< I Viceré < Parte prima
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Parte prima

Capitolo 9
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IX.


— Bello!... Bello!... E questi bavagli, come sono graziosi!... Le calzettine, le scarpette: avete pensato a tutto!

La cugina Graziella esaminava, capo per capo, sotto gli occhi di Chiara e del marchese, il corredo del nascituro: sei grandi ceste piene di tanta roba da bastare a un intero ospizio di lattanti; e trovava parole d’ammirazione per tutte le fasce, per tutte le cuffie, per tutti i corpettini; ma ogni tanto si fermava, tirando forte il respiro, passandosi la lingua sulle labbra, gravida anche lei di qualche cosa che voleva dire, ma che nè il marchese nè Chiara si decidevano a domandarle.

— E le vesticciuole, non l’avete viste ancora? Guardate, guardate!

— Oh, che bella cosa!... Dove hai trovato questi merletti?... Belle tutte, belle!... Ma più la bianca coi nastri celesti! Un amore!... Lucrezia ci ha lavorato?

— No, nessuno: ho voluto far tutto con le mie mani.

— Ce n’è spesi quattrini, eh?... Il Signore possa benedirveli tutti!... Avete aspettato un bel pezzo, ora la vostra contentezza è vicina!... Vi volete tanto bene!... Per me, mi gode l’animo quando vedo le famiglie tanto affiatate!... Così vorrei che anche Lucrezia fosse contenta.... Voi altri non sapete?

— Che cosa?

Ella abbassò un poco la voce per dire, con aria di mistero:

— Giulente l’ha chiesta allo zio duca!

Ma Chiara continuò a piegare la biancheria sulle ginocchia, quasi non avesse udito o non avesse compreso che si parlava di sua sorella; e solo il marchese domandò, distrattamente, riponendo con bell’ordine la roba nelle ceste:

— Chi ve l’ha detto?

Allora la cugina sfilò la corona:

— Me l’ha detto mio marito, iersera: certo e sicuro com’è certo che siamo qui! La domanda è stata fatta da don Lorenzo, amichevolmente. Il duca vuol esser deputato, e il giovanotto sostiene la sua elezione scrivendo nell’Italia risorta, e discorrendo ogni sera al Circolo Nazionale in favore di lui, perchè ha già preso la laurea d’avvocato. Quelli della Nazione Italiana gli oppongono l’avvocato Bernardelli, perchè è stato in galera; non par vero, a che siamo ridotti!... Ma Giulente si batte come un leone.... pel futuro zio.... mi capite?... Lucrezia non entra nei panni, dalla contentezza; però gli zii don Blasco, donna Ferdinanda e don Eugenio le daranno da fare.... e il cugino Giacomo anche.... Un Giulente sposare un’Uzeda? Ci voleva la rivoluzione, il mondo sottosopra, perchè si vedesse una cosa simile! Lo zio duca, mi dispiace, ha perduta la testa, dacchè s’è messo nella politica; hanno ragione i suoi fratelli!... Voi che cosa ne dite?

Chiara continuava a maneggiare la bella roba, bianca, fine e odorosa, del nascituro; e il marchese, temendo che quei movimenti, a lungo andare, potessero affaticarla, le disse:

— Basta, adesso.... lascia fare a me.... Che cosa ne dico, cugina? Non dico niente: sono cose che non mi riguardano. Mio cognato è padrone di dare sua sorella a chi gli piace.... Io non mi mescolo degli affari altrui.

— Se Lucrezia lo vuole, — rincarò Chiara, — se lo prenda! In fin dei conti, dobbiamo sposarlo noi? — domandò ridendo a Federico.

— Sicuro!... Io, cara cugina, sapete se ho sempre rispettato la famiglia di mia moglie. Se essi dicono di sì, e Lucrezia è contenta! Per conto mio, ringrazio il Signore che finalmente mi sta concedendo una gran consolazione; del resto, facciano quel che vogliono....

E la cugina restò con tanto di naso, avendo fatto assegnamento sopra uno scoppio d’indignazione; ma, torta la bocca quasi per inghiottire un boccone amaro, esclamò:

— Certamente! Sono cose che riguardano la sua coscienza!... E anche Lucrezia! Contenta lei!... È quel che dico anch’io!...

Da quei due non c’era da cavar nient’altro, fuori del mondo com’erano per via della nascita del figliuolo ormai prossima: la cugina, che per trascorrer di tempo non dimenticava di mostrare il suo interesse per gli Uzeda, corse difilato in casa del principe. Sul portone, una comitiva di dieci o dodici individui, fra i quali c’erano i due Giulente, zio e nipote, cercavano del duca. Ella si fermò, sorridendo a don Lorenzo e a Benedetto, facendo loro segno con la mano per chiamarli.

— Che fate, in tanti rivoluzionarii? Volete dar fuoco al palazzo?

— Veniamo ad offrire la candidatura al signor duca — rispose don Lorenzo, — in nome delle società patriottiche.

— Bravo! Mi rallegro della scelta!...

E la commissione stava per salire dal grande scalone quando Baldassarre, spuntato dal secondo cortile, e fatta strada a donna Graziella, avvertì: — Nossignori!... Favoriscano da questa parte....

Il principe, infatti, approvando il liberalismo dello zio e godendo dei vantaggi della sua popolarità, non aveva potuto permettere che tutti gli scalzacani dai quali era circondato entrassero nel nobile quartiere delle Sale Rossa e Gialla: aveva quindi destinato due stanze dell’amministrazione, a destra dell’entrata, perchè il duca vi ricevesse anche i lustrastivali, se così gli era a grado. Mentre i delegati giravano dunque dalla parte delle stalle, donna Graziella saliva pomposamente il sontuoso scalone ed era introdotta presso la principessa. Il principe, in compagnia della moglie, gridava qualche cosa, quando, all’apparir della cugina, tacque subitamente.

— Non sapete che ci sono visite? — disse costei, entrando. — La commissione delle società.... per offrire la candidatura al duca.... Una bella commedia, giacchè tutto fu combinato prima.... E solo i Giulente, di persone conosciute; tutto il resto, certe facce!...

— Mio zio è padrone di ricevere chi vuole, — rispose il principe. — Adesso i tempi sono mutati, e non si posson fare tante difficoltà.... È quel che dicevo anche a mia moglie.... — E voltati i tacchi, stava per andarsene, quando la voce di donna Ferdinanda, che sopravveniva, lo fece fermare. La zitellona, più gialla del solito, sudava fiele, con una ciera arcigna e dura da mettere spavento.

— Dunque è vero? — domandò a denti stretti, senza neppure accorgersi di donna Graziella.

— Me l’ha detto lui stesso, — rispose il principe. — Dinanzi alla cugina possiamo parlare.... Gli pare una cosa bellissima, un partito vantaggioso, un terno al lotto....

— E tu non gli hai detto nulla, tu?

— Io? Gli ho detto che dovrebbe tornare nostra madre dall’altro mondo, per sentire una cosa simile! Per vedere ciò che succede in questa casa! in qual modo si rispettano le sue volontà!... Questo gli ho detto; ma è lo stesso che dirlo al muro.... Vostra Eccellenza sa come siamo fatti, qui in casa.... Ma la colpa non è dello zio.... Se Lucrezia non avesse dato retta a quel bardassa, crede Vostra Eccellenza che le cose sarebbero arrivate a tanto? I Giulente sono stati sempre presuntuosi, hanno avuto sempre la smania di giocare a pari con tutti; ma un’idea simile non sarebbe loro passata pel capo, senza la stramberia di mia sorella....

La principessa non fiatava, donna Graziella non parlava neppur lei, ma guardando ora il principe ora donna Ferdinanda scrollava il capo, come per dire che era così, proprio così. La zitellona si mordicchiava le labbra sottili, torcendo il grifo, fiutando l’aria con le narici dischiuse.

— Se mia sorella non fosse stravagante, — continuava il principe, — non penserebbe a maritarsi, con quella salute; non darebbe retta a quel rompicollo che le dice di volerle bene per vanità, facendo il repubblicano; e rispetterebbe invece i consigli di nostra madre, non darebbe motivo di dispiacere a noi, non si preparerebbe tanti guai.... Perchè, speriamo pure che si ravveda e lo zio muti opinione; ma se questo matrimonio dovesse farsi, la prima sacrificata sarebbe lei!... Crede di trovare in casa di quella gente quel che ha in casa propria? Crede che potranno andare d’accordo, con tanta diversità d’educazione e di....

A un tratto comparve Lucrezia. Il principe tacque come per incanto; la principessa si fece ancora più piccola sulla sua poltrona, la cugina spalancò meglio gli occhi e l’orecchie.

— Buon giorno, zia.... — cominciò la ragazza; ma donna Ferdinanda, levatasi da sedere e presala per mano, le disse brevemente:

— Vieni con me.

Passò di là e chiuse l’uscio. La cugina, che le aveva accompagnate con gli occhi, quando si voltò vide che il principe era scomparso da un’altra parte. Allora, rimasta sola con la principessa, cominciò a dimenarsi sulla sua seggiola. Sarebbe andata ad origliare, se avesse potuto, se avesse osato farne proposta; invece le toccava contenersi e chiacchierare, mentre udivasi tratto tratto la voce di donna Ferdinanda alzarsi tanto che le parole arrivavano intere: «Voglio? Voglio?... Prima creperai!... L’avvocato?... Crepa, piuttosto!...»

— Santo Dio, mi dispiace!... È una cosa, cugina....

«La vedremo, ti dico!...» gridava donna Ferdinanda; subito dopo la voce si spense; la cugina riprese:

— Lucrezia dovrebbe pensare.... dare ascolto a chi parla pel suo....

«Non vuoi sentirla, bestiaccia?...» Queste parole furono gridate così forte, che la cugina e la principessa tesero tutt’e due le orecchie. Passò qualche minuto di silenzio profondo; di botto, s’udì il rumore d’una seggiola rovesciata e subito dopo quello secco e brusco di un violento ceffone. La principessa levossi in piedi, giungendo le mani; la cugina corse all’uscio ad origliare. Più nulla: nè voci, nè pianto. Donna Ferdinanda ricomparve sola e venne a sedersi tranquillamente vicino alla nipote, stirandosi la palma della mano arrossata. Parlò del più e del meno, volle sapere che cosa avevano a desinare e domandò notizie di Teresina, che giusto quel giorno era a San Placido, dalla zia Crocifissa. Poi si alzò per andarsene; la cugina l’accompagnò.


Intanto giù nell’amministrazione i delegati delle società, ammessi in presenza del duca, erano stati da costui invitati a sedersi in giro; Giulente nipote, prendendo a parlare in qualità d’oratore, diceva:

— Signor duca, in nome dei sodalizii patriottici il Circolo Nazionale, l’Unione Civica, la Lega Operaia, il Riscatto Italiano, i Figli della Nazione, dei quali le presento le rappresentanze.... veniamo a compiere il mandato affidatoci, di pregarla affinchè ella accetti la candidatura al Parlamento italiano. Il paese ben conosce di chiederle un sacrifizio, e un sacrifizio non lieve; ma il patriottismo di cui ella ha dato tante e sì splendide prove, ci dà guanto che anche una volta vorrà rispondere all’appello del paese....

I tre o quattro popolani tenevano il cappello con tutt’e due le mani, stretto come se qualcuno volesse portarlo loro via; Giulente zio guardava per terra. Il duca, finito il discorsetto del giovane, rispose, cercando le parole una dopo l’altra, con voce strozzata:

— Cittadini, son confuso.... e vi ringrazio, veramente.... Sono stato felice.... orgoglioso anzi direi.... di aver potuto contribuire, come ho potuto, al riscatto nazionale.... e della grand’opera dell’unificazione della nazione.... Ma, veramente, ciò che voi mi domandate.... è superiore alle mie povere forze.... È un mandato.... Permettete!... — soggiunse con altro tono di voce, vedendo far gesti di diniego, — che non saprei come disimpegnarlo.... al quale è d’uopo attitudini speciali che io non possiedo.... E non vi mancheranno patriotti che assai meglio di me.... potranno rispondere agli interessi.... della tutela degli interessi.... del nostro paese!

— Perdoni! — riprese il giovanotto. — Noi apprezziamo il delicato sentimento che le fa dire così: la sua modestia non le poteva dettare diversa risposta. Ma della capacità di lei dev’essere giudice — perdoni! — lo stesso paese. Se ella avesse altre ragioni per rifiutare, ragioni private o di affari, noi c’inchineremmo, non potendo permettere che il suo sacrificio vada troppo oltre. Ma se l’unica obbiezione consiste nella sua incapacità, ci permetta di dirle che non tocca a lei riconoscere se è capace o pur no!

Tacendo Giulente, il sarto Bellia, dei Figli della Nazione, disse:

— Duca, l’operaio vuole a Vostra Eccellenza.... Ci sono tanti che brigano il voto, ma noi non ci abbiamo fiducia. Vogliamo un buon patriotta e un signore come Vostra Eccellenza....

Allora, rivolto ai compagni, Giulente zio disse, con tono di bonarietà scherzosa, accarezzandosi la barba:

— Non abbiate paura: il duca vuol farsi pregare....

— Farmi pregare? — esclamò il candidato, ridendo. — Mi prendete forse per un dilettante di pianoforte?

Tutti sorrisero e il ghiaccio si ruppe. Smesso la dignità grave e il linguaggio fiorito dell’ambasceria, ognuno disse la sua, in dialetto, alla buona, per indurre il duca ad accettare. Sul nome di lui si sarebbero messi d’accordo; in caso di rifiuto, i voti si sarebbero sperperati sopra tre o quattro persone; e poichè era quella la prima elezione alla quale chiamavasi il paese, bisognava che essa riuscisse l’affermazione unanime della volontà del collegio. Questo risultato non poteva ottenersi se non per mezzo dell’accettazione del duca; dinanzi a lui tutti gli altri si sarebbero ritirati; il suo rifiuto avrebbe fatto pullulare altre ambizioncelle di patriotti dell’ultim’ora. A quell’insistenza, il duca esclamava:

— Signori miei... mi confondete!... Siete troppo buoni.... Non so che rispondere!....

— Risponda sì.... accetti!... Ci vuol tanto?... Se lo vogliamo!

— Ma io non sono adatto.... Sento tutta la responsabilità del mandato.... Non si scherza! Altro è dare qualche consiglio al Municipio, confortato da tutti voi; altro è sedere tra i rappresentanti del Parlamento!

— Signori miei, — fece a un tratto Giulente zio, mettendo fine al cortese contrasto. — Sapete che vi dico? La nostra commissione è compita: il duca sa qual è il desiderio di tutti; per ora egli non ci dice nè sì nè no; lasciamo che ci dorma sopra: domani, dopo domani, quando avrà ben ponderato, quando si sarà consigliato con i suoi amici, ci darà una risposta, e speriamo che sarà la desiderata....

— Ecco! Grazie, così.... — rispose il duca. — Benissimo; vi prometto che ci penserò, che farò il possibile.... Ma intanto grazie a tutti! Ringraziate per me le società; verrò poi io stesso a fare il mio dovere!...

Egli li trattenne ancora, discorrendo delle notizie del giorno, interessandosi alla cosa pubblica, toccando di sfuggita i provvedimenti che bisognava reclamare dal governo di Torino pel bene del paese, per il migliore assestamento del nuovo regime. Prese da un cassetto della scrivania una scatola di sigari: sigari d’Avana, color d’oro, dolci e profumati, e ne fece larga distribuzione, stringendo la mano a tutti, ma più forte ai due Giulente. Il domani, l’Italia risorta portava un articolo di fondo di Benedetto sulle imminenti elezioni, nel quale era detto: «Due soltanto i criterii ai quali possono ispirarsi i votanti: l’intemerato patriottismo che sia arra dell’italianità dell’eletto — la cospicuità della posizione sociale che gli permetta di svolgere la propria missione con quell’indipendenza che dà guanto di disinteresse e di sincerità. Ora allorquando il paese ha la fortuna di possedere un Uomo che risponde al nome di duca Gaspare Uzeda d’Oragua, noi crediamo che ogni discussione si riduca un fuor d’opera, e che tutti i voti dei cittadini, giustamente gelosi del bene pubblico, debbono concentrarsi sul nome dell’illustre Patrizio!»

La gran maggioranza del collegio era per lui e nel coro degli adepti le voci discordi rimanevano soffocate. I più infervorati erano i popolani, gli operai, la Guardia nazionale, la gente spicciola che non godeva del voto, ma trascinava con sè i votanti. Se qualcuno tentava addurre argomenti contro quella candidatura, era subito ridotto al silenzio. Gli Uzeda erano tutti borbonici fin sopra i capelli? Tanto maggior merito da parte del duca nell’aver abbracciato a dispetto della parentela la fede liberale! Al Quarantotto egli non avea preso un partito? Ma non avea tradito, come tant’altri!... Però quelle voci parevano ridotte al silenzio, e risorgevano a un tratto più insistenti. Fin dall’estate, fin da quando i Napoletani erano andati via, di tanto in tanto si trovavano attaccati alle cantonate o circolavano pei caffè e le farmacie certi fogli anonimi dove si leggevano brutte notizie, giudizii inquietanti, oscure minacce; questa roba era divenuta più rara, ma adesso ricominciava a circolare e conteneva, oltre che funesti pronostici sull’avvenire della rivoluzione, allusioni maligne contro le persone più in veduta, e specialmente contro il duca. Erano poche parole, in forma dubitativa o interrogativa, ma trovavasi sempre qualcuno che le spiegava. Che cosa aveva fatto il Patriotta nella giornata del 31 maggio? S’era nascosto a San Nicola, diceva il commento. E il cannocchiale del Quarantotto? Quello col quale aveva visto l’attacco e l’incendio, attorniato dai soldati di Ferdinando II! E le visite all’Intendente? Per trovarsi dalla parte del manico, se alla rivoluzione toccavano colpi di granata....

Il duca, a cui i Giulente avevano tenuto nascosti quegli attacchi, ordinando perfino alle guardie nazionali di non presentare al maggiore quei manifesti quando li spiccicavano dai muri, cominciò a chiederne notizie, insistette per leggerli. Impallidì un poco vedendo il suo nome, percorrendo rapidamente le frasi in cui si parlava di lui; ma non disse nulla.

— E non poter sapere da qual mano vengono! — esclamava Benedetto. — Non poter dare una buona lezione a questi vigliacchi!

— Che possiamo farci! — rispose allora l’offeso. — Sono i piccoli inconvenienti delle rivoluzioni e della libertà. Ma la libertà corregge sè stessa.... Non ve ne date pensiero....

Però, appena quei due andarono via, egli si mise il cappello in capo e salì difilato a San Nicola, dove chiese del Priore don Lodovico.

— Guarda che tuo zio, — gli disse tranquillamente, — giuoca a un brutto giuoco. I cartelli anonimi vengono da lui e dalla sua comarca. Che egli se la prenda con me, non m’importa; mi giova, anzi, procurandomi maggiori simpatie; ma se continua a prendersela con tutti, a sparger sospetti e notizie bugiarde, potrà toccargli qualche dispiacere. Te l’avverto, perchè tu che gli stai vicino glie lo faccia sapere. A lungo andare tutto si scopre.... Badi!

Il priore non ne fiatò con don Blasco, ma riferì ogni cosa all’Abate perchè questi ne tenesse parola con qualcuno degli amici del monaco. Padre Galvagno fu incaricato della commissione; all’udire quel discorso, don Blasco diventò verde come l’aglio.

— Dite a me? — esclamò. — Siete impazziti, voi e chi vi manda. Dovete sapere che se io ho da dire ciò che sento, lo dico sul muso a chi si sia, occorrendo anche a Francesco II, che Dio sempre feliciti! — e fece un inchino profondo. — Figuratevi un po’ se ho paura di questa manetta di briganti e carognuoli e.... — e qui ricominciò a sfilare una litania più terribile delle solite.

Ma i cartelli anonimi divennero da quel giorno più rari, e a poco a poco cessarono. Il monaco, a cui la bile quasi schizzava dagli occhi, sfogavasi in casa del principe — quando il duca non c’era — dicendo cose enormi contro il fratello, insultandolo, infamandolo, rovesciandogli addosso epiteti di novissimo conio, a petto ai quali quelli scambiati tra facchini e donne di mal affare erano complimenti e zuccherini. E la sua rabbia aveva un bersaglio più vicino e più diretto nella nipote Lucrezia. Questa vipera osava ancora pensare a quella carogna! L’avevano allevata perchè li mordesse tutti quanti, insozzando il nome degli Uzeda, facendone ludibrio, sposando quella carogna!

— Ah, razza putrida e schifosa! Ah, porco Vicerè che la creasti!... Meglio sarebbe stato.... (mettere al mondo solo dei bastardi, era l’idea espressa dalle turpi parole) piuttosto che generare questo nipotame sozzo e puzzolente!...


Furono quelli i giorni più tremendi per Lucrezia. Erano tutti scatenati contro di lei: o non le rivolgevano la parola, o la colmavano d’improperii; donna Ferdinanda l’afferrava pel braccio dandole pizzicotti che portavano via la pelle; don Blasco un giorno per miracolo non se la messe sotto. Pallida e muta, ella lasciava passare la tempesta, chinava gli occhi, non piangeva, pareva non sentisse neppur dolore, quasi fosse fatta di marmo. Non si confidava a nessuno, non chiedeva aiuto allo zio duca che sapeva amico di Benedetto e fautore del matrimonio, non diceva una parola dei suoi tormenti a Ferdinando che veniva a palazzo unicamente per lei, lasciando in asso le sue bestie imbalsamate e da imbalsamare. Soltanto quando si chiudeva in camera con Vanna, per avere le lettere del giovane, le diceva, con un sorriso freddo, a fior di labbro:

— È inutile! Lo sposerò!...

Egli, frattanto, continuava a propugnare l’elezione del duca, con la parola in mezzo alle società, con gli scritti nell’Italia risorta e nelle stampe volanti intitolate: Chi è il duca d’Oragua, Un Patrizio patriotta, e via discorrendo. «Fin dal 1848 l’insigne gentiluomo schierossi contro il governo del Re Bomba, tanto maggiore il suo merito in quanto egli non aveva da rimproverargli torti fatti a lui od ai suoi, ma al popolo intero.... Nel lungo periodo di preparazione noi lo vediamo a Palermo, intrinseco dei più chiari patriotti portare il contributo della sua attività e delle sue sostanze alla causa nazionale. Ai primordii del movimento liberatore, corre in patria, poichè egli vuol parte dei dolori e delle gioie dei suoi amati concittadini. Qui è largo del suo prezioso ausilio ai liberali, e fa sentire ai rappresentanti dell’esecrato Borbone la voce che ormai lo condanna. Egli versa il suo contributo per la formazione delle squadre volontarie, sussidia quanti liberali perseguitati soffrono nell’indigenza. Ritirati gli sgherri di Francesco, accorre tra i primi a regolare il governo della città, si ascrive tra le file della nazionale milizia, palladio di libertà; acquista per essa divise, munizioni e non pochi brandi. Apre la sua casa avita a Bixio ed a Menotti, rende ai liberatori gli onori della città. Sollecitato a rappresentare il primo collegio al Parlamento, modestamente declina l’offerta, volendo esser primo ai sacrifici, ultimo agli onori. Ma il paese lo vuole. La sorella Palermo ce lo invidia. E chi porta il nome di Duca d’Oragua non può sottrarsi alla volontà del paese. Egli sarà il nostro deputato!»

Il duca, da canto suo, riparlava al principe del matrimonio di Lucrezia, tesseva l’elogio del giovane, asseriva che era un partito da non lasciarsi sfuggire, perchè i Giulente avevano quel solo figliuolo al quale sarebbero andate tutte le loro sostanze.

— Conviene anche per un’altra ragione, — spiegava al nipote, — che non baderanno alla dote....

— Che ci badino o no, che cosa m’importa? — rispondeva il principe. — Lucrezia ha quello che ha; Vostra Eccellenza crede che io glie lo voglia negare?

— Chi ha detto questo? Dico che si contentano di quello che ha....

— Sono affari che non mi riguardano. Sarebbe curioso che io impedissi a mia sorella di fare quel che le aggrada, alla sua età! La volontà di nostra madre forse poteva essere che restasse in casa; ma nostra madre è all’altro mondo; e quando pure vivesse....

Egli insisteva spesso su questo tono, ripeteva che sua sorella era libera di prendersi Giulente, ma le parole gli cascavano di bocca, troncava a mezzo il discorso, come se avesse dell’altro da dire, e tacesse poi per prudenza, per convenienza, per non parere ostinato. Tanto che il duca un giorno gli domandò:

— Ma parla chiaro! Sei contrario a questo matrimonio?

— Io?... Quando è approvato da Vostra Eccellenza!...

— Giulente non ti piace?

— Ha da piacere a me?... È un buon giovane; basta saperlo amico di Vostra Eccellenza.... Discretamente agiato, anche.... Io non ho i pregiudizii della zia Ferdinanda e di don Blasco; i tempi oggi sono mutati.... Vostra Eccellenza si persuada pure che se Lucrezia crede di poter essere felice con lui, io non mi opporrò.... Però è giusto che neppur lei mi cerchi lite!...

— Perché dovrebbe cercartela?...

— Perchè?... Perchè?... Vostra Eccellenza non sa nulla, era a Palermo in quel tempo!... — E allora gli confidò i dispiaceri che la sorella gli aveva dati, complottando con Chiara, col marchese, con Ferdinando, accampando diritti, interpretando a modo suo la legge, accusandolo perfino di volerla spogliare con tutti gli altri. — Adesso, se va a marito, bisognerà finirla con tutta questa storia.... E Vostra Eccellenza vedrà che cominceranno da capo!

— Nossignore! — rispose il duca, fermamente. — Il matrimonio si farà, ma prendo impegno che tu non sarai molestato.

Già Padre Camillo aveva tenuto un simile discorso alla ragazza. Aveva cominciato a dirle che quell’unione era avversata da tutti, in famiglia, non perchè presumevano che restasse zitella — quantunque!... benchè!... — ma per la ragione che non era un partito conveniente. La considerazione della nascita aveva certo la sua importanza; non tanto per sè stessa quanto per quella della educazione, dei principii morali e religiosi che implicava. Giulente era forse un buon giovane — non voleva infamarlo, senza conoscerlo — ma professava dottrine pericolose, parteggiava pei nemici dell’ordine sociale, del potere legittimo, della Santa Chiesa; e non si contentava di far ciò a parole, ma veniva agli atti. E una Uzeda, una nipote della Beata Ximena, una figlia del principe di Francalanza, avrebbe sposato costui? Come era possibile che s’intendessero? L’amore, l’accordo poteva regnare fra loro? E poi, lasciamo star questo, ma Giulente, benchè facoltoso, l’avrebbe mantenuta con quel lusso al quale era stata avvezza? Aveva idee ed abitudini signorili?... Dunque, la famiglia non si opponeva per puro capriccio, ma per ragioni valide e gravi. Però, dice, ella stessa doveva esser miglior giudice di tutto questo: poteva forse sentirsi animata da tanto amore da andare incontro anche ai disagi materiali dell’esistenza, da sperare di poter convertire il giovane. Opera meritoria, zelo encomiabile; ma la quistione principale, unica, era che senza l’approvazione, il beneplacito, la benedizione di quelli che rappresentavano le felici memorie di suo padre e di sua madre non poteva sperar pace e felicità.

Lucrezia non aveva risposto una sillaba.

— Che cosa vogliono, — disse, quando il confessore tacque, — per lasciarmelo sposare? Dicano ciò che vogliono; farò come vorranno.

— Ne ero sicuro! — esclamò il Domenicano con accento di gioioso trionfo. — Ero certo che una buona ragazza come te non avrebbe risposto altrimenti. E il principe, che ti vuol bene, ti sosterrà! Mettetevi d’accordo, siate sempre uniti: questo è il vostro interesse reciproco e la consolazione di chi vi guarda di lassù.

Così, quando il duca, che non aveva ancora parlato con la nipote della domanda di Giulente, glie la partecipò e le disse nel tempo stesso che Giacomo desiderava, prima che gli si desse una risposta, sistemare le quistioni d’interesse, Lucrezia si dichiarò pronta. Il principe, che aveva tenuto molte conferenze col signor Marco ed era stato molti giorni chiuso nello scrittoio, venne fuori a chiedere, anche a nome del fratello coerede, che fosse presa come base la divisione fatta dalla madre, dimostrandone con gran lusso di documenti e di cifre la giustezza; dimostrando altresì che la parte del padre non era mai esistita fuorchè nella fantasia dello zio don Blasco. Esistevano però le cambiali che egli aveva pagato; sua sorella doveva dunque sostenere la sua parte in proporzione del legato: a conti fatti, non le toccavano più di ottomila onze. Lucrezia accettò questa somma. Il testamento materno prescriveva poi che il principe dovesse pagarle gli interessi al cinque per cento; ma nei cinque anni trascorsi dalla morte della madre, non aveva egli mantenuto la sorella, di tutto punto, dandole casa, vitto, servizio, abiti, uso della carrozza, ecc., ecc.? Doveva egli sostenere del proprio queste spese? Se sua sorella fosse stata in bisogno, certo egli l’avrebbe raccolta in casa per l’affetto che le portava, ricordandosi che era dello stesso sangue. Ma ella aveva la sua roba: non era dunque giusto nè ella stessa poteva accettare che per cinque anni il fratello l’avesse mantenuta. Rifatto il conto, gli interessi delle ottomila onze rappresentavano appunto le spese del mantenimento; dunque non le toccava altro che il capitale. Lucrezia disse ancora di sì. Tutto parve così stabilito, ma all’ultimo momento il principe mise allo zio duca una nuova condizione:

— Io voglio regolare anche la situazione degli altri legittimarii. Avevano tutti ragione, o hanno torto tutti: non pare a Vostra Eccellenza logico e giusto? Giacchè dobbiamo metter mano alla carta bollata, bisogna uscirne in una sola volta. Ne parli Vostra Eccellenza agli altri e li metta d’accordo.

Chiara e il marchese non avevano le stesse ragioni per chinare il capo ai patti del principe, ma il momento era propizio per tentar d’indurre anche questi altri ad una transazione, giacchè non vivevano se non dell’attesa del figlio, e la gioia di cui l’imminenza dell’avvenimento li colmava era tale che li disponeva a passar sopra ad ogni altro interesse. Perciò quando il duca riferì loro che Lucrezia si maritava ed aveva concluso la transazione, approvarono, giudicando soltanto che l’affare degli interessi trattenuti come compenso delle spese di mantenimento faceva poco onore al principe. Contenta lei, del resto, contenti tutti.

— Adesso dovete aggiustarvi anche voialtri!... — aggiunse il duca, col tono d’affettuosa imposizione consentitogli non tanto dalla qualità di zio, quanto dall’avere accettato di tenere al fonte battesimale il nascituro.

— Il marchese, scambiata un’occhiata con la moglie, rispose:

— Se Vostra Eccellenza vuole così....

— Il conto di Chiara è naturalmente lo stesso di quello di Lucrezia; ma per lei non c’è la quistione degli interessi, e Giacomo li pagherà fino all’ultimo.

— Io ho preso la mia cara Chiara pel bene che le voglio, e non pei quattrini.... — e, chinatosi sulla moglie, Federico la baciò in fronte, come faceva ogni momento.

— Ma il legato dello zio canonico? L’assegno matrimoniale? — rammentò ella, per non lasciar sopraffare il generoso marito.

— Giacomo non intende riconoscerli, e non so se ha ragione o torto.... Ma ormai bisogna uscirne! A voi, per ora, qualche migliaio d’onze non fa niente; io le compenserò, a suo tempo, al mio figlioccio!...

Così fu concluso, con giubilo immenso del marito e della moglie. Restava Ferdinando, dal quale il principe voleva le due mila onze della quota di debiti. Sull’animo del Babbeo Lucrezia sola poteva; ella però, invece di parlare col fratello, si mise a letto, rifiutando di vedere gente, accusando sofferenze misteriose. Il Babbeo, saputa la malattia della sorella, venne a trovarla, tutti i giorni; ma Lucrezia pareva l’avesse specialmente con lui. La cameriera le aveva detto ed ella stessa s’era accorta che Giacomo la strozzava; ma, per vincerla contro i parenti, sarebbe passata sopra a ben altro. Adesso ella sentiva il male che preparava al fratello minore, il solo che le volesse bene, inducendolo a spogliarsi d’un poco della magra eredità, la più magra di tutte le porzioni; ma nella sua testa le parti s’invertivano: il torto era di Ferdinando che non s’interessava a lei, che non le domandava che cosa avesse, che non rimoveva l’ultimo ostacolo alla conclusione del matrimonio. Ferdinando invece non sapeva nulla di nulla, e restò a bocca aperta quando il duca, per cavare una buona volta i piedi da quel negozio, gli riferì ogni cosa.

— È venuto un buon partito a tua sorella.... Benedetto Giulente, sai, quel giovane tanto intelligente, che si è fatto tanto onore....

— Ah, sì? Va bene, ci ho piacere....

— Ma naturalmente Giacomo vuol prima sistemare gl’interessi, concludere la divisione rimasta per aria. Lucrezia s’è accordata, Chiara anche lei; però tuo fratello vuol definire la pendenza con te, una volta che è la stessa quistione.... Questa è la malattia di Lucrezia....

— E perchè non me n’ha parlato prima?

Egli accorse al capezzale dell’inferma, per dirle:

— Stupida! T’affliggi per questo? Lo zio mi ha detto ogni cosa.... Se t’accordi tu, non ho ragione di accordarmi anch’io? Bisognava dirlo subito! Sei contenta così?...


Il giorno dell’elezione era vicino; i due Giulente, ma più specialmente Benedetto, avevano scovato gli elettori, compiuto tutte le formalità dell’iscrizione; mattina e sera veniva gente a trovare il duca per dichiarargli che avrebbero votato per lui: i due Giulente non mancavano mai. La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del marchese venne di corsa a chiamare il principe e la principessa, perchè Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei, trovarono Federico che faceva come un pazzo, dall’ansietà, non potendo assistere la sofferente, chiamando però a ogni tratto la cameriera, la cugina Graziella o una delle tre levatrici, che si davano il cambio al letto della partoriente. Il principe restò con lui e la principessa entrò nella camera di Chiara. Nonostante il travaglio del parto, questa aveva un’aria beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero suo marito.

— Ditegli che non soffro.... Va’ tu stessa, Margherita.... Ah!... Poveretto.... è sulle spine....

Il suo desiderio di tanti anni, il suo voto più ardente, era dunque sul punto d’esser conseguito! I dolori s’attutivano, a quest’idea; ella non soffriva quasi più pensando all’ambascia del marito.... Quando la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava:

— Ci siamo!... Ci siamo!...

— Presenta la testa? — domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa in preda all’ultima crisi.

— Non so.... Coraggio, signora marchesa... Che è?...

A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo.

— Gesù! Gesù! Gesù!

Chiara, per fortuna, aveva perduto i sensi appena liberata, la principessa che s’era aggirata per la camera senza toccar nulla, incapace di dare aiuto alla partoriente, voltava adesso il capo, dal disgusto prodottole da quella vista; e le levatrici, la cugina, la cameriera si guardavano costernate, esclamando:

— E chi vuol dare la notizia al marito!

Giusto il marchese, non udendo più nulla, chiamava:

— Cugina!... Donn’Agata!... Come va?... Cugina!... Non viene nessuno?

Fu donna Graziella quella che dovette andargli incontro a prepararlo al brutto colpo:

— Cugino, di buon animo!... Chiara è liberata....

— È maschio?... È femmina?... Cugina!... Perché non parlate?

— Fatevi animo!... Il Signore non ha voluto.... Chiara sta bene; questo è l’importante....

Il principe, entrato a vedere l’aborto il cui unico occhio erasi spento, tentò d’impedire al cognato smaniante l’entrata nella camera della moglie; ma non vi riuscì. Dinanzi al mostro che le levatrici costernate avevano deposto sopra un mucchio di panni, il marchese restò di sasso, portando le mani ai capelli. Frattanto sua moglie tornava in sensi, guardava in giro gli astanti. — Federico!... È maschio?... — furon le prime parole che spiccicò.

— Sst!... Sst!... — ingiunsero a una voce le donne, mettendosi dinanzi all’aborto perchè ella non lo scorgesse.

— Non le dite nulla per ora....

— Federico! — chiamava ancora la puerpera.

— Chiara!... Come stai? — esclamò il marchese, accorrendo. — Hai sofferto molto? Soffri ancora?

— No, nulla... Nostro figlio?

— Chiara, confortati! È una femminetta.... annunziò la cugina, accorrendo. — Che importa!... È tanto bellina!

— Peccato!... sospirò ella. — Sei dolente per questo? — domandò poi al marito, vedendogli la ciera buia.

— Ma no, no!... Tutti i figliuoli sono cari lo stesso....

— E dov’è?... Portatela qui.... — fece ella, con un nuovo sospiro.

In quello stesso punto la cameriera, dietro ordine della principessa, portava via il feto avvolto in un panno, cercando di non farsi scorgere.

— È lì!...— esclamò Chiara. — Voglio vederla....

Allora una grande confusione ammutolì tutti quanti. Federico, accarezzandole le mani, baciandola in fronte, le disse:

— Coraggio, figlia mia!... Fàtti coraggio.... Vedi che anch’io mi rassegno! Il Signore non volle....

— È morta? — domandò ella, impallidendo.

— No.... è nata morta.... Coraggio, poveretta!... Purchè tu stia bene.... il resto è nulla: sia fatta la volontà di Dio.

— Voglio vederla.

Tutti la circondarono, insistendo per dissuaderla da quel proposito: giacchè era morta! perchè angustiarsi a quella vista! bisognava che ella s’avesse riguardo; l’importante adesso era la salute di lei!

— Voglio vederla, — ripetè seccamente.

Bisognò contentarla. Non pianse, non provò raccapriccio nell’esaminare quell’abominio; disse al marito:

— Era tuo figlio!...

E ordinò che non lo portassero via, pel momento. Arrivarono frattanto gli altri parenti, don Eugenio, donna Ferdinanda, la duchessa Radalì, i cugini del marchese; tutti si condolevano, ma auguravano miglior fortuna per la prossima volta. Arrivò anche il duca, verso sera, a fare i suoi convenevoli; ma restò poco, giacchè i Giulente lo aspettavano giù, per riferirgli le ultime notizie intorno alle disposizioni del collegio: Benedetto pareva Garibaldi quando disse a Bixio: «Nino, domani a Palermo!...»

Il domani infatti egli corse su e giù per le sezioni, per le case dei votanti, sollecitando la formazione dei seggi, interpetrando la legge che riusciva nuova a tutti, incitando la gente a deporre nell’urna il nome del duca. Frattanto in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell’ultima pazzia del duca, s’erano riuniti tutti gli Uzeda borbonici, ad eccezione di don Blasco il quale, dopo la transazione dei nipoti, la conclusione del matrimonio di Lucrezia e la candidatura del fratello, pareva veramente impazzito. La marchesa stava discretamente in salute e pareva sopportare con sufficiente rassegnazione la sua disgrazia; il marchese non lasciava il capezzale della puerpera e si chinava a parlarle all’orecchio: nessuno dei due ascoltava i motti feroci di donna Ferdinanda contro il fratello, i ragionamenti storico-critici che il cavaliere teneva al principino, venuto anche lui a far visita alla zia col Priore e Frà Carmelo. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando, e lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano, lungamente. Poi chiamò la cameriera e, cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glielo diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione:

— Sai la boccia dello strutto, nel riposto?... la grande?... Prendila, vuotala e nettala bene.... Ma bene mi raccomando! Se c’è acqua calda è meglio.

Pronta che fu la boccia, Ferdinando andò a vederla.

— Va bene, — disse; — adesso ci vuole lo spirito.

La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo.

— C’è un po’ di sego?... di creta?...

— Ho il mio cerotto, se ti serve... — disse il marchese.

E del cerotto che appestava la camera Ferdinando spalmò l’incastratura del tappo, perchè non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l’operazione; Consalvo, con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico:

— Zio, non pare la capra del museo?

Al museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Vicerè. Premeva al principe di tornare dallo zio duca; per fargli cosa grata, prese con sè il figliuolo, quantunque fosse l’ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata al palazzo, che s’udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi di gran cassa. Una dimostrazione di cittadini d’ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente, veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l’insigne patriotta. Il portinaio, vedendo arrivare quella turba vociferante, fece per chiudere il portone; ma Baldassarre, mandato giù dal duca, gl'ingiunse di lasciarlo spalancato. La folla gridava: Viva il duca di Oragua! Viva il nostro deputato! mentre la banda sonava l’inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica, facevano capriole. I Giulente, il sindaco, altri otto o dieci cittadini più ragguardevoli parlamentavano con Baldassarre, volendo salire a complimentare l’eletto del popolo; poichè il duca si trovava su, nella Sala Gialla, il maestro di casa ve li accompagnò: Benedetto Giulente, appena entrato, vide Lucrezia accanto alla principessa, ancora col cappellino in capo. Il duca, fattosi incontro ai cittadini, strinse la mano a tutti, prodigando ringraziamenti, mentre dalla via veniva il frastuono delle grida e degli applausi, e il principe, visto nel crocchio un jettatore, impallidiva mormorando: «Salute a noi! Salute a noi!» Fu il nuovo eletto, pertanto, quello che presentò Giulente alle nipoti. Il giovane s’inchinò, esclamando raggiante:

— Signora principessa, signorina, sono felice e superbo di presentar loro la prima volta i miei omaggi in questo fausto giorno che è di festa per la loro casa come per tutto il paese....

— Viva Oragua!... Fuori il duca!... Viva il deputato! — urlavano giù.

E Benedetto, quasi fosse già in casa sua, spalancò il balcone. Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco, dire qualcosa. Afferratosi a Benedetto, balbettava:

— Che cosa?... Che debbo dire?... Aiutami tu, mi confondo....

— Dica che ringrazia il popolo della lusinghiera dimostrazione.... che sente la responsabilità del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo.... animato dalla fiducia, sorretto.... — Ma poichè le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone.

Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di teste; salutavano coi cappelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: «Evviva! Evviva!...» Giallo come un morto, afferrato alla ringhiera con tutte e due le mani, con la vista ottenebrata, immobile in tutta la persona, l’onorevole cominciò:

— Cittadini....

Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel coro assordante degli applausi; l’attitudine del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere. Benedetto alzò un braccio; come per incanto ottenne silenzio.

— Cittadini! — cominciò il giovanotto; — in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho comunicato all’illustre patriotta.... — Evviva Oracqua!... Evviva il duca!... — la splendida, l’unanime affermazione dell’intero collegio.... Alle tante prove d’abnegazione da lui date al paese.... — Evviva! Evviva!... — il duca d’Oragua aggiunge quest’altra: di obbedire ancora una volta alla volontà del paese e di rappresentarci in quell’augusto consesso dove per la prima volta concorreranno i figli....

Ma non potè finire quel periodo. Le acclamazioni, i battimani soffocavano le sue parole; gridavano: «Viva l’unità italiana! Viva Vittorio Emanuele! Viva Oracqua! Viva Garibaldi!... Altri aggiungevano: Viva Giulente! Viva il ferito del Volturno!...

— Lo slancio da cui vi vedo animati, — egli proseguiva, — è la più bella conferma del responso dell’urna.... di quell’urna donde ancora una volta esce la libera.... la sovrana volontà d’un popolo divenuto padrone di sè.... Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta noi avremo la somma ventura di veder sedere il duca d’Oragua. Viva il nostro deputato!... Viva l’Italia!....

Uno scroscio finale d’applausi rintronò e la folla cominciò a rimescolarsi. Una seconda volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato: «Cittadini....» ma giù non udivano, non comprendevano ch’egli fosse per parlare. Allora, voltatosi verso le persone che gremivano il balcone, egli disse:

— Volevo aggiungere due parole.... ma se ne vanno.... Possiamo rientrare....

Sorrideva, traendo liberamente il respiro, come liberato da un incubo, stringendo la mano a tutti, ma più forte a Benedetto, quasi volesse spezzargliela.

— Grazie!... Grazie!... Non dimenticherò mai questo giorno....

Guidò il giovane nella stanza attigua perchè prendesse congedo dalle signore, accompagnò tutti fino alla scala. Quando rientrò, il principe, liberato anche lui dall’incubo della jettatura, ricominciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliuolo:

— Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?

Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò:

— Che cosa vuol dire deputato?

— Deputati, — spiegò il padre, — sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.

— Non le fa il re?

— Il re e i deputati insieme. Il re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia: quando c’erano i Vicerè, i nostri erano Vicerè; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!...



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