< I Saluzzesi
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VI VIII

VII.


     Amor di patria in vani sogni il core
No, non agita allor, ma di divina
Potenza il nutre e lo sublima, quando
1480Svolgesi in terra da stranieri oppressa:
Allor non dubbia è sua purezza; allora
Tutte s’intendon l’alme generose
Che fremono del giogo; allor divisi
In discordanti aneliti e dottrine
1485Non son nobili e volgo: unica han meta
L’espulsïon delle insultanti spade,
E della prisca dignità il ritorno.
     Quanto in que’ dì contrario al patrio bene
Fosse pe’ Saluzzesi il guelfo spirto,
1490Meglio comprese ognuno all’improvvisa
Morte del vecchio provenzal monarca.
Orbo questi del figlio, al debil pugno

Della nepote abbandonò lo scettro;
E della incauta il leve cor s’avvolse
1495In infelici amori, e la sua fama
Fu dalla morte del trafitto sposo
Più orrendamente deturpata, e i novi
Mariti la tradìan, sin che il feroce
Vendicator carnefice a lei fessi.
     1500Sceso Roberto nella tomba, crebbe
Per tutta Italia il ghibellin coraggio,
E si volser de’ più le speranzose
Ciglia novellamente alle promesse
Della potente signorìa Lombarda.
     1505Moltiplicati vidersi gli esempli
Di fraterna concordia e di valore
Ne’ nostri lidi Saluzzesi. Al bello
De’ popoli fervor corrispondea
La virtù di Tommaso: egli emulava
1510De’ suoi più forti la prodezza. Il nome
Di Tommaso era sola indi una cosa
Col nome della patria al cor de’ giusti;
E da lunga sfortuna raffinato,
Il suo spirto gentil s’affratellava
1515Sinceramente co’ minori, e segni
Dava di gratitudin commoventi
A cavalieri e ad infimi mortali

Che ponean fede in esso, ed olocausto
Con lui fean degli averi e della vita.
     1520Godea l’animo a tutti i generosi
In vederlo onorar gli alti consigli
Del canuto Giovanni. Eran Tommaso
E di Dogliani il sir qual figlio e padre,
E il portentoso vecchio corregnando
1525Söavemente sulle suddit’alme
Più e più le affidava. Alcune volte
Lievi nascean principii di discordia
Nelle diverse ghibelline schiere,
Perocchè a’ Saluzzesi andavan misti
1530Sotto il vessillo di Tommaso e Insùbri
E assoldati Germani. Alla parola
Dell’antico Giovanni i dissidenti
Animi s’acquetavano, e sebbene
Cagion di lagno non restasse agli altri,
1535Pur gioìa il Saluzzese, ognor veggendo
Che anteposto a lui mai nell’intelletto
De’sommi duci lo stranier non era.
     L’opposto caso tuttodì avvenìa
Nella parte de’ guelfi. Il rio Manfredo
1540Dell’odio de’ nativi esacerbossi
Più feramente ciascun giorno; e volle
Col terror contenerli: indi suprema

Grazia spargea sugli esteri comprati,
E verso ogni nativo anco più fido
1545Scorger lasciava diffidenza ed ira.
     Giunse a tal, ne’ suoi dì più disperati,
La tirannide sua, che i prigionieri,
Se patria avean la saluzzese terra,
Considerava ribellanti degni
1550Dell’ultimo supplizio, e senza indugio
Strage ne fea. Tal rabida inclemenza
Costrinse i ghibellini a rappresaglia,
Sì che perdòn più non brillò sui vinti.
     A quel tempo si vide in ambo i campi
1555Accorrer di Staffarda il santo abate,
Misericordia supplicando invano
Pe’ guerrieri captivi. A lui Manfredo
Con vilipendio rispondea, sgozzando
Innanzi a lui le vittime, e nell’altro
1560Campo l’udìano con ossequio i prodi,
Ma rispondean che giusto uso di guerra
Stabilìa le vendette, unico modo
A frenar gli avversari in tal barbarie.
     Per tutti gl’immolati Ugo gemea,
1565E notte e giorno l’atterrìa il timore
Che prigion di Manfredo in qualche pugna
Eleardo restasse. Ah! insiem con esso

Un altro cuor da quel pensier tremendo
Era a que’ tempi strazïato: il cuore
1570Della figlia d’Arrigo. Avea creduto
L’infelice Maria poter nemica
Vivere ad Eleardo, allor che intese
Ch’ei dipartito dalle guelfe insegne
Alla destra di lei più non ambiva.
1575L’avea davvero alcuni dì abborrito
Com’uom che lei tradìa, com’uom che l’armi
Tradìa de’ generosi. Ah! nel sincero
Animo della vergin quello sdegno
Fu breve fiamma, e sfavillò al suo ciglio
1580De’ ghibellini la giustizia, e pianse
Riconoscendo in qual funesto errore
Il padre s’avvolgesse. Ella in Envìe
Nel paterno castel traea la vita
Colle dilette ancelle, trepidando
1585Pel genitore e per l’amante. Ascesa
I passegger vedeanla da lontano
Su questo ovver su quel dei sette grigi
Torrïoni d’Envìe. La sventurata
Scorgea nella pianura o sovra i colli
1590Gl’incontri delle avverse aste feroci,
E tal or le parea per que’ remoti
Lochi discerner dal fulgor degli elmi

Arrigo od Eleardo, od ambidue
Cozzanti insiem. Prostravasi la pia
1595Lagrimando e pregando il Re del Cielo
E la Donna degli Angioli; e sovente
Restava lunghi giorni il dilicato
Corpo affliggendo con digiuni, e intere
Vigilava le notti in calde preci,
1600I proprii patimenti a Dio offerendo
Per la salvezza de’ suoi cari. E seco
Viveano in lutto e assidua penitenza
Le fide ancelle e antichi servi. L’alme
Angosciate si schiudono a paure
1605Di superstizïone. Or dalla torre
Nelle nubi scorgean croci di sangue,
E sembianze di scheletri, e l’immensa
Falce e dell’Angiol della morte il pugno;
Or di sciagure sovrastanti indizio
1610Lo strido era dell’ùpupa ed il mesto
Urlo notturno dell’errante cagna;
Or dagli armati servi a mezzanotte
L’estinta madre di Maria s’udiva
Singhiozzar nel sepolcro, o lentamente
1615Scoperchiarlo ed uscirne, e per le brune
Scale salire, ed appellar con fioca
Voce il marito o la diletta figlia.

     A calmar quelle ambasce e que’ terrori
E a consolarsi fra i soavi amplessi
1620Dell’innocente vergine, il cruccioso
Padre venìa talor. Con duri modi
L’aspreggiava e garriala del suo pianto,
Poi commoveasi e l’abbracciava, e preci
La supplicava d’innalzar pe’ guelfi.
     1625E nelle rughe della smorta fronte
Ella più e più leggea del genitore
I sinistri presagi. Insinüante
Sonava un non so che nella pietosa
Voce di lei che costringea il canuto
1630A poco a poco a palesarle occulti
Sempre novi dolori.
                                          Un dì le disse:
— Più non pregar pe’ guelfi! abbandonati
Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze
Il superbo Manfredo: i miei consigli,
1635I preghi miei non cura. Adulatrici
Parole ei vuol; darle non so. Un drappello
D’infami lusinghieri applaude a tutte
Sue tirannie, le suscita, il fa cieco
Stromento a loro insazïabil sete
1640Di tesori e vendette. Apportar senno
Volevamo e giustizia; abbiam delitti

E stoltezza apportato. Ad uno ad uno
Da noi si dipartìano i prodi amici:
Pochi omai siamo ed esecrati, e all’orlo
1645Dell’estrema ignominia!
                                                 — Oh sciagurate
Voci! oh misero padre! I vaticinii
Ecco d’Ugo avverati! Il reo vessillo
Lascia tu dunque di Manfredo: accetta
Di Tommaso la grazia!
                                             — È tardi, o figlia!
1650Errò Manfredo, ma infelice il veggo:
Mai da prence infelice non si scosta
Fuorchè il vigliacco!
                                       — Oh padre amato, pensa . . .
— Che vigliacco non son, che con Manfredo
Debbo cader.
                            — Mai di vigliacco taccia
1655Ad Eleardo non darassi.
                                                 — Ei corse
Quando da noi si svincolò, a bandiera
D’un prence espulso: audace era il partito,
Ma generoso. Non così oggi fora,
Correndo a sir cui la fortuna arride.
1660Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto:
Dimane si combatte, e se non opra

Per noi prodìgi Iddio . . . dimane, o figlia,
Più non hai padre!
                                       — Oh feri detti!
                                                                     — Io vengo
L’ultima volta a benedirti forse:
1665Con vigor di te degno, odimi: stirpe
Di codardi non siam. Tergi le ciglia,
Frena i singhiozzi; te l’intìmo. Ascolta:
Un patto pongo al benedirti.
                                                            — Quale?
     — Bada che guelfo io moro, e maledetta
1670Sarà tua man se a ghibellin la porgi!
     — T’affida, o padre: intendo. Amo Eleardo,
Ma te guelfo perdendo, a ghibellino
Moglie mai non sarei!
                                             — Tutti il Signore
Dunque sul capo tuo spanda i suoi doni!
1675Me sol, me sol de’ falli miei punendo,
Sparmii l’anima tua!
                                           Disse. Ad un servo
L’accomandò; da lor si svelse e sparve.

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