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Parte prima

Capitolo 8
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VIII.


In piedi, con le braccia levate, rosso come un pomodoro, don Blasco pareva volesse mangiarsi vivi i suoi contraddittori:

— E questo si chiama vincere, ah? Con l’aiuto dei più grossi, ah? Perchè hanno chiamato aiuto, allora? Perchè non si sono battuti da soli, se gli bastava l’animo? E questa la chiamate vittoria? In due contro uno?

— Nossignore! — protestò Padre Rocca. — Erano ventimila di meno....

— Cento sessantamila austriaci contro cento quaranta mila alleati — soggiunse Padre Dilenna.

— E i piemontesi si sono battuti da soli!... — affermò Padre Grazzeri.

— Come? Dove? Quando? — urlò don Blasco. "Che diavolo m’andate....?

— Leggete i giornali, se non sapete! — fecero gli altri, a coro.

Allora egli impallidì come per un’ingiuria mortale.

— Leggere i giornali?... Leggere i vostri giornali? — Balbettava, pareva cercasse le parole. — Ma dei vostri giornali io mi netto il fondamento!... Ah, no? non volete capire?... Me ne netto il fondamento, così.... e fece il gesto.

Il Fratello portinaio mise il capo dietro il muro della scala; dalla terrazza affacciossi Padre Pedantoni per guardare giù nel portico dove s’accendeva la lite.

— Questo non si chiama rispondere!... A voi, dunque, chi dà le notizie?... Avete un servizio d’informazioni particolare, se non leggete i giornali?

— Così!... — continuava a gestire don Blasco, fuori della grazia di Dio. — A me parlate della vostra carta sporca? A me che vi farei legare tutti quanti, voi e chi l’introduce qui dentro?

— Andate a denunziarci!... Ne sareste capace!...

— Farei il mio dovere!

— Fareste la spia!

— A me?...

Padre Massei, che se la godeva seduto sopra un sedile, esclamò a un tratto, vedendo il gesto con cui don Blasco sfibbiava la sua cintola di cuoio:

— Sst!... Sst!... Viene l’Abate.... — ma don Blasco tonò:

— Me n’infondo dell’Abate, del Priore e del Capitolo! Avanti, chi si sente da più! A me spia, manetta di carognuoli?..."

Vedendo che diceva sul serio, Padre Dilenna gli si fece incontro, rabbuiato in viso. Allora Pedantoni fu costretto a mettersi in mezzo, per dividerli:

— Andiamo, finitela. È questo il modo?...

Da un pezzo le discussioni finivano così, con le grida, gli insulti e le minacce. Don Blasco era diventato un energumeno dopo che i liberali rizzavano la cresta per via degli avvenimenti di Lombardia, della cacciata del Granduca da Firenze, dell’agitazione che propagavasi per tutta l’Italia. «Questa volta è per davvero! Son sonate le ventiquattro!...» dicevano, ed egli prima si scagliava contro Napoleone III, contro quel «figlio di non so chi» al quale non bastava la propria tigna e veniva a grattare quella degli altri: poi tonava che Francesco II li avrebbe costretti ad arar dritto: «Perchè è ragazzo? Perché non c’è più suo padre?... Vi farà legare dal primo all’ultimo! La vedremo!...» Ma il suo più grande furore scoppiava quando i liberali, dopo aver profetato imminenti novità in Sicilia, dopo aver parlato di moti rivoluzionarii già belli e pronti, gli adducevano in prova il ritorno di suo fratello, del duca di Oragua, da Palermo. «Quello lì in galera, legato mani e piedi; quell’imbecille, pazzo, brigante e traditore!...» Poi, ridendo di sè stesso, lo vituperava altrimenti: «Lui, pericoloso? Quel pezzo di coniglio? Lui congiurare? È tornato per la squacquerella che ha addosso!... Palermo è buona per bagordarvi, ma in tempo di trambusti è meglio il proprio paese, tapparsi in casa propria, ficcarsi dentro un forno!... Se tutti i sanculotti sono come lui, Francesco regnerà altri cent’anni...»

Egli ripeteva quei discorsi fuori del convento, dinanzi agli estranei; dalla Sigaraia specialmente, dove andava tutti i giorni, uscendo dal refettorio. Donna Lucia, all’ora canonica, serrava la bottega e si metteva alla finestra per vederlo uscire dal portone del convento e infilare quello del palazzotto; allora gli andava incontro, fino a mezza scala, con le figlie e il marito. Le ragazze, che adesso avevano da dieci a dodici anni, erano tal e quale don Blasco: grasse e grosse come mezze botti; e gli baciavano la mano e gli davano del Vostra Eccellenza al pari di Garino, che si sbracciava per servirlo, per avanzargli la poltrona più comoda ed offrirgli i biscotti e il rosolio regalati dal monaco a spese di San Nicola. Quella era la visita pubblica che don Blasco faceva all’amica, perchè poi ce n’era una seconda, quando Garino portava a spasso le ragazze, e i due restavano soli. Certe volte ce n’era una terza, nella tabaccheria. Oltre che il tabaccaio, Garino faceva il caffettiere e teneva due tavolini con sei chicchere per ciascuno, ad uso degli avventori, i quali erano la più parte spie e sbirri e sorci di polizia, giacchè egli esercitava una terza professione, quella dell’orecchiante. Così, in mezzo a quel pubblico di fedeli, don Blasco si nettava la bocca contro i sanculotti in generale e il fratello in particolare, e apprendeva notizie di prima mano intorno ai movimenti dei traditori. Veramente, Garino protestava un gran rispetto pel duca d’Oragua, zio del principe di Francalanza, appartenente ad una delle prime famiglie del Regno; e a sentire i vituperii di don Blasco scrollava un poco il capo; ma, voltando pagina, Sua Paternità aveva poi tutti i torti? Il duca faceva male a frequentar troppo don Lorenzo Giulente, il quale era un liberale arrabbiato — naturalmente, non essendo signore! — e per mezzo del console inglese — la polizia sapeva ogni cosa! — faceva venire giornali, proclami e altra roba proibita; a don Lorenzo, anzi, avean fatto una visita domiciliare; ma dal duca non andavano, pel rispetto dovuto alla famiglia Uzeda... Questo appunto don Blasco non poteva soffrire: che egli godesse dell’impunità, che si parlasse di lui come d’un capo rivoluzionario senza che corresse rischi di sorta; voleva che lo trattassero come gli altri, che lo legassero più stretto degli altri. «Sono tutti cani arrabbiati! ci vuole il bastone! Ci vuole la museruola!» Garino scrollava il capo: l’Intendente Fitalia non avrebbe potuto permettere che si molestasse il duca d’Oragua, finchè, beninteso, egli non si arrischiava troppo; ma questo era certo e sicuro: chè un gran signore come lui aveva tutto da perdere e niente da guadagnare mettendosi coi «malpensanti» e gli arruffapopolo: il signor Intendente glie l’aveva detto a faccia a faccia!... Allora, udendo che suo fratello andava dal rappresentante del Governo, don Blasco sfogava a un altro modo:

— Volpone! Camaleonte! Giubba rivolta!... Come possono fidarsene? È del partito di chi vince! Li giuoca tutti! Tradirebbe suo padre che lo creò!...

E andando via dalla Sigaraia ripeteva quei discorsi in pubblico, nella farmacia di Timpa, che era il quartier generale dei fedeli, mentre in quella di Cardarella si davan convegno i rivoluzionarii. Se qualcuno, scandalizzato dalla violenza del monaco, gli faceva osservare che non stava bene parlare in tal modo, agli estranei, del proprio fratello:

— Fratello? — protestava egli. — Io non ho fratelli! Non ho parenti! Non ho nessuno: com’ho da cantarvelo?...

Si dava al diavolo, perchè niente andava a modo suo, al palazzo. L’anno innanzi, al momento della scadenza del termine stabilito dalla principessa pel pagamento alle figlie, Chiara e Lucrezia non erano andate d’accordo; il marchese, biasimando l’amore della ragazza per Giulente, s’era riavvicinato al principe, il quale gli aveva fatto la corte, trattandolo con le molle d’oro, per propiziarselo. Ferdinando, intento a mettere insieme un museo di storia naturale alle Ghiande, non si era neppure informato di quel che avveniva; così, non solamente i legatarii non avevano chiesto i conti, ma il principe, adducendo la mancanza di quattrini, aveva ottenuto dal marchese di poter ritardare il pagamento fino all’altr’anno. La seconda scadenza era arrivata, e Giacomo non pagava ancora, scusandosi con le inquietudini pubbliche, col ristagno degli affari, con la scarsità del raccolto e l’impossibilità di venderlo. E don Blasco non si dava pace udendo che i nipoti, dimenticate le loro ragioni, accettavano perfino i continui ritardi, i pretesti furbeschi del principe. Quelle bestie di Federico e di sua moglie, specialmente, non davano più retta a nessuno, al settimo cielo per la speranza d’un figliuolo — come se dalla pancia di Chiara dovesse venir fuori il Messia! — e quel babbeo di Ferdinando riduceva il giardino un pestilente carnaio, preso a un tratto dalla smania d’imbalsamare animali — senza accorgersi che il più animale di tutti era lui stesso! Quell’altra sciagurata di Lucrezia, poi, viveva nelle nuvole, più stravagante di prima, e impallidiva quando nominavasi Giulente, lo sbarbatello petulante che anche lui discorreva di costituzione e di libertà! Finalmente c’era la questione impegnata tra Raimondo che non voleva muoversi, e sua moglie che voleva andar via: in odio all’intrusa don Blasco si schierava a favore del nipote abborrito.

— Partire? Per andare dove? A Firenze c’è il terremoto! Questi non sono tempi da lasciare il proprio paese!

Raimondo adduceva la stessa ragione, e gli altri la ripetevano: Matilde sentiva ordirsi intorno un’altra congiura sempre più stretta; doveva adesso contentarsi di andare e venire da Milazzo ogni mese per veder le bambine, non potendo più reggere ai mali tratti che usavano loro quei parenti. Suo padre non l’aveva più con Raimondo, girava per la Sicilia col pretesto degli affari, ma per lavorare invece contro il governo: e don Blasco e donna Ferdinanda si divertivano a predire che un giorno o l’altro l’avrebbero buttato in galera, poichè quella predizione faceva piangere l’intrusa. Il duca, invece, parlava molto bene del barone, s’intratteneva a lungo con lui quando passava da Catania: adesso esaltava il genio di Cavour, i trionfi della sua politica; se gli rimproveravano le antiche critiche alla spedizione di Crimea, negava d’averne mai fatte; e giudicava che la via per la quale s’era posto Francesco II fosse sbagliata: l’alleanza bisognava farla col Piemonte, non con l’Austria, e concedere la costituzione, non inquietare i patriotti, perchè Napoleone aveva parlato chiaro: l’Italia doveva esser libera dall’Alpi all’Adriatico....

A don Blasco veniva di vomitare, udendo queste cose, e s’arrovellava, non potendo prendersela direttamente col fratello maggiore; ma il giorno che arrivò la notizia della pace di Villafranca, per poco non gli prese un accidente, dall’esultanza. Lungo i corridoi di San Nicola, dinanzi ai monaci dell’altro partito che tenevano, mogi mogi, la coda fra le gambe, vociava, trionfante:

— Ah, il gran Cavour? Ah, il gran Piemonte? Dove sono adesso? Perchè non continuano la guerra da soli? Dov’è andato l’Adriatico? Dov’è andato il Mar Tirreno? E quella bestia che sputava sentenza, empiendosi la bocca di Nabboleone! Napoleone aveva confidato proprio a lui quel che voleva fare! Credevano d’esserselo posto in tasca, Napoleone!...

— O non l’avevate con lui perchè non si grattava la sua tigna?

— Come? Quando? So molto io!... La baldoria è finita!... Ma che re, Francesco II? Ma che re? Degno figlio di suo padre!...

Se avessero fatto lui re, non avrebbe messo più boria, non avrebbe guardato la gente da tant’alto. E si sgolava anche al palazzo, vedendo che il fratello scrollava il capo, udendogli sentenziare che l’ultima parola non era detta.

— Che ultima e che prima! Il gran Cavurre ha fatto fagotto! I principi legittimi tornano tutti quanti! L’avete schiacciata male, non volete capirlo?

Ogni giorno s’informava se il duca aveva ordinato che gli si facessero le valigie; quel fratello gli pesava come un sasso sullo stomaco, non vedeva l’ora che ripartisse per Palermo, quasi in città non potesse regnar pace se colui non se n’andava. Al convento, insultava quelli che osavano ancora contraddirgli, le discussioni minacciavano di finir male; lo stesso Abate aveva dovuto pregare i Padri Dilenna e Rocca di lasciarlo dire per evitare un guaio. Il Priore, invece, non s’occupava di tutte queste cose: nessuno sapeva in qual modo egli la pensasse. Se gli parlavano di politica, stava a udire, scrollava il capo, rispondeva: «Non sono affari che mi riguardano.... Date a Cesare quel che è di Cesare....» Al Noviziato la lotta fra i due partiti s’era attizzata; il principino, a cui don Blasco dava l’imbeccata, prendeva anche lui l’aria di un trionfatore, dileggiava Giovannino Radalì, capo dei rivoluzionarii, dandogli del «barone senza baronia» e del «figlio del pazzo.» Il duca Radalì, infatti, era morto in un accesso di delirio furioso; la duchessa vedova aveva quindi stabilito che Giovannino, come secondogenito, pronunziasse i voti. E questo era un altro argomento col quale Consalvo schiacciava il cugino: «Io andrò via, e tu resterai sempre qui!...» Giovannino, che nonostante le diverse idee politiche gli voleva bene, sopportava un poco i suoi dileggi; ma, a volte, infuriava in malo modo: il sangue gli montava alla testa, gli occhi gli s’accendevano; scagliatosi sul cugino, se lo metteva sotto, malmenandolo, finchè Frà Carmelo accorreva, con le mani in testa:

— Per l’amor di Dio!... Che modo è questo?... Non potete star cheti? Pensate a divertirvi!

Composte le liti, i ragazzi si divertivano, infatti. I due cugini morivano dalla voglia di fumare; Giovannino aveva ottenuto da Frà Cola, in gran segreto, della semente di tabacco, e l’aveva piantata in un angolo del giardino; cresceva rigogliosa, e presto ne avrebbe fatto sigari. Frattanto giocavano da mattina a sera, con pochi momenti di studio svogliato, con qualche ora di funzioni religiose.

Per la festa di Sant’Agata, in agosto, andarono a spasso tutti i giorni, assistettero alla processione del carro, all’oratorio cantato in piazza degli Studii, e con più piacere alle corse, che Raimondo chiamava barbarie. Le facevano lungo la via del Corso, tra due siepi vive di curiosi, sui quali spesso i cavalli si gettavano, sparando calci ed ammaccando costole. I cavalli vincitori ripercorrevano poi la via al passo guidati dai palafrenieri che lanciavano tratto tratto un grido ai balconi:


— Affacciatevi, principi e baroni,
Che sta passando il re degli animali!


E la folla: «Olè...» Consalvo stava attento al cerimoniale spagnolesco di quelle feste: il Senato della città, nella berlina di gala grande quanto una casa, preceduta da mazzieri e gonfalonieri e catapani che sonavano i tamburi, andava a prendere l’Intendente, il quale doveva farsi trovare sul portone: al senatore più giovane toccava mettere il piede sulla predella, in atto di scendere; ma allora il rappresentante del governo doveva avanzarsi con le braccia distese, per impedirgli di toccar terra. Erano le prerogative della città. Il Senato aveva avuto lunghe contese con le altre autorità circa il posto da occupare nella cattedrale, durante le grandi funzioni: per evitare liti ulteriori, s’era tracciata per terra una riga di marmo che nessuno poteva varcare.

Finita la festa di Sant’Agata, a San Nicola Novizii e Fratelli prepararono quella del Santo Chiodo, per cui ogni anno c’era grande aspettativa.

Il Re Martino, che la portava sempre al collo, aveva regalato quella reliquia ai monaci, nel 1393: era uno dei chiodi con un pezzetto del legno della croce sulla quale avevano suppliziato Gesù. Il 14 settembre la spera d’oro tutta gemmata dove serbavasi la sacra spoglia fu esposta all’adorazione dei fedeli, mentre l’Abate, circondato da tutti i Padri con la cocolla, celebrava, accompagnato dal grand’organo, il pontificale. Ma la vera festa fu quella della sera, quando la vasta piazza di San Nicola parve trasformata in un salone, dalle tante faci accese per ogni dove, dalle tante seggiole disposte per le signore che arrivavano in carrozza dalla Trinità e dai Crociferi, e venivano ad assistere alla processione. Questa usciva, a suon di banda e di campane, tra due file di soldati, dalla porta maestra della chiesa che pareva tutta una fiamma: l’Abate reggeva la spera, seguito da un lungo corteo che rientrava dopo compito il giro della piazza: allora cominciavano i giuochi di fuoco, i razzi, le ruote, le fontane luminose, la gran macchina finale che mutava quattro volte di disegno e di colori e finiva col crepitare assordante d’un fuoco di fila mentre centinaia di serpenti luminosi si snodavano nell’aria scura.... Il principino, accanto ai suoi parenti, non aveva tempo di dar retta a tutti, facendo gli onori di casa, giacchè nella piazza e in tutto il quartiere la gente era ospite dei Benedettini. Tutta la città s’era riversata lassù: le signore con gli abiti estivi che portavano l’ultima volta, segnando quella solennità la fine della stagione. Donna Mara Fersa, con la nuora e i parenti di costei venuti da Palermo, stavano dalla parte opposta degli Uzeda; don Mario era in campagna. Adesso appena si salutavano, per l’occhio del mondo; a donna Isabella era stato proibito di andare più in casa di donna Ferdinanda o di altri parenti del conte; la gente, a poco a poco, aveva finito di chiacchierare su quel soggetto. Lo stesso Raimondo pareva essersi rassegnato; non lo vedevano più correre dietro alla signora, nè questa litigava più con la suocera, nè s’atteggiava a vittima come un tempo. Quella sera aveva un abito veramente sfarzoso, e tante gioie addosso, che tutti gli occhi si volgevano su lei. Quando la folla cominciò a diradarsi, Padre Gerbini, sempre galante, l’accompagnò alla carrozza; e come, giusto per combinazione, il cocchiere dei Fersa e quello del principe Francalanza avevano messo accanto i loro legni, Raimondo e il principe, nell’andar via, fecero una scappellata alle signore, alla quale risposero solo donna Isabella e lo zio palermitano.

Ora, il domani di quella festa, una notizia straordinaria, sbalorditiva, incredibile, corse di bocca in bocca per la città: donna Mara Fersa aveva cacciato di casa la nuora!... «Era vero?... Non era possibile!... Se la sera innanzi erano state insieme a San Nicola?... E come? Perchè? Quando tutto pareva finito?...» Ma i bene informati dicevano che non era finito niente, e che la bomba era scoppiata giusto quella notte per l’assenza di don Mario. Donna Mara, dopo avere accompagnato i parenti della nuora all’albergo ed essere tornata a casa ed aver preso sonno, aveva udito rumore nella camera di donna Isabella: entrata da lei, l’aveva trovata mezzo nuda, con la finestra aperta e il cappello d’un uomo rotolato per terra. Se avesse fatto un momento più presto, li avrebbe colti sul fatto; ma dal balcone che dava sui tetti della scuderia, egli era scappato in un lampo. Senza bisogno di nominarlo, tutti comprendevano che egli era il conte.... Bisognava vedere, aggiungevasi, donna Isabella, pallida come una morta, quando la suocera, con voce strozzata, le aveva gridato: «Esci di casa mia!...» Lì per lì, senza darle neanche tempo d’infilarsi un paio di scarpe, in pantofole come si trovava! Ella se n’era andata, con la cameriera che le teneva il sacco, all’albergo dove si trovava quel suo zio provvidenzialmente piovuto da Palermo. «E se non c’era? Dove l’avrebbe mandata? E don Mario, il marito?...»

Don Mario arrivò all’alba, a rotta di collo, mandato a chiamare con un espresso: il piangere che faceva! come un bambino!... Ne avea voluto del bene alla moglie! E allo stesso conte! Questo era stato lo sbaglio! Sua madre, no: l’amicizia degli Uzeda non le aveva dato alla testa; fin dal principio s’era accorta della piega che prendevano le cose. Se non fosse stata lei, il pasticcio sarebbe successo molto prima, Raimondo non avrebbe dovuto prender tante precauzioni. Egli rischiava infatti la vita, ogni volta. Quando Fersa andava in campagna, il conte entrava in casa di donna Isabella, avendo comperato tutte le persone di servizio: ma dal portone della stalla, che il cocchiere gli apriva, doveva salir sul tetto delle scuderie, scavalcare la balconata e di lì entrare in camera dell’amica.... Era stato un vero miracolo, se per tanto tempo non l’avevano sorpreso!... L’ultima notte, scappato senza cappello, gli sbirri di ronda l’avevano incontrato e stavano per arrestarlo; ma, conosciuto che era il conte Uzeda, l’avevano lasciato andare....

Gl’increduli, i curiosi, fecero capo alla polizia, ma lì furono mandati a spasso. E quel giorno stesso tutti videro il contino Raimondo al Casino dei Nobili dove giocò e chiacchierò del più e del meno, come di consueto. Possibile che sfidasse fino a questo punto l’opinione pubblica? O non era piuttosto da sospettare della storia che si narrava?.. Già correvano le versioni favorevoli a donna Isabella. Era levata, a mezzanotte? Non aveva sonno! La finestra aperta? Per il gran caldo. Il cappello per terra? Un vecchio cappello del cocchiere, il quale s’era divertito, nel pomeriggio, a buttarlo per aria!... Se tutte queste cose non s’erano messe in chiaro sul momento, bisognava incolpare quella furia di donna Mara. Non poteva soffrire la nuora, tutti sapevano come l’aveva maltrattata! Chi parlava del conte? Che c’entrava il conte? Chi l’aveva visto? Era a casa sua, si era raccolto subito dopo la processione del Santo Chiodo: il principe, la principessa, tutta la famiglia, tutti i servi potevano attestarlo! Forse perchè aveva fatto qualche visita, tempo addietro, alla Fersa? Ma s’era allontanato subito, visto che prendevano in mala parte un’amicizia innocente! Aveva dunque ragione di non voler stare in quel paese, di prendersela con la malignità dei proprii concittadini?... E a poco a poco quelle voci acquistavano credito: dicevasi perfino che Fersa l’avesse con la madre, per non aver dato tempo all’accusata di provarsi innocente.... Tutta la città discuteva, commentava, giudicava ogni notizia relativa al fatto, appassionandosi più che per una caduta di regno. Chi parteggiava pel conte, protestando che un padre di famiglia come lui non si sarebbe messo a disturbare un’altra famiglia; chi lo giudicava capace di questo e d’altro, per soddisfare un capriccio. Scapolo, non aveva fatto una vitaccia? Ammogliato, non aveva fatto tanto soffrire la povera moglie? In quella circostanza, per buona sorte, ella era in casa di suo padre, a Milazzo.

Giusto, tre giorni dopo, i difensori di Raimondo trionfarono: egli partiva per Milazzo, raggiungeva la moglie e le figlie. Donna Isabella, da canto suo, era partita per Palermo con lo zio. Chi ardiva ancora affermare che ci fosse stato niente di male fra loro? Quella sconsigliata di donna Mara Fersa aveva fatto il pasticcio!... Gl’increduli andarono al palazzo Francalanza e all’albergo, per vedere se quelle partenze eran vere. Erano verissime: donna Isabella e Raimondo erano partiti, l’uno per Milazzo e l’altra per Palermo; il principe si apparecchiava ad andarsene al Belvedere; Fersa con la madre era già a Leonforte.


Durante la villeggiatura quei fatti furono il tema di ogni discorso.

A Nicolosi, tra i Padri Benedettini, se ne fece un gran parlare: Padre Gerbini, fra gli altri, sostenne a spada tratta l’innocenza di donna Isabella, forte del fatto che Raimondo, da Milazzo, era partito definitivamente per Firenze, dove tornava a domiciliarsi con la famiglia. Don Blasco però non aprì bocca su questo soggetto. Egli pareva avesse dimenticato tutti gli affari della parentela, occupato come era ad eruttar bestemmie all’annunzio delle novità pubbliche, dei voti delle Romagne e dell’Emilia per l’annessione al Piemonte, della dittatura di Farini, specialmente del trattato di Zurigo che gli diè materia da sbraitare durante tutto l’autunno e tutto l’inverno. Coi Padri del partito liberale impegnava novamente discussioni tempestose che minacciavano di non finir bene, a proposito del ritorno di Cavour al ministero, dei plebisciti dell’Italia centrale, di tutti i sintomi d’un mutamento radicale. Ma, alla cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, gongolò come se le avessero date a lui; dopo l’abortito tentativo di sommossa del 4 aprile a Palermo, cantò vittoria, gridando:

— Ah, non vogliono capirla, ah! Fermi con le mani! Giuoco di mano, giuoco villano! Parlate, gridate, sbraitate finchè vi pare, ma senza rompere nulla! Chi rompe paga, e neppure i cocci sono suoi!

— Siete voi che non volete capirla! Non vedete che adesso non è più come al Quarantotto?

— Eh? Ah? Oh? Non più? Di grazia, che c’è di nuovo?

— C’è di nuovo che il Piemonte è forte.... che la Francia sotto mano l’aiuta.... che l’Inghilterra.... che Garibaldi....

— Chi?... Quando?... La Francia? Bel servizio! Bell’aiuto!... Garibaldi? Chi è Garibaldi? Non lo conosco!...

Imparò a conoscerlo il 13 maggio, quando scoppiò come una bomba la notizia dello sbarco di Marsala. Ma, contro al suo solito, egli non gridò, non disse male parole: alzò le spalle affermando che al primo colpo di fucile dei Napoletani i «filibustieri» si sarebbero dispersi: i Murat, i Bandiera, i Pisacane informavano.

— La sonata è un’altra! — gli disse sul muso Padre Rocca, dopo lo scontro di Calatafimi.

Allora egli scoppiò:

— Ma razza di mangia a ufo che siete, dovete dirmi un poco perchè vi fregate le mani? Avete vinto un terno al lotto? O credete che Garibaldi venga a crearvi Papi tutti quanti? Non capite, teste di corno, che avete tutto da perdere e niente da buscare?

Non sapeva darsi pace; l’avanzarsi vittorioso dei garibaldini lo esasperava; la formazione di squadre di ribelli, il fermento che regnava in città e nelle campagne lo mettevano fuori di sè. Ma il suo furore rovesciavasi particolarmente sul duca, che prendeva decisamente posto coi rivoluzionarii, fiutando già il cadavere. Il monaco diceva contro il fratello parole tali da far arrossire un lanciere, dava del traditore a tutte le autorità perchè, invece di reprimere il movimento, aspettavano di vedere, grattandosi la pancia, se Garibaldi sarebbe entrato o no a Palermo.

— A Palermo? Lanza lo schiaccerà! C’è ventimila uomini a Palermo! Ma bisogna dare esempi! Rizzar la forca in piazza del Fortino!

Invece, le squadre dei rivoltosi si riunivano tutt’intorno alla città, i liberali parlavano a voce alta, gli sbirri fingevano di non udire, i «benpensanti» erano costretti a nascondersi! E quella bestia del generale Clary, con tre mila uomini sotto i suoi ordini, non usciva dal castello Ursino, non faceva piazza pulita, lasciava che il panico dei «benpensanti» crescesse. La notte del 27, in mezzo al malcelato tripudio dei rivoluzionarii, arrivò la notizia dell’entrata di Garibaldi a Palermo; le squadre minacciavano di scendere in città per attaccare le truppe di Clary. Il duca invece raccomandava la calma, assicurava che i napoletani sarebbero andati via senza tirare un colpo. Quantunque egli assumesse un’aria importante e protettrice in famiglia quasi potesse far la pioggia e il bel tempo, Giacomo ad ogni buon fine prese le disposizioni per mettersi al sicuro al Belvedere. Lucrezia, vedendo quei preparativi di partenza, smaniava all’idea di lasciare Giulente, il quale le scriveva: «L’ora del cimento sta per sonare; io correrò al posto dove il dovere mi chiama, col nome d’Italia ed il tuo sulle labbra!» Ma all’annunzio che, rotto ogni indugio, le squadre stavano per scendere in città, il principe andò a San Nicola per raccomandare il bambino all’Abate, al Priore e a don Blasco e fatte attaccar le carrozze, partì con tutti i suoi, da Ferdinando in fuori, il quale nè per pestilenze nè per rivoluzioni lasciava le sue Ghiande. Allora il duca, per non restar solo nel palazzo deserto, se ne venne al convento, dove il nipote Priore gli dette una camera della foresteria. Don Blasco, vistolo lì dentro, parve uno spiritato; sulle prime non potè articolar parola; poi, corso fra i Padri della sua camarilla, vociferò:

— L’eroe! L’eroe! L’eroe! Quel grande eroe!... Quel fulmine di guerra!... S’è ficcato qui per la paura! Finta che a casa non c’è più nessuno! Gli treman le chiappe, invece!..."

Il convento infatti cominciava a popolarsi di paurosi, di preti fuggiaschi, di spie borboniche, di gente invisa ai liberali; lo stesso castello non era giudicato altrettanto sicuro. Pei novizii, quantunque alcuni di essi fossero stati portati via dai parenti inquieti, era una festa: tante facce nuove, un incessante andirivieni, la continua aspettativa di non si sapeva che cosa. I ragazzi liberali avean formato anch’essi la loro squadra, a similitudine di quelle accampate fuori la città: Giovannino Radalì la capitanava, maturando il piano di sollevare il convento, di scendere in piazza e di unirsi ai rivoltosi grandi. Mancavano però di bandiere, e col pretesto di apparare un altarino mandarono il cameriere a comprar carta variamente colorata. Il cameriere, con la bianca e la rossa, ne portò dell’azzurra invece della verde; quello sbaglio fu causa che si perdesse un giorno. Il principino, al quale naturalmente, nella sua qualità di sorcio, i rivoluzionarii non avevano detto niente, capito nondimeno che c’era qualcosa per aria, aveva deliberato di scoprir paese. Una circostanza straordinaria lo aiutò. Il tabacco piantato insieme col cugino era maturo; le foglie, strappate, poste da qualche giorno al sole, cominciavano già ad accartocciarsi; gli bastò arrotolarle con le mani per ottenerne tre o quattro sigari che Giovannino giudicò pronti ad esser fumati. Allora, nascosti insieme in un angolo del giardino, perchè, tolta la politica, erano amici, dettero fuoco ai fiammiferi e cominciarono a tirare le prime boccate. Usciva un fumo acre, amaro, pestifero, che bruciava gli occhi e la gola; Giovannino, pallidissimo, respirava a stento, ma continuava a tirare poichè Consalvo dichiarava:

— Sono eccellenti!... Tutti tabacco vero!... Non ti piace?

— Sì.... Un bicchier d’acqua.... Mi gira il capo....

Improvvisamente si fece bianco come la carta, gli si rovesciarono gli occhi e cominciò a vaneggiare:

— Il Maestro.... acqua.... le bandiere....

Consalvo, sul quale il veleno agiva più lentamente, domandò:

— Quali bandiere?... Dove sono?...

— Sotto il letto.... la rivoluzione.... Malannaggia!.... Mi viene di vomitare....

Il principino buttò il suo sigaro e rientrò. Sentiva un principio di nausea, aveva il piè malfermo, la vista un po’ annebbiata; ma si trascinò fino dal Maestro:

— Han fatto le bandiere.... per la rivoluzione.... sotto il letto....

— Chi?

— Quelli.... Giovannino.... il complotto....

La nausea saliva, saliva, gli stringeva la gola; le mani gli si diacciavano, ogni cosa gli girava intorno vorticosamente.

— Ma di che complotto parli?... Che hai?

— Giovan.... la ri....

Stese le mani e cadde per terra come morto. Quando riacquistò i sensi si trovò a letto, con Frà Carmelo che lo vegliava. La luce era fioca, non si capiva se fosse l’alba oppure il tramonto; nè una voce nè un rumor di passi nel convento; solo il cinguettìo dei passeri sugli aranci in fiore.

— Come si sente? domandò il Fratello, premurosamente.

— Bene.... Che è successo? Che ora è?

— Spunta adesso il sole!... Ci ha fatto una bella paura!... Non si rammenta?...

Allora, confusamente, egli ripensò ai sigari, alla nausea, alla denunzia. Era dunque passata tutta una notte?... E Giovannino?

— Anche lui!... Adesso sta meglio.... Il maestro ha frugato in tutte le camere, sotto i letti.... ha trovato tante bandiere.... Sua Paternità se l’è presa con me.... So molto, io, di queste diavolerie!...

I congiurati, vistisi scoperti, erano disperati, non comprendendo donde venisse il colpo. Ma Giovannino, ristabilito anche lui, s’alzava in quel momento e passava tra i compagni costernati:

— Com’è stato?... Sei stato tu?...

— Io?... Ah, quel giuda di mio cugino!... — E il sangue gli montò al viso con un impeto selvaggio di collera, da vero «figlio del pazzo» — Aspetta! Aspetta!

Appostati in attesa che Consalvo uscisse, lo circondarono nel giardino; Giovannino gli si fece incontro, domandandogli:

— Sei stato tu, pezzo di sbirro, che hai detto al Maestro?...

Consalvo capì. Pallido e tremante, cominciò a protestare:

— Maria Santissima!... Il Maestro... Non sono stato....

Ma il cerchio gli si strinse intorno:

— Negalo, anche!... Hai coraggio solo per mentire, sbirro schifoso? pezzo di boia?

— Vi giuro....

— Ah, spia fetente!... — e il primo pugno gli piovve sulle spalle. Tutti gli furono addosso, ed egli cominciò a gridare; ma nessuno poteva udir le sue grida, perchè, a un tratto, a quell’ora insolita, tutte le campane di San Nicola si misero a stormeggiare formando un concerto così strano, che i ragazzi smisero di picchiare il delatore, guardandosi turbati. A un tratto Giovannino esclamò:

— La rivoluzione!... — e rientrò di corsa.

Le squadre erano finalmente scese in città, per dar l’attacco ai Napoletani. Tutti i monaci erano tappati dentro; l’Abate aveva fatto serrare i portoni dopo che tutta una popolazione spaventata s’era venuta a rifugiare nel convento. Solo il campanile era rimasto aperto ai rivoltosi, i quali continuavano a sonare a stormo mentre s’udiva il rombo delle prime cannonate del castello Ursino.

Don Blasco, nonostante il coltello che portava sotto la tonaca, verde dalla bile e dalla paura, era venuto a rifugiarsi, insieme coi borbonici più sospettati, al Noviziato, come in un cantone più sicuro, dove, per via dei bambini, nessuno sarebbe entrato; nondimeno diceva ira di Dio di quel vigliacco di suo fratello che era rimasto dentro col pretesto dei portoni chiusi, ma complottando ancora con quell’altro «porco» di don Lorenzo Giulente.

— Perchè non scende in piazza? Perché non va a battersi? Gli apro io stesso, se vuole!... Carogna! Traditore!...

Il duca, in confabulazione con l’Abate e col nipote Priore, disapprovava invece l’attacco, riferiva il savio e prudente ultimatum del generale Clary:

— Clary mi disse ieri: «Aspettiamo quel che fa Garibaldi: se resta a Palermo, m’imbarco coi miei soldati e me ne vado; se no, avrete pazienza voi altri: resterò io.» Mi pare che diceva bene! Che bisogno c’era d’attaccarlo?... Le sorti della Sicilia non si decidono qui!... Ma non vogliono ascoltarmi! Che posso farci? Io me ne lavo le mani!...

— Non vogliono ascoltarlo? — tempestava don Blasco. — Dopo che li ha scatenati?... E adesso fa il gesuita?... Per restar bene con Clary, se la ciurmaglia ha la peggio?...

Il cannone tonava di rado; gente arrivata dalla Botte dell’Acqua, cercando rifugio, diceva che la mischia più forte era impegnata ai Quattro cantoni, ma che del resto i ribelli tiravano sulle truppe alla spicciolata, nascosti dietro gli angoli delle case, o dalle terrazze. Le spie borboniche, pallide, esterrefatte, andavano ficcandosi nelle celle dei Fratelli; Garino, venuto dei primi a chiudersi a San Nicola, s’attaccava alla tonaca di don Blasco e pareva più di qua che di là. Anche il principino stava al fianco dello zio, non osando neppure lagnarsi delle busse ricevute, mentre Giovannino Radalì e gli altri ragazzi liberali, attorniato Frà Carmelo, gli dicevano:

— Adesso arriva Garibaldi!... Andremo tutti via!... Non ci torneremo più!...

Prima di sera cessò lo scampanìo e il cannoneggiamento; don Blasco, andato a interrogare i passanti dai muri della Flora, tornò agitando le braccia e smascellandosi dalle risa:

— La gran rivoluzione è finita!... Sono usciti i lancieri, hanno nettato le strade!... Evviva!... Evviva!...

La notizia venne confermata da tutte le parti, ma il duca, prudentemente, restò dentro pel momento. La gioia di don Blasco fu però di corta durata: il domani, avuti gli ordini da Napoli, Clary si preparò alla partenza; e consegnata la città a una Giunta provvisoria, s’imbarcò il giorno appresso con tutti i suoi soldati.


Don Lorenzo Giulente col nipote, saliti a San Nicola, invitarono il duca al municipio, dove i migliori cittadini attendevano a disciplinare la rivoluzione. Già, partita la truppa, nella prima ebbrezza dalla liberazione, nel primo impeto della vendetta, torme di popolani avevano dato la caccia ad uno dei più tristi e odiati sorci di polizia, e uccisolo ne avevano portato in giro la testa. Tremava il cuore al duca, all’idea di lasciare il sicuro asilo del monastero e di scendere nella città in fermento; ma i due Giulente lo assicuravano che adesso tutto era cheto e che gli amici lo aspettavano. Così traversarono insieme le vie deserte peggio che in tempo di peste, con tutte le botteghe e le finestre sbarrate e un silenzio pauroso. Don Gaspare Uzeda, nonostante le assicurazioni dei Giulente, nonostante le prove della popolarità riacquistata tra i liberali, temeva che qualcuno non gli rimproverasse il suo rimpiattamento a San Nicola, nel giorno dell’azione; che i rivoluzionarii del Quarantotto non gli rammentassero le storie antiche; le gambe, pertanto, gli vagollavano nell’entrare al municipio, nel traversar la corte piena di gente, nel salir su dove deliberavano; ma a poco a poco il sorriso gli spuntava sulle labbra pallide e chiuse, il sangue tornava a circolargli liberamente nelle vene, poichè da tutte le parti lo salutavano rispettosamente o cordialmente: i popolani s’inchinavano, gli amici stringevangli la mano, esclamando: «Finalmente!... Ci siamo!... Non abbiamo più padroni!... Adesso finalmente i padroni siamo noi!...» La cosa più urgente era l’ordinamento d’una qualunque forza pubblica, d’una milizia civica che prestasse servizio finchè si sarebbe formata la Guardia nazionale. Occorrevano quattrini per l’armamento della milizia e della guardia: aperta una sottoscrizione per raccogliere i primi fondi, il duca offerse trecent’onze. Nessuno aveva dato tanto, la cifra produsse grande effetto; quando la riunione si sciolse, parecchie dozzine di persone riaccompagnarono don Gaspare a San Nicola.

Il domani mattina egli aggiunse altre cent’onze per l’acquisto delle munizioni. Il favore universale gli crebbe intorno. Mancava lavoro, poichè la città era tuttavia un deserto: egli non lasciò andare a mani vuote nessuno di quelli che gli si rivolsero per sussidio. Preso coraggio, andò tutti i giorni al Gabinetto di lettura, dove i liberali commentavano con tripudio le notizie dei progressi della rivoluzione; si mise a capo delle dimostrazioni che andavano a prendere la musica dell’Ospizio di Beneficenza e al suono dell’inno garibaldino giravano per la città. A poco a poco, sempre più rassicurato, quasi domiciliossi al municipio dove chiedevano i suoi consigli. Mentre tutti parlavano di libertà e d’eguaglianza, nessuno pensava a prendere un provvedimento che dimostrasse al popolo come i tempi fossero cangiati e i privilegi distrutti e tutti i cittadini veramente ed assolutamente uguali. Egli propose e fece decretare l’abolizione del pane sopraffino. Allora diventò un grand’uomo.

Don Blasco, rimpiattato al convento, schiumava: non tanto, forse, per la rovina del suo partito e pel trionfo dell’eresia, quanto per sapere suo fratello considerato a un tratto come uno degli eroi della libertà: il Governatore non faceva nulla senza del duca, lo metteva in tutte le commissioni, un codazzo di ammiratori lo accompagnava al palazzo Francalanza, che egli aveva fatto riaprire e riabitava perchè la chiusura non s’imputasse al borbonismo della famiglia: e la gente minuta, gli operai, tutti quelli che non sapevano che cosa sarebbe successo, convertivansi al nuovo partito udendo che un gran signore come il duca d’Oragua, uno dei Francalanza, ne faceva parte: le dimostrazioni patriottiche, di giorno e di notte, con musiche e fiaccole e bandiere si succedevano sotto il palazzo come sotto le case dei vecchi liberali, di quelli che erano stati in galera o tornavano dall’esilio. Adesso tutti parlavano in piazza, dai balconi, per eccitare il popolo, o per discutere il da fare nelle società che si venivano costituendo; ma il duca, incapace di dire due parole di seguito in pubblico, atterrito all’idea di dover parlare dinanzi alla folla, scendeva giù ad incontrarla al portone, se la cavava gridando con essa: «Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele! Viva la libertà!...» conducendo al caffè i volontarii garibaldini, pagando loro gelati, sigari e liquori. Formata la Guardia nazionale, lo fecero maggiore: tutti i giorni egli mandava ai corpi di guardia bottiglioni di vino, focacce, pacchi di sigari, regali di ogni genere. E la sua fama cresceva, cresceva: oramai non si metteva fuori una bandiera senza «Oracqua» — come pronunziavano i più; — nelle dimostrazioni il grido: «Viva Oracqua!» era altrettanto frequente quanto: «Viva Garibaldi!» o «Vittorio Emanuele!...» Queste enormità ridussero don Blasco a un cupo silenzio, più terribile delle grida; il monaco non era però alla fine delle prove. I forusciti, i briganti che s’arrolavano per seguire l’anticristo dove furono alloggiati? A San Nicola!...

All’annunzio che la colonna di Nino Bixio e di Menotti Garibaldi sarebbe giunta a Catania, il Governatore aveva mandato un ufficio all’Abate comunicandogli di aver disposto che i soldati della libertà fossero ospitati nel convento dei Padri Benedettini. L’Abate, borbonico fino alle ciglia, voleva fare qualche difficoltà; ma il Priore don Lodovico lo persuase che non era il caso di opporsi. Il 27 luglio la Guardia nazionale andò incontro, fuori le porte, alla colonna che entrò in città fra un uragano d’applausi; e i volontarii s’acquartierarono a San Nicola, nei corridoi del primo piano e in quello dell’orologio: la paglia sparsa per terra, le rastrelliere, i fucili, le giberne, le baionette, le canne di pipa ridussero il convento un assedio. Per andare al refettorio, don Blasco doveva traversare due volte il giorno quell’inferno; egli passava muto, pallido, fremente, mentre i soldati gridavano evviva al Priore don Lodovico che faceva distribuire vino e focacce! Tutto il giorno, giù nei cortili esterni, essi eseguivano esercizii; Bixio stava a invigilare con un frustino in mano, accarezzando tratto tratto le spalle dei più restii. «In nome della libertà! In odio all’antica tirannide!..» facevano osservare i Padri sorci a don Blasco; ma questi neanche rispondeva, pareva non interessarsi più a nulla, come alla vigilia del finimondo.

Bixio e Menotti erano alloggiati alla foresteria; l’Abate li evitava, ma il Priore, per prudenza — diceva — usava agli ospiti tutti i riguardi, s’informava premurosamente se avevano bisogno di nulla, metteva la Flora a disposizione del figlio dell’anticristo, che passava i suoi momenti d’ozio coltivando rose. Un giorno, tra i novizii, che erano scemati di numero perchè molte famiglie avevano ritirato i loro ragazzi in quel trambusto, vi fu grande aspettativa: Menotti veniva da loro. Giovannino Radalì, Pedantoni, tutti i liberali lo guardarono con gli occhi spalancati, come uno piovuto dalla luna, senza saper dire una parola, mentre egli li accarezzava. Ma, nel giardino, Giovannino corse a cogliere la più bella rosa e gliel’offerse, chiamandolo: «Generale!...» Consalvo se ne stette in disparte, aggrottato come lo zio don Blasco, con la coda tra le gambe.

— Adesso non fai più il sorcio? gli dissero i compagni quando Menotti andò via. — Hai paura che ti taglino la coda?

Egli non rispose. Suo padre, rassicurato sull’andamento della cosa pubblica, scese un giorno a trovarlo.

— Non ci voglio più stare, — gli disse il ragazzo; — tanti se ne sono andati...

Voglio?... — rispose il principe, con voce dura. — Chi t’ha insegnato a dire voglio?... Per ora hai da star qui.

E il duca, non solo approvò quella decisione, ma indusse il nipote a tornarsene definitivamente con la famiglia in città, giacchè non c’era pericolo di sorta, e quell’ostinata lontananza, quelle dimostrazioni di paura potevano esser prese in mala parte dal popolo. Arrivarono tutti dopo qualche giorno, il marchese e la marchesa soli e gongolanti nella loro carrozza che andava al passo, per riguardo della gravidanza di Chiara finalmente confermata ed arrivata al sesto mese; Lucrezia che metteva il capo ogni minuto allo sportello quando i posti di guardia facevano sostare la vettura, parendole di riconoscere Giulente in ogni soldato.

Ma Benedetto non era più in Sicilia. Nei primi giorni aveva aiutato lo zio Lorenzo e il duca a ordinare la rivoluzione, arringando il popolo, parlando nei circoli con una eloquenza che tutti ammiravano, scrivendo articoli nell’Italia risorta fondata dallo zio per propugnare l’annessione al Piemonte; poi, nonostante l’opposizione del padre e della madre, s’era ingaggiato garibaldino, nel reggimento delle Guide, ed era partito pel continente. Arrivando in città, Lucrezia trovò una lettera del giovane, il quale le annunziava che andava a raggiungere Garibaldi per compiere il proprio dovere verso la patria e le raccomandava di non piangerlo se la sorte gli avrebbe concesso di morire per l’Italia. Ella cominciò a leggere tutti i giornali e tutti i bollettini per sapere che cosa avveniva di lui, ma ne capì meno di prima, incapace di farsi un’idea intorno alle mosse dell’esercito meridionale. Don Blasco, all’arrivo dei parenti, eruttò finalmente la bile accumulata in tre mesi. Ogni giorno, venendo al palazzo, vomitava improperii contro il fratello, colmava di male parole lo stesso principe perchè permetteva che dal balcone di palazzo sventolasse l’aborrito tricolore, che mettessero fuori i lumi per festeggiare le vittorie dei «briganti.» Il principe si faceva tutto umile, gli dava ragione, esclamava: «Che posso farci? È mio zio! Posso mandarlo via?» ma si guardava bene di fare rimostranze al duca, troppo lieto che la popolarità del gran patriotta garantisse anche lui, la sua persona e la sua casa. Però dava un colpo al cerchio e uno alla botte; parlava contro il duca a don Blasco, contro don Blasco al duca, sicuro di non essere scoperto, poichè quei due s’evitavano come la peste. Gli toccava poi tenere a bada anche donna Ferdinanda, la quale era diventata una versiera, dopo la caduta del governo legittimo, e ne invocava il ritorno e andava fino a promettere una lampada a Santa Barbara perchè questa saettasse tutti i suoi fulmini contro i traditori. Chiedeva che il principino fosse tolto dal convento infestato dai rivoluzionarii; ingiungeva al nipotino, quando costui veniva a casa in permesso: «Non t’arrischiar di parlare con quei nemici di Dio! o non ti guarderò più in faccia!» Consalvo le rispondeva: «Eccellenza sì!» come al duca quando questi, tutt’al contrario, gli diceva «Che bei soldati, i garibaldini?...» Dolevano ancora le spalle al ragazzo, dalle busse toccate per lo spionaggio; e adesso egli faceva come vedeva fare allo zio Priore, che godeva la fiducia dell’Abate borbonico di tre cotte, e intanto era portato in palma di mano dai rivoluzionarii.... Che importava al principino di borbonici e di savoiardi? Egli voleva andar via dal Noviziato; perciò serbava un segreto rancore contro il padre che non l’aveva contentato. Del resto, con tutta la rivoluzione e la libertà e Vittorio Emanuele e l’abolizione del pane sopraffino a San Nicola non si scherzava, articolo privilegi. Giusto in quei giorni i Giulente avevano raccomandato all’Abate un giovanetto, loro lontano parente, rimasto orfano a Siracusa e venuto a Catania per farsi benedettino. Era tutto il contrario del cugino Benedetto, questo Luigi: non solo avversava la rivoluzione; ma aveva, col timor di Dio, una grande vocazione per lo stato monastico. E l’Abate, ritenendo provata la nobiltà della famiglia, l’aveva preso a proteggere e fatto entrare al Noviziato. Lì, i nobili compagni, senza distinzione di partito, se ne prendevano giuoco, lo beffavano, glie ne facevano di tutti i colori, giudicandolo indegno di stare fra loro; e tra i monaci gli stessi liberali torcevano il muso: Vittorio Emanuele andava bene; l’annessione e la costituzione meglio ancora; ma rinunziare ai loro privilegi, fare d’ogni erba un fascio, questo era un po’ troppo!...


La quistione dell’annessione, del miglior modo di votarla, appassionava in quel momento la pubblica opinione: alcuni volevano affidarne il mandato ad un’assemblea da eleggere, altri predicavano il suffragio diretto. Ogni giorno, col Governatore della città, e con don Lorenzo Giulente e i capi liberali, il duca sosteneva il plebiscito: «Il popolo dev’essere lasciato libero di pronunziarsi. Si tratta delle sue sorti! Vedete come han fatto nel resto d’Italia!...» Questo consiglio, mentre accresceva a mille doppii la sua popolarità, gli scatenava addosso più violento l’odio di don Blasco e di donna Ferdinanda, la critica dello stesso don Eugenio. Il cavaliere, adesso, perduta la speranza degli scavi di Massa Annunziata, aveva concepito un nuovo disegno: farsi nominare professore all’Università. Non v’erano stati parecchi suoi avi pubblici lettori? L’impiego era decoroso e nobile; la cattedra di storia, specialmente, gli faceva gola. Le sue conoscenze archeologiche, l’opuscolo sulla Pompei Sicola, erano buoni titoli: per averne ancora di migliori, egli scriveva una Istoria cronologica dei Vicerè Uzeda, luogotenenti dei Regi Aragonesi nella Trinacria. Come Gentiluomo di Camera, non si lasciava molto vedere; ma certo che la rivoluzione sarebbe stata schiacciata da un momento all’altro, anche lui se la prendeva col duca.

— Chi parla di popolo! Se tornassero i Vicerè dall’altro mondo! Se sentissero di queste eresie, se vedessero un loro pronipote unirsi alla ciurmaglia!...

Don Cono, don Giacinto, don Mariano, tutti i lavapiatti scrollavano il capo, addolorati anch’essi da quel tralignamento; però tentavano placare il giusto sdegno dei puri, giudicando il liberalismo del duca un liberalismo di parata, una necessità politica del momento; era impossibile che, in cuor suo, il figlio del principe di Francalanza, uno di quegli Uzeda che dovevano tutto alle legittime dinastie, potesse godere dell’anarchia e dell’usurpazione!

— Tanto peggio! — urlava don Blasco. — Capirei un fedifrago risoluto, che avesse il coraggio del tradimento! Ma se tornano i napoletani, colui andrà a baciar loro il preterito!... Vedrete, quando torneranno!...

Ma non tornavano. Arrivavano invece, una dopo l’altra, le notizie della partenza di Francesco II da Napoli, dell’ingresso trionfale di Garibaldi, dell’avanzarsi dei piemontesi incontro ai volontarii. Al Belvedere, dove il principe tornò alla fine di settembre, per la villeggiatura, Lucrezia lesse i bollettini della battaglia del Volturno che portavano Benedetto Giulente tra i feriti. Ella non pianse, ma si chiuse in camera rifiutando il cibo, sorda ai conforti di Vanna la quale le prometteva che avrebbe cercato di aver notizie dalla famiglia di lui. Il Governatore però s’era già rivolto ai comandanti, al direttore dell’ospedale militare di Napoli; e la risposta, prima che sui bollettini, fu resa di pubblica ragione in un manifesto affissato al Municipio. Il volontario Giulente era ferito d’arma bianca alla coscia destra e si trovava nell’ospedale di Caserta; il suo stato era soddisfacente e la guarigione assicurata.

Egli arrivò quindici giorni dopo, la vigilia del plebiscito, con altri volontarii siciliani reduci dal Volturno: lo zio Lorenzo, il duca di Oragua, il Governatore e la Guardia nazionale andarono loro incontro. Il giovane s’appoggiava a un bastone e sventolava il fazzoletto con la sinistra, rispondeva agli evviva della folla. Suo padre e sua madre piangevano, dalla commozione: il duca, facendo loro dolce violenza, prese il ferito nella propria carrozza che s’avviò al Municipio fra un’onda di popolo acclamante. Dal balcone del palazzo di città, gremito di guardie nazionali, di reduci, di patriotti, di cittadini ragguardevoli, Benedetto girò uno sguardo sulla piazza dove non sarebbe cascato un grano di miglio, poi levò la sinistra. La sua fama d’oratore era già stabilita: tacquero a quel gesto.

— Cittadini! — cominciò con voce chiara e ferma. — Noi non possiamo e non dobbiamo ringraziarvi di questa trionfale accoglienza, sapendo come i vostri applausi non siano diretti alle nostre persone, ma all’idea generosa e sublime che guidò il Dittatore da Quarto a Marsala. — Scoppiò un uragano d’applausi in mezzo al quale la voce dell’oratore si perdè. — .... sogno di Dante e Machiavelli, sospiro di Petrarca e Leopardi, palpito di venti secoli.... ad essa, alla gran patria comune.... alla nazione risorta.... all’Italia una.... gli evviva, gli applausi, il trionfo.... — Ad ogni periodo, un gran clamore veniva su dalla piazza; la gente pigiata nel balcone sventolava i fazzoletti, il duca esclamava all’orecchio dei vicini: «Come parla bene!... Che giovane d’ingegno!...»

— Noi abbiamo fatto il dover nostro — continuava l’oratore — come voi il vostro. Non poche gocce di sangue, ma la vita stessa avremmo voluto immolare alla gran causa.... degni d’invidia, non di rimpianto, sono quelli che poteron dire morendo: «Alma terra natìa, la vita che mi desti ecco ti rendo....» Onore ai forti che caddero!... A voi toccò ufficio non meno superbo: dare all’Europa ammirata l’esempio d’un popolo che spezzate le sue catene, lasciato in balìa di sè stesso, già mostrasi degno di quelle libere istituzioni che furono suo secolare retaggio.... che un potere aborrito e spergiuro osò cancellare.... ma che splenderanno di più vivido raggio!... Cittadini! Applaudite voi stessi.... applaudite i vostri reggitori.... applaudite questi guerrieri fratelli che dolenti di non poter pugnare con noi, tutelarono i vostri focolari.... applaudite questo insigne patrizio che alle glorie dell’avito blasone accoppia quelle del patriottismo più puro.... — Egli additava alla folla il duca, maestoso e marziale nella divisa di maggiore. Ma questi, all’idea di dover rispondere, si sentì a un tratto serrar la gola, vide a un tratto la piazza trasformata in un mare terribile, vorticoso e ululante, le cui ondate saettavano sguardi; e lo spasimo della paura fu tale ch’egli dovette afferrarsi alla balaustrata. Però Giulente riprendeva, nella stretta finale, tra applausi assordanti: — Cittadini! Prodigioso è il cammino da noi fatto in cinque mesi; ma un ultimo passo ci resta.... L’entusiasmo dal quale vi veggo animati mi dà guanto che sarà fatto.... Il sole di domani saluti la Sicilia unita per sempre alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele


Già i sì colossali erano tracciati sui muri, sugli usci, per terra; al portone del palazzo il duca ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in città nelle campagne, frotte di persone li portavano al cappello, stampati su cartellini di ogni grandezza e d’ogni colore. Donna Ferdinanda, al Belvedere, scorgendo i contadini che, per non saper leggere, avevano messo le schede sottosopra, esclamava:

Is! Is! — e pronunziando chis, chis, che è la voce con la quale si mandan via i gatti, commentava: — Ma non dicono , dicono is, chis, chis! Fuori, chis!...

Lucrezia gonfiava, eccitata dalle notizie del trionfo di Giulente, impaziente di tornare in città per rivederlo, irritata dagli sconvenienti motteggi della zia.

Il principe aveva fatto tracciare anche lui un gran sul muro della villa, per precauzione, e la folla dei contadini scioperati, giù in istrada, batteva le mani, gridava: «Viva il principe di Francalanza!...» mentre, dentro, don Eugenio dimostrava, con la storia alla mano, che la Sicilia era una nazione e l’Italia un’altra; e donna Ferdinanda sgolavasi:

— Ah, se torna Francesco!

— Zia, non tornerà.... esclamò alla fine Lucrezia.

Allora la zitellona parve volesse mangiarsela viva.

— Anche tu, scioccona e bestiaccia? Sentite chi parla adesso! E non lo sai il nome che porti, pazza bestiona? Credi anche tu agli eroismi di questi rifiuti di galera? o dei bardassa sguaiati e ciarloni?

La botta era tirata a Giulente; Lucrezia s’alzò e andò via sbattendo gli usci. Ma il furore di donna Ferdinanda passò il segno quando, fattasi alla finestra ad uno scoppio più nutrito di applausi, vide passare i novizii Benedettini, che venivano da Nicolosi a cavallo agli asini, tutti con gran ai tricorni. Cominciò a gridare così forte contro quel vituperio, che il principe accorse:

— Zia, per carità! vuol farci ammazzare?

— È stato quel Gesuita di Lodovico!... — fiottava la zitellona, coi denti stretti, quasi per mordere. — Anche i ragazzi! Anche Consalvo! — E come il principino salì un momento a salutare i suoi, ella gli strappò quel cartellino e lo fece in mille pezzi: — Così!...

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