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Capitolo 4
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IV.
L’impressione prodotta da quell’avvenimento fu tale che tutt’a un tratto Garibaldi e Rattazzi, Roma ed Aspromonte passarono in seconda linea. Il conte Uzeda con donna Isabella! All’albergo insieme, quasi fossero due innamorati fuggiti di casa per forzar la mano alle famiglie! E la contessa? E il barone? Com’era successo il pasticcio? E come sarebbe andato a finire?
Pasqualino Riso, reduce da Firenze, col padrone, fu assediato di domande. Pareva un signore, Pasqualino: abito tagliato all’ultima moda, biancheria finissima, anelli alle dita, scarpe verniciate, chè se non era la faccia sbarbata, ognuno lo avrebbe preso per un cavaliere. E nelle portinerie, nelle stalle, nei caffè dei cocchieri, nelle anticamere della parentela, diede tutte le spiegazioni desiderate. «Che il contino non potesse durarla a lungo con la moglie, egli l’aveva previsto da un pezzo, e tutti avevano potuto accorgersene l’anno innanzi, quando il signor don Raimondo era scappato lontano da quella donna che gli amareggiava l’esistenza. Lo sapevan tutti che egli voleva bene a donna Isabella; dunque la contessa, se fosse stata un’altra, che cosa avrebbe dovuto fare? Usar prudenza, per amore dei figli! Invece, nossignore: pianti, strepiti, accuse, minaccie, suo padre sempre tra i piedi: bisognava essere fatti di stucco per resisterci! Ma quantunque la pazienza fosse scappata una prima volta al povero contino, pure egli aveva ceduto — tant’era vero che il torto non stava dalla sua parte! — dimenticando il passato, rassegnandosi a tornar con lei perchè i figli ne andavan di mezzo. Gli uomini, si sa, non possono star sempre cuciti alle gonne delle mogli, e il contino non aveva fatto più di ciò che fanno tutti i mariti. Le donne accorte, quelle che hanno due dita di cervello, capiscono queste cose, chiudono un occhio e fanno la volontà di Dio. Invece, quella santa cristiana della contessina, dopo d’aver promesso d’essere ragionevole, aveva cominciato da capo; ma come? peggio di prima! Suo marito non poteva pigliare un po’ d’aria che lei non gli facesse una scenata: se andava al Glubbo a trovar gli amici, a far quattro passi, subito i sospetti, i pianti ed i rimproveri. E gli strepiti per la passeggiata alle Cassine? il contino, che usciva a cavallo, ci trovava donna Isabella in carrozza e, naturale, si fermava a salutarla; giusto in quel punto: ciaff-ciaff, chi spuntava? la carrozza della padrona!... O buona donna, se questo le dispiaceva, perchè non se ne andava al giardino dei Popoli, che non è meno bello?... E poi, con le bambine? Con quel diavoletto della maggiore che capiva tante cose come una donna fatta? Le bambine avrebbe dovuto lasciarle alla Missa inglese che il contino aveva preso appunto per questo!... La sera, poi, a casa, un inferno! E il povero contino: santa pazienza, aiutami tu!... La padrona, quando smetteva di andargli dietro, cominciava un’altra musica: chiusa in camera quindici giorni di fila, senza metter fuori la punta del naso, non ascoltando nè ragioni nè preghiere, senza riguardi per la bambina piccola che aveva bisogno di pigliar aria e non voleva andar fuori se la sua mamma restava in casa! E il conte: santa pazienza!... Ma questo sarebbe stato niente: finchè era sua moglie quella che lo metteva con le spalle al muro, il padrone sopportava tutto in santa pace. Un bel giorno, che pensa di fare la contessa? Pensa di chiamare suo padre, di metterselo in casa e di scatenare una guerra tra suocero e genero!... Bisognava che fosse ammattita! Lei, fino a un certo punto, poteva mescolarsi nelle faccende del contino; ma suo padre? Chi era suo padre? Un estraneo, villano rivestito per giunta, e rompiscatole anche! Diciamo le cose come sono: prima di tutto gli mancava l’educazione: uno che aveva imparato alle figlie a dargli del tu! Istigato poi dalla contessa, era diventato una bestia, salvo sempre il santo battesimo, e il conte doveva sorbirsi le sue impertinenze, in casa propria! Un giorno, solo per aver detto che certi affari gli impedivano d’accompagnare la moglie al teatro, il barone villano ardì perfino minacciarlo col bastone! Santo Dio d’amore, era un po’ troppo! il contino non gli disse niente, altro che una parola: Facchino!... quella che ci voleva! e preso il cappello se n’andò, per sempre, stavolta. Chi poteva più consigliargli di tornare a perdonare? Le figlie, pazienza, sarebbero andate in collegio, o, se la padrona voleva tenerle con sè, il padrone glie le avrebbe lasciate.... quantunque.... quantunque.... Perchè il più curioso, signori miei, era questo: che la contessa, mentre faceva la gelosa, si divertiva anche lei in società! Non che fosse successo niente; in coscienza, questo non si poteva dire, nè il padrone sarebbe restato con le mani a cintola, se mai! ma bisognava vedere che smania di andare ai balli, al teatro; che sfarzo di abiti quando riceveva tanti uomini, tanti scapoli, un certo conte Rossi, fra gli altri, il padrone di casa....»
E la storia di Pasqualino passava di bocca in bocca, era ripetuta dai cocchieri ai famigli, dai guatteri ai cuochi, dai portinai agli affittacamere, ciascuno dei quali ci ricamava su qualcosa del proprio, finchè, arrivando al gran pubblico, preparava l’opinione, guadagnava simpatie alla causa del conte. Molti però scrollavano il capo, non si lasciavano prendere; e a poco a poco, senza che si sapesse donde, da certe informazioni venute da Firenze e da Milazzo, da certe parole sfuggite allo stesso Pasqualino quando si trovava a quattr’occhi con gl’intimi, dopo aver bevuto, la verità cominciava a venire a galla.
Raimondo aveva giurato di romperla con sua moglie nel punto stesso che lo zio duca lo costringeva a riprenderla. Come tutte le volte che cercavano dissuaderlo da un proposito, egli s’era maggiormente incaponito. Lontano da Matilde e da donna Isabella, aveva goduto l’illusione di quella libertà che gli stava a cuore sopra ogni cosa; costretto a rinunziarvi, s’era promesso di riguadagnarla a qualunque costo, e la sua facile sottomissione ai consigli del duca non aveva avuto altro scopo che dimostrare, con la propria arrendevolezza, il torto della moglie, unico punto in cui la versione di Pasqualino non mentisse del tutto. L’ideale del suo padrone era di liberarsi della moglie e dell’amica ad un tempo; ma il conto era fatto senza l’oste, cioè senza donna Isabella. Fin dai primordii dell’amicizia con Raimondo, fin da quando, in casa del marito, ella resisteva alla corte del giovane, dimostrandogli simpatia ma opponendogli i doveri del proprio stato, gli aveva detto e ripetuto, con un rammarico che doveva dargli la prova dei suoi sentimenti per lui: «Se ci fossimo conosciuti prima, liberi entrambi! Come saremmo stati felici!...» E quelle parole alle quali egli non credeva lo gelavano, e più lo avrebbero gelato se le avesse credute espressione di un sentimento sincero: come il gran torto di sua moglie era il bene che gli voleva, la pretesa di averlo tutto per sè, di far tutt’uno con lui, torto egualmente grave sarebbe stata una simile pretesa da parte dell’amica. Tuttavia, impegnato a vincere le sue resistenze, anch’egli le aveva ripetuto: «Come saremmo stati felici!» e giurato che l’unico suo sogno era di vivere con lei, per lei. Dopo, aveva tentato di dare addietro; ma donna Isabella, perdutasi per lui, senza famiglia, senza protezione, non intendeva che le sfuggisse. Per ricondurre a sè quel tiepido amante, del quale aveva imparato a conoscere a proprie spese la conformazione, le era bastato addebitare la freddezza di lui all’opposizione dei parenti, alla volontà della moglie. Ognuna di queste allusioni era un colpo di sprone nei fianchi del giovane; impegnato a dimostrarle che era libero di fare ciò che voleva, egli faceva ciò che non voleva.... E il martirio della contessa Matilde era ricominciato, più atroce di prima, accresciuto dal nuovo disinganno, dall’impossibilità di ricorrere al padre, non già perchè ella credesse all’abbandono di cui l’aveva minacciato, ma per una specie d’impegno contratto dinanzi a sè stessa di non confessare l’errore, per l’antica paura d’un urto tra quelle due nature violente.... Suo padre, quand’ella si sentì più sola e perduta, la raggiunse. Il suo cieco amore per la figlia e il non meno cieco odio pel genero avevano reso vani i suoi propositi d’indifferenza; da lontano egli il seguiva di passo in passo, aspettando l’ora d’intervenire: e quando la misura fu colma apparve. E Pasqualino l’aveva proprio udito il colloquio fra suocero e genero, la spiegazione definitiva avvenuta, dopo pochi giorni di calma apparente, giù nelle scuderie del palazzo Rossi, per impedire che Matilde, che le bambine udissero. Alle ingiunzioni sordamente minacciose del barone che gli diceva: «Non vuoi finirla? Non vuoi?» Raimondo aveva risposto col tono consueto di sprezzante superiorità: «Di che intendete parlare? Mescolatevi di ciò che vi riguarda!...» Sì, di ciò che lo riguardava, rispondeva il barone, della pace di sua figlia che gli stava a cuore sopra ogni cosa, che voleva garantita a qualunque costo, a costo di portarsela via e di romperla per sempre.... «E chi vi trattiene? Andatevene pure!» Era appiattato nella stalla, Pasqualino, lì a costo, e se udiva i padroni non poteva vederli; ma a quella risposta del contino, al breve silenzio da cui era stata seguita, aveva sentito un certo senso di freddo in pelle in pelle. «Sì, ce ne andremo.... ma prima....» E allora Pasqualino accorse. Col sangue agli occhi, il pugno levato, il barone aveva già agguantato il genero; ma, senza il cocchiere gettatosi in mezzo, era bastato a Raimondo dire una sola parola: «Facchino!...» perchè tutt’a un tratto il suocero lo lasciasse. Sicuro, l’aveva detta il conte quella parola, Pasqualino non lavorava di fantasia, riferendola: e bisognava aver veduto l’effetto prodotto sul barone! Quel pezzo d’uomo che con un soffio avrebbe buttato a terra il genero piccolo e delicato, che lo avrebbe spezzato come una canna tra le mani grosse e villose, pareva diventato un ragazzo dinanzi al maestro: il contino Uzeda, il minuto e fiacco discendente dei Vicerè fulminava il barone contadino con quella parola, con quell’insulto che diceva la distanza da cui erano separati il signore vizioso ma bene educato e il manesco villano ringentilito. Facchino, sì, approvava Pasqualino: tra persone d’una certa nascita le questioni non vanno definite a pugni: e con quella parola appunto il conte rammentava al suocero l’onore fattogli sposando sua figlia; e se il barone restava immobile come una statua era perchè subitamente riconosceva d’esser nel torto. La parentela con gli Uzeda non gli era parsa una fortuna? L’orgoglio d’essere entrato nella famiglia dei Vicerè non l’aveva accecato al punto di non scorgere per tanti anni il sacrifizio della figlia? Un confuso e quasi istintivo sentimento della propria inferiorità dinanzi al genero non lo aveva impacciato ogni volta che, aperti gli occhi, s’era proposto di rinfacciargli la sua condotta, i suoi vizii, la sua durezza, il sangue avvelenato all’innocente bambina? Facchino, sì; egli meritava l’insulto se, lasciandosi trasportare dall’ira, aveva voluto definire la lite come tra cocchieri; e aveva riconosciuto di meritarlo, ad alta voce, dinanzi al genero, prima di voltargli le spalle. Perchè infatti la scena non era finita in quel punto, aveva avuto una piccola coda che Pasqualino narrava solo a quattr’occhi. «Io facchino.... sì....» aveva balbettato il barone; «ma tu?...» E ad un tratto gli aveva buttato in faccia una parola che il cocchiere ripeteva, piano, all’orecchio delle persone....
Raimondo lasciò allora immediatamente la sua casa, corse dall’amica, la costrinse a far le valigie e la condusse seco in Sicilia.
Dovette costringerla, perchè infatti donna Isabella non era ben sicura dell’opportunità di quel viaggio. Ella vedeva che Raimondo voleva condurla al suo paese per rompere clamorosamente e definitivamente coi Palmi; ma comprendeva pure che soltanto l’eccitazione dei contrasti sofferti e l’impeto dell’odio provocato dalla tempestosa spiegazione determinavano l’amico suo a quel passo, e non l’amore di lei; e sentiva anche che l’ostentazione della loro amicizia, laggiù, in una piccola città, le avrebbe fatto torto, che la morale più o meno sincera della provincia si sarebbe ribellata. Pure, essendo ormai tardi, non riuscendo del resto con le sue osservazioni che ad eccitare maggiormente Raimondo, non le restando altro per trarlo a sè che fare assegnamento su queste eccitazioni, ella era venuta. Gli Uzeda, a ogni modo, sarebbero stati per lei.
Appena arrivata, infatti, donna Ferdinanda, che non ostante le mal sedate inquietudini pubbliche era in città per una sua causa contro certi debitori morosi, venne a trovarli all’albergo, s’informò dell’accaduto, approvò la determinazione di Raimondo con una sola parola, ma molto espressiva: «Finalmente!...» C’erano in città anche Benedetto e Lucrezia che s’era poi fatto coraggio: Raimondo andò a trovarli il domani del suo arrivo. Lucrezia gli restituì la visita nella stessa serata, non curando l’opposizione del marito. Questi giudicava molto severamente la condotta del cognato e, se avesse osato, avrebbe impedito alla moglie di far quella visita; ma Lucrezia dichiarò che non vedeva nulla di male nell’andare a trovare il proprio fratello: era forse obbligata a sapere che «accompagnava» una signora? E andarono all’albergo, dove Raimondo li ricevette solo; ma dopo un poco che discorrevano del viaggio e del tempo, egli andò a picchiare all’uscio della camera accanto, e comparve donna Isabella, la quale strinse la mano a Giulente e baciò Lucrezia. Nè presentazioni, nè spiegazioni, nè nulla. Benedetto, sulle prime, era imbarazzatissimo, non sapeva come trattare, con qual nome chiamare la Fersa; ma ella stessa diede il tono alla conversazione, parlando del più e del meno con molta disinvoltura, come tra vecchi amici, anzi come tra veri parenti. «Pel momento erano all’albergo; ma non potevano naturalmente restarci. Raimondo aveva intenzione di prendere in affitto un quartiere in città; ella giudicava preferibile una villetta, anche per evitare le indiscrezioni della gente.»
Giulente stava per dire che facevano bene, quando Lucrezia esclamò:
— Che c’entra la gente? Se vi nascondete, dirà che avete paura! Parliamo chiaro: vi saranno molti che faranno gli schifiltosi, — donna Isabella chinò gli occhi; — se cominciate voialtri a dar loro ragione, è finita!
Raimondo non disse nulla, aspettando di veder Giacomo che era al Belvedere ed al quale nella mattina aveva spedito Pasqualino per avvertirlo del suo arrivo. Ma il cocchiere tornò con un’aria confusa e mortificata e non sapeva spiccicar parola «È venuto?» gli aveva detto il principe; «e che vuole?...» come ad uno che si presenta per chiedere quattrini. «Niente, Eccellenza.... manda ad avvertire l’Eccellenza Vostra.... desidera sapere quando tornerà in città Vostra Eccellenza....» Con lo stesso tono di voce il principe aveva risposto: «Comincia adesso la villeggiatura; tornerò a novembre....» e gli aveva voltato le spalle. Raimondo, alla narrazione della scena, si morse le labbra; donna Isabella esclamò:
— Che abbiamo fatto!... Tuo fratello ci disapprova! — Ed incolpando solo se stessa: — Ti ho messo in urto con la tua famiglia!...
— La vedremo, — rispose brevemente Raimondo.
Le previsioni di lei si avveravano. I più, senza accogliere nè rifiutare le scuse e le accuse relative al secondo e decisivo abbandono della famiglia, biasimavano Raimondo pel viaggio fatto insieme con l’amica, il soggiorno nell’albergo, l’unione apertamente confessata, quasi sfidando l’opinione pubblica. Egli poteva aver torto o ragione di lagnarsi della moglie; la passione per donna Isabella poteva scusarsi; però i moralisti, i padri di famiglia, le signore più o meno timorate volevan salve le apparenze; e quantunque ci fosse poca gente in città, pure quegli umori si manifestavano in certi freddi saluti rivolti a Raimondo, in certi ambigui discorsi di servitori. In campagna, nelle ville dove la notizia dello scandalo giungeva, tutti discutevano della condotta da tenere verso la coppia al ritorno in città. Molti dichiaravano che avrebbero troncato ogni rapporto; altri, più intimi, perciò più imbarazzati, facevano dipendere la loro risoluzione dal modo col quale si sarebbe comportata la famiglia. Ora l’improvvisa fredda accoglienza del principe a Pasqualino significava chiaro che egli ritirava loro a un tratto il suo appoggio. Dinanzi all’ostacolo Raimondo s’impennava, prendeva l’impegno di vincere; ma come donna Ferdinanda gli suggerì di andare personalmente da Giacomo, egli entrò in una sorda agitazione: era disposto a far tutto fuorchè a pregare quel birbante che, dopo avergli dato mano, gli si schierava contro chi sa per qual fine, fuorchè ad umiliarsi dinanzi a quel fratello del quale per tanti anni, ai tempi della madre, s’era sentito odiato. Poi il pensiero delle dimostrazioni ostili che si preparavano a lui ed all’amica sua lo arrovellava, gli metteva un’altra smania nel sangue. E un giorno prese una carrozza e salì al Belvedere. Giacomo, vedendolo arrivare, gli disse, non nel dialetto familiare, ma in lingua:
— Buon giorno, come stai? — e senza stendergli la mano.
— Bene, e tu? — rispose Raimondo.
— Benissimo, — e il principe si lisciò la barba.
La principessa che si teneva accanto Teresina intenta a ricamare, rispose a monosillabi alle domande del cognato, sentendo pesarsi addosso lo sguardo del marito.
— Resterete ancora un pezzo? — domandò Raimondo, rosso come un papavero.
— Sì, fino a novembre. Te lo mandai a dire, credo.
E lasciò di nuovo cadere il discorso. La bambina volgeva tratto tratto lo sguardo a quello zio di cui non rammentava bene le fattezze, che non l’accarezzava, che suo padre trattava come un estraneo.
— Volevo dirti una cosa, — riprese Raimondo esitante, quasi pauroso, e tanto più crucciato contro sè stesso quanto più cresceva il suo impaccio. — Volevo domandarti se c’è qualche villetta da affittare.... una casetta che faccia per me.... non importa se piccola, purché pulita....
Il principe parve cercare nella memoria.
— No, — rispose. — Tutto è preso, fin da quando passò Garibaldi.
Raimondo che si torceva i baffi nervosamente, insistè:
— Cercherò, ad ogni modo.
E allora il fratello, con voce fredda, senza guardarlo:
— Cerca, se vuoi. È inutile, non ne troverai.
Raimondo andò via pallido, muto e fremente. S’era umiliato per nulla! Colui gli dichiarava guerra! Non lo voleva vicino!...
Il principe, infatti, aveva dichiarato a tutta la parentela ed a tutte le conoscenze che non trovava parole per disapprovare la condotta di Raimondo. «È uno scandalo inaudito! Come non si vergogna? Ha il viso di tornarsene nel suo paese? Ma quando si vuol fare una di queste pazzie, bisogna nascondersi dove più lontano è possibile, dove non si è conosciuti, dove si può dare a intendere ciò che si vuole!» E alla zia donna Ferdinanda che salì un giorno a posta al Belvedere per intromettersi, per indurlo a far come lei:
— La nostra situazione è diversa, — rispose. — Vostra Eccellenza è padrona di pensare ciò che crede, di fare ciò che le piace: può anche prenderseli in casa, non avendo da render conto a nessuno. Io ho mia moglie e mia figlia alle quali non posso metter sotto gli occhi un simile scandalo.
Diceva queste cose dinanzi alla principessa e alla bambina, e le insistenze della zitellona lo trovavano incrollabile nella sua indignazione. Anche Chiara disapprovava il fatto del fratello poichè Federico lo giudicava immorale; non si parla della cugina Graziella, la quale faceva da portavoce al principe. Tutte le parole di costui, per mezzo della zitellona stomacata, dei lavapiatti dolenti, del servitorame pettegolo, arrivavano all’orecchio di Raimondo, il quale fremeva, entrava in collere mute; ma allora donna Isabella, con un sorriso triste:
— Vedi che non puoi durarla! — gli diceva. — Il meglio è che tu mi lasci! Non voglio costarti la pace della famiglia!
Così egli che sentiva aggravarsi le conseguenze del suo passo falso, che in cuor suo malediceva l’ora e il punto in cui aveva posto mente a quella donna della quale era già stufo, per la quale aveva sofferto l’affronto di rinchinarsi al fratello, si stringeva più a lei, per puntiglio le si dava mani e piedi legati. Non la volevano ricevere? Egli le prometteva che avrebbe visto tutti ai suoi piedi. Parlavano male di lei? La assicurava che sarebbe stata sua moglie.
Per aver altri parenti dalla sua, andò a cercare dello zio Eugenio. Il povero cavaliere era molto giù, il commercio dei vecchi cocci non rendeva più niente; e Vittorio Emanuele poteva forse dare una cattedra al Gentiluomo di Camera di Ferdinando II? Così egli aveva lasciato il quartierino dove stava da tanto tempo, s’era ridotto in due camerette più piccole, più fuori mano. Sempre in busca di quattrini, aveva fondato adesso l’Academia dei quattro poeti, di cui era presidente, segretario, economo e tutto, e nominava a destra e a manca socii promotori, fondatori, protettori, effettivi, benemeriti, corrispondenti, onorarii: ciascuno di questi riceveva un diploma, una medaglia di bronzo, lo statuto e una noticina di venti lire di spese; ma sovente la posta, invece del vaglia, gli portava indietro l’involto rifiutato. I parenti lo tenevano un poco a distanza, temendo richieste di quattrini; ma, vedendosi cercato da Raimondo, egli fiutò a un tratto il buon vento. Andò subito a trovare donna Isabella, si dichiarò per lei contro il principe, s’invitò tutti i giorni a colazione e a desinare. Aveva certi abiti che gli piangevano addosso e certe scarpe che, viceversa, gli ridevano ai piedi: pochi giorni dopo mise pelle nuova. Con l’abito fiammante, le camicie di bucato e le mani inguantate accompagnò donna Isabella tutte le volte che ella andò fuori, le fece da cavalier servente, perorò in pubblico e in privato la sua causa dandole della «nipote.»
Anche Lucrezia, a dispetto del marito, si faceva vedere per le strade con lei, la sosteneva, si scagliava con violenza contro il fratello maggiore, spiegandone l’opposizione con un motivo semplicissimo.
— Per la morale? Per farsi pagare il suo appoggio! Scommettiamo? Io non ho dovuto pagargli il suo consenso al mio matrimonio?
— Lucrezia!... — avvertiva Benedetto.
— Che c’è? Non è forse vero? Non ho dovuto accettare la transazione strozzata per sposarti? È storia che tutti sanno! Adesso viene la tua volta, — e si volgeva a Raimondo. — Vedrete se sbaglio! Aveva ragione lo zio don Blasco, quando diceva.... A proposito, perchè non vai a fargli una visita? E a Lodovico? Quanti più saranno dalla tua, tanto meno varranno gli scrupoli di Giacomo. Andiamo insieme, v’accompagno io....
E Raimondo rifece la via del Bosco, andò con la sorella e col cognato a Nicolosi, dove i Benedettini villeggiavano, a mendicar l’appoggio del fratello e dello zio monaci. Don Blasco era a giorno di tutto e, dimenticato a un tratto Garibaldi, non faceva altro, lassù, che gridare come un ossesso contro Raimondo che aveva fatto l’ultimo e più grande imbroglio; poi contro Giacomo, non meno imbroglione del fratello, verso il quale, dopo avergli tenuto il sacco, faceva adesso il puritano: perchè? Per strozzarlo!... All’arrivo dei nipoti, dopo il refettorio, egli dormiva come un ghiro, quando Frà Carmelo lo destò.
— Che c’è? — vociò — Perchè mi rompi il capo?
— Vostra Paternità mi scusi; ci sono i parenti di Vostra Paternità.
Egli venne fuori, e appena vide Raimondo aprì bene gli occhi ancora imbambolati. Come Lucrezia e Benedetto, Raimondo gli baciò la mano. Egli lasciò fare, borbottando:
— Che c’è? A quest’ora? Con questo sole?
— Siamo venuti a fare una visita a Vostra Eccellenza, — spiegò Lucrezia per tutti. — La giornata non è tanto calda. Vostra Eccellenza sta bene? Sono due anni dacchè non venivo più qui.... E Lodovico?
Frà Carmelo, costernato, venne a dire che Sua Paternità il Priore era in conferenza con l’Abate e che non poteva scendere giù pel momento. Raimondo impallidì: anche quest’altro gli dichiarava guerra; si mettevano tutti contro di lui!... Per questa ragione, quando Lucrezia, confabulato con lo zio, propose di fare un giro pel convento, egli disse brevemente:
— No, ho fretta di tornare. Andiamo via.
Il domani mattina, all’albergo, egli non s’era ancora levato che il cameriere venne ad annunziargli:
— C’è lo zio di Vostra Eccellenza.
E don Blasco apparve. Per la prima volta dacchè viveva, Raimondo vedeva lo zio venirgli incontro, l’udiva domandargli, con voce quasi garbata: «Come stai...?» Non pareva vero al monaco, sentendo riprepararsi una gran lite, di poter rificcare il naso nelle faccende altrui. C’era adesso da spingere l’uno contro l’altro i due fratelli, da dar mano a disfare un’altra opera della principessa defunta, il matrimonio di Raimondo: egli si sentiva invitato al suo giuoco.
Donna Isabella si mostrò in veste da camera, gli baciò la mano, dandogli dell’«Eccellenza,» quasi fosse già suo zio; e il discorso si avviò sul da fare. Udendola ripetere che voleva nascondersi in campagna, il monaco saltò su:
— In campagna? Perché in campagna? Per la villeggiatura, va bene, fino a novembre; ma la casa in città bisogna prepararla! Avete paura della gente? Allora perchè siete venuti? Questa è logica, mi pare!
Il consiglio era di chieder subito i conti a Giacomo, di togliergli la procura e di iniziare la divisione: a quelle minacce il principe sarebbe subito venuto a più miti consigli. Ma giusto il domani della visita del monaco, scese il signor Marco dal Belvedere per dire al conte che il signor principe voleva restituirgli la procura e dargli i conti, una volta che era tornato in patria. Raimondo mandò via l’amministratore con un violento: «Ho capito; va bene!...» e un malumore terribile lo tenne a bocca chiusa per tutto un giorno. Donna Isabella, costernata, gli ripeteva: «Non vedi? Io ti porto disgrazia! Lasciami andare! Sarà di me quel che vorrà Dio....» E allora egli di rimando: «No; ho da vincer io!...»
Giusto Lucrezia, che oramai era tutta una cosa con la cognata della mano manca, fece una pensata:
— Giacchè non potete stare sempre all’albergo, e ora è il tempo della villeggiatura, perchè non ve ne andate alla Pietra dell’Ovo, da Ferdinando? Ha tanto posto; vi darà due camere. Starete con un parente e la cosa farà buon effetto.
Tutti approvarono la proposta. Nè Raimondo era ancora andato a trovar quel fratello, nè Ferdinando sapeva che Raimondo era tornato: dalla tanta indifferenza, dalla tanta diversità di educazione, di gusti, di vita, erano diventati peggio che estranei, ciascuno ignorava l’esistenza dell’altro. Lucrezia, incaricatasi delle trattative, andò alle Ghiande. Non vedendo il Babbeo da molti mesi, rimase. Egli era dimagrato come dopo una lunga malattia, aveva gli occhi infossati, la barba incolta, la voce fioca, una malinconia più nera dell’abituale.
— Venga pure.... è il padrone.... — rispose alla sorella, senza esprimere nessuna meraviglia pel ritorno di Raimondo, per la richiesta dell’ospitalità.
— Ma, sai, ti debbo dire una cosa.... — aggiunse Lucrezia. — Non è solo....
— È con sua moglie?
— Con sua moglie, sì.... come se fosse sua moglie....
E gli spiegò che aveva lasciato la Palmi, che era con la Fersa. Ferdinando stette ad ascoltarla guardando a destra ed a sinistra, quasi avesse smarrito qualcosa, poi ripetè:
— Va bene, va bene; digli che venga quando gli piace.
Arrivati che furono alle Ghiande, Raimondo e donna Isabella vollero visitare la casa, il giardino e il podere, e profusero elogi per l’ottima coltivazione della vigna e pel magnifico aspetto del frutteto, approvarono la trasformazione delle colture, ammirarono ogni cosa. Ma le lodi non facevano più sul povero Babbeo l’effetto d’un tempo. Una trasformazione erasi compita nel suo spirito, le cose che prima lo allettavano adesso lo lasciavano indifferente, la vita del Robinson aveva perduto per lui ogni attrattiva, senza di che non avrebbe consentito a prendere altra gente in casa. Il fattore era adesso il vero padrone delle Ghiande, vi faceva quel che voleva, le coltivava a modo suo, ne intascava le rendite mostrando al cavaliere le bucce. Se talvolta, preso da uno scrupolo, gli chiedeva qualche ordine, Ferdinando rispondeva: «Lasciatemi stare! Non mi parlate di nulla! Per me è finita... Avrò sei mesi di vita, forse.... Potete prepararmi il cataletto....»
La cosa era andata a questo modo: che il libraio, dal quale aveva comperate le opere d’agricoltura, di meccanica e di storia naturale, trovandosi una quantità di opuscoli di medicina d’ignoti autori, tesi di laurea di dottori asini, vecchi ricettarii farmaceutici, fascicoli spaiati di enciclopedie anonime, tutta cartaccia che non si poteva vendere altrimenti che a peso, glie ne propose un giorno l’acquisto dandogli a intendere che c’era dentro il fior fiore della dottrina. Egli la pagò salata, e si mise a leggere tutto. Allora la sua mente cominciò a turbarsi. La descrizione dei morbi, l’enumerazione dei sintomi, la difficoltà delle cure lo atterrì: chiuso nella sua camera, col libro in una mano, egli si teneva l’altra sul cuore per verificarne il numero dei battiti, o si palpava dappertutto con lo spavento di scoprire i tumori, gli incordamenti, le dislogazioni di cui parlavano i medici. A poco a poco, per un colpo di tosse, per una digestione difficile, per un dolor di capo, per un leggiero prurito, per un formicolìo in pelle in pelle credette d’avere tutte le malattie; e quell’idea, ficcatasi nel suo cervello di solitario misantropo, aveva compita una devastazione. La morte, per lui, era questione di tempo; e giusto la paura di dover morire solo, il bisogno di vedersi dinanzi un viso amico lo aveva persuaso a prendere con sè il fratello.
Quando questi vide che non mangiava quasi nulla, che stava chiuso in camera, che certi giorni neppur si levava, cominciò a chiedergli che aveva, se si sentiva male; e sulle prime, quasi arrestato da una specie di pudore, egli si tenne sulle negative; messo alle strette, confessò. Aveva un catarro intestinale cronico, un’espansione della milza, una bronchite lenta; l’erpete gli serpeggiava nel sangue, il sistema glandolare gli s’era ingorgato. Come Raimondo rideva di quell’enumerazione, egli soggiunse, con voce triste e quasi con le lacrime agli occhi:
— C’è poco da ridere, sai! Credi che siano fantasie? So io quel che soffro!...
— Allora perché non chiami un medico?
— Un medico? Che possono fare i medici? Al punto in cui sono ridotto?
E non ci fu verso di persuaderlo. Allora entrò in iscena donna Isabella. Invece di contrariare il maniaco, prese a secondarlo: riconobbe l’esistenza e la gravità delle sue malattie, l’inutilità delle prescrizioni mediche; però, se i dottori ci perdevano il latino, non poteva egli provare almeno qualcuno di quei rimedii empirici che certe volte fanno miracoli?
— Quand’ero ragazza anch’io ebbi un catarro intestinale lungo e ostinato più del vostro. Sapete come andò via? Con l’insalata di lattughe!
E glie ne fece preparare un piatto, come contorno d’una gran fetta d’arrosto sanguinolento. Ferdinando si mise a mangiare come Cristo all’ultima cena: non aveva fiducia nel risultato, era sicuro che quella roba avrebbe affrettato la sua fine.
— Adesso bisogna farci sopra una bella passeggiata! — e offertogli il braccio, come ad un povero convalescente, lo condusse a spasso pel giardino.
Non parve vero al malato, il domani, di svegliarsi vivo e con un certo appetito. L’insalata e l’arrosto, in poco tempo, fecero miracoli; ma restava da guarire il prurito al quale egli dava il nome di erpete.
— Per questo il rimedio è ancora più semplice: fate un bel bagno d’acqua dolce.
Da mesi e mesi, egli non si lavava altro che la punta del naso e delle dita, due o tre volte la settimana, per paura di prendere una polmonite; così l’erpete andò via. Il latte, le uova, il moto, la nettezza lo ritornarono in vita, e dalla gratitudine verso donna Isabella gli spuntavano i lucciconi:
— Che donna! Che testa! Che intelligenza!
Conosceva poca gente, ma tutte le volte che si trovava con qualcuno cominciava a parlar di lei con tanta ammirazione, come fosse la donna più saggia e virtuosa, un angelo sceso dal cielo. Presa l’abitudine di muoversi, se ne andava dalla sorella Lucrezia, faceva visita alle poche persone che conosceva, e non ristava dal parlar di lei.
— Quanto bene vuole a Raimondo! Che cura ha della casa! Quel che ha fatto per me non si può ridire! Se non era lei, a quest’ora sarei morto e sepolto!
Un giorno arrivò da Lucrezia mentre moglie e marito discutevano vivamente: al suo apparire essi tacquero.
— Di che parlavate?
— Si parlava della situazione di Raimondo, — rispose sua sorella, decidendosi di metterlo a parte del secreto. — Non può durare a lungo così. Bisogna pensare a legittimarla, sciogliendo i matrimonii.
Ella annunziava quel partito con la stessa semplicità con cui Raimondo e donna Ferdinanda lo avevano partecipato a lei. Chiedere ed ottenere il doppio annullamento di matrimonio era, per gli Uzeda, una cosa semplicissima: chi poteva negare ai Vicerè ciò che essi volevano? La loro volontà non doveva esser legge per tutti? Non possedevano essi tutti i mezzi materiali e morali per vincere gli ostacoli e le resistenze? Avevano clientele dappertutto, tra i borbonici e i liberali, in sacrestia e in tribunale: i nobili erano con loro per solidarietà, gli ignobili per rispetto: ognuno doveva essere superbo e lieto di render loro servizio. Bisognava, per riuscire in questa impresa, esser bene indirizzati; perciò volevano l’opera di Benedetto. Come la prima volta che glie ne avevano parlato, Benedetto titubava, arrestato dagli scrupoli, con la coscienza del male che gli facevano commettere, delle difficoltà enormi dell’impresa, del dispiacere che avrebbe fatto allo zio duca, tanto amico di Palmi; ma sua moglie insisteva a dimostrargli che gli scrupoli erano sciocchi, che anzi l’opera sarebbe stata meritoria.
— Se domani nasce un figlio? Sarà condannato a restare bastardo? Raimondo non riprende più sua moglie, certo com’è certa la morte. Allora? Meglio mettersi in regola con la legge e la società! Non dico bene?
E Ferdinando, rivolto al cognato:
— Ne dubiti forse?... Ma come ragioni?... Dov’hai la testa?
Benedetto tentava dimostrare che non ragionavano loro invece; che i figli già nati c’erano e che bisognava pensare a questi prima che ai nascituri, ma Lucrezia e Ferdinando gli davano sulla voce, tutt’e due insieme:
— C’è la famiglia della madre che pensa alle figlie! Nostro fratello le rinnegherà per questo?... E gl’interessi saranno regolati come vogliono i Palmi.... Se i matrimonii sono sciolti di fatto, perchè non scioglierli di diritto? Chi ci guadagna? La gente che ci fa sopra i suoi commenti!
E questo era il pungolo di Raimondo. Quanto maggiori difficoltà aveva incontrato nella via per la quale s’era messo tanto più s’era incaponito a persistervi: l’opposizione del fratello, l’ostinazione degli estranei, il biasimo quasi universale lo spingevano a vincer la partita in un modo imprevisto da tutti e da lui stesso. Egli non pensava più che la sua passione era stata quella della libertà, che donna Isabella, come moglie, gli sarebbe pesata più della moglie, e che gli pesava già come amante; impuntato, accecato dall’opposizione, dalla disapprovazione, dal biasimo, voleva trionfare degli avversarii, sbaragliarli con un colpo di cui si sarebbe parlato un pezzo.... Dicevano che l’impresa era disperata, che il doppio scioglimento non si sarebbe mai ottenuto, che donna Isabella era condannata a restare in una falsa posizione, bandita dalla società, dalla stessa casa del principe? Egli metteva i piedi al muro, deciso a spuntarla a qualunque costo, contro tutto e tutti. E Lucrezia, Ferdinando, donna Ferdinanda, don Blasco lo aiutavano ciascuno per conto e a modo proprio, congiuravano per vincere le ultime resistenze di Benedetto, che all’idea di contentare sua moglie, di cattivarsi la fiducia, la stima e la gratitudine dei parenti sentiva ammorzarsi a poco a poco i rimorsi.
Al principio dell’inverno, quando il principe tornò dalla villeggiatura, non si parlò d’altro che della rottura tra i due fratelli. Giacomo non solamente non salutò Raimondo, incontrandolo per via, ma non tollerò neppure che toccassero in sua presenza il tasto dei pasticci di lui. Per tanto tempo, mentre il fratello minore era stato in Toscana, o era andato e tornato di qua e di là, col capo all’amica, l’eredità era rimasta indivisa, e il principe l’aveva amministrata anche nell’interesse e per procura del coerede; adesso, per troncare ogni rapporto con lui, gli mandava il signor Marco a notificargli che rinunziava la procura e voleva subito subito dargli i conti e venire alla divisione. Quella trombetta della cugina Graziella annunziava a tutti queste cose, e dovunque si trovava, tra parenti od amici o semplici conoscenze, approvava il cugino Giacomo, esprimeva il grande dispiacere che «a noi della famiglia» cagionava l’ostinazione di Raimondo. Come mai poteva egli del resto sperare di ottener l’intento? Dicevano che donna Isabella chiedesse lo scioglimento del matrimonio perchè non era stato consumato! Ma a chi volevano darla a bere? Perchè non c’erano figli? Non sapevano tutti che Fersa, giovanotto, avea corso la cavallina?.... O forse speravano di poter sostenere, come dicevano certi altri, che donna Isabella era stata forzata a sposar Fersa, senza volerlo? Questa doveva essere fatica particolare del Giulente! «Guardate un po’ che immoralità! sostenere una causa condannata da tutti, che fa tanto dispiacere alla famiglia! È venuto a ficcarsi tra noi per metter guerre e liti, questo avvocato delle cause perse!...» Ma ella prevedeva un fiasco colossale. Già, cominciamo che il tribunale civile non era buono ad annullare un matrimonio contratto sotto il codice napoletano del 1819; bisognava rivolgersi alla Corte vescovile; ma qui cascava l’asino, perchè Monsignor Vescovo, e il vicario Coco e il canonico Russo e tutti i maggiorenti della Curia erano col principe contro il conte, giustamente, sapendo i torti di Raimondo e della Fersa, non potendo metter mano a sanzionare uno scandalo di quella fatta!...
Dall’altra parte i fautori del conte e di donna Isabella davano sicura la riuscita. L’impotenza di Fersa, la violenza patita da sua moglie erano affermate da una quantità di persone; ma specialmente Pasqualino sonava la campana per conto del suo padrone. Sissignori: il cavaliere Giulente, e non avvocato, studiava e dirigeva la causa del cognato, piuttosto che lasciarla in mano di qualche strascinafaccende di quelli da quattro il mazzo; ma del resto egli non aveva molto da faticare, perché il motivo della nullità del matrimonio di donna Isabella era chiaro e lampante. Lasciamo stare che Fersa non era precisamente un vulcano, come uomo; ma lo zio di lei l’avea costretta a prenderselo mettendole il coltello alla gola: altro che la storia della signorina Chiara! Almeno la principessa, sant’anima, avea cercato di prendere sua figlia con le buone, ricorrendo alle minaccie soltanto all’ultimo, dopo due anni di persuasioni e di preghiere; ma lo zio di donna Isabella? Bastonate mattina e sera, fin dal primo momento che la ragazza aveva detto: «Meglio morta che sposar Fersa!» Come Pasqualino, tutta la servitù, la minuta clientela della famiglia era, nonostante l’opposizione del principe, favorevole al contino; questi, per accaparrarsi simpatie, non faceva più venire, come un tempo, le sue robe da Firenze o da Napoli, ma dava ogni genere di commissioni in città, e il sarto, il calzolaio, il cravattaio, onorati dai comandi del contino Uzeda, lo portavano al cielo, peroravano in favor suo, tenevano fronte agli scandalizzati. V’era gente che rammentava l’amore di donna Isabella per Fersa? Rispondevano adducendo infinite testimonianze contrarie: da Palermo sarebbero venuti tutti i servi di casa Pinto, pronti a giurar sul Vangelo che l’orfanella era stata picchiata di santa ragione dallo zio tutore, perchè costui, senza badare che Fersa, se aveva quattrini, non nasceva bene, voleva darglielo per forza. Dicevano che queste testimonianze erano sospette, ottenute per via di quattrini? Enumeravano gli amici palermitani di casa Pinto, don Michele Broggi, il cavaliere Cutica, il notaio Rosa, tutti superiori al sospetto di corruzione, citati da donna Isabella perchè testimoniassero le sevizie usatele, i rifiuti costanti da lei opposti. Che più? Lo stesso zio sarebbe venuto a confermare la violenza esercitata!... «E poi?» esclamava da suo canto la cugina. «Dopo che avranno sciolto questo matrimonio? Credono di poter riuscire a sciogliere quell’altro? Non sanno che cosa ha detto Palmi?» E narrava che quell’accattabrighe di Giulente gli aveva scritto per ottenere che anche lui, il barone, consentisse allo scioglimento del matrimonio di sua figlia, testimoniando d’averla forzata a prendersi il conte Uzeda. Per amore della verità, spiegava che Giulente s’era dapprima rifiutato, parendogli una cosa troppo enorme, proponendo, se mai, di affidare questa missione al duca che era intimo del senatore. Ma sì! il duca aveva altro pel capo! Se ne stava a Torino, badando ai suoi affari, non voleva tornare in Sicilia per paura che la sua lontananza durante le agitazioni dell’anno precedente gli avesse fatto torto; e quando gli scrivevano dell’affare di Raimondo rispondeva che per nulla al mondo voleva mescolarvisi. Giulente, dunque, per contentar la moglie, il cognato e gli zii, aveva dovuto rassegnarsi a rivolgersi lui al barone. «Sapete quanto tempo ha impiegato a scrivere la lettera?» aggiungeva la cugina, informata di tutti i più piccoli particolari. «Una settimana! Ha stracciato una risma di carta! Sfido io! Come dire a un cristiano: consentite che il matrimonio di vostra figlia si sciolga, che le vostre nipoti restino senza padre!...» Ma la lettera, piena d’espressioni riguardose, di complimenti, di scuse, era partita: e Giulente aspettava ancora la risposta!... L’avrebbe aspettata un pezzo! Chè per mezzo di certe persone di Messina, la cugina sapeva quel che aveva detto il barone a un amico, stringendo il pugno: «Voglio piuttosto veder morire tutti quanti!.....» Perchè infatti la «povera Matilde» moribonda dai tanti dispiaceri, indifferente a tutto oramai, comprendendo che non c’era più alcun riparo, avrebbe anche contentato l’ultima pretesa del marito! il barone, invece, faceva certi giuramenti tremendi per dire che mai, mai, lui vivente, suo genero sarebbe riuscito a rompere il matrimonio: sapeva bene che era spezzato di fatto, ma voleva che Raimondo restasse incatenato per tutta la vita, che la Fersa non potesse prendere, dinanzi al mondo, il posto della propria figliuola....
Anche Pasqualino sapeva tutto questo; ma al cocchiere di donna Graziella, che, tenendo per la padrona, gli prediceva il fiasco del conte: «Un po’ per volta!» rispondeva. «Lasciate che si finisca la prima causa!... Quando la padrona sarà libera, penseremo a liberare anche il padrone!... Adesso non hanno a decidere i canonici, ma i giudici civili. Con la legge di Vittorio Emanuele, il matrimonio dinanzi alla chiesa vale un fondello, e solo ha peso quello dinanzi al sindaco: abbasso Francesco II! Viva la libertà!...» Ma donna Ferdinanda, Lucrezia, tutti i sostenitori di Raimondo non si contentavano di una sentenza civile; volevano legittimare la situazione di Raimondo e di donna Isabella dinanzi agli uomini e a Dio. Per questo, Ferdinando il quale era intimo del canonico Ravesa, pezzo grosso della Curia e proprietario d’una vigna attigua alle Ghiande, gli parlava tutti i giorni a favore del fratello, e don Blasco andava tutti i giorni dal Vicario Coco, intronandolo con le clamorose dimostrazioni della convenienza, della giustizia, della necessità di quell’annullamento di matrimonii; della stramberia, della prepotenza, della birbonaggine del principe che la contrastava. Il pezzo più grosso da guadagnare era però monsignor Vescovo; il quale adesso non faceva nulla senza l’approvazione del Priore don Lodovico. Questi, persuaso che l’abolizione delle comunità religiose era quistione di tempo, disinteressatosi di S. Nicola, s’era rivolto al Vescovato, dove la sua nascita, la sua reputazione d’intelligenza, di dottrina e di santità gli avevano spalancato le porte. In poco tempo, com’era già stato il braccio destro dell’Abate, era diventato il braccio destro del capo della diocesi: la prudenza dei suoi consigli, l’eccellenza della sua posizione, a cavaliere di tutti i partiti, lo avevano reso indispensabile in molte circostanze delicate, quando bisognava conciliarsi le nuove autorità politiche senza tradire le «legittime», salvar capra e cavoli, servir Cristo e Mammone. Ora, se egli avesse detto una parola a favore di Raimondo, il matrimonio di donna Isabella sarebbe stato annullato; ma a donna Ferdinanda che gli si metteva alle costole per guadagnarlo alla causa della sua protetta, il Priore rispondeva ambiguamente, adducendo le difficoltà da superare, l’imbarazzo in cui lo mettevano.
— Sciogliere un matrimonio è una cosa grave...... Vostra Eccellenza sa bene quanto la Chiesa sia giustamente contraria a pronunziare sentenze di questo genere, come vada coi calzari di piombo. Essa non può contentarsi di certe prove e di certe ragioni... Queste potevano forse bastare ai giudici secolari, la cui responsabilità non è impegnata dinanzi alla Maestà divina. Mi duole moltissimo, in coscienza, di vedere Raimondo messo per una via falsa... Dopo questa causa ne verrà una seconda, lo scandalo è immenso... Io ho i miei doveri da compiere... La mia coscienza...
— Coscienza?... Coscienza?... — Donna Ferdinanda che stava a sentirlo a bocca chiusa e a denti stretti, una volta cantò: — Lasciala da parte la coscienza! Di’ piuttosto che non gli hai ancora perdonato d’aver preso il tuo posto e glie la vuoi far pagare, ora che l’hai nelle forbici!...
Il Priore impallidì repentinamente, guardando un istante in viso la zia che lo guardava fisso anche lei, come se gli volesse leggere nell’anima. Poi chinò il capo, portò le braccia in croce sul petto:
— Vostra Eccellenza m’affligge crudelmente... Sa bene che le passioni del mondo sono straniere al mio cuore... che io amo mio fratello come rispetto Vostra Eccellenza!... Dica questo a Raimondo; mi fornisca l’occasione di darne la prova....
Donna Ferdinanda andò pertanto da Raimondo per dirgli di recarsi personalmente dal fratello e di raccomandarglisi. Un momento, il giovane si ribellò. Era stanco di pregare e di umiliarsi, di far la corte a Ferdinando e a Giulente per guadagnarli alla sua causa, di imbeccare Pasqualino e gli altri portavoce. S’era già umiliato una volta dinanzi a Giacomo e non gli era valso nulla; s’era umiliato anche dinanzi a Lodovico, quando era andato a Nicolosi, e il fratello non s’era lasciato vedere. Adesso bisognava gettarsi ai piedi di cotesto gesuita, chiedergli perdono del posto sottrattogli, implorarne col perdono la protezione e l’appoggio. Era troppo, non ne poteva più. Le mortificazioni dell’amor proprio gli cocevano sopra tutto, gli facevano stringer le pugna e mordersi le dita e quasi spuntar le lacrime agli occhi... Ma giusto, finita la villeggiatura, tornati tutti in città, la parentela e la nobiltà si schierava col principe contro di lui. La cugina Graziella andava dicendo dovunque che neppure la causa civile sarebbe andata avanti, che i giudici avrebbero essi fatto un processo per falsa testimonianza a chi sarebbe venuto a deporre pel mancato consenso; figuriamoci poi la causa ecclesiastica!
E una domenica donna Isabella, che era scesa in città per far certe compere, tornò alle Ghiande con gli occhi rossi.
— Che hai? — le domandò Raimondo, quasi bruscamente, quasi pronto a sfogare contro di lei, causa prima di tutto quello che gli accadeva.
— Nulla... nulla... — e piangeva dirottamente.
Egli dovette alzar la voce per sapere il motivo di quel pianto. La sua amica aveva incontrato per via i Grazzeri e la cugina Graziella; la cugina s’era voltata dall’altra parte, Lucia e Agatina Grazzeri non avevano risposto al suo saluto, fingendo di non vederla..... Il giorno dopo egli salì a San Nicola, cercando del Priore.
Lodovico lo ricevette a braccia aperte, lo ascoltò con attenzione benevola. Raimondo gli disse, un po’ pallido: «Ti prego d’aiutarmi...» Invocava il suo appoggio per uscire dalla falsa situazione in cui si trovava. Era urgente legittimarla per una potente e nuova ragione che nessuno ancora sapeva, che confidava a lui prima che ad ogni altro: donna Isabella era incinta.... Con gli occhi quasi chiusi, il capo un poco piegato, le mani raccolte in grembo, il Priore pareva un confessore indulgente ed amico: non una contrazione del viso, non una dilatazione del petto svelava l’intima soddisfazione di vedersi finalmente dinanzi, sommesso e quasi supplice, il ladro che lo aveva spogliato, pel quale era stato bandito dalla famiglia e dal mondo.
— Tu puoi aiutarmi, mettere una buona parola... — continuava Raimondo, — far considerare che in fondo non si domanda se non giustizia... perché la volontà di Isabella fu violentata; trenta testimoni proveranno la verità....
— Lo so! Lo so!... — rispose finalmente il Priore. — Io non t’avrei neppure ascoltato se non conoscessi che la ragione sta dalla vostra parte!
— Allora, posso fare assegnamento su te?
— Certo, certo!... Ma c’è un’altra quistione.... Nel caso presente, non si tratta tanto di giustizia astratta, quanto di prudenza mondana. Sicuramente, noi dobbiamo render conto solo a Dio delle nostre azioni, ma perchè la nostra coscienza s’acqueti del tutto, non dobbiamo e non possiamo perder di mira l’effetto che i nostri giudizii sono capaci di produrre!... Ora, come vuoi che questo provvedimento sia stimato giusto, se nella nostra stessa famiglia, se il capo della nostra casa, non riconosce le tue ragioni e ti condanna con tanta severità?...
— E se Giacomo si piega? — insistè Raimondo.
— Sarà un gran passo innanzi! Vedrai che l’opinione pubblica lo seguirà, che tutti quelli finora dichiaratisi tuoi avversarii ti sosterranno concordi. Allora sarà molto più facile ottenere l’intento. Lo stesso Giacomo potrà giovarti presso i giudicanti molto meglio di me. Sai bene quali relazioni egli ha tra quanti circondano Monsignore.... una sua parola varrà molto più della mia....
E questa era la dimostrazione a cui voleva arrivare attraverso tante parole. L’affare di Raimondo, tutto quel pasticcio di matrimonii da sciogliere e da ristringere non gli piaceva: il biasimo sordo del gran pubblico gli era noto e lo metteva in guardia contro l’errore di sostenere una cattiva causa, il trionfo della quale, del resto, non gli avrebbe menomamente giovato....
Raimondo, tornando alle Ghiande, mandò a chiamare il signor Marco. Chiusi in camera tutt’e due, restarono pochi minuti a confabulare. L’amministratore tornò il domani e poi il giorno dopo, restando sempre più a lungo. Un pomeriggio Ferdinando era buttato sul letto a dormire, quando l’abbaiare dei cani lo destò di repente; il fattore già picchiava all’uscio.
— Eccellenza! Eccellenza!.... C’è qui suo fratello.... Il signor principe....
Egli balzò in piedi, stropicciandosi gli occhi. Giacomo da lui? Adesso che c’era Raimondo? E se si fossero incontrati?....
— Vengo subito.... trattienilo tu.... ma non dir nulla....
— Come, Eccellenza?... Se i suoi fratelli stanno parlando insieme?... C’è anche la principessa...
Sceso giù a precipizio per evitare qualche guaio, Ferdinando entrò nel salotto e trovò i fratelli e le cognate che chiacchieravano allegramente.
— Passavamo di qui, — gli disse il principe, — e abbiamo pensato di farvi una visita...
Il domani, nella Sala Gialla, la cugina Graziella, venuta prima di colazione e trovata la principessa in compagnia di don Mariano, se la prendeva con più calore del solito contro Raimondo e l’amica sua, narrava i loro nuovi armeggii, le istanze fatte allo zio duca perchè prestasse la sua autorità di deputato per ottenere lo scioglimento dei matrimonii, perchè persuadesse il suo amico Palmi ad acconsentirvi. La principessa, sui carboni ardenti, si faceva di mille colori, alzava, abbassava e girava gli occhi, pareva invocare l’intervento di don Mariano; e don Mariano tossicchiando un poco voleva avvertire la cugina di non insistere; ma questa continuava con nuova lena:
— Almeno, avessero un po’ di pazienza! Si libereranno egualmente, perché la povera Matilde sta per morire... Pare che vogliano affrettare la sua fine!... Tutte queste notizie figuratevi che effetto le fanno!... Ma suo padre giura più terribilmente di prima che non acconsentirà mai a fare il comodo loro.... Sua figlia lo scongiura di desistere perchè anche a lui, quando arrivano di queste notizie, è come se gli pigliasse un colpo apoplettico.... Veramente, è un po’ troppo!... Qui sotto c’è lo zampino della zia Ferdinanda!... Non credete giunto il punto di avvertirli che siano più prudenti?...
La principessa non ebbe il tempo di rispondere, di nascondere il nuovo imbarazzo in cui quella domanda la gettava, quando Baldassarre, entrato senza far rumore, annunziò con la consueta sua bella serenità:
— Il signor conte e la signora contessa.
La cugina restò di sale. Raimondo? La contessa? Quale contessa?... E donna Isabella apparve, andò incontro alla principessa che le veniva incontro, l’abbracciò e la baciò sulle due guance.
— Come stai, Margherita? Ero impaziente di restituirti la tua cara visita di ieri....
Si davano del tu! La Fersa trovava modo di dire che Margherita era già stata da lei! E il principe sopravveniva, stringeva la mano a Raimondo, dicendo:
— Cognata e cugina, resterete a colazione con noi?...