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Parte seconda

Capitolo 3
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A San Nicola, dopo la sistemazione del governo italiano, si faceva la stessa vita di prima, come al tempo dei Napoletani; anzi era questo uno degli argomenti sfoderati dai liberali contro i sorci, durante le discussioni politiche che s’impegnavano continuamente all’ombra dei chiostri.

— Avete visto? A darvi ascolto doveva succedere il finimondo, dovevano mandare all’aria il convento, e invece è sempre ritto....

— Ritto un cavolo! — tonava don Blasco. — Aspettate e vedrete!...

Pel momento i monaci seguitavano a far l’arte di Michelasso. Il principino, crescendo, indiavolava. Prepotente coi Fratelli, incuteva adesso un vero terrore ai camerieri, dai quali pretendeva le cose più proibite: coltelli arrotati per lavorar canne delle quali faceva, cerchiandole di fil di ferro, schioppi e pistole; polvere da sparo per caricare queste armi che gli potevano scoppiare, Dio liberi, tra le mani e accecarlo di tutt’e due gli occhi; razzi e tric-trac e altri fuochi artifiziati per cavarne la polvere, oppure zolfo, salnitro e carbone per farla da sè. Aveva una inclinazione istintiva e invincibile per la caccia: nel giardino, durante la ricreazione, non potendo far altro, tirava sassate agli uccelli, a costo di spaccar la testa a qualche compagno, o s’arrampicava sui muri per distruggere i nidi dei passeri a rischio di fiaccarsi il collo egli stesso. E quando i camerieri non lo contentavano, non gli procuravano le reti, il vischio, la polvere, li strapazzava, li denunziava al maestro per colpe inventate di pianta, li metteva a più dure prove buttando all’aria ogni cosa nella propria camera dopo che essi l’avevano rifatta.... La smania di fumare non gli era neppure passata. Attribuendo alla cattiva preparazione del tabacco l’ubbriacatura presa al tempo della rivoluzione, volle fumare sigari per davvero, e prese un’ubbriacatura più terribile della prima. Scoperto anche questa volta, il Maestro si decise a dargli un gran castigo, vietandogli di uscire per una settimana; ma poi la settimana fu ridotta a tre giorni, grazie all’avvicinarsi del Natale.

Ogni anno, per questa ricorrenza, ciascuno dei novizii doveva recitare una predica, e riceveva in premio un’onza di quattrini, quasi tredici lire della nuova moneta, più una scatola di cioccolatte e due galletti vivi. La predica di Natale toccava quell’anno ’61 a Consalvo Uzeda: l’aveva scritta il Padre bibliotecario, che era letterato, perciò invece che nelle poche paginette degli altri anni, consisteva in un bel quadernetto. Egli che aveva una memoria di ferro e una faccia tosta a tutta prova, aspettava la cerimonia con una tranquillità e una sicurezza ignote ai compagni, ai quali i regali costavano quindici giorni d’ansia e uno di vera paura. Il giorno della funzione, il Capitolo dove i monaci avevano già preso posto nei loro stalli, fu invaso dalla consueta folla dei parenti maschi: le donne, per via della clausura, restavano accanto, nella sacrestia, della quale lasciavansi spalancate le porte. Tutti esclamarono piano: "Che bel ragazzo! Com’è franco e sicuro!" quando il principino, vestito della candida cotta piegolinata, salì sul pulpito, guardò tranquillamente la folla degli spettatori e spinse uno sguardo alla sacrestia, rigirandosi tra le mani il rotoletto del manoscritto e tossicchiando un poco, prima di cominciare. Sotto lo stallo dell’Abate, in mezzo al principe, al duca d’Oragua, a Benedetto Giulente, don Eugenio diceva: "Guardate che padronanza! Se non pare un predicatore consumato!" Ma la stupefazione crebbe a dismisura quando il ragazzo, aperto il quaderno e datavi un’occhiata, lo abbassò, recitando a memoria: "Reverendi Padri e Fratelli dilettissimi, era una notte del più rigido verno, allorquando in una stalla di Nazaret..." e tirando poi via fino in fondo senza guardare neppure una volta lo scartafaccio, gestendo, facendo pause, cambiando il tono della voce come un oratore provetto, come un vecchio attore sul palcoscenico. Finito che ebbe, risceso che fu, per miracolo non lo soffocarono dagli abbracci, dai baci; la principessa aveva le lacrime agli occhi, donna Ferdinanda anche lei era commossa: ma, quantunque muta, l’ammirazione del deputato, al quale la sola idea della folla serrava la gola e annebbiava la vista, non era la meno profonda. "Che presenza di spirito! Che franchezza!..." e tutte le signore lo attiravano, l’abbracciavano, lo baciavano in viso: egli lasciava fare, restituiva i baci sulle guance fresche e profumate, torceva il muso dinanzi alle flosce e grinzose: e oltre ai regali del convento, intascava le lire che gli davano gli zii. Il più contento, con tutto questo, era Frà Carmelo: gli pareva d’essere l’autore di quel trionfo, d’aver diritto ad una parte degli applausi, delle congratulazioni, dei baci delle signore. Non aveva covato con gli occhi quel ragazzo nei cinque anni del noviziato? Non aveva vantato il suo ingegno, predetto la sua riuscita? I maestri si lagnavano perchè non amava lo studio: doveva dunque fare il medico o l’avvocato o il teologo? Ai Benedettini ci stava per ricevere l’educazione conveniente alla sua nascita; poi sarebbe andato a casa sua a fare il principe di Francalanza!

E questo era il giorno che Consalvo aspettava; per l’impazienza di non vederlo arrivare, per farsi mandar via, egli sfrenavasi sempre più, metteva con le spalle al muro non più i Fratelli e i camerieri, ma lo stesso Maestro. Durante la rivoluzione e subito dopo, i Tignosi avevano tolto dal convento Michelino, i Cúrcuma Gasparino, i Cugnò Luigi; nè altri novizii erano entrati, fuorchè Camillo Giulente, giacchè dicevasi che il governo avrebbe soppresso i conventi. Restavano soltanto quelli che le famiglie destinavano a professarsi, Giovannino Radalì, fra gli altri, il «figlio del pazzo.» Morto suo padre, la duchessa, per amore del primogenito, destinava il secondo a farsi monaco. Ma Consalvo, che non doveva professarsi, voleva andar via, al più presto, subito; e invece suo padre, ogni volta che gli domandava: «Quando tornerò a casa?» rispondeva col solito suo fare secco e freddo che non ammetteva replica: «Ho da pensarci io!» E non ci pensava mai, e il ragazzo sentiva crescere l’avversione che quel padre rigido, del quale non rammentava una buona parola, gli aveva ispirato. Quando andava a casa in permesso, egli stava un momento con la mamma, poi se ne scendeva giù nella corte, passava in rivista i cavalli e le carrozze, domandava il nome di tutti gli arnesi delle scuderie; e la tonaca gli pesava, perchè non gli permetteva di salire a cassetta e d’imparare a guidare. Aveva tempo di spassarsi, gli diceva Orazio, il nuovo cocchiere, poichè Pasqualino era partito per Firenze al servizio dello zio Raimondo; ma egli voleva spassarsi subito, sottrarsi alla tutela dei monaci, fare quel che gli piaceva. E all’idea di dover tornare nella prigione del convento, invidiava perfino le persone di servizio, il figlio di donna Vanna, Salvatore, che era entrato in casa Uzeda come mozzo di stalla, e passava tutto il santo giorno a cassetta, scarrozzando per la città. Consalvo lo invidiava e lo ammirava per le tante cose che sapeva, per le male parole che diceva liberamente; e Frà Carmelo, sonata l’ora di ricondurlo al convento, doveva sgolarsi un bel pezzo prima di stanarlo dalla stalla o dalla scuderia.

— Che hai fatto? — gli domandavano la mamma o la zia.

— Nulla, — rispondeva, un po’ rosso in viso.

Era stato ad ascoltare i discorsi di Salvatore, che gli narrava le gesta di tanti Padri Benedettini:

— La notte se n’escono per andare a trovar le amiche, e certe volte le conducono con loro, nello stesso convento, avvolte nei ferraioli: il portinaio finge di capire che son uomini!... Vostra Eccellenza che c’è dentro non le ha mai viste?...

Non aveva visto nulla, lui; e tutte quelle cose apprese in una volta lo stupivano e lo turbavano.

— Ma non è peccato?...

— Eh!... — faceva il famiglio. — Se avessero cominciato essi! Hanno fatto sempre così, i monaci! I Fratelli non sono quasi tutti figli dei vecchi Padri?

— Anche Frà Carmelo?

— Frà Carmelo?... Frà Carmelo è un’altra cosa.... È bastardo del bisnonno di Vostra Eccellenza, fratello spurio di don Blasco....

— Perciò mio zio?

— E Baldassarre anche lui.... fratello bastardo del signor principe.... Si sono spassati i signori Uzeda!... Poi, quando sarà grande, si divertirà anche Vostra Eccellenza!...

Ah, come aspettava di crescere! Con quanta impazienza con qual rancore verso il padre vedeva scorrere i giorni, le settimane, i mesi e gli anni, in quella prigione! Con qual animo sentiva adesso le prediche severe dei monaci, dopo aver saputo la loro vita! Spesso discorreva di queste cose secrete con Giovannino, gli diceva quel che avrebbe fatto appena fuori del convento; e Giovannino stava a sentire con aria stralunata, quasi non capisse. Era così quel ragazzo, alle volte furioso come un diavolo, alle volte inerte come uno scemo. Voleva anche lui andar via dal convento, e dava, a giorni, in ismanie terribili; ma poi si persuadeva dei ragionamenti della duchessa sua madre, che i quattrini di casa erano tutti del fratello Michele, che a San Nicola sarebbe stato da signore, fra tanti altri signori, e si chetava, non pensava più a scapparsene, non invidiava la futura libertà di Consalvo.

Finita l’agitazione politica, era venuta meno una gran causa di risse al Noviziato e tra i Padri; ma questi avevano trovato un’altra ragione di battagliare. Le voci relative alla prossima soppressione dei conventi erano state confermate da Roma; non poteva passar molto che il governo degli usurpatori avrebbe messo le mani sui beni della Chiesa. Don Blasco s’era nettata la bocca contro i liberali, i fedifraghi, nemici di Dio e di loro stessi, che non avevano voluto dargli retta. Adesso però, più che gridare, bisognava prendere un partito in previsione di quell’avvenimento. A San Nicola s’era sempre spesa allegramente tutta la rendita del convento, nella certezza che la cuccagna sarebbe durata sino alla fine dei secoli; ma col mondo sottosopra, col pericolo che il governo abolisse davvero le corporazioni religiose, non era più conveniente moderare le spese, perchè il più corto non rimanesse poi da piede? L’Abate, come sempre, aveva preso consiglio prima di tutto dal Priore. Padre don Lodovico, modestamente, non aveva voluto pronunziarsi: «Che posso dire a Vostra Paternità? L’avvenire è nelle mani di Dio. Dalla tristizie dei tempi c’è tutto da aspettarsi. I nemici della Chiesa son capaci di questo e d’altro. Non mi stupirei se ricominciassero le persecuzioni dell’infernale Ottantanove.» Egli era sincero nel suo livore contro il nuovo ordine di cose, che da principio aveva appoggiato per politica, per tenersi bene con la nuova potestà temporale. Ma la soppressione dei conventi distruggeva tutti i suoi sogni di rivincita, di predominio, d’onori. Che cosa gl’importava oramai del bilancio di San Nicola, mentre pericolava tutto il proprio avvenire, il frutto di quindici anni di politica, mentre egli doveva pensare a una nuova via da battere, a un altro scopo verso il quale dirigere la propria attività? E quell’Abate dolce di sale insisteva per avere la sua opinione sulle miserie della spesa quotidiana! «Dimmi tu come debbo regolarmi! Che cosa faresti al mio posto?...» Un momento, don Lodovico provò la tentazione di levarselo dai piedi; ma, chinato il capo, con maggiore umiltà di prima, rispose: «Vostra Paternità è troppo buona! Le economie mi sembrano sempre lodevoli. Se il Signore non permetterà che i suoi servi siano messi alla prova, avremo qualche cosa di più da destinare alle opere buone....» Così l’Abate s’era pronunziato pel risparmio, d’accordo col Capitolo; ma i monaci non furono tutti d’un sentimento. Tra quelli che non credevano possibile la soppressione, tra gli altri che temevano di dover rinunziare al lusso di cui avevano sempre goduto, il partito delle economie trovava molti oppositori. In mezzo ai due campi don Blasco non voleva nè tenere nè scorticare, scaraventandosi a un tempo contro gli uni e gli altri. Combattere il sistema delle economie con la speranza che il governo non commetterebbe la spogliazione, egli oramai non poteva più, se questa spogliazione aveva prevista e rinfacciata ai traditori liberali; e del resto le economie destinate ad essere spartite tra i monaci in caso di scioglimento erano nel suo modo di vedere, poichè egli avrebbe avuto la propria parte, uscendo dal convento; però non voleva rinunziare allo scialo cui era avvezzo, e poi lo stesso fatto che questo partito era capitanato dall’Abate e dal nipote Priore e da tutti quelli del Capitolo, faceva che egli si scagliasse contro di loro, chiamandoli «lerci straccioni,» gridando: «Vadano a fare i locandieri o i bottegai! Si mettano a vender l’olio, il vino e il caciocavallo! A questo son buoni! Per questo mestiere sono nati!...» Udendo dall’altro canto i patriotti cullarsi nella certezza che il governo, in ogni caso, avrebbe pensato a loro, s’evacuava: «il governo vi butterà fuori a pedate e vi porgerà il sedere da baciare! Giuda vendè Cristo, ma n’ebbe almeno trenta denari. A voialtri toccheranno calci nel preterito per giunta!...»

In fondo, all’idea della spartizione dei quattrini, di possedere finalmente qualcosa di suo, era per le economie, pure combattendole. Del resto a San Nicola la spesa era grande non tanto per il valore delle cose acquistate, quanto pel modo regale di sperperare i quattrini, di compensare il più piccolo lavoro, di far godere ai primi venuti il ben di Dio accatastato nei sotterranei del convento. Con un certo ordine, lasciando che i cuochi rubassero un po’ meno di prima, che i Fratelli destinati al governo dei feudi s’arricchissero in un tempo un poco più lungo del consueto, c’era da riporre, ogni anno, una somma che avrebbe fatto la ricchezza di parecchie famiglie. Ma le case regalate ai protetti dei monaci, per esempio, non bisognava toccarle: don Blasco avrebbe voluto veder proprio questo, che avessero tolta la bottega e il quartierino alla Sigaraia! E nè lui nè gli altri volevano rinunziare ai loro diritti: spesato ed alloggiato, ciascun Padre aveva tre rotoli d’olio al mese, una soma di carbone, una salma di vino, tutta roba che andava a finire dalle amiche. Ora i risparmii stavano bene; ma ciascuno pretendeva il suo.

L’Abate, o di buona o di mala voglia, doveva lasciarli fare. Egli del resto chiudeva adesso un occhio, perchè aveva da propiziarseli. Camillo Giulente, compiti vent’anni ed espressa la ferma decisione di pronunziare i voti, era passato al noviziato formale. C’era stato bisogno di una votazione, per questo, e l’opposizione contro l’intruso, scatenatasi più violenta, aveva gridato e minacciato alto per impedire la sanzione dello scandalo. Ma l’Abate aveva insistito personalmente presso tutti i Padri, raccomandando quel ragazzo, facendo rilevare le sue eccellenti qualità, il profitto ricavato negli studii, la sua triste situazione di orfano povero. Ai capoccia aveva fatto parlare dal Vescovo e scrivere dai parenti, dalle persone che potevano esercitare qualche influenza sull’animo loro; così qualcuno s’era piegato, altri aveva dato una promessa in aria, e insomma nonostante le grida e i complotti, Giulente era stato ammesso, ma per pochi voti. La notizia aveva fatto chiasso: i nobili improvvisati, di fresca data, se ne erano rallegrati come di una fortuna loro propria, riconoscendo l’influsso dei nuovi tempi, l’azione spregiudicata dei Padri liberali; ma, tra i puri, lo scandalo durava ancora.

Adesso, passato l’anno di prova, innanzi che il novizio potesse pronunziare i voti, bisognava che il Capitolo rinnovasse lo scrutinio. L’Abate, quantunque sicuro del fatto suo, pure trattava tutti con le molle d’oro, s’affidava a don Lodovico, gli esponeva le nuove ragioni che dovevano indurre i monaci a dire di sì. Dopo un primo voto favorevole era mai possibile darne uno contrario, se durante tutto questo tempo il giovanotto era stato il vivente esempio del rispetto, dell’umiltà, dello zelo religioso? Del resto, se quel che si temeva sarebbe realmente successo, se il governo avrebbe soppresso i conventi, che fastidio poteva dare il nuovo monaco agli antichi? Era bene, anzi, nelle tristizie dei tempi, far vedere ai persecutori della Chiesa che lo stato monastico rispondeva a un bisogno della soietà, se, col pericolo di non goderne più i vantaggi, i giovani chiedevano egualmente di sopportarne i pesi.... E l’Abate, assicurato da don Lodovico che tutto sarebbe andato a seconda, dormiva tra due guanciali. Arrivato il giorno della votazione e posta ai Padri la quistione se volevano fra loro il Giulente, trenta sopra trentadue votanti risposero no, e due soli consentirono.

— Per una volta che si ragiona! — esclamò don Blasco quasi sotto il naso di Sua Paternità.

Il complotto era stato preparato sottomano da un pezzo. Alla prima votazione una metà dei votanti s’eran lasciati piegare sapendo bene che quel voto non pregiudicava nulla, che bisognava poi tornar da capo; ma dovendo ora dir sul serio, nessuno aveva più esitato: borbonici e liberali, fautori e avversarii dell’Abate, il partito delle economie e quello dello scialo, s’erano tutti accordati nell’opporsi all’ammissione tra i discendenti dei conquistatori del regno e dei vicerè un pronipote di mastri notari come Giulente. Non importava loro della prossima o lontana fine della cuccagna, nè dell’esempio da dare nell’interesse della religione; c’era innanzi tutto il principio di tener alto, «il bestiame da non confondere,» come diceva don Blasco; se il giovane era orfano e povero, gli si sarebbe dato da dormire e da mangiare, come a uno di quei tanti parassiti che vivevano sul convento; ma permettere che rivestisse la nobile tonaca benedettina? Che gli si dicesse Vostra Paternità? Che sedesse alla loro mensa?...

E per tutta la clientela del convento corse un lungo sussurro di approvazione: così andava fatto, sin dal principio! Era una bella lezione data all’Abate!... Il giovanotto, dal dispiacere, dalla vergogna, restò un mese senza farsi vedere. Quando riapparve, pallido e con gli occhi rossi, non si seppe che cosa farne. Se i Padri non l’avevano voluto, non era più possibile rimandarlo tra i novizii, alla sua età e dopo quello scandalo, specialmente, che attirava sul povero diavolo le beffe e gli insulti del principino e dei suoi compagni. Così l’Abate dovette assegnargli una camera fuori mano, in fondo a un corridoio deserto; e Giulente, lasciato l’abito di San Benedetto per l’umile veste del prete, se ne stava tutto il giorno a studiare sui libri che il suo protettore gli faceva mandare dalla biblioteca. Al refettorio, nè i Padri nè i novizi volendolo con loro, egli mangiava alla seconda tavola, in compagnia dei Fratelli di servizio.... Don Lodovico esprimeva il proprio dolore all’Abate per questa persecuzione. Egli si era guardato bene dal far la propaganda della quale Sua Paternità l’aveva pregato, prima di tutto perchè il suo proposito di neutralità glie lo vietava, poi perchè neppur lui voleva Giulente al convento. Nondimeno era stato il solo a votare il sì, per dimostrare al Superiore la propria fedeltà, sicuro frattanto dell’unanime opposizione dei monaci. Dopo l’esito dello scrutinio, gettava la colpa sulla doppiezza dei Padri, che dopo tante promesse, all’ultimo momento, per uno «stupido» pregiudizio, s’eran disdetti.... E così la baracca andava avanti, col solito armeggio dei partiti, con le solite discussioni più o meno burrascose, quando un bel giorno tutta la frateria fu messa a rumore da un avvenimento straordinario, come al tempo della rivoluzione.


Garibaldi era già in Sicilia a far gente, non si sapeva perchè, o meglio, si sapeva benissimo: per andar contro il Papa. Al suo avanzarsi un mal represso fremito si levava tutt’intorno, per le città e le campagne, mentre le autorità si barcamenavano non sapendo a qual santo votarsi, e un po’ fingevano d’osteggiarlo, un po’ gli cedevano il passo. Quando egli si presentò dinanzi a Catania, la guarnigione che doveva arrestarlo aveva già sgomberato la città, il prefetto scese al porto per imbarcarsi sopra un legno di guerra. E il Generale entrò coi suoi volontarii tra due siepi vive di popolazione che applaudiva e gridava freneticamente, in mezzo a un delirio d’entusiasmo dinanzi al quale le stesse dimostrazioni del Sessanta parevano tiepide e scolorite. Da un balcone del Circolo degli operai, dominando il corso gonfio di popolo come una fiumana, egli spiegava lo scopo della nuova impresa, gettava con la voce dolce il grido della nuova guerra: «O Roma, o morte!...» Poi, dove andò egli a porre il suo quartier generale? A San Nicola!

Le grida, il trambusto che ci furono lassù tra i monaci si lasciarono anch’essi molto indietro le dimostrazioni del Quarantotto e del Sessanta. Don Blasco divenne un energumeno; disse cose dei «Piemontesi» che non fucilavano Garibaldi e di Garibaldi che non spazzava via i «Piemontesi» da far turare le orecchie a un saracino. E la sua più viva speranza, la fede che lo sorreggeva, era quest’ultima: che i due partiti si sterminassero reciprocamente, che i briganti della Basilicata dessero l’ultimo crollo alla baracca, che succedesse così un cataclisma, il diluvio universale non più d’acqua ma di ferro e di fuoco perchè il mondo risorgesse purificato dalle proprie ceneri. E i monaci liberaloni, «quei pezzi di scannapagnotte,» osavano ancora batter le mani mentre la rivoluzione ordiva la finale rovina dell’ultimo rappresentante delle legittimità, del più augusto, del più sacro; il Santo Padre! Battevano le mani come gli arruffoni, come gli affamati in busca di un’offa, come i galeotti evasi di cui si componevano le nuove bande! E dimenavano i fianchi ingrassati a spese di San Nicola, e si fregavano le mani che la beata cuccagna permetteva loro di mantener bianche e lisce come quelle delle dame!

— Manetta di mangia a ufo che siete, avete forse vinto un terno al lotto? Non capite che più presto l’eresia trionferà, più presto vi butteranno in mezzo a una strada? Di che vi rallegrate, traditori più di Giuda? Non volete capire che avete tutto da perdere e niente da guadagnare?

— E con questo?

— Come con questo?

— Ci piglieremo anche noi un po’ di libertà....

Quando gli dettero quella risposta, il monaco divenne un ossesso: il sangue gli montò alla testa e gli occhi parvero sul punto di schizzare dalle orbite.

— Ah, sì; ve ne manca? — articolava. — Vi manca la libertà...? Siete chiusi in fondo a un carcere, poveri disgraziati?... Che libertà vi manca, d’ubbriacarvi come tanti otri? di crepare dalla sazietà? di mantenere le vostre ciarpe?... Non lo sapete, no, come vi chiama la gente?... — E spiattellò loro in faccia l’epiteto popolare col quale erano designati da tutta la città: — Porci di Cristo!...

In mezzo al baccano delle discussioni che minacciavano di finire a cinghiate, il povero Abate pareva un pulcino nella stoppa, non sapendo come fare, non volendo dar mano ad affrettar lo scempio dei buoni princìpii, ma non potendosi opporre alla venuta dei garibaldini. Pertanto afferravasi al Priore, si metteva nelle sue mani, non lo lasciava più. Don Lodovico, lagnandosi delle tristizie dei tempi, invocando dal Signore la cessazione di quelle dure prove, prese le redini del convento e dispose il ricevimento di Garibaldi: ordinò che dessero aria al quartiere reale, che approntassero pagliericci e foraggi, che vuotassero le cantine e i riposti. Quando arrivò il Generale, gli andò incontro fino a piè dello scalone, per dargli il benvenuto, lo guidò fino alle sue stanze, accompagnò ai loro alloggi gli aiutanti e presiedè il pranzo delle camicie rosse, scusando l’Abate che una piccola indisposizione costringeva a letto.

Don Blasco, verde come l’aglio, non potendo più gridare all’arrivo dei Garibaldini, s’era tappato una seconda volta al Noviziato. Quasi tutti i ragazzi non c’erano più, ripresi dalle rispettive famiglie, che per paura dei torbidi si mettevano in salvo. Solo il principino, Giovannino Radalì e due o tre altri erano rimasti, mentre gli Uzeda erano scappati al Belvedere, tranne Ferdinando, chiuso come sempre alle Ghiande, e Lucrezia con Benedetto, il quale riprendeva il suo posto di combattimento in quei giorni agitati, tra le poche autorità e i rari notabili rimasti. Egli si sarebbe anzi arrolato, per far la nuova campagna con gli antichi commilitoni, senza il dovere di non abbandonar la moglie. Salito su al convento, il domani dell’arrivo di Garibaldi, andò ad ossequiare il Generale, che lo riconobbe subito, gli strinse la mano, e lo intrattenne un pezzo non ostante l’andirivieni delle commissioni, delle rappresentanze di ogni genere accorrenti incontro all’antico Dittatore. La incertezza e l’inquietudine, le speranze e i timori intorno a quel che sarebbe seguito erano generali. Quali progetti aveva Garibaldi? Quali ordini i rappresentanti dell’autorità? Il conflitto, se mai, sarebbe scoppiato a Catania? Che cosa avrebbe fatto la Guardia nazionale?... Non si sapeva nulla; certuni dicevano che il Governo fosse secretamente d’accordo con Garibaldi, che facesse finta d’osteggiarlo per l’occhio delle potenze. Benedetto, ripresa la pubblicazione dell’Italia risorta, sosteneva questa opinione, e il silenzio del duca d’Oragua, al quale aveva scritto lettere su lettere pregandolo di tornare in Sicilia, poichè la presenza di lui poteva divenire necessaria, lo induceva a confermarvisi. Aveva pertanto assicurato al Dittatore l’unanime consenso di tutto il paese. Congedandosi e sul punto di riscendere in città, si udì chiamare:

— Eccellenza!... Eccellenza!...

Era Frà Carmelo che gli veniva dietro. All’orecchio, e con aria di mistero, quando l’ebbe raggiunto: — Suo zio don Blasco, — gli disse, — ha da parlarle....

Rintanato nell’ultima stanza dell’ultimo corridoio del Noviziato, don Blasco volle sentire due volte la voce del nipote prima d’aprire. Rinchiuso l’uscio sul muso del fratello:

— Sei dunque impazzito anche tu, pezzo di bestione? — disse a Benedetto.

Questi aveva appena domandato un perchè timido e sommesso, che il monaco ricominciò, con nuova violenza:

— Come, perchè? Hai il viso di domandarlo? Con la guerra civile che state per far scoppiare? La città bombardata? Le strade insanguinate? I galantuomini perseguitati?... E mi domandi perché?...

— Non è colpa....

— Non è colpa tua? Di chi, dunque? Mia, forse? Sicuro! Li ho scatenati io in persona! Conosco il solito giuoco! Gl’istigatori sono i galantuomini colpevoli di non transigere con la propria coscienza! Mi meraviglio che non son venuti ad arrestarmi!... Vengano, vengano pure!... — e pareva un leone, con gli occhi sfavillanti.

— Vostra Eccellenza si calmi.... — balbettava Giulente.

— Ho da calmarmi, anche? Mentre il mio paese è minacciato dell’ultima rovina? Quando vedo una bestia della tua cubatura batter le mani con gli altri, invece di evitare quest’inferno?...

— Ma in qual modo?

— In qual modo? Facendoli andar via! Si scannino in campagna, sul mare, dove piace loro, non dentro una città come la nostra, dove i danni sarebbero incalcolabili, dove ne andrebber di mezzo le donne, i vecchi, i bambini, i galant.... Vadano via a scannarsi dove gli piace; il mondo è grande!... Ecco in qual modo!...

Giulente rimaneva perplesso, non osando contraddire allo zio, ma non volendo neppure disdirsi dopo mezz’ora.

— Ma come fare? Tutto il paese è pel Generale....

— Tutto il paese? Prima di tutto, sei una bestia! Quale paese? I pazzi come te? E poi, quand’anche, ragione di più! Se il paese è per lui, se c’è entrato da trionfatore, che resta a farci? Fosse una piazza forte, capirei; ma una città aperta ai quattro venti? Se ha da attaccar battaglia, vada altrove! Si porti chi vuole e ciò che vuole, e buon viaggio!...

Il monaco, a poco a poco, s’era venuto placando, e aveva detto le ultime parole quasi col tono di ogni altro cristiano; ma appena Benedetto osservò:

— E chi lo persuaderà?

— Ah, sangue di Maometto! — riprese col vocione di prima e un gesto furioso. — Parlo con una bestia o con un essere ragionevole? Chi l’ha da persuadere? Voialtri che gli state attorno! C’è una Guardia nazionale? C’è un’autorità qualunque? Tu, che cavolo sei? Capitano, buon cittadino, il diavolo che ti porta via? Tocca a voialtri parlar chiaro e tondo, dopo che i tuoi conigli Piemontesi se la sono battuta, lasciandoci nel ballo! O credi forse che voglia impicciarmi con cotesti assassini, briganti, galeotti, ru....

Al rumore di un passo risonante pel corridoio, don Blasco ammutolì come per incanto. Si gargarizzò quasi la gola gli prudesse, fece due passi per la camera, si fermò un momento a tender l’orecchio; poi, cessato il rumore, dichiarò:

— Se vuoi capirla, tanto meglio; se no, mettiti bene in testa che a me, come a me, importa un solennissimo cavolo di te, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele, e di quanti siete....

Giulente tornò a casa inquieto e sopra pensieri. Appena entrato in camera di sua moglie, vide Lucrezia seduta in un angolo, con gli sguardi a terra e gli occhi rossi.

— Che hai?... Che è stato?...

— Nulla. Non ho nulla.

— Ma tu hai pianto, Lucrezia! Parla! Dimmi che cos’hai!...

Ella negava, senza guardarlo in faccia, con la bocca ostinatamente cucita, e se non era Vanna che sopravveniva, Benedetto non sarebbe riuscito a saper niente.

— La padrona non vuol restare in città, — dichiarò la cameriera. — Tutti i suoi parenti se ne sono andati, anche la povera gente si mette al sicuro, e lei sola ha da restare al pericolo?

— Che pericolo?... Lucrezia, è per questo? Ma se non c’è pericolo di niente? Che temi? Non sono qua io? A me non faranno nulla, in nessun caso! Se ci fosse un pericolo anche lontano, ti lascerei qui? Andremo via se le cose si guastano; ho bisogno di promettertelo?...

Dopo che ebbe parlato un quarto d’ora, ella articolò:

— Voglio andarmene dai miei parenti.

— Ma santo Dio, perchè? Stamattina eri così tranquilla! Che cosa è mai successo?

Era successo questo: che la moglie di Orazio, il cocchiere del principe, aveva fatto una visita all’antica padroncina per annunziarle, col fiato ai denti, che scappava anche lei al Belvedere. «Eccellenza, qui non si può più stare. Oggi non sa che cosa è successo? I soldati piemontesi rimasti all’infermeria se ne andavano a raggiungere la truppa. Al Fortino, i Garibaldini li vogliono fare prigionieri. Allora, Gesù e Maria, il tenente ordina baionetta in canna! E io che passavo con le creature!... Dallo spavento sto ancora tremando! Ho fatto un fagotto di quei quattro cenci, e stasera me ne vado...» Allora, se la moglie del cocchiere andava via, lei, la sorella del principe era da meno della moglie del cocchiere?... Quest’idea non era sorta improvvisamente nella sua testa. Lottando per sposare Giulente, ella aveva giurato di non aver più che fare con gli Uzeda; tutte le ragioni da loro addotte per denigrare Benedetto e la famiglia di lui l’avevano invece sempre più confermata nel suo proposito. Ma, trionfando delle opposizioni, ella aveva cominciato a rimuginare, nelle lunghe ore d’ozio e d’inerzia, gli antichi argomenti della zia Ferdinanda, di Giacomo, del confessore; la persuasione d’essere discesa, sposando Benedetto, aveva cozzato un pezzo con l’ostinazione antica; rotto col fratello, il cruccio di non poter più entrare nella casa dei Vicerè, di sentirsi quasi posta al bando dai parenti, l’aveva occupata a poco a poco, mentre ella continuava a prendersela con loro. Al principio delle inquietudini pubbliche, la fuga generale dei nobili e dei ricchi aveva colmato la misura, ed ora ella dimenticava ciò che aveva detto contro Giacomo, la freddezza sorta tra loro due, il fermo proposito di non piegarsi: voleva andarsene al Belvedere, se perfino la moglie del cocchiere c’era andata....

Giulente stava ancora cercando di persuaderla, quando arrivò la posta; in mezzo ai giornali c’era finalmente una lettera del duca. Il duca diceva di non aver più ricevuto sue lettere, in quei momenti di agitazione, che glie le facevano aspettare con impazienza. Le notizie di Sicilia gli avevano messo la febbre addosso, tanto che egli voleva subito far le valige; ma disgraziatamente era impedito da molte e gravi faccende, «tutte d’interesse del collegio e del paese.» Del resto, se voleva trovarsi fra i proprii concittadini, ciò era per avvertirli di non lasciarsi trascinare da Garibaldi. «Lo dico dunque a te che puoi farlo comprendere alle teste riscaldate, dove più insistente si cammina a nome del principio utopista, si corre sicuro al naufragio. Altronde il governo è deciso opporsi in tutti i modi a simile aberrato. Ed io credo che fa benissimo; anzi che ha perduto troppo tempo. Garibaldi dev’essere arrestato a forza; non si può permettere che una nazione di ventisette milioni è messa in orgasmo da un uomo che ha meriti distinti, ma pare aver giurato di farli dimenticare con una condotta che....» e qui due facciate contro Garibaldi. «Perchè poi, voltiamo la pagina, neppure il governo è libero, e non bisogna lusingarsi col non intervento; c’è la Francia che fa un casa del diavolo, Napoleone ha detto.... l’Austria aspetta un pretesto.... tutta l’Europa invigila....» e un altro foglietto di gravi considerazioni sulla politica internazionale. «Quindi ti raccomando di far comprendere queste verità agli amici, ed anche, anzi soprattutto, agli avversarii. Bisogna evitare un serio disastro al nostro paese, e tutti bisognano persuadersi del pericolo della situazione. Pregoti di parlare e occorrendo scrivere in questo senso; anzi sono sicuro che nella tua accortezza ti sarai già messo all’attuazione....»

Per la terza volta in tre ore, qualcuno dei suoi parenti lo spingeva così nella via da cui egli ripugnava. Il duca scriveva, escandescenze a parte, come don Blasco parlava; il monaco borbonico era, in fondo, d’accordo col deputato liberale; e sua moglie, chiusa in camera, gli teneva il broncio, complottava con la cameriera per indurlo ad abbandonare il suo posto.

La sera, ad una tempestosa riunione del Circolo Nazionale, dove il partito garibaldino e il governativo erano venuti quasi alle mani, egli s’alzò per parlare. Nell’imbarazzo da cui era vinto, l’argomento suggerito da don Blasco gli parve il più opportuno. «Nessuno poteva mettere in dubbio, disse, la sua devozione al Generale, nè la coscienza gli permetteva di dare ragione a quelli che volevano schierarsi contro il liberatore della Sicilia; ma bisognava piuttosto dimostrargli, col dovuto rispetto, il pericolo a cui era esposta la città. Delle due l’una: o agiva d’accordo col Governo, e allora non aveva nessun interesse di restare a Catania; o il Governo gli si opponeva, e allora bisognava chiedere al suo cuore di evitare gli orrori della guerra civile ad una città popolosa e fiorente. E questo era proprio il caso, poichè il governo aveva deciso di opporglisi....» Quel discorso scandalizzò i suoi antichi amici; ma, prendendoli a parte uno dopo l’altro quando l’assemblea fu sciolta senza nulla deliberare, egli li esortò a piegarsi, esponendo la verità nuda e cruda, le notizie dategli dal duca. «Perchè non viene egli stesso, allora?» domandavano. «Che cosa sta a fare a Torino, mentre qui si balla?» Ed egli lo giustificava, annunziando che appena avrebbe potuto si sarebbe messo in viaggio, ma che intanto bisognava mandare una commissione al Generale per indurlo a sgomberare....

La sua propaganda ottenne l’effetto desiderato. Sul partito ostile a Garibaldi s’erano accumulati molti sospetti, poichè i borbonici, i paurosi senza nessuna fede erano con esso; ora che un liberale provato consigliava non la resistenza, ma la rispettosa esposizione del pericolo, questo consiglio si faceva strada. Benedetto non ebbe tuttavia il coraggio di andare in persona dal Generale ad esporgli la sua nuova opinione; lasciò che andassero gli altri. Costretto a condurre sua moglie al Belvedere, se ne tornò solo in città, aspettando gli avvenimenti, scrivendo e telegrafando al duca per invitarlo a venire. Passarono alcuni giorni senza che la situazione mutasse. Garibaldi, dall’alto della cupola di San Nicola, scrutava spesso la linea dell’orizzonte, col cannocchiale spianato; o, curvo sulle carte, studiava i suoi piani, o riceveva la gente e le commissioni che venivano a trovarlo. Finalmente s’imbarcò con tutti i volontarii, non si sapeva dove diretto, se in Grecia o in Albania; ma, dopo la partenza, un lievito di scontento restò nella città, una sorda agitazione che le persone influenti e la stessa Guardia nazionale non riuscivano a sedare. Il movimento era adesso contro i signori, contro i ricchi; Giulente aveva arringato i tumultanti, ma nessuno lo ascoltava più; e il duca gli scriveva ancora che non poteva venire, che stava poco bene, che i grandi calori gli avevano rovinato lo stomaco....

Un dopo pranzo che don Blasco aveva arrischiato, per la prima volta, una visita alla Sigaraia, dove, ridiventato un energumeno, augurava il reciproco sterminio dei Garibaldini e dei Piemontesi, arrivò Garino giallo come un morto:

— La rivoluzione!... La rivoluzione!... Bruciano il Casino dei Nobili....

Infatti la dimostrazione era diventata sommossa, le fiamme consumavano il circolo dell’aristocrazia. Il monaco, manco a dirlo, tornò a sbarrarsi al convento, e non lo lasciò più se non quando la truppa regolare rioccupò la città. Ma l’eccitazione degli animi prodotta dall’avvenimento d’Aspromonte, le paure, i pericoli, non parevano cessati, e il principe non si moveva dal Belvedere, e Giulente tornava a pregare il duca di farsi vivo, di venire a metter la pace nel paese. Il duca non venne; rispose ancora che i medici gli avevano vietato di tornare in Sicilia. «Sono disperato, non posso trovarmi fra voi come dovrei e vorrei, non solamente per tutto ciò che mi dici di Catania, ma anche perciò che è avvenuto a Firenze....»

Benedetto non sapeva a che cosa alludesse; lì per lì non pensò neppure che Raimondo era in Toscana. Seppe qualche giorno dopo di che si trattava, quando arrivarono, insieme, il conte e donna Isabella Fersa, e scesero all’albergo, sempre insieme, come fossero marito e moglie.

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