare dei quattrini
Il gran Rapporto Un'equazione morale

L’AFFARE DEI QUATTRINI


   Contessa!

Ho proprio da continuare? Ella mi dà proprio carta bianca? Dice davvero, o non piuttosto per ironia? Giudica tanto enormi le idee e i fatti che le ho esposti, che oramai non teme più di poter essere scandalizzata?... Io non voglio escire dall’incertezza. Credere d’averla persuasa mi farebbe molto piacere; però la modestia mi vieta d’accogliere questa persuasione; esser certo d’avere sprecato tempo ed inchiostro mi dispiacerebbe troppo. Mi lasci nel dubbio, che è l’ordinaria condizione della nostra mente; ed io intanto continuo.

Sì, precisamente: se io sostengo che l’istinto è la radice del sentimento, affermo per conseguenza che da un istinto più forte e veramente irresistibile si sviluppa nel cuore degli uomini un sentimento più ricco e lussureggiante che non nel cuore delle donne; come le piante più frondose e fruttuose sorgono da una più profonda radice. Sì, precisamente: io sostengo che gli uomini non solo amano essi soli, o tanto meglio delle donne che l’amore di essi assomiglia ai biglietti veri e quello di esse ai biglietti falsi; ma sostengo ancora che i sullodati uomini comprano l’amore e pagano — molte volte con veri e proprii biglietti di banca — le donne suddette.

Lascerò da parte — tanto, mi pare che ella sia proprio sincera quando mi dà ragione su questo punto — i modi indiretti di pagamento. Quando il maschio dedica gran parte delle sue forze a conquistare la femmina; quando, dopo averla conquistata, la difende e con lei difende la prole, è evidente che fa una vera spesa, un consumo di forza, un sacrifizio di energia. Quando un marito si mette sulle spalle il peso della famiglia, è innegabile che l’amore gli costa. Lasceremo ancora da parte — e non dubito che questa omissione le piacerà — il mercato d’amore propriamente detto, dell’amore avvilito e impropriamente detto amore. Noi dobbiamo ragionare dell’amore libero, dell’amor degli amanti che non contrattano nè dinanzi al notaio nè dinanzi a un più servizievole personaggio. Quest’amore costa anch’esso; e, come ella sa, si suol dire che le donne più care non sono quelle che si vendono. Tuttavia, quando un uomo si rovina per fare la vita che piace all’amica sua, per seguirla dove ella va, per nascondere in un degno nido la propria fortuna, per avere un vantaggio sopra i proprii rivali; tutte queste volte e sempre che l’amata non ottiene nulla per sè, potremo dire che l’amore costa a lui, ma non già ch’egli paghi lei. Il punto più controverso e più scabroso è un altro: ella non ammette che vi siano donne capaci di ottenere un materiale vantaggio nei loro amori; o meglio afferma che donne capaci di ciò meritano di stare con le mercenarie ed hanno sbagliato mestiere. Io dico invece che alle donne più pure di questo mondo l’idea di ottenere qualche vantaggio reale nell’amore più ideale non repugna affatto; anzi che a questa idea vanno naturalmente quando si vedono pregate, supplicate, implorate; quando odono dire e ripetere che per esse l’amante farebbe tutto, darebbe tutto, che l’amor loro è impagabile. Sicuramente fra l’idea di vedersi deporre ai piedi i tesori di Golconda e l’atto di accettare uno spillo ci corre; sicuramente molte donne reprimono la lusinghevole idea e rifiutano perfino lo spillo; ma altre moltissime si comportano diversamente senza che per ciò siano da mettere insieme con le sciagurate che fanno dell’amore un mestiere. «L’oro e i doni splendenti hanno una muta eloquenza,» ha detto Shakespeare, «che muove il cuor d’una donna meglio dei più belli discorsi...»

Vico Dastri, che è l’uomo, come ella sa, più curioso e, per la smodata curiosità, più impertinente di questo mondo, suole tentare spesso la seguente esperienza. Accompagnando per le vie qualche bella dama con la quale fa il galante, se questa dama si ferma dinanzi alla mostra d’un gioielliere e ci lascia, come si suol dire, gli occhi, Vico Dastri, con l’atteggiamento e la voce del serpente nell’Eden, pronunzia una frase composta per la circostanza, alla quale non muta mai una sillaba: «Dite una sola parola, fate un cenno soltanto e tutto questo è vostro...» Egli sa che non può esser creduto, che l’offerta deve parere ciò che è, uno scherzo d’equivoco gusto; ma egli scherza sulla virtù delle sue amiche; dice loro, in altre parole: «Venite con me, ed io vi darò non tutte queste gioie, ma quelle alle quali la mia borsa mi permette d’arrivare...» Orbene: nessuna delle sue amiche gli ha mai espresso o ha finto di esprimere sdegno: molte hanno scrollato le spalle come udendo una qualunque sciocchezza; la maggior parte hanno rivelato il vero sentimento destato nel loro intimo da quella proposta con un sorriso di solleticato compiacimento, di contenuta e discreta vanità, con un sorriso il significato del quale non è dubbio: «Se voi poteste ottenere così ciò che chiedete, credo davvero che non fareste un cattivo affare!...»

Quel povero Raeli del quale le ho più volte parlato, stimando che la sua amica, la signora Woiwosky, fosse donna di sentimenti sublimi, cominciò, come ella rammenta, a dubitare e perciò a soffrire quando, all’indiscreta domanda che già le riferii, la dama rispose in modo che voleva essere evasivo, ma era molto, anzi troppo chiaro. «Debbo io dolermi della su a risposta?» trovo scritto nel suo Giornale di bordo. «Non l’avevo anzi prevista? Se già sospettavo l’effetto prodotto in lei da quell’uomo, perchè questo malsano bisogno d’ottener la conferma d’una cosa ferente? La dolorosa certezza è preferibile al dubbio? Ma il dubbio non è forse doloroso ancor esso? Qual è dunque il dolore più grave?... Se prevedevo la sua risposta, vuol dire che questa era una logica, naturale ed umana risposta. E perchè dolermi di ciò che è umano, naturale e logico? L’idea ch’io m’ero costruita di quest’Essere era dunque illogica, innaturale e fuor dell’umano? Come il selvaggio, che derido, al quale mi credo tanto superiore, avevo fatto d’un Essere un Ente, un Feticcio?... Stasera un altro poco dell’oro del quale l’Idolo è rivestito s’è scrostato, è caduto. Ella è stata al ballo del principe di Walckenstein; vi ha incontrato il banchiere Grünmeyr. E’ giudeo, nano, vecchio, ignobile; ma possiede cento milioni. I suoi cento milioni lo rendono più attraente di un Don Giovanni che abbia avuto cento avventure, d’un artista che abbia fatto cento capolavori. Ella ha parlato con lui, gli ha parlato dell’immenso potere che un uomo tanto ricco deve aver la coscienza di esercitare, del sentimento ineffabile che il possesso di tanta ricchezza deve procurargli, dei piaceri regali, dei capricci fantastici che egli può pagarsi: che cosa può mancargli, chi può resistergli? Grünmeyr — mi pare d’udirlo — brevemente, come quando patteggia un affare, le ha detto: «Credete? Allora io vi darò un chèque in bianco: metterete voi stessa la cifra...» Ella mi ha narrato questa cosa. Io ho detto, con una stretta al cuore: «Scherzi da gaglioffo». Ella m’ha domandato: «Non credi che dicesse davvero?»

Ella vede di qui, cara contessa, il discorde atteggiamento di quelle due anime. La donna resta male perchè, sicuramente incapace di prendere lo chèque del banchiere, è tuttavia certa che Grünmeyr ha detto sul serio; perchè giova alla sua vanità credere che per ottenere l’amore di lei il banchiere darebbe qualcuno di quei tanti milioni; l’amante, che già alla narrazione dell’offerta s’è sentito offeso nella persona amata, ed anche un poco nella propria — giacchè a paragone del milionario egli è povero — sente ora scemare la stima e l’amore comprendendo che l’offerta non ha tanto offeso quanto solleticato l’oggetto dell’amor suo...

Ma qui siamo ancora nelle possibilità e non tra i fatti compiuti. Ella vuol fatti che dimostrino in qual modo la question d’argent è risoluta. Non è già facile addurne molti. Per delicatezza, per amor proprio, tanto è difficile che gli uomini rivelino la venalità delle loro amanti, quanto che le donne confessino d’avere ottenuto nulla nei loro amori. Certo, gradire un dono non è vendersi; ma non pare che la differenza sia tanto grande; pare anzi che il proverbio del vecchio Brantôme abbia, in fondo, ragione: «Femme qui prend se vend.» La consegna è dunque di tacere. Però la verità non sta sempre in fondo al pozzo, ed io ho qualche cosa per lei. A dire il vero, seppi le storielle che oggi le narrerò in circostanze molto particolari, le quali dimostrano che la verità non sta tanto nell’acqua dei pozzi quanto nel vino delle bottiglie.

L’estate scorsa, girando per le stazioni di montagna, capitai a Valsorrisa. Trovai l’albergo in rivoluzione. C’erano venuti da qualche giorno tre signori i quali parlavano una lingua a tutti sconosciuta: sul registro dei viaggiatori avevano scritto i loro nomi con caratteri incomprensibili. A uno Scozzese di mia conoscenza, il quale mi dava notizia di ciò, uno di essi aveva fatto capire, in un inglese orribile, che erano dell’Afganistan. E i tre Afgani, mi diceva l’amico mio, erano divertentissimi: le scene comiche tra gli Asiatici e gli Europei che o non s’intendevano o riuscivano a intendersi per via di vere pantomime, facevano morir dalle risa gli spettatori. Con le dame gli stranieri erano d’un’arditezza molto vicina all’impertinenza: nessuno propriamente capiva ciò che dicevano, ma s’indovinava che dovessero dire cose enormi. Alle cinque la commedia si svolgeva nella sezione idroterapica dello Stabilimento, dove gli Afgani prendevano la doccia. E alle cinque io scendo ai bagni, per andare a vedere; ma, appena mi scorgono, i tre Afgani s’arrestano, si turbano ed esclamano ad una voce:

— Siamo perduti!...

Questi Afgani erano tre miei amici piemontesi, i quali, per passar mattana, per dimenticare certi loro dispiaceri e per épater les bourgeois, avevano combinato di fingersi originarii dell’Afganistan, adoperando una lingua di loro invenzione, che è poi un italiano scombussolato secondo certe regole non molto difficili da ritenere. Ed ecco che la mia presenza li rovina!

— Qui bisogna far le valigie! — esclama Tito Castelli, e Giovanni Gabotti: — Si salvi chi può! — Io avrei promesso di fingere di non conoscerli, per godermi lo spettacolo; ma, sapendosi scoperti, essi non erano più capaci — e neppur io, in verità — di star serii. Deliberarono di partire la sera stessa, e, senza scendere a table d’hôte, mi vollero con loro a pranzo, in camera di Gabotti. Il ricordo delle scene più divertenti della loro farsa li metteva tanto di buon umore, che non badavano alle bottiglie vuotate; all’arrosto erano più che brilli. Ciascuno vantavasi di aver detto alle signore, in quel linguaggio convenzionale, le cose più incongrue di questo mondo; e come io, udendole riferire, mi mostravo un poco scandalizzato, Grolla disse:

— Va là, che meriterebbero d’averle ripetute in buon italiano! — E allora, tutt’e tre, cominciarono a dir cose, contro la più bella metà del genere umano, che neppure i Padri della Chiesa han detto le simili. Ella sa infatti, contessa, che secondo San Pietro la donna è vipera fischiante, secondo San Bernardo opera del diavolo, secondo San Cipriano peste, contagio, ruina... e le faccio grazia del resto. Dopo la frutta, il cameriere venne a portarci la nota, che essi avevano chiesto di pagare: doveva essere molto salata, perchè Castelli apostrofò il tavoleggiante così:

— Giovine! Noi ci siamo spogliati della cittadinanza afgana, ma il tuo padrone ci vuol ridurre in camicia!

Io feci notare che il padrone aveva messo nel conto le beffe che s’eran prese di lui e degli altri; e Grolla esclamò:

— Hai ragione; tutto si paga!...

— Anche l’amore!

— Specialmente l’amore!...

Allora io li feci parlare. Erano mezzo ubbriachi: dissero la verità, la verità vera, quella che alle volte non confessiamo neppure a noi stessi.

Grolla narrò:

— Imaginate che io ero al mio primo amore. Altrettanto non posso dire, in coscienza, dell’amica mia. Ella stessa mi dava a intendere che fosse al secondo; ma credo piuttosto che convenisse servirsi dell’espressione algebrica e chiamarlo ennesimo. Voi potete strappare alle donne la verità intorno al loro passato, ma come potete tirare il tappo di sughero da una bottiglia quando non avete cavaturaccioli: a pezzetto a pezzetto. Or bene: a pezzetto a pezzetto io strappavo all’amica mia il sughero — voglio dire la confessione della verità. Ella aveva una quantità straordinaria di gioielli; ma era tanto ricca, che avrebbe potuto averne, senza che me ne stupissi, anche il triplo. Un giorno me li mostrò tutti. Io notai che in qualcuno di quei braccialetti, di quelle spille, di quei monili, erano tracciate certe iniziali, certe date. Compresi che dovevano essere regali, i regali dei miei predecessori. Le domandai: «Sono ricordi?...» Ella mi rispose, chiudendo gli occhi: «Sì...» Notate che chiuse gli occhi non già perchè riconosceva d’aver preso quel ben di Dio, ma semplicemente perchè confessava alla fine d’avere avuto più d’un amante. Allora, se i miei predecessori avevano creduto di dover aiutare la memoria di lei, non dovevo anch’io mettermi in grado di non esser dimenticato? Qui però mi cascava l’asino. Io non avevo quattrini nè sapevo come farne. Gli amici miei ne avevano meno di me, e gli usurai mi negavano credito. Non vi narro per quali vie tortuose e con quali disgustosi espedienti misi insieme mille lire. Con mille lire credevo di poter fare le cose decentemente. La mia idea era di offrirle un ricordo nell’anniversario del nostro primo incontro. Ma come quel giorno s’avvicinava, la cosa m’appariva meno facile di quel che avevo creduto. Ero alle mie prime armi, vi ho detto. Cominciavo a temere di offenderla. Ella era molto poetica, e tutte le cose dove entrano i quattrini sono molto prosaiche. Bisognava trovare un’occasione propizia, inventare un modo lirico per offrirle un oggetto di valore. Ma non avrebbe rifiutato? Non si sarebbe sdegnata?... Io facevo un conto: ero stato con lei non più d’una cinquantina di volte: a venti lire, venivano appunto mille lire. Mi pareva, spendendo per lei tale somma, di pagarla a questa stregua; e tutto il mio proprio lirismo — ne avevo ancora! — insorgeva, disgustato ed offeso... Però, quegli altri, i miei predecessori?... Ma non mi diceva ella d’amarmi a un modo diverso da tutti gli altri?... Non mi giurava che, se era passata per altre prove, queste erano state tutte tristi, anzi orribili, e che solamente io le avevo rivelato l’Amor vero, con l’A grande? Dunque non avevo l’obbligo di comportarmi in modo diverso dagli altri? Dunque non era da prevedere che ella avrebbe male accolto l’offerta? Io mi tormentavo nell’imbarazzo, quando un giorno la trovai tutta eccitata. Veniva dall’aver visto i doni nuziali raccolti dalla figlia di una sua amica: cose regali. E cominciò a descrivere i bagliori dei brillanti, le iridescenze delle perle, le fiamme dei rubini; cominciò a noverare i fili delle perle, i cerchi dei braccialetti, le gemme degli anelli. Era inesauribile; i suoi occhi lampeggiavano. Io non l’udivo bene, pensando al caso mio, al modo di conciliare il rispetto che le dovevo col desiderio, col piacere di offrirle, non una di quelle cose sontuose che ella descriveva, ma la cosuccia che il mio biglietto laboriosamente messo insieme m’avrebbe permesso di comperare. Ed ecco che adesso ella descriveva un orologio: «Una cosa non di gran prezzo, ma d’un gusto, d’un gusto!...» E intanto che diceva com’era fatto, io pensavo che forse con le mie mille lire un oggetto simile potevo procurarmelo; ma dove? Altro imbarazzo: io non avevo pratica dell’oreficeria. Se avessi potuto dirle: «Vuoi cercarne uno eguale, affinchè io mi procuri il piacere di offrirtelo?...» ma come dire questa cosa? Avrei dovuto dirgliela abbracciandola, all’orecchio, piano, per non offenderla; o piuttosto prender le mosse più da lontano, così per esempio: «Senti... vorrei dirti una cosa; mi prometti che non me la negherai?...» L’espressione del mio volto, per quella cogitazione, doveva essere molto curiosa, se a un tratto ella mi disse, interrompendosi: «Non temere, sai: non te lo descrivo perchè tu me ne comperi uno eguale...»

Gabotti e Castelli picchiarono coi pugni sulla tavola, ridendo sgangheratamente.

— Ah! Ah! Bellissimo!... Straordinario!... Ah! Ah! Ah!... E tu, allora?

— Io, allora, le offersi le mille lire, perchè appunto ella scegliesse qualcosa di suo gradimento...

— E le prese? Le prese subito?

— Subito, no; mezz’ora dopo, quando andai via...

Le risa salirono al cielo.

Rideva più di tutti Castelli; Gabotti faceva piuttosto per dire qualcosa. Disse infatti, quando la clamorosa ilarità dell’amico sedossi, con un’enfasi e una stravagante preziosità di linguaggio dentro alla quale si sentiva uno sdegno amaro:

— Il tuo caso, tuttafiata, non parmi eccessivamente inedito e inopinabile. Vorrei quasi dire che è un caso alquanto ovvio. Ridotto alla più semplice ed assiomatica espressione, lice formularlo così: quando gli uomini dimenticano di pagare le donne, reclamano esse il pagamento. Anch’io provai, altrafiata, un imbarazzo molto simile al tuo. Sarò breve. Ero alle mie seconde armi. Avevo acquistato — e pagato! — una certa esperienza. Sapevo che, se avessi offerto qualcosa, non sarei stato messo alla porta. Tuttafiata, prima di offrire, mi restava da trovare l’opportunità dell’offerta. Una volta, nella ricorrenza di non so più quale anniversario, mandai alla metà dell’anima mia un gran fascio di rose bianche. Le rose bianche erano i fiori che ella portava alla cintura il giorno del quale si celebrava il ricordo. Il dono fu gradito in modo straordinario. La metà dell’anima mia mi disse, sul tardi, quando andai a trovarla, che le avevo procurato un piacere ineffabile. Non si stancava dal ringraziarmi; e come io tentavo di sottrarmi a così grata lode dicendo che non avevo proprio un gran merito nell’invenzion dell’omaggio: «No!» proferì ella: «Tanto piacere non m’avrebbe forse fatto una riviera di brillanti...»

E allora le risate degli altri mi assordarono. Grolla, specialmente, pestava coi piedi per terra, si dimenava sulla seggiola, come sul punto di scoppiare:

Forse!... Ah! Ah! Ah!... Immenso quel forse!... Gotico! Tricuspidale!... E allora, tu?

Il narratore concluse:

— Allora io le offersi non una riviera, ma una piccola spiaggia!...

Restava Castelli, che non aveva detto ancora nulla. Io lo incitai a non esser da meno degli altri e a raccontar la sua. Castelli, smesso di ridere, narrò:

— Io voglio riferirvi due frasi che udii dirmi, a uno stesso proposito, da due donne diverse. Una apparteneva alla migliore società, aveva ricevuto la più squisita educazione, esprimeva i sentimenti più delicati. Eravamo amici da molto tempo, ed io avevo fatto per lei più di quel che potevo. L’amavo molto, non credevo alla mia fortuna e non la volevo perdere per paura di ricadere negli amori volgari, di dover ricorrere un’altra volta alle mercenarie vili. Se spendevo ciò che non avevo per quella donna, potevo forse dire di pagarla? Potevo dire di pagare ciò che non aveva prezzo? In verità credo che con i miei doni procurassi maggior piacere a me che a lei! Non già che le dispiacessero, ma il mio piacere per il piacer suo era veramente grandissimo. Un giorno le portai una cosa di molto valore. Quantunque i suoi occhi ridessero dal contento, mi rimproverò e rifiutò d’accettarla; le pareva che fosse troppo. Io le dimostrai che era niente. E dopo le mie eloquenti dimostrazioni non oppose più difficoltà; ma, dopo avermi ringraziato con effusione, mi domandò a un tratto: «Ti costo molto?...» Allora, subitamente, io mi rammentai dell’altra frase che m’aveva detto, molto tempo prima, un’altra donna. Era una mercenaria, una creatura degradata e avvilita; una di quelle al cui increscioso ricordo sentivo sempre più alto il valore della creatura eletta che ora mi accordava liberamente un nobile amore. La mercenaria, un giorno che non sapeva come fare, che forse non avea da sfamarsi, era venuta a trovarmi, ad offrirmisi. La conoscevo da un pezzo, solevo chiamarla quando avevo voglia di lei, le dimostravo una certa preferenza perchè mi dispiaceva meno delle altre. Ma quel giorno avevo cose gravi alle quali badare, e la congedai. Allora, con molta titubanza, a capo chino, mi chiese qualcosa come dieci lire. Io le diedi, ella le prese e fece per andarsene. Giunta sull’uscio si fermò, esitante; poi tornò indietro, mi venne accosto, e mi domandò con voce sommessa, tentando di prendermi la mano: «Non mi vuoi più bene?...»

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