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Capitolo 1
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I.
Quando in città si seppe che il conte Raimondo era piovuto da Firenze in casa Uzeda, ospite inatteso, solo, senza bagagli, con un sacco da notte dove aveva ficcato appena la poca biancheria occorrente in viaggio, fu un sussurro generale, uno scambio di commenti, di supposizioni, di domande curiose ed insistenti come per un grave avvenimento pubblico. La prima notizia corsa di bocca in bocca diceva che il contino aveva abbandonato la moglie per separarsene definitivamente. I bene informati sapevano che donna Isabella Fersa, da Palermo, se n’era andata a Firenze, dopo la rivoluzione. Questo solo fatto non bastava a spiegar tante cose? Era dubbio soltanto se l’amica avesse raggiunto il contino di sua propria iniziativa o d’accordo con lui. Dicevano alcuni che ella era andata nel continente per divertirsi, senza pensare più all’Uzeda; ma perchè sceglier proprio la città dov’egli stava? Lei come lei aveva oramai ben poco da perdere. Poteva forse sperare d’essere ripresa dal marito, dopo due anni di separazione? Vivendo la suocera, non era possibile; don Mario poteva commettere la debolezza di perdonare, tanto più che voleva ancora bene alla moglie e la piangeva giorno e notte peggio che se fosse morta; ma la madre vegliava per lui. Donna Isabella, dunque, non arrischiava più nulla, anzi, non potendo resistere alle tentazioni, così giovane com’era, piuttosto che procurarsi nuovi amici le conveniva tornare col primo: l’unico errore le sarebbe stato così più facilmente rimesso.... Ma per Raimondo la cosa era diversa. C’erano i figli di mezzo, due innocenti creature!... E la buona gente compiangeva la contessa, così mite, così dolce, così devota al marito e condannata intanto — che cosa è il mondo! — ad una vita d’angustie.
La servitù, al palazzo Francalanza, non discorreva d’altro, dimenticava perfino il fidanzamento di Benedetto Giulente con la signorina Lucrezia. Quest’avvenimento, benchè previsto e discusso da tanto tempo, aveva già provocato un risveglio dei partiti in cui i famigliari del principe eran divisi; e mentre Giuseppe, il portinaio, si scappellava inchinandosi all’arrivo del fidanzato come se rincasasse il padrone in carne ed ossa, Pasqualino Riso non si toccava neppure il berretto, da sotto l’arco del secondo cortile dove stava a prendere il sole, e a mala pena degnavasi d’abbassar la pipa e di voltarsi di fianco se gli veniva di tirare uno scaracchio. Solo Baldassarre serbava la sua bella imparzialità, badando esclusivamente al servizio e trattando il promesso della signorina come lo vedeva trattato dal principe: con grande compitezza ma senza confidenza. «I padroni sono padroni» diceva il maestro di casa; e se udiva il basso servitorame discutere con troppo calore della scelta della padroncina, rimandava i famigli alla stalla e gli sguatteri in cucina. «È forse tua sorella, animale?» Che cosa avevano essi da vedere se donna Ferdinanda e don Blasco, sempre d’accordo quantunque non si potessero tollerare, non venivano più al palazzo, disapprovando il matrimonio? Faceva veramente un certo effetto anche a lui, Baldassarre, che una degli Uzeda dovesse sposare un avvocato: ma il giovanotto aveva studiato per suo piacere, non già per esercitare la professione. E quantunque non fosse della costola d’Adamo, pure aveva l’educazione dei signori, dava dell’Eccellenza al padre e alla madre; quand’era entrato in casa della promessa aveva regalato alla servitù quel che si deve. Forse i suoi parenti non erano molto fini; ma gli sposi non dovevano fare tutta una casa con loro. Per tutte queste ragioni, Baldassarre non poteva permettere che i suoi dipendenti cicalassero; ma le chiacchiere non finivano mai, e soltanto l’arrivo del contino le avviò sopra un altro soggetto. Che il padroncino Raimondo non fosse venuto per affari, come certuni volevano dare a intendere, era certo e sicuro agli occhi della servitù: se fosse venuto per affari avrebbe portato almeno una valigia, non già quel sacchetto con due camicie e due paia di calze e di mutande; nè avrebbe avuto quella brutta ciera, lui che era sempre di buon umore, lontano dalla moglie! Gli affari, se mai, li aveva col principe suo fratello, e invece se ne andava tutti i giorni dalla zia donna Ferdinanda, quella che era servita di coperchio, nei primi tempi dell’amicizia con la Fersa. E donna Ferdinanda diceva chiaro a tutti la sua opinione; allo stato delle cose, attesa l’incompatibilità dei caratteri tra marito e moglie, non c’era da far altro che separarsi, da buoni amici: mettere le ragazze in collegio, maritarle al più presto, e del rimanente ciascuno per la sua via.
Il principe, invece, non parlava al fratello nè della moglie nè delle bambine, neppure per chiedergli se eran vive o morte. Raimondo, per conto suo, pareva avesse lasciato la lingua a casa o, se diceva qualcosa, parlava del più e del meno, con aria distratta, impacciandosi meno che mai di quel che avveniva in famiglia. Dell’accordo dei legatarii, del matrimonio di Lucrezia non aveva fiatato, come fossero cose che non lo riguardassero punto, o intorno alle quali egli avesse già manifestato la propria opinione. E appena appena s’accorse di Giulente, del futuro cognato.
Lucrezia trionfava: Benedetto veniva tutte le sere a farle la corte; fra sei mesi sarebbe stato suo marito. Della transazione strozzata, del sacrifizio fatto per proprio conto e quasi imposto agli altri, non si rammentava neppure. Il giovane, articolo interesse, quasi non l’aveva lasciata dire, poichè voleva lei e non la dote, poichè a quel patto s’era ottenuto il consenso del principe. Tuttavia questo consenso era così freddo che pareva strappato per forza; senza contare che don Blasco e donna Ferdinanda non venivano più al palazzo, che lo stesso don Eugenio faceva il viso dell’arme al futuro nipote. Ma più i parenti si mostravano contrarii al matrimonio, maggiori dimostrazioni d’affetto ella faceva a Benedetto: «Non dar loro retta: sono tutti pazzi! Senza ragione ti odiano, senza ragione un bel giorno faranno pace!...» E gli narrava le loro pazzie, gli suggeriva il modo come disarmarli, come prenderli dal loro debole. Il giovane non aveva bisogno dei suoi consigli, giacchè poneva ogni studio nel farsi accettare dai futuri parenti, sapendo che, se avrebbe potuto fare un matrimonio migliore quanto a interesse, non ne avrebbe potuto fare uno migliore quanto a nobiltà. E i Giulente avevano la manìa d’essere nobili o per lo meno nobilitati dalla lunga serie di magistrati avuti in casa: il loro più grande cruccio era per la mancata istituzione del maggiorasco. Pertanto custodivano gelosamente i diplomi e i ritratti di tutti i dottori, giudici e presidenti dai quali discendevano, e si vantavano per le nobili alleanze contratte, specialmente nelle ultime generazioni. Così agli occhi della gente che non andava troppo pel sottile erano considerati come nobili; come a nobili senza titolo davano loro del cavaliere; ma i puri li tenevano a una certa distanza. In queste condizioni il matrimonio di Benedetto con la sorella del principe di Francalanza era una fortuna, e come tale la consideravano don Paolo e donna Eleonora sua moglie. Dall’orgoglio d’essere riusciti a combinarlo, essi neppure s’accorgevano della freddezza e dell’ostilità degli Uzeda, o l’attribuivano al liberalismo di Benedetto: il giovane, vano com’essi, ma meno accecato, la notava, e lavorava a vincerla. S’era subito accaparrata la simpatia della principessa, evitando di darle la mano e lodandole la bellezza e il talento di Teresina. Non molto difficile fu la conquista di don Eugenio, che da principio affettava di non accorgersi di lui. Il giovine, indettato da Lucrezia, gli si mise a parlare di cose storiche e artistiche, dei Vicerè Uzeda, ascoltando a bocca aperta le sentenze del cavaliere; poi lo pregò di fargli vedere le sue collezioni d’arte e si profuse in elogi alla vista di tutti i cocci e di tutte le tele imbrattate, pasteggiando a superlativi dinanzi ai Tiziano ed ai Tintoretto, che dichiarò superiori a tutti i quadri degli stessi autori conservati nel museo di Napoli. Venuto Raimondo, però, Benedetto si trovava spesso tra due fuochi, perchè don Eugenio e don Cono magnificavano le glorie cittadine, i patrii monumenti, e Raimondo interrompeva il suo mutismo solo per denigrarli. Giulente dava un colpo al cerchio ed un altro alla botte, non sapendo come prenderli, giacchè non andavano mai d’accordo. Pur d’ammirare i forestieri, Raimondo quasi disprezzava la nobiltà della sua casa; don Eugenio invece lavorava assiduamente alla sua Istoria cronologica. Non parendogli che questo titolo sonasse abbastanza, lo aveva mutato in quello di Discettazione istorico-cronologica; ma poichè don Cono sosteneva che discettazione non significava dissertazione, tra i due s’erano impegnate discussioni molto più lunghe e vivaci che non intorno al modo di scrivere solenne, se con una o con due elle. Richiesto del suo parere, Benedetto pensò un poco non al vocabolario, ma alla freddezza che gli dimostravano, alla guerra dichiaratagli dal monaco e dalla zitellona.
— Credo che siano sinonimi.... — rispose.
— Avete capito, testa dura? — disse allora don Eugenio trionfante a don Cono. — V’arrendete finalmente?...
Il principe, dal canto suo, giovavasi del futuro cognato in altro modo. Il codice sardo aveva sostituito, nel maggio 1861, quello napoletano, e giudici, avvocati e litiganti ammattivano sulla nuova legge. Benedetto, un po’ per amore allo studio, un po’ per zelo patriottico, lo aveva sviscerato col suo maestro; e allora, discorrendo di questo e di quello, il principe induceva il giovanotto a istituire confronti fra i due testi, a indicarne le differenze e le concordanze; certe volte, con l’aria di parlare in tesi generale, di casi immaginarii o senza interesse, gli prendeva vere consultazioni legali. Un giorno gli domandò che cosa pensava circa il legato della Badia. Giulente, quantunque credesse il contrario, gli rispose che il caso era dubbio, che la nullità di quella istituzione potevasi benissimo sostenere.... Per ingraziarsi tutti quegli Uzeda egli ne secondava e incoraggiava le pretese; ma, dall’orgoglio di frequentar la loro casa, dalla superbia di imparentarsi con essi, accettava quella parte, sposava sinceramente le cause dei futuri parenti: la Discettazione del cavaliere gli pareva un’opera veramente utile; le ragioni del principe veramente plausibili. Pretese aristocratiche del padre e infatuamento liberale dello zio si davano la mano in lui; talchè, gloriandosi di discendere dal Mastro Razionale Giolenti, sosteneva, a proposito dell’elezione del duca d’Oragua, che il governo del paese doveva esser preso da «noi:» cioè da «un’aristocrazia capace, come la inglese, d’intendere e di soddisfare i bisogni della nazione....» Ma, a quelle uscite, egli perdeva il cammino fatto: il principe e il cavaliere non sorridevano tanto di sprezzo per le teorie liberali quanto per udire quel «noi» in bocca sua, nel vedere un Giulente prender sul serio la propria nobiltà. Quando il giovine parlava dei suoi passati, degli onori che avevano ottenuti, delle tradizioni signorili della propria casa, dello stemma di famiglia, il principe si lisciava i baffi, don Eugenio guardava per aria, la principessa chinava gli occhi, i lavapiatti ammiccavano fra loro, la stessa Lucrezia, a quel subito gelo diffuso per l’aria, mostrava una ciera costernata, mentre approvava con un gesto del capo, ma senza dir nulla, i discorsi del promesso.
Una sera egli rammentò il canonico Giulente, fiorito nel secolo scorso, celebre per certe opere di diritto ecclesiastico, specialmente pel grande trattato Del matrimonio. Raimondo, presente, pareva interessarsi a quel discorso.
— Nuova è la trattazione, — diceva Benedetto, — del capitolo sugli impedimenti, impedienti e dirimenti. Ho avuto per le mani molte opere sul soggetto; ma lo sviluppo, la ricchezza di testi e di commenti di questa sono davvero ammirabili.
— Sì, sì.... — confermò per quella volta il cavaliere; — l’ho letta anch’io.
— Come hai detto? — domandò Raimondo. — Impedimenti?...
— Impedienti e dirimenti.
— Impedimento impediente però, — fece osservare don Eugenio, — mi pare la stessa cosa.
— Eccellenza sì, — egli dava già dell’Eccellenza al futuro zio; — ma dicesi impediente per distinguerlo da dirimente; in altre parole: ostacoli che impediscono la celebrazione e ostacoli....
— Permetti! — interruppe il Gentiluomo di Camera. — Impedimento che impedisce è una bella stramberia! L’impedimento può forse favorire?
Benedetto ripigliò, con molta pazienza, la dimostrazione; ma il cavaliere ribatteva, cocciuto, che la «dizione» era sbagliata, nè tacque se non quando Raimondo esclamò, seccato:
— Ma zio, lo vada dire ai canonisti! Se questa è l’espressione legale! E i dirimenti, — domandò a Giulente, — quali sono?
— Gli impedimenti dirimenti sono quelli che annullano il matrimonio quando è già contratto.
— Cioè?
— Eh!... Se ne contano più d’una dozzina.... anzi quattordici, precisamente. Prima erano dodici, poi il Concilio di Trento li aumentò di due.... Studiai queste cose tempo addietro; oggi, se mai, — aggiunse voltandosi verso Lucrezia, — piuttosto che gl’impedimenti dovrei studiare le ragioni del sacramento magno....
— Il Sacramento?... — fece Lucrezia che era già nelle nuvole. — È esposto alla Cattedrale.
Tutti sorrisero, e per quella sera il discorso restò lì. Ma qualche giorno dopo Raimondo ridomandò curiosamente al futuro cognato:
— E così, non hai rammentato quali sono gli impedimenti dirimenti?
— Sì.... ma non tutti — rispose Benedetto, che in presenza della promessa non voleva spiegar certe cose. E li disse in latino: — Error, conditio, votum, cognatio, crimen....
— Basta! Basta! È inutile, non capisco.... — E gli voltò le spalle.
Però, prima d’andar via, Benedetto lo chiamò da parte:
— Non potevo spiegarmi dinanzi alle donne. Gli impedimenti sono questi: — E li enumerò e li spiegò tutti, in italiano.
Qualche giorno dopo quel discorso vi fu un gran ciarlare tra la servitù, giù nella corte: correva in paese la voce che il duca stesse per tornare da Torino, unicamente allo scopo d’accomodare l’imbroglio del contino. Baldassarre, al quale domandavano se la notizia era vera, si stringeva nelle spalle: «So molto, io! Avanzate nulla dal duca, che l’aspettate?...» Ma la notizia era vera: la ripetevano Giulente, suo zio don Lorenzo, tutti gli amici politici del deputato, e anzi parlavasi d’andargli incontro, se veniva per via di terra, e di preparargli una dimostrazione. Egli giunse per via di mare e non era solo: il barone Palmi, nominato senatore dopo la rivoluzione, lo accompagnava. Questi, invece che al palazzo, come le altre volte, scese all’albergo. La cosa parve molto grave. Voleva dunque dire che tutto era rotto fra il contino e sua moglie? Che si trattava già di separazione? Ma allora, il duca? Perché tornava anche lui?...
In città l’arrivo del deputato mise una rivoluzione, e le visite cominciarono a piovere al palazzo: prima di tutti don Lorenzo Giulente col nipote, poi alcune autorità, le rappresentanze di parecchie società politiche; poi una quantità di cittadini d’ogni classe, pezzi grossi, antichi amici e nuovi patriotti che venivano a salutare l’Onorevole, a ringraziarlo delle grandi cose fatte a Torino e, mentre c’erano, a chieder notizia degli affaretti particolari che gli avevano raccomandati. Come al tempo dell’elezione egli riceveva giù, nelle stanze dell’amministrazione, e ringraziava dei ringraziamenti, s’ammantava di modestia; ma, alle domande degli ammiratori, descriveva le sedute del Parlamento, la visita fatta a Vittorio Emanuele e al «povero» Cavour, la vita politica della capitale; e tutti stavano intenti a udirlo. Non aveva aperto bocca, in Parlamento, neppure per dir sì o no; ma in sala l’uditorio non lo spaventava, composto com’era di gente più o meno familiare che gli stava dinanzi in atto deferente; ed egli assaporava il suo trionfo, loquace quanto una pica vecchia, senza neppur sentire la fatica del viaggio. Cavour gli aveva promesso mare e monti: che peccato che il gran ministro fosse morto! Ma il governo era egualmente ben disposto verso la Sicilia: presto avrebbe messo mano a ferrovie, a porti, a grandi opere pubbliche. Per vegliare al mantenimento delle promesse, in quei giorni egli non avrebbe dovuto lasciare la capitale; ma era dovuto venire in fretta e in furia per certi gravi affari di famiglia.... per sistemare certe faccende.... Non si sbottonava, ma tutti comprendevano lo stesso. Le visite si seguirono fino a sera; quelli che volevano parlargli da solo a solo non si movevano, parevano decisi di restare a dormire con lui. Quando ne ebbe abbastanza, egli fece un segno a don Lorenzo, e questi condusse via tutti.
Ma l’Onorevole non andò a letto. Raimondo, avvertito da Baldassarre che lo zio voleva parlargli, lo aspettava impaziente, smanioso, nella sua camera.
— Che cosa vuoi fare? — cominciò il duca, senza tanti preamboli.
— A proposito di che? — rispose il nipote, quasi non comprendesse.
— A proposito di tua moglie e della tua famiglia!... Tuo suocero è qui, non sai?
— Io non so nulla.
— Dopo che sei scappato via come un fuggiasco! Dopo che non ti sei fatto vivo per due mesi! Adesso mi par tempo che questa storia finisca.... Egli parlava con tono grave d’autorità, passeggiando per la camera con le mani incrociate sul dorso; Raimondo, sedutosi, guardava per terra, come un ragazzo intimidito dalla minaccia d’una lavata di capo.
— Che hai da dire contro tua moglie? — domandò a un tratto don Gasparre, fermandoglisi dinanzi.
— Io? Nulla....
— Lo sapevo bene! Volevo sentirne la conferma dalla stessa tua bocca. Perchè, dico, solo se avessi avuto da lagnarti di Matilde si potrebbe spiegare la tua condotta! Allora, perchè l’hai lasciata?
— Io non l’ho lasciata.
— Come? Sei qui da due mesi, non le hai scritto un rigo, non ti sei curato di nessuno dei tuoi, quasi non esistessero; e dici....
— Sono venuto qui perchè avevo da fare. Non posso star cucito alla gonna di mia moglie, insomma. — E lo guardò in faccia.
— Va bene; qui non si parla di star cucito! — rispose il duca. — Ma uno che parte per affari, per isvago, per una ragione qualunque, non va via come te ne sei andato tu, non lascia la casa per l’albergo....
— Non è vero!
— Me l’ha detto tuo suocero.... l’ho sentito ripetere da tutti....
— È falso! — ripetè il nipote con voce forte e un poco stridente.
Allora il duca batté in ritirata.
— Sarà falso, tanto meglio.... Del resto non è questo l’importante.... Il fatto è fatto.... adesso si tratta di pensare all’avvenire. Se non è vero che hai lasciato tua moglie, non dovresti avere difficoltà di riunirti con lei!"
— Non ne ho, — rispose Raimondo, rialzandosi.
Lo zio restò un momento a guardarlo, quasi non fosse sicuro di aver udito bene, poi ripetè:
— Sei pronto a riprenderla?
— Sono pronto a tutto, purchè smettano questa commedia.
— Meglio ancora!... Vuol dire che esageravano, che m’hanno informato male... Tanto meglio!... Domani tuo suocero può venire?
— Venga domani, venga quando gli pare! Vorrei piuttosto sapere perchè ha fatto la buffonata di scendere all’albergo? Poteva restarsene al suo paese, invece di fare questa sciocca commedia, invece di dar da ciarlare alle persone con una condotta da pulcinella. — Egli parlava adesso duramente, a denti stretti; con gli occhi rossi; e il duca, cambiato tono anche lui, esclamava, secondando il nipote:
— Questo è vero.... tu hai ragione.... L’ho messo in croce per dissuaderlo!... Ma quel santo cristiano è fatto a un certo modo.... Del resto non importa: diremo che non voleva dare impaccio a Giacomo.... si troverà una ragione.... E tu, comprendi che bisogna pigliare gli uomini come sono, che bisogna avere un po’ di politica nel mondo.... Divertiti, — aggiunse con un sorrisetto allusivo; — ma senza dar nell’occhio, salvando le apparenze. È già dispiacevole che sia successo un primo guaio....
— Vostra Eccellenza ha da dirmi altro? — domandò Raimondo, interrompendolo bruscamente. — Se non ha da dirmi altro, buona notte.
Il domani, verso mezzogiorno, quando s’aspettava il barone, che la carrozza di casa era andata a prendere, piovve donna Ferdinanda. Erano più di sei mesi che non saliva più le scale del palazzo, dal giorno che c’era entrato Giulente. Fin all’ultimo momento ella aveva sperato d’impedire che la mostruosità si compisse; ma poichè Lucrezia non sentiva più gli schiaffi nè i pizzicotti, quasi fosse divenuta di marmo, e Giacomo si difendeva gettando la colpa sullo zio duca, sul Babbeo e sulla stessa sorella, la zitellona era finalmente andata via facendo sbattere tutti gli usci, gridando: «Riderà bene chi riderà l’ultimo!» e appena giunta a casa, chiamati la cameriera, il cocchiere e il mozzo di stalla, aveva tratto dall’armadio un foglio di carta e lo aveva fatto in mille pezzi: «Neppure un soldo, così!...» Ella pretendeva che i nipoti le portassero obbedienza e le stessero sottomessi per via dei quattrini che, non avendo figliuoli, avrebbe loro lasciati; la distruzione del testamento, in presenza della servitù, era la pena della loro ribellione.... Il principe, sulle prime, era stato zitto, per lasciar passare la tempesta, poi aveva mandato dalla zia Frà Carmelo col figliuolo perchè la vista del nipotino prediletto placasse quella furia, poi era andato egli stesso a trovarla, a prendersi addosso, umile e muto, la pioggia di improperii rovesciata dalla zitellona. E a poco a poco, pel bisogno di sentirsi far la corte, per non poter rinunziare a ingerirsi nelle faccende dei nipoti, ella s’era venuta placando, ma senza andar da loro: la casa dei suoi maggiori era profanata, contaminata dalla presenza di quel pezzente, di quel bandito, di quell’assassino che chiamavasi Benedetto Giulente, avvocato, avvocato! Neppur l’arrivo di Raimondo l’aveva rimossa dal suo proposito; del resto il nipote era venuto da lei assiduamente a prendere i suoi consigli. In odio alla Palma, per distruggere quel matrimonio stretto contro il suo piacere, ella aveva spinto il giovane alla rottura definitiva. Come Giulente, la Palmo macchiava la casa degli Uzeda: ella non voleva che ci rimettesse piede. E difendeva donna Isabella contro le accuse di cui l’udiva fare oggetto: anche lei era stata sacrificata con quell’ignobile Farsa, farsa tutta da ridere: niente di più naturale che quel matrimonio tanto male assortito fosse finito peggio; se avessero dato la Pinto a Raimondo, allora sì!... A un tratto, una sopra l’altra le avevano portato le due notizie dell’arrivo del duca e del barone e dell’imminente riconciliazione tra suocero e genero. Raimondo non s’era fatto vivo; l’avvenimento stava per compiersi ad insaputa di lei! Allora, il tempo di far attaccare, e subito al palazzo.... Quando ella entrò nella Sala Gialla c’erano il principe e la principessa, don Eugenio, il duca, Lucrezia col promesso, Chiara col marchese, e Raimondo che passeggiava come un leone in gabbia. Benedetto Giulente, appena la vide entrare, s’alzò rispettosamente: ella gli passò dinanzi come se fosse uno dei mobili sparsi per la sala; non rispose al saluto di nessuno tranne a quello di Raimondo che trasse in disparte verso una finestra.
— Vecchia pazza! — disse Lucrezia al fidanzato, avvampando subitamente in viso.
Egli scrollò il capo con un sorriso d’indulgenza; ma il duca s'avvicinò alla coppia, quasi a compensarla della sgarberia della sorella.
— Il barone dovrebbe esser qui, — disse guardando l’orologio. — Sarei andato io stesso a prenderlo se non avessi temuto di dare troppa importanza a una cosa che non dovrebbe averne nessuna....
— Vostra Eccellenza ha fatto benissimo, — rispose Benedetto. — Le ciarle sarebbero state più lunghe.... Non per questo, — aggiunse, — è minore il merito di Vostra Eccellenza per aver ricondotto la pace in una famiglia che....
— Piccoli malintesi! I giovani hanno le teste calde! esclamò con un sorriso tra di modestia e di compatimento l’Onorevole.
Raimondo aveva finito intanto di parlare con la zia e ricominciava a passeggiare su e giù: era verde in viso e si morsicchiava i baffi, torcendo le labbra, con le mani in tasca.
Donna Ferdinanda adesso sedeva accanto alla marchesa, la quale era al settimo cielo per essere incinta di sette mesi. Dopo due disgraziate gravidanze passate ad ascoltare ogni prescrizione di medici, ogni consiglio di levatrici e ogni opinione di femminucce, aveva finalmente mutato sistema di punto in bianco, facendo a modo suo in tutto e per tutto, andando fuori in carrozza e a piedi, salendo e scendendo scale, trangugiando tutte le miscele che si persuadeva dovessero giovarle. Ella dichiarava alla cognata di non esser mai stata così bene come ora: «Quegli asini! Quegli impostori!... E le levatrici?... L’altro giorno non ebbe l’ardire di venir da me, donn’Anna? La presi per le spalle e le dissi: «Cara donn’Anna, tre mesi dopo che avrò partorito se volete venire a trovarmi mi farete tanto piacere; ma per adesso andatevene che non ho bisogno di voi!...» Tutt’intorno gli altri parlavano piano, come nella camera d’un ammalato, ma al rumore di una carrozza che entrava nel cortile ogni discorso cessò. Il duca passò nell’anticamera per andare incontro all’amico; si vide comparire invece dinanzi la cugina Graziella.
— Come sta Vostra Eccellenza? Ho saputo del suo arrivo ed ho detto: andiamo subito a baciar le mani allo zio. Mio marito voleva venire anche lui; ma l’hanno chiamato di fretta al tribunale per una causa seccantissima. Verrà più tardi a fare il suo dovere....
Raimondo, vedendola spuntare, soffiò più forte, e andò a dire concitato allo zio:
— Quest’altra pettegola, adesso? Ha da esserci tutta la città?... Non vede Vostra Eccellenza che scena ridicola?...
— Pazienza!... Pazienza!... — cominciò il duca; ma già un’altra carrozza entrava nel cortile. Egli ripassò di là e poco dopo comparve insieme col senatore. Questi era pallidissimo, si vedeva sotto le sue guance il movimento delle mascelle nervosamente contratte.
— Raimondo, — esclamò il deputato disinvolto, e conciliante; — c’è qui tuo suocero....
Il conte s’era fermato. Senza cavar le mani di tasca fece col capo un breve gesto di saluto e disse:
— Come sta?
Palmi rispose:
— Bene; stai bene? — E salutò in giro gli astanti.
Nessuno fiatava, gli sguardi si volgevano tutti sul barone. Anche le mani gli tremavano un poco, e non guardava in viso il genero.
— Accomodatevi, don Gaetano! — riprese il duca, prendendolo pel braccio e facendogli amichevole violenza. Palmi allora sedette tra la principessa e la marchesa; donna Ferdinanda s’impettì, affondando il mento nel collo come un gallinaccio.
— Matilde sta bene? — domandò la principessa.
— Bene, grazie.
— Le bambine?
— Benissimo.
Raimondo, ritto in mezzo alla sala, si guardava le unghie, facendo scattare quella del pollice contro tutte le altre. Il duca tossicchiò un poco, come per un principio di raucedine; poi gli domandò:
— Tu quando raggiungeresti tua moglie?
Egli rispose secco e breve:
— Anche domani.
— Matilde però la vogliamo un poco qui, — soggiunse lo zio, guardando gli altri parenti, quasi a chiedere il loro assenso; ma nessuno disse nulla. — Allora, — continuò, — potreste fare così: tu andrai a prenderla e poi ve ne verrete tutti insieme. Che ne dite, barone?
— Come credete, — rispose Palmi.
A un tratto s’udì per la terza volta una carrozza che entrava nel cortile e tutti gli occhi si volsero verso l’uscio d’entrata. Chi poteva essere? Ferdinando? La duchessa?...
Spuntò don Blasco.
Il monaco, come la sorella, non metteva piede al palazzo dal giorno del fidanzamento di Lucrezia; come donna Ferdinanda, ne aveva scagliata la colpa sul principe, ed era rimasto talmente sordo ad ogni giustificazione, che quest’ultimo s’era finalmente seccato d’insistere, non avendo da sperarne eredità come dall’altra. Allora, vistosi solo, senza poter occuparsi degli affari della parentela, costretto a udirne le notizie di seconda o di terza mano, per mezzo del marchese Federico o degli estranei, il monaco s’era visto perso. Le brighe del convento l’occupavano fino a un certo punto; le grida e le bestemmie contro i liberali, quantunque raddoppiate dopo la sistemazione del nuovo ordine di cose, non gli bastavano, non avevano gusto se egli non le proferiva a palazzo, nello stesso luogo dov’erasi compito il trionfo di quel rinnegato del fratello, dove quel cialtrone di Giulente doveva vomitare le sue eresie. Così, sbuffante e smaniante, più di una volta era stato sul punto d’andarsene dal principe; ma, giunto a mezza via, s’era pentito, non aveva voluto dare al nipote la soddisfazione di cedere pel primo. All’annunzio dell’arrivo del duca e del barone, della pace che si doveva celebrare tra suocero e genero, non era stato più alle mosse.
Il principe gli andò incontro a baciargli la mano. Lucrezia e Giulente, seduti accanto, erano i più vicini all’uscio d’entrata; e il giovanotto s’alzò, come aveva fatto per la zitellona, al passaggio del monaco; ma questi tirò dritto verso il centro della sala. Al secondo affronto, Lucrezia si fece più rossa, e costretto il promesso a sedere.
— La pagheranno, sai! — disse, — la pagheranno!... Se mi vedranno più in questa casa!... Se t’arrischierai di guardarli più in viso!...
Il duca parve non accorgersi dell’arrivo del fratello. Per animare la conversazione languente, e vincere la freddezza da cui tutti erano impacciati, e rendersi utile, la cugina aveva cominciato a chiedergli notizie del suo viaggio attraverso l’Italia; e il deputato parlava a vapore:
— La baraonda di Napoli, eh? Che paesone! Pareva che tolta la Corte, i ministeri, tutto il movimento della capitale, dovesse spopolarsi, ridursi come una città di provincia; invece cresce ogni giorno, è più animata di prima. Anche Torino è piena di vita, però in modo diverso....
— In modo diverso.... — ripetè il barone, con tono di condiscendenza. come per non restare in silenzio.
— È vero che somiglia a Catania? — domandò il marchese.
Raimondo sciolse lo scilinguagnolo per dire, con sottile ironia:
— Tal e quale, sai! Due goccie d’acqua....
— Le strade dice che son tagliate allo stesso modo....
— Ma sì! Ma sì!... Anzi diciamola tutta: Torino è più brutta, più piccola, più povera, più sporca....
Allora Chiara saltò su in difesa del marito:
— Questa smania di dir sempre male del proprio paese non l’ho mai capita....
— Scusa, — protestò il duca. — Qui nessuno ne dice male....
— Lo stesso paragone è impossibile, — disse Benedetto, conciliante.
Donna Ferdinanda alzò lentamente gli sguardi per volgerli dalla parte donde veniva la voce; ma, giunta a mezza strada, li diresse alla parte opposta, alla finestra dove don Blasco udiva dal nipote le notizie dell’accaduto.
— Dice che raggiungerà sua moglie e che poi se ne torneranno qui. È stato lo zio duca quello che ha combinato ogni cosa. Per me, facciano quel che vogliono. Ma vedrà che ricominceranno. Vorrei sbagliare, ma siamo ancora al principio....
— Quella bestia perchè ci s’è messo? Non ha abbastanza tigna in capo? Ha da ficcare dovunque il naso? Ma il perchè lo so io, il perchè.... lo so io, il perchè!....
E stava per continuare, per vuotare il sacco, quando entrò Baldassarre, grave e dignitoso come la solennità richiedeva.
— Eccellenza, — disse al duca, — ci sono le rappresentanze delle società che chiedono d’ossequiare Vostra Eccellenza.
Il deputato non ebbe tempo di rispondere che il barone s’alzò:
— Duca, fate pure, vi lascio libero.
— Ma no, restate!... Un momento, e torno subito....
— Ho qualche cosa da sbrigare anch’io; grazie!
— Verrete almeno a pranzo con noi?
— Grazie; parto oggi stesso; ho fissato uno straordinario.
Fu inutile insistere; il barone opponeva un rifiuto cortese, ma freddo. Salutò tutti in giro e andò via accompagnato dal duca che scendeva giù a ricevere i suoi elettori, mentre Raimondo s’avviava da parte sua alle proprie stanze. E i tre non erano scomparsi, che nella Sala Gialla cominciò un mormorio generale.
— Che maniera di stare in casa della gente! — esclamò donna Ferdinanda. — Non ha detto dieci parole in mezz’ora! — rincarò la cugina; — che cosa aveva? che gli hanno fatto? — E il marchese: — Quando si è di quell’umore non si va in casa delle persone!... — E come faceva il sostenuto! — aggiunse sua moglie.
Benedetto Giulente, dal suo posto, osservò:
— Quella partenza pare un pretesto.... per rifiutare....
Allora, senza rivolgersi al giovanotto, ma quasi rispondendo all’idea da lui annunziata, don Blasco tonò:
— La bestia, l’imbecille e il buffone in questo caso è chi invita!
Benedetto, quantunque il monaco non lo guardasse, fece col capo un gesto tra d’assenso a ciò che quegli diceva, tra di scusa per l’insistenza del duca.
— Pareva concedesse una grazia speciale, onorandoci della sua presenza! — continuava frattanto donna Ferdinanda. — Come se non si fosse trattato d’interessi suoi! Come se la colpa di ciò che è successo non fosse sua! E quella bestia che lo prega per giunta e che gli dà ragione! Per renderlo più presuntuoso ed arrogante!...
Benedetto, che le stava seduto quasi di faccia, badava a chinare il capo con un gesto continuo ed eguale, come un automa, e poichè la cugina cicalava piano con Chiara, e don Blasco, tirato pel bottone del soprabito il marchese, sfogava con lui, e il principe se ne stava quatto quatto, e la principessa più quatta di lui, quel gesto d’assenso e d’approvazione attirò alla lunga gli sguardi della zitellona.
— Mentre la ragione sta dalla parte di Raimondo, — continuava ella, — che giustamente non vuole lo spionaggio in casa, che non può tollerare la continua ingerenza del suocero in tutti i piccoli affari di casa propria....
Vedendosi guardato due o tre volte, Benedetto, mentre continuava ad approvare col capo, confermò:
— Il barone ha veramente un carattere troppo difficile....
Donna Ferdinanda non gli rispose, anche perchè in quel momento il marchese s’alzava, e Chiara con lui; ma, andando via insieme coi nipoti, fece un breve cenno del capo per rispondere al nuovo e più profondo e più rispettoso saluto del giovanotto.
Intanto il duca, giù nell’amministrazione, riceveva i delegati dei sodalizii e una gran quantità di elettori influenti e una vera processione d’ammiratori di ogni condizione che venivano a fargli atto di omaggio. La stessa scena della sera prima, ma più grandiosa; a poco a poco tutta la città sfilava dinanzi al deputato; per due persone che andavano via, quattro ne venivano; e non essendoci più posto da sedere, tutti stavano in piedi, coi cappelli in mano, aspettando i saluti che il duca veniva distribuendo in giro. Alcuni oratori improvvisati, persone che egli non conosceva neppure, parlavano a nome dei compagni, affermavano in risposta alle sue espressioni di modestia che il paese non avrebbe mai dimenticato ciò che doveva al duca d’Oragua. Tutti gli altri stavano in silenzio, a raccogliere religiosamente le parole dell’Onorevole; il quale, cessati i complimenti, ragionava della cosa pubblica, prometteva la Venezia, aveva Roma in tasca, assicurava insieme col politico il risorgimento morale, agricolo, industriale e commerciale del paese. «Questo era il programma di Cavour. Che testa! Ragionava della Sicilia come se ci fosse nato; sapeva il prezzo dei nostri frumenti e dei nostri zolfi meglio di un sensale di piazza....» Il governo gli aveva promesso una quantità di provvedimenti per l’isola, giacchè bisognava pensare a tutto: dall’educazione della gioventù al lavoro per gli operai. A poco alla volta, con la concordia e la pace, la prosperità pubblica e privata sarebbe stata raggiunta. Egli la faceva quasi toccar con mano, e le persone venute per sapere che ne era delle loro domande d’un posticino, o d’un sussidio, o d’una pensione, andavano via portandolo alle stelle come se avesse colmato loro le tasche, spargendo per la città la nuova della riconciliazione avvenuta tra il conte e sua moglie: opera e merito del duca, il quale aveva fatto il sacrifizio di lasciar la capitale in un momento come quello per indurre il nipote alla ragione. Non s’udivano se non esclamazioni di lode all’indirizzo del deputato; dal cortile del palazzo al Gabinetto di lettura, tutti ad una voce giudicavano che in questa occasione egli aveva fatto opera buona e doverosa; solamente don Blasco, nella farmacia borbonica, gridava come un ossesso:
— Ah, gli credete?... Perchè credete che l’ha fatto? Per dar soddisfazione alla canaglia! Perchè si dica che difende la morale!... E per un’altra ragione ancora.... per ingraziarsi quell’altro cialtrone amico dei mangiapolenta!... Il sonatore dei miei sonagli!... Il barone con sette paia di effe!...