< I Saluzzesi
Questo testo è stato riletto e controllato.
VII IX

VIII.


     Infelici ambidue! — Ma più infelice
Forse d’ogni innocente addolorato

1680È quel mortal che temerario corse
A illusïoni infauste, onde tormento
Ineluttabil ridondò a’ suoi cari!
Oh come allor, nella pietà ch’ei sente
Di questa o quella vittima diletta,
1685Tardi vede primier debito d’uomo
Esser religïon, carità, pace,
Provvedimento a dolce sicurezza
Di domestiche gioie, e non desìo
Imprudente di gloria e di perigli.
     1690Tal verità gli splende, or che non puote
Più sollievo ritrarne il vecchio Arrigo;
E forte è assai per sè medesmo in tutte
Avversità, ma non è forte, al duolo
Della figlia pensando, e sebben mostri
1695In mezzo a’ suoi guerrieri animo invitto,
Spesso ei nel manto si rinchiude e piange.
     Tre dì Maria si stette in disperati
Non cessanti delirii:
                                         ― Empio Eleardo!
Perchè movevi alle felici insegne
1700Destinate al trionfo, e il padre mio
Per dolci preghi e dolce vïolenza
Teco a salvezza non traevi? Oh fossi
Tu restato co’ guelfi! il valoroso

Tuo braccio avriali sostenuti. Un prode
1705Fatal perdemmo in te: spesso deciso
A pro de’ ghibellini hai la vittoria.
Possente impulso hai dato alla fortuna
Del profugo Tommaso: alta, primiera
Cagion tu sei delle sconfitte nostre.
1710Ah, non m’amavi, ingrato! E insino ad ora
Io figlia iniqua, immemor de’ perigli
Del caro padre mio, secretamente
Alzato sempre voti ho pe’ tuoi giorni!
Que’ voti abborro! quell’amor disdico!
1715Il padre mio si serbi! il padre vinca!
Il padre atterri i suoi nemici, i miei!
Guelfa, guelfa son io! Mendace è il grido
Che di virtù civile ai ghibellini
Or dona palma. I nostri petti infiamma
1720Vero di patria amor: calunnïato
È Manfredo da voi; calunnïato
È il padre mio, di giuste opre seguace;
Ma vinti siamo, e il mondo vil ne impreca!
     Così l’immenso affanno isconsolata
1725Iva Maria sfogando; e avvicendava
Accenti d’ira e di pietà e d’umìle
Fervida prece. E promettea al Signore,
Se dagli eccidii salvo andasse il padre,

Essa tutrice farsi ad orfanelli,
1730A vedove, ad infermi, a pellegrini,
E tutti gli anni un dono offrire eletto
Sì di Riffredo al monister famoso,
Sì ad altri santi d’innocenza asìli.
Ella avrebbe voluto alle promesse
1735Che le dettava il core, aggiunger quella
Di cingere in Riffredo il santo velo,
Ma la meschina non potea, pensando
Al solitario padre orbo di figli!
Ed, ahi, forse non conscia ella a sè stessa,
1740Anco pensava mal suo grado ognora
A colui, che ne’ scorsi anni felici
Erale stato così caro!
                                             Oh come
La infelice Maria sta dalla torre
Investigando ogni lontano moto
1745D’armi o di passeggieri, ed in lei cresce
Indicibil timor ch’ella securo
Presentimento d’alto lutto estima!
     Chi son que’ duo che sull’arcion veloci
Movon per la pianura? Ad essi lunghe
1750Soverchiamente son le usate strade,
E là passano un rio, là per gli sterpi
D’una macchia s’inoltrano, agognando

Il più diretto corso. Alla borgata
Pareano volti di Revello, e pure
1755Quivi non si soffermano, e alla terra
Certo d’Envìe sospingono i cavalli.
Oh di Maria nell’anima dubbiante
Ansïetà novella? Or si protende
A guardare in silenzio, or si dispera,
1760E grida e trema di saper chi sièno
Que’ frettolosi. Omai discerne alfine
Che non guerriera è la lor veste; e poscia
Sospetta, avvisa che l’un d’essi il giusto
Presule sia col fido laico. Un dubbio
1765No, più non è; son dessi!
                                                      A quella vista
Le ginocchia le mancano, ma i sensi
Non perde ancor. La reggono le ancelle,
E la misera esclama: — Ugo! tu vieni
A me del padre ad annunciar la morte!
     1770Ma quando intese appo il castel d’Envìe
Scalpitare i corsieri, allor sì grande
Fu la tema e il dolor, che appieno svenne.
     Ahimè! spenta la credon qualche tempo
Le ancelle e i servi. Alfine in sè ritorna,
1775Ed entrar vede pallido, turbato,
Lagrimoso il canuto.

                                        — Il padre mio . . .
Parla . . . dov’è sua spoglia?
                                                       — Ei vive ancora;
Ma prigionier, ma dalla cruda legge
Che a morte danna i prigionieri, oppresso!
     1780— Oh sventurato! oh più felici quelli
Che in battaglia cadeano! E tu a supplizi
Lasci lui trarre? Intercessor non debbe
Uom di Dio farsi a disarmar le atroci
Ire de’ vincitori?
                                    — Ah! da te sono,
1785O vergine, ignorati i vani sforzi
Che tentai da Tommaso! I suoi nemici,
Or volgon pochi dì, sacrificaro
Barbaramente dieci illustri teste
Di ghibellin captivi. Universale
1790Nell’oste ghibellina è quindi il grido,
Che gl’immolati abbian vendetta. Arrigo
Morrà domane con nov’altri: il cenno
Tommaso niega rivocar; respinto
Venni da lui. Prova sol una or resta:
1795Seguimi al campo: sforzerem l’ingresso
Della tenda del sir; forse il tuo pianto
Ammollirà il suo nobil cor, dai truci
Fatti d’alterna rabbia incrudelito.

     — Il ciel t’ispira: andiam.
                                                         Rapidamente
1800La vergin s’allestì; rapidamente
Ella e pochi fedeli in sui corsieri
Volser con Ugo al saluzzese campo.
     Ad un tronco giaceva incatenato
Tra i furenti nemici Arrigo, a breve,
1805Di Saluzzo distanza. Ei siccom’uomo
Che avea la gloria di Saluzzo amata
Vagheggiando per essa e per Manfredo
Fortune alte, impossibili, or mirava
Con istupor, qual visïon non vera,
1810Quell’ultima sconfitta, e quell’orrendo
Svanir d’ogni speranza, e quel ritorno
De’ ghibellini e di Tommaso, e quella
Guerra in veloci tratti or consumata
Con nessun frutto, fuorchè stragi e scherni
1815E povertà ed obbrobrio e sacrilegii!
E tutto ciò per vicendevol, grande,
Creduto zelo di virtù e di patria!
     E innanzi a lui mirando egli quel loco
Dove a prosperi dì sorgea Saluzzo,
1820E dove diroccato oggi è il recinto,
E dentro quel, fra orribili macerie,
Non v’ha che rari antichi alberghi e templi

Con negri campanili, e qualche novo
Incominciato cittadino ostello,
1825Sente Arrigo la dura alma infiacchirsi
Da pietà inusitata. Ei nella foga
Delle gioie guerresche avea con occhi
Di ferocia le fiamme un dì veduto
Ed il saccheggio devastar Saluzzo.
1830Or cessata l’ebbrezza, il cavaliero
Delle avvenute iniquità s’affligge,
E dice mal suo grado: — Ecco onde il Cielo
Manfredo e i guelfi e me con lor condanna!
     Poi caccia quel pensiero, e, benchè rieda,
1835Celarlo vuole, e alta la fronte ei tiene,
Con dispregio guardando i vincitori.
     Cacciar vorrebbe altro pensier più dolce,
Ma in un più divorante. Ei nelle meste
Sale d’Envìe scorge la figlia, ed ode
1840Il miserando suo lamento, e sola,
Orfana, senza prossimi congiunti,
Senza soccorsi d’amistà la mira;
E le canute palpebre di pianto
Amarissimo grondano, e i singhiozzi
1845Frenar non puote, e colle scarne mani
Si copre il volto per vergogna e rugge.
     Un de’ custodi come un tempo i falsi

Di Giobbe amici, lo compiange e incuora.
     — Non avvilirti, o prode; in cielo è scritto
1850Il destin de’ mortali; adorar sempre
Dobbiam di Dio gl’imperscrutati cenni:
Non accettarli è codardia e bestemmia.
     — Taci, impudente ghibellin; m’è noto
Che giusto è Iddio, che i falli miei punisce,
1855Che l’are sue mal onorai, che vissi
D’ira e d’orgoglio più d’ogn’uom, che merto
Cader per mani inesorate e inique.
Non mi ribello contro a lui; non biasmo
Il suo rigor, non tremiti codardi
1860Me presso a morte invadono: un’angoscia
Non ignobil mi preme. Ho una figliuola
Ch’orfana resta, e sua sventura io piango!
     — Padre ai pupilli derelitti è Iddio.
     — Vero favelli, ma la terra è piena
1865Di pupilli derisi, insidïati,
Spogli di tutto; ed ahi! su lor punite
Forse da Dio son le paterne colpe!
Indi io pavento, io peccator, sul fato
Che all’innocente figlia mia sovrasta.
     1870— Ben paventate, o sciagurati guelfi,
Che tanti alberghi incendïaste, e tanti
Olocausti sacrileghi immolaste:

Men empio è il ghibellino.
                                                       ― Empi siam tutti,
Amor vantando di giustizia a gara,
1875E ognor con nostre stolte ambizïoni
Opprimendo la patria e calpestando
Natura e dritti ed innocenza e onore!
     Così dal labbro del feroce vecchio
Usciva un misto d’indomata audacia
1880E di sincero pentimento. Il capo
Piegava sotto ai fulmini divini,
Ma i consigli degli uomini esecrava,
E negli sguardi suoi sì presso a morte
Indistinti fulgean Cielo ed Inferno.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.