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Parte seconda

Capitolo 2
Parte seconda - 1 Parte seconda - 3

Quando la contessa Matilde tornò, dopo due anni di lontananza, tra i parenti del marito, essi medesimi, alla prima, non la riconobbero. Se era stata sempre pallida e magra, adesso era scialba e scarnita; il petto le si affondava come se qualche male lento e spietato la rodesse, le spalle le s’incurvavano come per il peso degli anni, e gli occhi incavati, accerchiati di livido, lucenti di febbre, dicevano lo strazio di un pensiero cocente, d’una cura affannosa, d’una paura mortale.

— Povera Matilde! Sei stata male? — le domandò la principessa, a dispetto delle ingiunzioni del marito, il quale le proibiva di esprimere nulla.

— Un poco.... — rispose la cognata, scrollando il capo, con un sorriso dolce e triste. — Adesso è passato....

Infatti, ella si sentiva rinascere. Suo padre non aveva voluto nè accompagnarla in quella casa, nè permetterle di condurvi le bambine; eppure, dimenticando quanto vi aveva sofferto, ella vi entrava con un senso di sollievo e quasi di fiducia. La tempesta recente era stata così forte e dura, che ella pensava anzi con un senso di rammarico al tempo degli antichi dolori; li aveva giudicati intollerabili e non sapeva di quanto sarebbero cresciuti, a poco a poco, ma costantemente, fino a contenderle la stessa speranza d’un qualunque ritorno alla pace. Come le si era chiuso il cuore ai primi disinganni, nel vedere che l’amor suo non bastava a Raimondo, che egli pensava diversamente da lei, che faceva consistere la felicità in cose senza valore per lei! Eppure egli non l’aveva tradita, allora! Ma erano venuti i tradimenti, ed ella li aveva perdonati poichè tutti gli uomini ne commettono, le dicevano; poichè ella soltanto ne soffriva, silenziosamente, in fondo all’anima. Che cosa avrebbe potuto fare, del resto? Che aveva potuto fare dinanzi al pericolo più grave, alla minaccia terribile? Lasciarlo? Egli stesso l’aveva abbandonata!... Quando ella ripensava a quei due anni trascorsi in Toscana, a tutto ciò che aveva sofferto vedendo prepararsi e non potendo impedire l’ultima rovina, ella provava veramente come un bisogno di inginocchiarsi e di ringraziare il Signore, tanto miracoloso le pareva il ravvedimento di Raimondo. Poteva adesso sperare che durasse? Quante volte egli non era parso rinsavito, ed aveva poi fatto peggio? Due anni addietro, prima che scoppiasse lo scandalo in casa di Fersa, ella non aveva creduto che tutto fosse finito per lei? Alla notizia che quella donna era stata scacciata dalla suocera, ella aveva compreso la commedia della rottura rappresentata da lei e da Raimondo, e preveduto con lucidità straordinaria quel che poi era accaduto.... Nondimeno, la partenza pel continente l’aveva illusa ancora una volta; la lontananza, il tempo, gli svaghi mondani dei quali era sempre avido, non avrebbero distrutto nel cuore di Raimondo il ricordo di quell’altra? Ma colei doveva aver giurato di rubarglielo, ad ogni costo, se lo aveva raggiunto a Firenze, se erasi mostrata a lui da lontano, da vicino, per le vie, in società, tentandolo ovunque, dinanzi a lei stessa! Ella non accusava più Raimondo, non sospettava che fosse d’intesa con quell’altra, che avesse finto di fuggirla per ritrovarla più sicuramente. I suoi sospetti, le sue accuse gelose cadevano su quella donna soltanto; a Raimondo ella non rivolgeva se non preghiere indulgenti, l’umile scongiuro di evitarle nuovi dolori. Egli s’infuriava, negava come altre volte, la incolpava di volergli creare imbarazzi e pericoli, la riduceva al silenzio con le tristi parole che ancora le risonavano all’orecchio: «Quella donna è l’ultimo dei miei pensieri; ma se non la finite di vessarmi, farò qualche pazzia vedrete!» Ella non sapeva ancora fino a qual punto fosse sincero....

Il capriccio di Raimondo per donna Isabella, in verità, s’era sedato appena soddisfatto; il chiasso della separazione, la paura di trovarsi qualche grossa responsabilità materiale sulle spalle, avevano gettato molt’acqua sul fuoco dei suoi desiderii. A Firenze, dove s’eran dato convegno, aveva deliberato di spezzare in un modo qualunque la catena da cui si sentiva avvincere, poichè egli aspirava alla vita allegra e varia, libera, principalmente. Ma, per la notizia del dramma domestico di cui era stato l’eroe, egli si vide posto più in alto nella stima degli scapati amici di Toscana, del cui giudizio faceva più conto che d’ogni altra cosa; la conquista d’una signora autentica come la Fersa gli procurava i sorrisi di compiacenza un po’ invidiosi dei rompicolli che prendeva a modello. E donna Isabella gli divenne pertanto meno indifferente; ma la gelosia della moglie finì di stringere quel vincolo nel punto che egli stava per giudicarlo increscioso. Tutte le volte che Matilde gli rivolgeva una supplichevole rimostranza, egli credeva suo dovere, come per una specie di compenso, di fare maggiori dimostrazioni di affetto all’amica; più sommessamente sua moglie lo pregava di non trascurarla, più smaniosamente egli andava via di casa. Ella sapeva com’era fatto, com’era intollerante di ogni ostacolo, d’ogni contrasto, delle stesse osservazioni; ma poteva forse tacere, fingere d’ignorare quel che avveniva? Poteva soffrire, senza neanche piangere, ch’egli la lasciasse sola, lunghi giorni, lunghissime notti, che trascurasse le sue figlie per andarsene con quell’altra, per mostrarsi pubblicamente in compagnia di lei, per condurre i proprii amici nella casa di lei come in un’altra casa sua propria?... E il giorno che s’era sfogata non contro di lui, ma contro quell’altra, Raimondo le aveva ingiunto di tacere, con la voce grossa, con gli sguardi cattivi, alzando la mano.... Quella triste scena era avvenuta la vigilia del giorno che suo padre, diretto a Torino, doveva passare da Firenze. Il terrore di spingere l’uno contro l’altro quei due uomini l’aveva costretta a tacere; e poichè suo padre, ricominciato a sospettare di Raimondo, aveva mutato a un tratto, con la violenza abituale, l’antica affezione verso il genero in freddezza diffidente e vigile, ella aveva dovuto bere le proprie lacrime, cancellarne le tracce, mostrarsi allegra e contenta per impedire che quei due si scagliassero l’uno contro l’altro. Così ella s’era consunta, soffrendo in silenzio, inghiottendo amaro sopra amaro, invocando dal Signore tanta forza da poter continuare a fingere, a illudersi, a credere che nessun serio pericolo la minacciava.

Ma era già troppo tardi. Tutto ciò che, nella sua gelosia, la moglie gli veniva dicendo contro l’amante, spingeva Raimondo sempre più nelle braccia di quest’ultima; poichè Matilde glie ne parlava male, voleva dire che era invece la prima delle donne. Quest’idea si conficcava tanto più saldamente nella sua testa, quanto che donna Isabella, da suo canto, non gli diceva mezza parola contro la contessa; e si lagnava appena, discretamente, dell’odio che si vedeva portato. «Quando m’incontra, mi volta le spalle.... Sparla di me.... Che cosa le ho fatto?» Oppure gli proponeva di rompere e di lasciarsi, si offeriva in sacrifizio per assicurargli la pace della famiglia: «Non t’inquietare di me!... Me ne andrò, vivrò sola, come vorrà Dio.... Andrò a buttarmi ai piedi di mio marito; forse mi perdonerà....» Allora, di risposte, egli s’ostinava a far cose che ella stessa non avrebbe volute; se prima non aveva nascosto quell’amicizia, ora l’ostentava; se prima stava poco in casa, adesso restava settimane intere senza metterci piede, senza veder le sue figlie; ed al teatro prendeva posto nel palco dell’amica, dal principio alla fine dello spettacolo; ed al passeggio, se era con amici, non rispondeva al saluto di sua moglie, quando s’incontravano: mentre la contessa lacrimava in fondo alla sua carrozza, egli andava a piantarsi allo sportello di quella di Isabella.

A Livorno, in principio dell’estate, lo scandalo era cresciuto talmente, che alcuni buoni amici di Raimondo, il conte Rossi fra gli altri, suo padrone di casa, l’avevano consigliato d’esser meno imprudente. Matilde, il cui cuore sanguinava da tanto tempo, fu in quei giorni straziata da un altro dolore: Lauretta, che era sempre cagionevole, appena lasciato Firenze cadde inferma. Una notte che la sua bambina vaneggiava, in preda alla febbre, ella restò in piedi fino all’alba, vegliandola, impaurita dal rapido aggravarsi del male, aspettando ansiosamente il ritorno di Raimondo. A giorno, egli rincasò. Doveva esser ebbro. Solo perchè, rotta dal dolore e dalla fatica, turbata fieramente dalla malattia della bambina, atterrita dal pericolo che la povera creatura correva, ella osò dirgli: «Ma che vita è la tua!...» egli le piantò in viso gli occhi foschi, strinse il pugno ed uscì in una sconcia bestemmia.... Che disse poi? Che fece? Ella non sapeva. Rammentava soltanto che, riavuta dallo stordimento, Stefana, la sua cameriera, le aveva detto che il padrone era andato via, con lo stesso abito di società col quale era rientrato, portandosi un sacco da notte, dove aveva buttato pochi effetti alla lesta; rammentava d’essersi sentita struggere, non potendo corrergli dietro, non potendo lasciare la sua poveretta agonizzante; d’aver mandato Stefana a Firenze, credendo che egli se ne fosse tornato lì; d’aver saputo il giorno seguente che, cercato rifugio in un albergo della stessa Livorno, egli s’era imbarcato per la Sicilia....

Il barone arrivò da Torino come un fulmine, prima che ella gli avesse dato notizia dell’accaduto. Allora un altro tormento s’aggiunse ai tanti che la straziavano. Il rancore di suo padre contro il genero scoppiò a un tratto, terribile. «È andato via? Meglio così!» aveva detto nel primo momento; ma poichè ella si scioglieva in lacrime, non sapendo come fare, vedendo distrutta la propria esistenza, un violento moto di collera gli cacciò tutto il sangue alla testa: «E lo piangi, anche?... Lo vorresti difendere?... Saresti capace di corrergli dietro?...» Impaurita, giungendo le mani per disarmarlo, ella addusse, tra i singhiozzi: «E le mie figlie?... Le mie orfanelle?...» Ma con impeto più selvaggio, egli proruppe: «Ah, il suo amor paterno?... Il bene che ha voluto alle sue creature?... Il sangue avvelenato a quella innocente?...» e con un fiotto di parole crude, minacciose, frementi, le disse la vita indegna di lui, ciò che ella non sapeva ancora, ciò che egli stesso non aveva saputo per tanto tempo, addormentato dalla vanità, dal folle orgoglio d’essersi imparentato con uno dei Vicerè. «Vuoi dunque pregarlo per giunta?... Vuoi ch’io vada a chiedergli scusa per te, per me, per quelle innocenti?... Non ti basta, sciocca che sei, l’esperienza di dieci anni?... Vuoi ricominciare a tremargli dinanzi?... Credi ch’io non sappia quel che hai sofferto?...» E come ella scrollava le spalle, rabbrividendo, egli gridò: «Non te ne importa?... Saresti capace di volergli bene ancora?...»

Sì, era vero. Ella non piangeva per l’avvenire delle sue bambine, non si sdegnava al ricordo delle proprie torture; se le aveva patite in silenzio, se aveva accusato soltanto quella donna, se non aveva mai trovato una parola di rimprovero per Raimondo, l’unica ragione consisteva nel bene che gli portava... «Dopo quel che t’ha fatto?... Non hai dunque capito che non l’ha mai ricambiato, il tuo bene? Che non chiede di meglio se non sbarazzarsi di te?... Sciocca che sei, gli vuoi dunque il bene del cane che lecca la mano che lo ha battuto?...» Sì, sì, così! il bene del cane per il padrone, la devozione d’uno schiavo per l’essere di un’altra razza, più forte, più alta, più rara. Sì, la sommessione del cane per il padrone; poichè, anche dopo l’onta estrema che le aveva inflitto, non ostante la rivelazione brutale, nonostante il legittimo sdegno del padre, ella pensava di non poter vivere lontana da Raimondo, di non poterlo lasciare a quell’altra....

Passarono così per lei lunghi, eterni giorni d’intima ambascia; il barone la trattava con ostentata freddezza, pareva non accorgersi delle sue lacrime; ella nondimeno aspettava, affrettava coi voti più ardenti qualcosa: non il ritorno di Raimondo, che sarebbe stato una gioia troppo grande, ma una sua lettera, almeno, di pentimento, o l’intromissione di qualcuno dei suoi.... La bambina s’era rimessa; ai piedi della Madonna ella implorava il perdono d’un pensiero abominevole; se Lauretta fosse ricaduta, avrebbero potuto chiamarlo....

S’ammalò invece ella stessa. Vedendola piangere anche nella febbre, il barone proruppe, col tono acre che prendeva cedendo: «Non vuoi dunque finirla? Bisogna anche dargli questa soddisfazione, di pregarlo per giunta? Bada però!...» soggiunse con voce minacciosa: «Dal giorno che tornerete insieme, fa’ conto che io non ci sia più!... Scegli tra noi due: non t’imaginare che io possa aver più nulla di comune con lui!...» Povero babbo! Burbero, rigido, violento con tutti, egli aveva sempre ceduto dinanzi alle sue figlie, studiandosi di fare la voce grossa, mettendo patti che la violenza del carattere gli dettava, ma che l’inesauribile bontà del cuore non gli permetteva, alla lunga, di mantenere. Scrisse così al duca, andò insieme con lui a raggiungere Raimondo dopo averla accompagnata a Milazzo, e glie lo ricondusse.

Non v’era stata, tra lei e suo marito, neppure una parola relativa al passato; nell’atto che egli le tornava vicino, avrebbe ella potuto rammentargli i suoi torti? Da parte sua egli non le chiese perdono, non le disse una buona parola; le venne incontro indifferente come se l’avesse lasciata il giorno innanzi. Nè ella sperava più di questo. Il suo bel sogno d’amore e di felicità s’era a poco a poco, di giorno in giorno, dileguato; adesso, rassegnata alle tristezze della realtà, ella non chiedeva che la quiete. Purché Raimondo volesse bene alle sue creature, purchè non le abbandonasse un’altra volta, ella era disposta a sopportare ogni cosa....

In casa del principe, adesso, dov’eran venuti pel matrimonio di Lucrezia, lasciando a Milazzo le bambine, i parenti di lui la trattavano meglio. La sposa, che pareva non capire nei panni per l’imminenza del matrimonio, le prodigava dimostrazioni d’affetto, non si lasciava guidicare da nessuno fuorchè da lei nella scelta degli abiti e degli ultimi oggetti del corredo; la principessa, sempre timida e mite, le dimostrava più di prima la propria simpatia; quanto a don Blasco e a donna Ferdinanda, che avevano ripreso a venire tutti i giorni al palazzo, parevano anch’essi un poco placati, perchè invece di punzecchiarla non le badavano affatto. Che le importava! Erano così; bisognava prenderli com’erano. Purchè Raimondo non la lasciasse un’altra volta! purchè quei giorni tremendi dell’abbandono non ritornassero! Quasi quasi ella rassegnavasi alla lontananza delle sue bambine!... La compagnia della nipotina Teresa glie la rendeva più tollerabile. Come somigliava a Teresa sua, la figlia del principe! La stessa bellezza fine e bionda, la stessa grazia, la stessa dolcezza della voce e dello sguardo. Anche i caratteri, in fondo, si rassomigliavano, quantunque la sua bambina dimostrasse una vivacità quasi irrequieta, mentre la cuginetta era più tranquilla ed obbediente. Ma quanta parte non aveva in questo risultato l’autorità del padre? Mentre Raimondo non si curava di sua figlia, la vigilanza di Giacomo pesava fin troppo sulla principessina; egli l’educava a mortificare i suoi desiderii, a reprimere le sue volontà; la faceva restare intere giornate tra le monache di San Placido perchè s’avvezzasse all’obbedienza e alla disciplina monastica. Povera piccina! Tutte le volte che la mettevano nella ruota per farla passare dentro alla Badìa, oltre il muro impenetrabile che segregava le suore dal mondo, tendeva le braccia alla sua mamma ed alle zie con un senso di paura negli occhi spalancati; ma la principessa che aveva gli ordini del marito, pel quale la bambina era una specie di muta ambasciatrice incaricata di sedare il malcontento della Badessa e della sorella Crocifissa, persuadeva la figlia a star buona, a non temere, e la piccina diceva di sì, di sì, mandando baci alla sua mamma mentre la ruota girava, la chiudeva nello spessore del muro, la passava dall’altra parte, nello stanzone freddo e grigio con un grande Cristo nero e sanguinante che prendeva tutta una parete. La mamma, le monache, tutte e tutti lodavano la saggezza di cui dava prova; per meritare quelle lodi, per non dispiacere al suo babbo, ella faceva quel che volevano. La contessa giudicava che, in fondo, nonostante l’apparente vivacità, anche Teresa sua era buona e dolce. Lauretta non era più tranquilla e ubbidiente della stessa cugina? E pensando ai suoi cari angioletti, ella affrettava col desiderio il matrimonio di Lucrezia, poichè subito dopo li avrebbe raggiunti.


Tutto era pronto. Nella casa degli sposi, un quartiere accanto a quello di don Paolo Giulente, ma del tutto segregato, finivano di dare l’ultima mano alla sistemazione dei mobili; le cose erano fatte larghissimamente e con molto gusto. Il notaio di famiglia aveva già steso, in base alla transazione e sotto la dettatura del principe, i capitoli matrimoniali; Benedetto, per ingraziarsi il cognato, l’aveva lasciato fare, s’era contentato di cinquemila onze, pel momento, invece di ottomila, poichè il principe gli diceva di non aver pronta tutta la somma. A poco a poco, dal primo incontro col monaco e con la zitellona, egli era riuscito a farsi badare ogni giorno di più da quei due, continuando a chinare il capo come un burattino a tutto ciò che dicevano. Articolo politica, don Blasco e la sorella erano più arrabbiati di prima, vuotavano il sacco degli oltraggi e delle contumelie contro i liberali; e allora il giovanotto fingeva di non udire, si voltava dall’altra parte, lasciando che sfogassero, quasi quell’onda di male parole non si rovesciasse anche su lui; ma in tutte le altre circostanze, nel corso d'ogni discussione, si schierava dalla loro parte, dava loro ragione ad ogni costo, in busca d’uno sguardo, d’un saluto, d’una parola. Giusto in quel torno un debitore di donna Ferdinanda, un certo Calafoti, aveva dichiarato fallimento dando a intendere che la sua proprietà era parte venduta e parte ipotecata. La zitellona strillava come una gallina spennata viva contro quel ladro, contro il sensale che le aveva proposto l’affare, contro il principe di Roccasciano che lo aveva approvato; ma Benedetto, udito di che si trattava:

— Questo Calafoti lo conosco, — disse; — se Vostra Eccellenza vuole, io gli potrei parlare. Gli atti che adduce sono tutti nulli; con la minaccia di impugnarli lo faremo rigar diritto.

Ella non si fece pregare per dargli il permesso richiestole; e dopo una settimana di corse e di trattative Benedetto le ottenne la cessione d’un’ipoteca privilegiata. In ricambio, donna Ferdinanda non venne al palazzo il giorno del matrimonio. Non ci venne neppure don Blasco. Gli affari, va bene; i discorsi, pure; ma approvare, con la loro presenza, l’alleanza d’un’Uzeda con l’affocato Giulente, questo poi no. Tranne di loro due, del resto, non mancò nessun altro della parentela, nè al Municipio, la mattina, nè alla cattedrale, la sera.

La marchesa Chiara accompagnò lo sposalizio per ogni dove. Era uscita di conti, ma seguitava ad andare su e giù e non aveva voluto chiamare nessuno. La sera degli sponsali, stanca del continuo andirivieni, ella s’era buttata a sedere, ansando, sopra una poltrona, accanto a donna Eleonora Giulente. Forse era la grande stanchezza, ma si sentiva veramente poco bene, provava sordi dolori e acute trafitture. Coi gomiti appuntati ai bracciali per tener libero ed erto il ventre, ella stringeva un poco le labbra ad ognuna di quelle rapide fitte, ma come il marito veniva tratto tratto a domandarle premurosamente che avesse:

— Nulla! — rispondeva; — sto benissimo; — perchè non chiamassero la gente dell’arte.

Alzatasi, fece il giro delle sale. C’era una gran quantità d’invitati, tutta la parentela, tutta la nobiltà, e poi i nuovi amici del duca, le autorità, il sindaco, il prefetto che egli aveva invitati per dare risalto al carattere liberale dell’alleanza. E mentre la nobiltà borbonica se ne stava accrocchiata nel salone o nelle Sale Rossa e Gialla, il deputato teneva un circolo democratico nella Galleria dei Ritratti, ricevendo i complimenti per quel bel matrimonio che era opera sua, discutendo degli affari pubblici. Don Paolo Giulente, poichè nelle sale nobili non trovava da appiccar discorso, se n’era venuto ad ascoltarlo, a bocca aperta, non capendo nella pelle dal piacere d’essere diventato parente del grand’uomo. Suo fratello don Lorenzo portava a spasso, per la circostanza, la cravatta verde di commendatore che l’amico deputato gli aveva fatto concedere dal governo di Torino insieme con certi grossi appalti: delle poste, dei trasporti militari. Anche una buona quantità dei postulanti spiccioli cominciavano a vedersi esauditi; l’Onorevole aveva fatto accordare impieghi, sussidii, croci di San Maurizio ai patriotti del Quarantotto e del Sessanta, e riconoscere il diritto alla pensione dei vecchi impiegati della rivoluzione siciliana, e ammettere nell’esercito regolare i volontarii garibaldini, e spingere la causa dei danneggiati dalle truppe borboniche i quali presentavano la nota del loro amor di patria; talchè tutti quei suoi clienti soddisfatti o prossimi ad essere soddisfatti lo ascoltavano come un oracolo, superbi d’averlo amico e d’essere ammessi nella casa dei Vicerè, di vedersi serviti dai camerieri con le livree fiammanti.

Baldassarre, in gran tenuta, girava alla testa della processione dei camerieri che reggevano i vassoi pieni di gelati, di spumoni, di gramolate e di dolci, e serviva la Galleria dopo le sale, ma con la stessa etichetta, seguendo l’esempio del principe che faceva a tutti lo stesso inchino; quantunque, per dire il fatto della verità, intorno a Sua Eccellenza il duca ci fossero certi tipi che non si sapeva di dove sbucassero: se prendevano il piattello del gelato, buttavano a terra il cucchiaino, o si rovesciavano addosso la gramolata tracannandola quasi fosse acqua fresca, o prendevano i dolci a manate come se non ne avessero mangiato mai prima di quella sera. E i Vicerè che guardavano dall’alto delle pareti! Basta: a lui toccava eseguire gli ordini dei padroni!

Giusto la cugina Graziella, appartata in un crocchio con la duchessa Radalì e la principessa di Roccasciano, diceva al principino che, straordinariamente, per la circostanza del matrimonio della zia, aveva ottenuto il permesso di restar fuori la sera:

— Questo qui lo mariteremo noi, a suo tempo! Avremo da pensar noi chi dovrà sposare!

Non sapeva in come fare per mostrare alla Giulente che quel matrimonio si faceva per forza, contro il piacere della maggioranza della famiglia. Ma donna Eleonora non s’accorgeva di niente: seduta accanto alla principessa e alla contessa Matilde, sorrideva di beatitudine al passaggio degli sposi, in volto ai quali, specialmente a Lucrezia, leggevasi la gioia del trionfo. Del resto, se donna Ferdinanda e la cugina le facevano il viso dell’arme, la principessa le usava molte cortesie, la contessa Matilde prendeva parte alla sua felicità di madre; la stessa Chiara veniva a gettarsi nuovamente accanto a lei.

— Siete stanca, marchesa?

— Io? No! Sto benissimo. — Le trafitture spesseggiano, quasi le toglievano il respiro: ella sarebbe stata felice di partorire lì, su quel divano.

Ferdinando, infagottato nell’abito di società che metteva per la seconda volta in vita sua, girava attorno come un’anima in pena, non conoscendo nessuno, da tanti anni che faceva la vita del Robinson. Era venuto per far da testimonio alla sorella diletta ed aveva fretta che la cerimonia finisse presto per tornare alle Ghiande.

Quando Dio volle, il corteo, sceso giù per lo scalone illuminato e preso posto nelle carrozze, s’avviò alla cattedrale. La funzione celebrossi nella cappella privata del Vescovo, da Monsignore in persona: tutti gl’invitati con le torcie in mano, gli sposi dinanzi all’altare sfolgorante e olezzante; donna Eleonora Giulente che piangeva come — fontana. «Una cosa commovente,» diceva piano il duca al prefetto che gli stava a fianco. A un tratto vi fu un rimescolìo: Chiara, non potendone più, s’era lasciata cadere sopra uno sgabello. Tutti la circondarono, ma ella li rassicurava con un sorriso: sorrideva perfino Monsignore, sapendola in istato interessante. Il marchese la trascinò in carrozza, mentre il resto della comitiva andava in casa dei Giulente, dove le cose eran fatte forse con più sontuosità che dal principe; un rinfresco che non finiva mai, i gelati che squagliavano nei vassoi per mancanza di consumatori; e finalmente gli sposi si misero in carrozza e se ne andarono al Belvedere.

Il domani mattina andarono lassù a trovarli, uno dopo l’altro, i Giulente marito e moglie, don Lorenzo e il duca, la principessa e perfino Chiara, fresca come una rosa; i dolori erano svaniti, ella aveva voluto a forza salire dalla sorella. Gli sposi non aspettavano più nessuno, quando, nel pomeriggio: drlin, drlin, un tintinnio di sonagliere, e la carrozza di donna Ferdinanda, tutta impolverata, si fermò dinanzi al cancello del villino. La zitellona, come se li avesse lasciati la sera precedente, come se fossero maritati da dieci anni, diede la mano da baciare alla nipote, e appena sedutasi disse a Benedetto:

— Bell’affare m’hai proposto! Gli altri creditori si oppongono alla cessione dell’ipoteca!

Benedetto, dallo sbalordimento, non seppe lì per lì che rispondere; ma Lucrezia si voltò a lui dicendo:

— Non c’è modo di accordarli?

— I creditori?... Sicuro.... si possono accordare.... E frenando a stento un sorriso, esclamò: — Vostra Eccellenza non se ne inquieti. Il credito di Vostra Eccellenza era privilegiato. Li faremo stare a dovere, non dubiti!

Il domani, donna Ferdinanda tornò col suo patrocinatore, perchè Benedetto gli spiegasse bene il da fare; e tornò ancora il giorno appresso, e poi quell’altro, finchè, per farla contenta, egli stesso riscese con la moglie in città a dipanare in persona la matassa. Dovevano passare un mesetto al Belvedere, e ci stettero così una settimana appena. Egli non se ne lagnava, contento della pace fatta con la zia, la quale, se li aveva cercati ogni giorno in campagna, venne mattina e sera a trovarli in città. Arrivava per tempo, quando i Giulente padre e madre non erano ancora passati dalla nuora, la quale restava a letto fino a tardi. Benedetto, in piedi col sole, dava gli ordini alle persone di servizio per la colezione e il desinare, curava che la moglie, levandosi, trovasse la casa ravviata, e tutto in ordine; e donna Ferdinanda, dopo aver discorso del proprio credito, cominciava a fare le sue osservazioni sulle faccende dei nipoti: se desinavano troppo tardi per seguire la moda italiana portata da quella bestia del duca; se il venerdì comperavano il pesce troppo caro, quando avrebbero potuto contentarsi, come lei, del baccalà; se davano alla cameriera tutto il trattamento invece della sola minestra come usava lei stessa in casa propria. E a poco a poco ficcava il naso in tutte le cose più minute, più intime: rivedeva i loro conti, esaminava la nota della lavandaia, criticava la compera degli strofinacci, dettava sentenze di economia domestica, biasimava il largo spendere di Benedetto dopo essersi opposta al matrimonio perchè i Giulente erano «pezzenti.» Benedetto non si stancava di quella vigilanza curiosa e minuziosa, in grazia della benevolenza di cui gli pareva prova; anzi, per ingraziarsela meglio, invitava la zia una volta la settimana a desinare e un’altra a colazione; ma la zitellona, che non si faceva molto pregare e che sfruttava in ogni modo i nipoti, esercitava con sempre maggiore autorità la sua critica, voleva essere ascoltata in tutto e per tutto; non potendo prendersela con Benedetto, il quale le stava dinanzi come un servitore, punzecchiava la nipote perchè si levava tardi, perchè fino a mezzogiorno restava discinta, coi capelli sulle spalle e i piedi nelle pantofole; tanto che finalmente questa disse a suo marito:

— Mi comincia a seccare, sai!

Allora, per farle piacere, non importandole il broncio della zia, egli diradò gli inviti; ma quando credeva di mettersi a tavola solo con sua moglie, vedeva spuntare la zitellona, che Lucrezia aveva chiamata. Mutava facilmente opinione, Lucrezia, da un momento all’altro; e tutti la secondavano, non solo suo marito, ma anche il suocero e la suocera: la covavano con gli occhi come una cosa preziosa, la contentavano a un cenno, la servivano all’occorrenza. Così ella si alzava ogni giorno un poco più tardi, restava un paio d’ore senza far nulla, senza neppure lavarsi; vestita finalmente, se ne andava talvolta dalla sorella Chiara, che non era ancora partorita, avendo sbagliato i conti d’un mese; ma più spesso al palazzo, dove aveva giurato di non metter più piede, ma restava invece tanto che spesso suo marito doveva passare a prenderla, all’ora del desinare. Ci tornava anche la sera per prender parte alla solita conversazione; talchè, tutto sommato, e tolte le ore del sonno, ella stava più nella casa paterna che nella maritale. I Giulente, del resto, giudicavano naturale che ella cercasse dei suoi parenti, nè Benedetto pensava a rammentarle gli antichi propositi; quando, un bel giorno, offertole come al solito di accompagnarla al palazzo, si udì rispondere:

— M’hanno da tagliare tutt’e due le mani, se vado più in quella casa!

— Che è stato? Che t’hanno fatto?.."

— Che m’hanno fatto? Leggi!"

Il principe aveva ritardato di settimana in settimana il pagamento delle ultime tremila onze; adesso finalmente mandava, per mezzo del signor Marco, in piego suggellato diretto a Benedetto, un nuovo conto. Lucrezia l’aveva aperto; c’era un passivo, dove figuravano le spese della festa di nozze: un totale di centoventicinque onze. Notati gli spumoni, i dolci, i pacchi di candele, l’olio delle lampade Carcel; ad ogni persona di servizio un’onza di regalo; dieci onze di fiori, dodici tarì di carrozze pagate a Baldassarre e persino quindici tarì di piatti rotti. Quando Giulente lesse quella nota, si mise a ridere di cuore, tanto gli parve buffa la grettezza spinta a tal segno; ma Lucrezia era furibonda contro il fratello, in modo straordinario.

— Che trovi da ridere? È una schifezza senza esempio!... Per questo ordinò le cose largamente!... Ma trent’onze di dolci, chi li ha mangiati? Cento rotoli di roba? E quelle quattro rose che mandò a cogliere al Belvedere? E i piatti rotti?...

Quantunque suo marito cercasse di calmarla, dimostrandole che in fin dei conti il principe non era obbligato a spendere del proprio, ella non intendeva ragione, spiattellava il resto, ciò che prima aveva negato a se stessa:

— Non era obbligato? E il frutto della mia dote che s’è pappato per sei anni? lesinandomi il pane? senza ch’io fossi padrona di comperarmi uno spillo?... E la transazione a cui m’obbligò, prendendomi per il collo, per consentire al nostro matrimonio? E Ferdinando spogliato con me?... Se lo guardo più in faccia, non sono più io!...

Non andò più infatti al palazzo; ma il principe, da canto suo, non venne più da lei; alla moglie, che voleva far qualche visita alla cognata, ordinò rigorosamente di astenersene. La cugina Graziella, che a stento aveva fatta una visita agli sposi, seguì l’esempio del capo della casa; talchè Lucrezia cominciò a dire il fatto suo anche a quest’altra pettegola:

— Non vuol venire a casa mia? L’onore sarebbe stato tutto suo! Guardate un po’ questa boriosa che mia madre non fece valere un fico secco, adesso darsi il tono di non so chi! Credono di farmi dispiacere non venendo a casa mia? Non sanno che non cerco di meglio? Che non voglio veder più nessuno?

Don Blasco, da canto suo, non aveva messo piede neppure una sola volta dagli sposi; e Lucrezia, dichiarandosene contenta, diceva anche tutte le pazzie e le porcherie del monaco. Ella l’aveva anche con la rella Chiara, senza che questa le avesse fatto nulla, e la derideva per l’eterna gravidanza che non veniva a fine, quantunque giunta al decimo mese. Se la prendeva insomma con tutti, e alla contessa Matilde che la veniva a trovare come prima:

— Dillo tu, — diceva, — che razza di gente! Quante te n’han fatto vedere, ah? Quel birbante di tuo marito? Tutti quegli altri che gli hanno tenuto il sacco, quando egli andava dietro a quella?...

Impallidendo, poi arrossendo a quei discorsi, Matilde tentava nondimeno di metter buone parole; ma l’altra rincarava:

— E li difendi, anche? Lasciali andare!... Tutti di una pasta!... Chi sa quante ne vedrai ancora, povera disgraziata!... Per me, ringrazio Dio d’essere uscita da quella galera!... Credono che io mi debba rinchinare?... M’importa assai di loro e delle loro visite!...

Ora un giorno, rincasando, Benedetto, che per secondare la moglie, non già per sentimento proprio, aveva chinato il capo a quelle sfuriate, la trovò seduta accanto a don Blasco, al quale serviva biscotti e rosolio.... Il monaco, non vedendo più Lucrezia al palazzo, saputo della rottura tra fratello e sorella, era apparso come una malombra dinanzi alla nipote. E Lucrezia, che aveva gettato fuoco e fiamme, s’era subito alzata per baciargli la mano: «Come sta Vostra Eccellenza?... Mio marito è andato fuori.... Se Vostra Eccellenza si ferma un poco, non tarderà a venire....» E mentre lo aspettavano, il monaco s’era fatto raccontare tutto l’accaduto. Agli sfoghi di lei contro Giacomo e la cugina, egli pareva ingrassare nel seggiolone; ma non esprimeva il proprio parere, non si schierava nè da una parte nè dall’altra; scrollava il capo soltanto, per dar la corda alla narratrice. Arrivato Benedetto, che non credeva ai proprii occhi, il monaco si lasciò baciar la mano dal nuovo nipote, chiacchierò di tutto un poco, mangiò un altro biscotto, ci bevve su un altro bicchierino, e andò via accompagnato dagli sposi fino al pianerottolo. Da quel giorno, Benedetto non se lo potè più levar di torno. Veniva continuamente, a ore diverse, quando meno se l’aspettavano; una strappata di campanello lo annunziava, brusca, forte, padronale; e una volta entrato, cominciava a girondolare come un trottolone, parlando di cento mila cose, guardando in tutti gli angoli, frugando su tutti i mobili, leggendo tutte le carte, dicendo la sua sulle faccende dei nipoti peggio che donna Ferdinanda, ma andando via appena spuntava costei. Benedetto non era più padrone di casa propria, giacchè nulla sfuggiva alla doppia critica della zitellona e del monaco; ma egli la soffriva allegramente, contento di vedersi oramai trattato da tutti gli Uzeda, solo dolente della freddezza sorta col principe per causa non propria. Ma ciò che faceva sua moglie era per lui sempre ben fatto, ed ella, che aveva preso al suo servizio Vanna, dalla quale era informata di tutto ciò che avveniva al palazzo, sfogava con lo zio Blasco contro il fratello, lo accusava di averla rubata, di aver rubato Chiara, di voler rubare adesso Raimondo:

— Lo spinge lui contro la moglie! Dicono che gli ha detto: «Che ci stai a fare qui?» Per metter legna sul fuoco! Deve avere il suo piano! Non è tipo da far nulla per nulla! E Raimondo parte con Matilde: per Milazzo, dice. Ma è troppo stupida, insomma, mia cognata! Io ho cercato di aprirle gli occhi perchè mi fa pena. La cosa non finirà bene!... Non si sono consigliati con Benedetto sullo scioglimento del matrimonio?... Io gli ho detto di non mescolarsi in questi pasticci!...

Ella non diceva che Benedetto, mandato a chiamare da donna Ferdinanda, in casa della quale Raimondo lo aspettava, lusingato da una confidenza delicatissima sopra un affare intimo, se aveva dapprima lottato con la propria coscienza, s’era a poco a poco lasciato vincere dall’onore che la zitellona gli faceva, mettendolo a parte d’un secreto di famiglia, sollecitando i consigli di un parente piuttosto che quelli d’un primo venuto. E questa idea aveva vinto i suoi scrupoli. Un estraneo, un azzeccagarbugli capace di tutto per amore di far quattrini, non sarebbe stato più da temere, non avrebbe consigliato di porre subito mano alla causa? Invece egli confidava di riuscire a metter pace fra marito e moglie; fino all’ultimo momento ce ne sarebbe stato il tempo. Poi, gli ostacoli enormi da superare finivano di rassicurarlo. Lo scioglimento d’un matrimonio era impresa difficilissima; ma donna Ferdinanda voleva scioglierne due: quello della Fersa e quello di Raimondo, e i motivi mancavano, mancavano perfino i pretesti, da una parte e dall’altra. Che male commetteva egli dunque rienumerando i motivi necessarii dei quali il cognato gli aveva già chiesto una prima volta, e discutendo con la zitellona la via che si sarebbe dovuto tenere se qualcuno di quei motivi fosse realmente esistito? Non era una pura accademia, una specie di lezione di diritto canonico, come quella del suo antenato, che il cavaliere don Eugenio, Gentiluomo di Camera, aveva elogiato?... Nondimeno, una secreta soggezione lo impacciava dinanzi a Matilde, come fosse già complice della trama ordita contro la poveretta. La contessa, però, mostravasi più serena e confidente che al tempo del suo arrivo in casa Uzeda; a poco a poco ella s’era lasciata vincere dalla speranza, vedendo che Raimondo non parlava più di tornare in Toscana, che le prometteva di condurla, subito dopo il parto di Chiara, a Milazzo per raggiungere le bambine e poi a Torino, dove il padre di lei, placatosi, li aspettava. Come suo padre aveva dimenticato i severi propositi contro Raimondo, anche Raimondo non poteva aver dimenticato l’amore di quell’altra?... Non finiva tutto, col tempo?...

E Chiara non partoriva. Il secondo nono mese stava per finire e il suo ventre non si sgonfiava. I dolori e le trafitture erano continui, oramai; ma, col coraggio dei maniaci, non ne diceva niente a nessuno, ostinata a voler sgravarsi senza aiuto di medici o di levatrici. Il guaio fu che, compiuto il decimo mese, ella non si liberava ancora. Certamente, aveva sbagliato il calcolo; ma, al marito, ai parenti che la esortavano a chiamare qualcuno:

— Non voglio nessuno! — rispondeva, cocciuta, per partorire da sola.

— Questa è nuova! — gridava don Blasco, il quale voleva ficcare il naso anche nel ventre della nipote. — Una gravidanza di dieci mesi dove s’è vista? Meno male se durasse dodici, quanto l’asina che sei!

Infatti, era cominciato l’undicesimo mese, secondo il primo calcolo. E una sera che ella non ne poteva più, che si sentiva morire e non riusciva a nascondere le proprie doglie, suo marito, spazientito per la prima volta dopo otto anni di matrimonio, gridò:

— Se qui non viene un dottore, mi prendo il cappello e me ne vado.

Venne il dottor Lizio e si chiuse con la partoriente, mentre il marchese aspettava ansioso nel salotto, coi parenti. Udendo che il chirurgo schiudeva l’uscio e chiamava, corse a domandargli, trepidante:

— Dottore!... È sgravata?

— Ma che sgravare e aggravare d’Egitto! — esclamò Lizio. — Vostra moglie ha una ciste all’ovaia grande come una casa. Un altro poco, ed era spacciata!...

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