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Capitolo 5
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«Il duca d’Oragua!.... Il deputato, il patriotta!.... Dov’è? Dov’è?.... Eccolo lì!.... È ingrassato!... Manca da quasi tre anni!.... Viene da Torino?.... Signor duca!.... Eccellenza!....» E qui saluti ed inchini a destra e a sinistra, certuni che si tiravan da canto una decina di passi prima d’incontrarlo, e si scoprivano come al passaggio del Santissimo Sacramento: tutti che si voltavano a seguirlo un pezzo con gli occhi quand’era già passato. Pochi godevano il privilegio di poterlo accostare, di stringergli la mano, di chiedergli le sue notizie; pochissimi, gli eletti, potevano onorarsi d’accompagnarlo, di scortarlo, di mescolarsi al codazzo degli intimi ammiratori ed amici che lo seguivano su e giù, alla prefettura, al municipio, ai circoli. Ed egli teneva il centro della strada, quasi ne fosse il padrone, ascoltato devotamente da quanti gli stavano a fianco, aspettato da tutta una corte intenta a tessere e a ritessere le sue lodi quando, per un piccolo bisogno imperioso, egli s’accostava a un cantone. Al palazzo, lo stesso andirivieni d’un tempo: elettori, sollecitatori, delegazioni di società politiche che tornavano a ringraziarlo a voce, dopo averlo ringraziato per iscritto, del bene che aveva fatto al paese ed ai concittadini: grazie a lui, la prima ferrovia a cui s’era messo mano in Sicilia era quella da Catania a Messina, e il porto aveva numerosi approdi di piroscafi, e la città era stata dotata di numerose scuole, d’una ispezione forestale, d’un deposito di stalloni; e un istituto di credito, la Banca Meridionale, stava per sorgere; e il governo prometteva d’intraprendere una quantità d’opere pubbliche, di aiutare il municipio e la provincia; e i buoni liberali, i figli della rivoluzione, ottenevano a poco a poco quel che chiedevano: un posto, un sussidio, una croce.
La sua popolarità toccava l’apice. Alcuni, è vero, gli rimproveravano l’assenza durante i fatti del ’62, addebitandola alla paura, e tiravano in ballo le storie del Quarantotto, lo accusavano d’essersi finalmente rammentato del collegio adesso che, sciolta la Camera, voleva gli riconfermassero il mandato; ma questi mormoratori erano gli eterni malcontenti, i pochi repubblicani, qualche garibaldino sfegatato, tutta gente che non poteva perdonare al duca la sua ascrizione al partito di destra. Nelle conversazioni politiche egli difendeva infatti a spada tratta la politica moderata, «ora che abbiamo fatto la rivoluzione e raggiunto lo scopo;» e celebrava l’azione prudente del governo, deplorava le intemperanze di Garibaldi, biasimava l’agitazione contro la Convenzione di settembre, affermava che la lega dei buoni era necessaria per salvar la nazione dai nemici esterni ed interni. Più che nei primi tempi della deputazione, faceva colpo mentovando i suoi grandi amici politici: «Quando andai da Minghetti.... Rattazzi mi disse.... In casa del ministro....» Però non citava più il barone Palmi; se gli parlavano delle gesta del nipote Raimondo, faceva con le spalle e col capo un breve moto che poteva dir tutto, secondo l’umore dell’interrogato: approvazione, compatimento, biasimo. Ma oramai la situazione di Raimondo e di donna Isabella era legittima, e tutti i parenti, dopo l’esempio del principe, li trattavano come marito e moglie. In meno di sei mesi, la Corte vescovile, riconosciuto che il matrimonio era stato contratto per forza e con la paura, aveva liberato la Fersa.
Per quello di Raimondo con la Palmi c’era stato un poco più da fare. Da principio, aspettavano che il barone si decidesse anche lui a chiedere l’annullamento del matrimonio della figlia, asserendo di averla forzata a contrarlo; ma il barone, «testa di villan cocciuto» spiegava Pasqualino, aveva e avrebbe sempre detto di no, fino al momento di tirar le cuoia, quantunque sua figlia — felice memoria — si fosse finalmente posto il cuore in pace, specialmente sentendo che il primo matrimonio non esisteva più e che il conte aveva un figlio da legittimare. La signora donna Matilde — giustizia innanzi tutto! — nonostante le sue stravaganze era ragionevole in fondo, e sapendosi del resto malata, comprendendo che un po’ prima un po’ dopo, il conte sarebbe rimasto libero, s’era persuasa di pregare il padre che consentisse allo scioglimento del matrimonio civile. Del religioso, no, perchè aveva certi suoi scrupoli un po’ curiosi sulla santità del sacramento; ma basta! il contino si sarebbe contentato dello scioglimento civile. I conti eran però fatti senza la mulaggine del barone villano, il quale giurava di voler prima morta la figliuola che consentire alla liberazione del genero!... Ah, no? E allora il contino aveva chiesto lui d’essere sciolto, adducendo che la madre lo aveva costretto a prendersi quella moglie!
Sapevano tutti che donna era stata la principessa, con quanta prepotenza s’era imposta ai figli. Non aveva violentata la volontà di Chiara, per darle il marchese di Villardita? Così aveva violentata quella di Raimondo per dargli la Palmi! Decine, centinaia di testimonii affermavano che il contino mai e poi mai aveva voluto prender moglie: prima di tutti la parentela, il principe, le sorelle, i cognati, gli zii, le cugine; poi gli amici, poi la servitù, poi tutta la città. Ma per ottenere lo scioglimento del matrimonio bisognava dimostrare che all’atto di pronunziare il sì che lo legava per sempre don Raimondo avesse provato un timor grave: e allora il cavaliere don Eugenio era venuto innanzi al magistrato per testimoniare che la principessa sua cognata aveva fatto accompagnare il figliuolo alla parrocchia da due campai armati, i quali, se egli avesse risposto no, dovevano legarlo, buttarlo in fondo a una carrozza che stava ad aspettare vicino alla chiesa e portarlo in campagna per usargli le maggiori sevizie. Dai feudi di Mirabella erano venuti i due campai a confermare la testimonianza, e il cocchiere l’avea suffragata per suo conto, e il sagrestano pure. Così il tribunale aveva fatto giustizia.
E certa gente — Pasqualino non se ne dava pace! — pretendeva che quelle testimonianze fossero false, che i campai fossero stati pagati, che don Raimondo avesse dato una bevuta di trecent’onze allo zio don Eugenio! Quasi che don Eugenio Uzeda di Francalanza, Gentiluomo di Camera di Sua Maestà Ferdinando II (senza esercizio perché Ferdinando non era più di questo mondo e i suoi discendenti avevano ricevuto il benservito) fosse capace di un’azione di questa fatta! Quasi che i giudici fossero gente da accettare deposizioni non vere! Altri volevano dare a intendere che, come uomo, il contino non poteva spaventarsi delle minaccie, e che non s’era mai dato il caso d’un annullamento di matrimonio per costrizione della volontà dello sposo. Non s’era ancor dato, e adesso si dava: oh bella, che ci trovavano da ridire? Non ci aveva trovato da ridire neppure il barone Palmi, che non aveva preso parte alla causa! Le male lingue rincaravano che il barone aveva lasciato correre per amore della figlia, la quale era in fin di vita; ma Pasqualino, com’è vero Dio, certe cose neppur intendeva come potessero capire in mente umana! Che c’entrava la malattia della signora donna Matilde col silenzio del barone? Forse che a sentire sciolto il matrimonio, la signora Matilde sarebbe guarita dalla contentezza? Era morta, invece — salut’a noi! — qualche mese dopo il matrimonio del conte e di donna Isabella! Dunque il barone era rimasto zitto perché sapeva che il genero diceva la verità!
Subito dopo la pace col principe, Raimondo e donna Isabella s’erano riconciliati con una gran parte degli antichi oppositori; la cugina Graziella, specialmente, s’era messa a difenderli con maggior calore dello stesso Pasqualino, dimostrando che la passione è «cieca,» che gli uomini «sono fatti di carne» e le donne pure, e che la colpa di tutto quel che succedeva andava attribuita tutta alla leggerezza, «per non dir altro,» della Palmi. Tuttavia, buona parte della nobiltà restava a fare il viso dell’arme a Raimondo ed all’amica; ma la cugina assicurava che a poco a poco tutti si sarebbero addomesticati, specialmente quando i tribunali avrebbero fatto giustizia, accordando i divorzii; e non contenta di dare assicurazioni, faceva propaganda, persuadeva i tentennanti, teneva fronte ai borbottoni.
Frattanto, ringraziato Ferdinando dell’ospitalità che gli aveva accordata, Raimondo s’era preso in affitto un quartiere nel palazzo Roccasciano e v’era andato a stare insieme con la futura moglie. Giacomo, il Priore, il duca avevano veramente consigliato loro di non farne nulla, di restar piuttosto alla Pietra dell’Ovo fino al giorno che avrebbero potuto maritarsi, e poi andar via, a Napoli, a Milano, a Torino, in mezzo a gente nuova. Ma donna Isabella, a cui le schifiltose avevano fatto troppi affronti, voleva prendere la rivincita ed assaporare il trionfo. Raimondo, impegnato a spuntarla contro tutti e tutto, faceva ancora, suo malgrado, ciò che ella voleva. Fermo proposito di lui era d’andar via al più presto, non già per le ragioni di prudenza suggerite dai parenti, ma perchè non ammetteva di poter vivere due giorni di seguito, senza una estrema necessità, nel paese nativo; poche parole dell’amica bastarono a dissuaderlo. I suoi parenti non consigliavano forse quel partito perchè, nonostante la pace, avevano mediocre piacere di trattarla e preferivano saperla lontana? Non c’erano tuttavia tante persone che la salutavano freddamente, che evitavano di parlarle?... Ed egli cominciò a far spese pazze per metter su una casa, volle che il matrimonio si celebrasse con la massima pompa, quasi sfidando chi prima aveva sostenuto impossibile la riuscita della sua impresa. Fu una festa sontuosa alla quale molti di quelli che si erano ostinati nel biasimo sollecitarono l’onore di poter assistere; in modo che donna Isabella assaporò la voluttà di vederseli ai piedi. Peccato che la cugina Graziella, la quale aveva tanto contribuito a quest’effetto, non potesse goderne anche lei, poichè suo marito, pochi giorni prima, aveva preso un raffreddore che pareva all’inizio una cosa da nulla ma che giusto la notte degli sponsali degenerò in polmonite e tre giorni dopo lo ammazzò.
Tutti gli Uzeda furono da lei in quella dolorosa circostanza; il principe, specialmente, nonostante l’abituale freddezza, mostrò di prendere molta parte al dolore della cugina. Ella pareva veramente inconsolabile, raccontava a tutti piangendo la gran bontà del povero marito suo, il grande amore che gli aveva portato, l’irreparabile sciagura che quella morte era per lei. Soltanto la vista dei suoi «cari cugini,» i conforti della «famiglia,» lenivano il suo cordoglio: i «cugini,» gli «zii,» erano ormai i soli che le restavano. Ella mise per ogni dove i segni del corrotto, per poco non si tinse di nero la faccia, e durante un buon numero di mesi rifiutò ostinatamente di prender aria, neanche in carrozza chiusa, di sera. Ma la sua prima visita fu al palazzo del principe dove, a poco a poco, riprese l’abitudine di venire spesso a confortarsi. Si prendeva in braccio Teresina ed esclamava, con voce rotta: «Figlia mia! Figlia mia!... Se il Signore mi avesse concesso una figlia come te, non sarei rimasta sola al mondo!... Il Signore ti conservi sempre all’affetto di tua madre.... Figlia! Figlia mia!...» tanto che la principessa Margherita, molto impressionabile, si metteva a piangere anche lei. Col tempo, nondimeno, quel grande dolore si calmò, divenne più composto, tale da consentirle di occuparsi delle cose mondane. Suo marito l’aveva lasciata erede universale d’una discreta sostanza, talchè ella non aveva da inquietarsi per l’avvenire; piuttosto, non sapendo come disbrigare gli affari dell’eredità, rivolgevasi al cugino principe, il quale glie li metteva in piano. Pertanto ella veniva adesso tutti i giorni al palazzo, certi giorni più d’una volta; ma, quantunque non avesse affari, andava pure spesso da Lucrezia, dalla «zia» Ferdinanda e dalla «cugina» Isabella. In casa di costei tuttavia, a causa del lutto, non compariva il lunedì, giorno nel quale la contessa «riceveva».
Quest’uso di ricevere in un giorno determinato era una gran novità della quale si discorreva molto. Donna Isabella, che non s’appagava del trionfo d’una sola sera e voleva piegare le ultime ostinate oppositrici, l’aveva introdotto, riuscendo così a dare al suo salotto un tono speciale, un’importanza straordinaria, tale che le più restie brigavano finalmente l’onore di esservi ammesse. Così, dopo appena tre anni che era venuta in una volgare camera d’albergo, moglie della mano manca, osteggiata da tutti, ella troneggiava in quell’inverno del 65, autentica contessa di Lumera, fra una corte di ammiratori.
— Grazie! Grazie!... — diceva a Raimondo, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a sè. — Tu l’hai voluto e ottenuto!... Grazie! Grazie!...
Egli restava di marmo sotto quelle carezze. Vinta la partita, cessata la febbre che lo aveva animato contro le difficoltà, i contrasti e le opposizioni d’ogni genere, faceva il conto di quanto gli costava quel risultato. Confusamente, sordamente, poichè non poteva convenire di esser stato tanto cieco, sentiva d’aver lavorato a ribadirsi al collo una nuova e più pesante ed infrangibile catena, quando invece la sua personale aspirazione, il suo unico ardente desiderio sarebbe stato quello di liberarsi del tutto. Scontento, irrequieto, nervoso, frenavasi dinanzi alla gente; ma in casa, coi familiari, trovava nelle circostanze più futili un motivo di sfogarsi, di gridare, di maltrattare qualcuno; Pasqualino riceveva sulle spalle il fitto della gragnuola; donna Isabella sentiva la tempesta minacciare anche lei, ma la stornava a furia di sommessione, secondando sempre e comunque l’umore del marito.
Adesso, l’incosciente rancore di cui Raimondo era animato contro di sè rovesciavasi sui parenti; egli sapeva che in modo diverso, per diverse ragioni, incoraggiandolo o contraddicendolo, avevano contribuito al suo danno e, non potendo accusare se stesso, se la prendeva con quelli. Sua moglie, per evitare che egli pensasse ad altro, gli parlava male di tutti gli Uzeda. E la materia era inesauribile. Chiara, per esempio, che aveva fatto la scrupolosa quand’essi non erano uniti legittimamente, adesso dava da parlare a tutta la città per le cose vergognose che tollerava in casa sua. Con l’utero fradicio dopo l’estirpazione della ciste, non poteva più essere toccata dal marito, e di che si lagnava quella pazza? Forse della condizione in cui era ridotta? Del male che la minacciava sordamente? Nossignore: il suo gran dolore era di non poter servire a Federico! E comprendendo che questi, il quale non aveva niente di fradicio, anzi era sanissimo come una lasca, non poteva far quaresima tutto l’anno, che aveva pensato? di scegliergli lei stessa certe fiorenti cameriere, una più bella dell’altra, e gliele metteva nel letto, e le trattava a zuccherini, quasi la serviva lei stessa invece di farsene servire!... «Son cose vergognose!... È pazza!...» esclamava donna Isabella, rammentando a Raimondo la storia del matrimonio di Chiara con quel marchese aborrito, la violenza che la principessa madre aveva dovuto farle. «E gli altri? E le altre?...» Infatti, dove metter Lucrezia? La pazzia di costei era andata tutt’al rovescio: dopo aver fatto cose dell’altro mondo per sposare Giulente, adesso, a poco a poco, era arrivata quasi a disprezzarlo, gli dava dell’asino a tutto pasto, non poteva soffrire la sua politica che prima l’aveva accesa, gli diceva sul muso: «Ha pur da tornare Francesco II che vi legherà tutti quanti!...» E le speculazioni di don Eugenio? Questi, facendo pagare un occhio del capo al principe di Roccasciano cocci ed imbratti, li riprendeva per due baiocchi dalla moglie che, invasata dal demonio del giuoco, li sottraeva dagli scaffali.... E la metamorfosi di Ferdinando? Pareva che la passione per le Ghiande non potesse finirgli mai: un bel giorno le aveva piantate, aveva lasciato in asso tutti gli esperimenti agricoli e meccanici e es n’era venuto a stare in città. Non mancava ai lunedì della cognata, andava tutte le sere al teatro, frequentava le donne, e per non metter più piede nel podere che gli era stato tanto a cuore, lasciava che il suo fattore gli rubasse gli occhi. «È pazzo?... Son pazzi?...» Donna Isabella non parlava d’altro, sapendo d’appagare il rancore di Raimondo. Egli l’aveva, sì, con tutti, ma il suo astio più grande era serbato al principe.
Costui non aveva fatto un danno soltanto morale al fratello, gli aveva anche fatto pagar salato il suo appoggio. Nei momenti in cui era impegnato a spuntarla contro tutti, a trionfare degli immensi ostacoli di cui era irta l’impresa dello scioglimento dei matrimonii, Raimondo non aveva neppur calcolato quel che gli costava la pace col fratello maggiore; era tanto, allora, il suo impegno, che egli avrebbe forse consentito a cedere tutto ciò che aveva. Adesso che faceva il conto e tirava le somme, vedeva che Giacomo gli aveva preso un buon terzo del suo. Come a Lucrezia, aveva presentato a lui la nota dell’ospitalità accordatagli, una nota molto lunga perchè comprendeva le spese fatte per la Palmi e le bambine; poi aveva tirato fuori le solite cambiali apparse dopo la morte della madre, addebitandogliene la metà; e nei conti della procura aveva dimostrato d’esser rimasto creditore di parecchie migliaia d’onze, per gl’interessi accumulati degli anticipi: così s’era preso i due fondi di Burgio e Burgitello. Ma la magagna più grossa era stata operata nella divisione, perchè egli aveva messo secondo gli conveniva i prezzi alle terre, e tenuto per sè le migliori e le più vicine. In cambio di altre proprietà gli aveva ceduto rendite fradicie, di difficile ed incerta riscossione, e non contento di tutto questo gli aveva anche imposto di rinunziare all’uso del quartiere nel palazzo avito, a quella clausola del testamento materno che gli stava un bruscolo negli occhi... Passata pertanto la foga della lotta, Raimondo era animato da un sordo astio contro di lui; ma donna Isabella, parlandogli male del fratello, non rammentava già queste cose, comprendendo che l’argomento era a due tagli e si poteva ritorcere contro di lei. Invece criticava il carattere prepotente del cognato, la sua severità verso la moglie, il suo disamore per tutti, la sua doppiezza con gli zii. Curiosa per indole, vigile per interesse, ella veniva scoprendo, adesso, in casa di lui, qualche cosa di nuovo che le dava buono in mano. «Hai visto?... Hai visto?...» diceva al marito tutte le volte che tornavano a casa dopo essere stati al palazzo. «E faceva il moralista anche lui! Bisognava sentirlo, quando predicava!... E quella stupida di Margherita che non s’accorge di nulla!...»
La principessa, infatti, non pareva notasse che da un pezzo la vedova cugina veniva a consolarsi «in famiglia» tutte le sante mattine che il Signore mandava e tutte le sante sere. Il principe s’occupava di metterle in ordine l’eredità, e perciò, avendo bisogno di parlarle, l’andava spesso a trovare per suo conto; certe volte la riconduceva con sè a palazzo. La sera ella restava fino all’ultimo nella Sala Gialla, dove la solita società si riuniva. Nessuno degli Uzeda, pel momento, vi mancava: il matrimonio di Raimondo pareva avesse ricondotto la pace in tutti gli animi. Il duca pontificava, aggiustava l’Europa in quattro e quattr’otto, le finanze italiane in men che non si dice, e Giulente stava a udirlo come il Messia, lasciandosi rimorchiare sempre più, disertando il suo partito per corteggiare lo zio, aspettando di prenderne il posto. Il duca, infatti, gli aveva detto: «Quando sarò stanco, lascerò a te il collegio;» e questa era la secreta brama di Benedetto: esser deputato, mettersi nella grande politica. Per dargli pazienza, il duca lo aveva fatto eleggere consigliere comunale, e discorreva con lui anche delle cose del municipio, delle riforme da introdurvi. Quantunque il Parlamento fosse in piena sessione, egli non parlava d’andar via, occupato a sbrigare i suoi affari. Il patriottismo gli era costato: per sussidiare i perseguitati, per comperar fucili e cartucce, per offrire rinfreschi alla Guardia nazionale, aveva fatto qualche debituccio, ipotecata la sua magra proprietà: ora la rimetteva in ordine. Dove trovava i quattrini? Dicevano che spartisse negli appalti fatti accordare a Giulente zio; ma quei guadagni, quantunque grossi, non potevano bastare alle grandi operazioni che disegnava. Fondata la Banca Meridionale di Credito e di Depositi, aveva sottoscritto per cento azioni di mille lire l’una; è vero che non aveva pagato se non un quarto; ma nello stesso tempo egli parlava d’una grande compagnia di navigazione a vapore, d’una società per la lavorazione degli zolfi, di un’altra pel taglio dei boschi etnei. Don Blasco e donna Ferdinanda, ciascuno per conto proprio, s’ingegnavano con ogni mezzo di appurare come facesse; fu il marchese Federico quello che li mise sulla buona strada.
Con le economie del suo largo reddito, il marchese faceva ogni anno qualche acquisto; ultimamente aveva comperato una villa al Belvedere, per stare a casa propria durante la villeggiatura, e gli era rimasta tuttavia una sommetta della quale non sapeva che fare. Era troppo esigua per comprare una proprietà; darla a mutuo non voleva; che cosa bisognava farne? «Acquistane rendita pubblica!» gli aveva consigliato il duca, spiegandogli l’eccellenza dell’impiego, offrendogli di farla venire da Torino. «Vostra Eccellenza ne ha dunque comprata?» gli domandò il marchese. «Ne ho comprata, ne ho venduta.... secondo i corsi.... capisci bene....» poi, quasi pentito d’avergli fatto comprendere che ci aveva speculato su durante i cinque anni passati a Torino, col comodo delle notizie appurate nelle anticamere dei ministeri, aveva mutato discorso. Il marchese titubò un pezzo, un po’ per fedeltà al principio borbonico, molto più per paura di perdere i suoi quattrini, frutto e capitale, con l’idea che l’Italia fosse sempre sul punto non che di fallire, ma di andare a rotoli; finalmente un giorno, incontrato il duca che veniva a riscuotere le cedole del semestre scaduto, vistolo venir via con un bel rotolo di monete, si decise. E la sera che annunziò al palazzo l’acquisto, bisognò sentir don Blasco!
— Ah pezzo di pagliaccio! Anche tu? Con l’Italia anche tu? Sei impazzito anche tu?
— Perchè? — tentò rispondere il marchese. — Al sessantasei, il capitale frutta il sette e mezzo per cento.... Le cedole sono pagate puntualmente alla scadenza....
Il monaco stava a sentirlo, spalancando tanto d’occhi, come aspettando di vedere fin dove sarebbero arrivate le enormità che quel bestione eruttava: alla fine scoppiò:
— Te ne netterai il fondamento, delle tue cedole!... Andrai a riscuoterle al luogo comodo, pezzo d’asino!... E rivolto a Chiara, con le mani in capo: — Fallo interdire!... Ti vuol rovinare!... L’impiego al sette per cento!... Se non ne vogliono neppure in elemosina?... — Girando poi uno sguardo tutt’intorno, con amara ironia: — Impiego sicuro, signori miei!... Quando la rendita napoletana era al cento e dieci!... Un altro poco e scenderà al cinque, la cartaccia sporca!... Allora con cinque lire di capitale, avremo cinque lire l’anno! Arricchiremo tutti quanti! Viva la cuccagna! Viva il gran Vittorio!
Il duca, che stava in un angolo con Benedetto spiegandogli le proprie idee sull’avviamento della Banca Meridionale, che sotto la direzione di don Lorenzo Giulente doveva «venire all’aiuto dell’incremento industriale e commerciale» e «cooperare l’opera protettrice del governo,» sorrise impercettibilmente, scrollando le spalle, alla sfuriata del fratello; Chiara, preso in disparte suo marito, gli disse:
— Non dar retta a quel pazzo!... Tu hai fatto benissimo: comprane dell’altra. — E dopo un poco lo condusse via, prima che la società si sciogliesse, come faceva da un pezzo, senza che si sapesse la ragione della sua gran fretta di tornare a casa.
La ragione era questa: che Rosa Schirano, la nuova cameriera da lei presa a Federico, un bel pezzo di ragazza della Piana, bianca e rossa al pari d’una mela, era incinta per opera del marchese; e invece di cacciarla via, ella non capiva in sè dal contento. Questa era anzi la secreta speranza che l’aveva indotta a metter tante fresche ragazze a fianco del marito; poichè voleva un figlio di lui e non era buona di farlo, s’accontentava di quello di un’altra, le pareva naturalissimo circondare di cure quest’altra che Federico aveva fecondata; quasi la invidiava.... Ella stessa le aveva strappato la confessione dell’errore, e la ragazza impaurita e tremante era rimasta, giacchè la padrona, invece di buttarla giù dalle scale, le aveva detto: «Non t’inquietare; penserò io a tuo figlio!...» Da quel giorno Chiara non aveva avuto pensieri se non per la cameriera. Un certo senso di rispetto umano le aveva impedito di continuare a tenerla nelle proprie camere col ventre sempre più gonfio; ma giù nel cortile, nelle stanze che la moglie del cocchiere era stata costretta a cederle, la visitava tre o quattro volte il giorno, le mandava i migliori bocconi della sua tavola, la teneva nella bambagia.
Quando la cosa si riseppe, tutti i parenti, specialmente i fiutoni, don Blasco e donna Ferdinanda, cominciarono a fare un diavolìo, gridandole che dovesse cacciare a pedate quella ciarpa; ma Chiara, fingendo che Rosa avesse una tresca fuori casa, la scusava, e dichiarava di non poterla veder soffrire. «Le tentazioni, per queste povere ragazze, sono tante!... Speriamo che la sposerà, chi è stato.... Io so che cosa vuol dire gravidanza.... Non ho il coraggio di buttarla in mezzo a una strada....» Ma il più bello era che il marchese si seccava e si vergognava anche un poco di quella paternità clandestina. Col marito, Chiara non aveva tenuto nessun discorso in proposito; ma quando la cugina Graziella si mise anche lei della partita, venendo a dirle di mandar via quella sgualdrina, ella si fece rossa, non sapendo lì per lì che rispondere; ma appena l’altra se ne andò, proruppe, rivolta a Federico:
— Sentila, adesso!... Io faccio quel che mi pare e piace, e tu solo hai il diritto di comandare, qui dentro!... Fa la scrupolosa, adesso, questa non so che cosa! Dopo che ruba Giacomo a sua moglie! Ci vuole la sciocchezza di mia cognata, per non accorgersi di nulla!...
Veramente, più d’uno ne cominciava ora a mormorare, e tra la servitù delle due case correvano già certe occhiate d’intelligenza, si scambiavano certi commenti che facevano inghiottire a Baldassarre botti di veleno. Il signor principe non poteva dunque fare un atto di carità, sorvegliando l’amministrazione intricata della cugina, che già le lingue di vipera ci trovavano a ridire? Forse perchè s’era parlato di matrimonio tanti anni addietro? Ma il padrone aveva fatto la volontà della principessa, sant’anima, e adesso pensava ai suoi figli, rispettava la moglie, aveva tutt’altro pel capo che le galanterie! Se avesse voluto andar dietro alla cugina, ne avrebbe avuto tanto tempo, senza aspettar la morte del marito, perchè proprio quel buon diavolaccio del cavalier Carvano non era tipo da metter paura! Non vedevano del resto la principessa? Era la più interessata di tutti a sapere la verità; e se quelle ciarle maligne avessero avuto fondamento, se ne sarebbe rimasta così tranquilla?...
La principessa era più tranquilla che mai, sempre piena d'obbedienza verso il marito, sempre aspettando gli ordini che egli le impartiva spesso con una sola guardata. La cugina a poco per volta quasi domiciliavasi a palazzo, dava ordini alle persone di servizio quasi le pagasse lei, esprimeva su tutti gli affari della casa la propria opinione, della quale il principe teneva più conto che non di quella della moglie; ma donna Margherita, invece di dolersene, respirava più liberamente perchè il marito la lasciava quieta, non pretendeva ch’ella gli desse ragione in tutto e per tutto, e non la rimproverava se le cose non riuscivano poi com’ei voleva. Pertanto, se qualche giorno la vedova non veniva, ella la mandava a chiamare prima che il principe notasse l’assenza, e la tratteneva tutto il giorno in casa, le affidava Teresina, la trattava come una sorella. Quell’intrinsichezza le procurava un altro vantaggio grande, impagabile, risparmiandole l’orrore di toccar le chiavi, i mobili, gli oggetti. Quando bisognava metter fuori biancherie, o frugare negli armadii, o riporre qualche cosa nelle casse, la cugina faceva tutto lei, andava e veniva con le chiavi alla cintola per la casa, la metteva sossopra, al punto che in sua assenza non si trovava più nulla e bisognava mandare qualcuno a chiamarla.
— Almeno, levassero via la bambina! — diceva donna Isabella, scandalizzata, a Raimondo. — La fanno assistere a un bello spettacolo!...
E don Blasco e donna Ferdinanda già cominciavano a fare anch’essi i loro commenti; ma quando Rosa Schirano partorì al marchese un bel figlio maschio, bianco e rosso, grosso e grasso, la nuova guerra tra gli Uzeda divenne generale.
Chiara, fuori dei panni dal piacere, riprese vicino a sè la cameriera, le cercò una balia, diede al piccolino tutto il corredo preparato un tempo pei suoi proprii figli. Lo teneva mattina e sera in braccio, lo dava a baciare al marito dicendogli: «Guarda com’è bello!... Ti somiglia, eh?...» ma quand’era sola, faceva calare dall’alto dell’armadio la boccia polverosa col mostricciattolo partorito da lei, abbracciava con un solo sguardo l’orribile aborto giallo come di sego e il bambino paffuto che tirava pugni, e due lacrime le spuntavano sulle ciglia. «Sia fatta la volontà di Dio!...» Riposta la boccia, tutte le sue cure e tutti i suoi pensieri si rivolgevano al figlio di Rosa, al quale aveva persino messo in nome Federico.... Ma il principe diede della pazza alla sorella; Chiara, sentendosi pungere, si mise a cantare contro il fratello che teneva la ganza in casa e le affidava la figlia; Lucrezia, che aveva già fatto pace con Giacomo al tempo del matrimonio di Raimondo, voltò nuovamente casacca e accusò Giacomo, unicamente perchè Benedetto consentiva con lui nel biasimare le stramberie della marchesa; donna Isabella, per distrarre Raimondo, che aveva un umore sempre più nero, rincarò la dose contro il principe, contro Chiara, contro Lucrezia; don Blasco e donna Ferdinanda soffiavano nel fuoco ciascuno per suo conto, ora formando leghe contro Chiara, ora contro Giacomo, ora contro la contessa; e tutti e tutte, giovani e vecchi, fratelli e sorelle, zii e nipoti, ricominciavano a buttarsi addosso, volta per volta, l’accusa di stravaganza, di ossessione e di pazzia. In mezzo ad essi, il Priore portava la sua serena indifferenza per tutte le cose di questo mondo, dopo aver fatto la corte a Monsignore e brigato col coadiutore, col vicario e coi canonici; Ferdinando, elegantissimo, non parlava più d’altro che di abiti e di sarti forestieri; il duca, udendo tutti senza rispondere a nessuno, scambiava telegrammi coi sensali che giocavano alla borsa per conto suo, e badava a ordinare le sue banche e società; il cavaliere don Eugenio, lasciata in asso l’Academia dei quattro Poeti, si occupava unicamente d’un certo negozio di zolfi che pareva molto lucrativo — con le trecent’onze della falsa testimonianza, dicevano le male lingue — e la principessa era felice di tener per aria le mani bianche e lucide, preservandole da ogni contatto, adoperandole soltanto per abbracciare i suoi figli.
Teresa, adesso vicina ai dodici anni, formava il suo orgoglio, per la bellezza della persona e la bontà dell’animo. Mai un dispiacere da quella bambina; lo stesso principe, che a giorni pareva cercasse col lanternino i pretesti per andare in collera, non la coglieva mai in fallo. Bastava che le dicessero una volta: «Teresina, ciò dispiace a tuo padre,» oppure: «Tuo padre vuole così», perchè ella chinasse il capo senza fiatare. Per l’obbedienza esemplare, per la dolcezza del cuore, ella raccoglieva dovunque lodi e premii. Cresciuta negli anni, non la mettevano più nella ruota per farla passare tra le monache, a San Placido, ma la conducevano spesso al parlatorio della Badia. Ella che aveva frenato, piccolina, la paura di restar chiusa nello spessore del muro, e il terrore del crocifisso nero, preferiva anche ora, in cuor suo, le belle passeggiate all’aria aperta; ma poichè ai parenti faceva piacere che andasse dalla zia monaca, ella stessa sollecitava quelle visite dietro le grate. Ella passava per prove ancora più forti. La vigilia dei Defunti, tutti gli anni, la famiglia recavasi nelle catacombe dei Cappuccini, a visitare gli avanzi della principessa Teresa, per ordine del principe, il quale da canto suo restava in casa per paura che la vista dei morti gli portasse jettatura. La bambina tremava da capo a piedi. Che spavento, tutti quei morti pendenti dalle pareti, chiusi nelle casse, vestiti come in vita, con le scarpe ai piedi e i guanti alle mani; certuni con la bocca contorta come se urlassero dallo spasimo, altri che ridevano d’un riso sgangherato; la nonna, tutta nera in viso, nella bara di vetro, vestita da monaca, con la testa sopra una tegola e le mani aggrappate disperatamente a un crocifisso d’avorio!... Tremava tutta, la bambina, dallo spavento, dall’orrore, e la notte sognava tutti quei morti che le danzavano intorno; ma nascondeva il proprio spavento poichè il confessore le aveva detto che i poveri morti non possono far male, che è dovere visitarli, che bisogna continuamente pensare ad essi perché un giorno anche noi moriremo e andremo dinanzi al Giudice eterno. Quasi in tutte le chiese, del resto, ella aveva un senso di fredda paura; alla Madonna delle Grazie c’era una parete piena di voti: gambe, teste, braccia, mammelle di cera sulle quali erano dipinte orribili piaghe paonazze; ai Cappuccini, nella cappella della Beata Ximena, vedevasi la bara dove custodivano il suo corpo. Dicevano che si conservasse così fresca, dopo secoli, come se Ella fosse spirata da un’ora; ad ogni centenario della beatificazione scoperchiavano il feretro; ella pensava con terrore che fra dodici anni, nel 1876, sarebbe capitato il terzo centenario. Ma poichè faceva sempre forza a sè stessa e niente traspariva delle sue paure, e la vedevano stare lunghe ore in quelle chiese, inginocchiata, pregante, tutti lodavano la sua pietà; alcuni dicevano perfino: «Cresce come la Beata; santa come lei!» E queste lodi, sì, l’inorgoglivano; per guadagnarsele sopportava tutto in pace. Anch’ella, come tutte le altre sue amiche, desiderava le belle vesti nuove, dai colori gai, dalle ricche guarnizioni: o le prime buccole, un anellino; ma suo padre diceva che queste cose guastano le ragazze; e invece di piangere e di gridare, come facevan tante, ella chinava il capo, confortata dalla sua mamma che le prometteva all’orecchio: «Vedrai, amorino mio, quando sarai grande!...»
Consalvo non aveva lo stesso carattere della sorella; tutt’al contrario; ma la principessa, scusandolo, lo esortava ad essere buono. Le esortazioni della mamma non avevano molto frutto. Sperato invano di tornare a casa pei torbidi del Sessantadue, egli aveva visto passare gli anni uno dopo l’altro senza che il padre mantenesse la promessa di toglierlo dal Noviziato. Tutte le volte che era venuto al palazzo, il ragazzo l’aveva rammentata al principe; ma questi rispondeva invariabilmente: «Più tardi.... in primavera, in autunno.... non tocca a te pensarci!...» Così rodeva il freno, aspettando la primavera e l’autunno che lo ritrovavano ancora in quella prigione, smaniante, irrequieto, buttato a un tratto col partito dei liberali, nella speranza della soppressione dei conventi. Giovannino Radalì, che, durando la madre nel proposito di fargli pronunziare i voti, nutriva anche lui quest’unica speranza per tornare al secolo, lo aveva convertito; ma l’annunzio della soppressione somigliava alle promesse del principe: ripetute sempre, non si trovavano mai confermate dai fatti. Perciò, continuamente irritato dall’ostinazione del padre, pieno d'invidia per quei compagni che ad uno ad uno se ne tornavano in famiglia a godersi la bella libertà, egli diventava il tormento dei maestri, dei Fratelli, dei camerieri, di tutto il convento, e rifiutava anche di andare a casa, o, se vi andava, non salutava nessuno, non parlava, stava tutto il tempo della visita con tanto di muso. Ora che al palazzo non si rimoveva una seggiola senza il beneplacito della cugina, costei prestava mano forte al principe, giudicava che il ragazzo, pel momento, stava bene dov’era; gli diceva, con tono d’affetto materno, mentr’egli fremeva d’odio contro quest’altra:
— Non dubitare; verrai via a suo tempo; per ora bisogna studiare.... Vedi la mia figlioccia? Anche lei va messa in collegio....
La signorina Teresina in collegio?... Nella corte, tra la parentela, la notizia, appena risaputa, fu commentata in mille modi: «E perché?... Non sta bene in casa?... Il duca ha voluto così.... E che c’entrava il duca?... No, è stato il principe.... No, la cugina.... La principessa piange da mattina a sera....» Ciascuno diceva la sua, qualcuno soffiava che forse la decisione era stata presa perchè un giorno la signorina, entrata inavvertitamente nella Sala Rossa, aveva trovato il principe e la madrina in troppo intimo colloquio.... Ma Baldassarre, col suo tono d’autorità che troncava tutte le chiacchiere, dava la versione schietta e genuina: tutte le grandi famiglie di Palermo e di Napoli, al giorno d’oggi, stilano di mettere le signorine in collegio, nei collegi a chic, dove imparano la lingua italiana e anche la francesa: il barone Cùrcuma ci aveva messo la sua ragazza, dunque la figlia del principe di Francalanza doveva andare anche lei in uno di quei collegi. Il signor duca conosceva che quello dell’Annunziata, a Firenze, era il più a chic di tutti, perchè infatti costava più caro; e anche il signor don Raimondo e la contessa donna Isabella, che a Firenze c’erano stati di casa, dicevano altrettanto e approvavano che la principessina ricevesse l’educazione conveniente!...
Egli non diceva che donna Ferdinanda, alla notizia della decisione presa a sua insaputa, s’era scagliata con più violenza contro il principe e aveva perdonato a Chiara l’allevamento del bastardo per andare a sfogarsi con lei contro queste stupide novità dei collegi fiorentini, quando ai suoi tempi le ragazze nobili imparavano in famiglia a filar seta e non s’impinzavano di sciocchezze italiane e forestiere; non diceva che don Blasco girava per le case dei nipoti predicando la crociata contro le porcherie che si commettevano al palazzo.... Per Baldassarre, il principe era Dio, e tutto ciò che il padrone faceva era ben fatto. Rispettava anche gli altri parenti e perciò le voci di quelle guerre in famiglia lo contristavano positivamente; voleva che tutti andassero d’accordo per il buon nome, per il prestigio della casata. E negava i piccoli dissidii, scemava importanza ai grandi, imponeva silenzio al basso personale sempre con l’orecchie tese per acchiappare a volo qualche notizia piccante, attribuiva all’invidia delle altre case meno nobili e ricche le voci maligne che circolavano tra i servi. Esse non dovevano a nessun costo arrivare al padrone; se questi domandava perchè il tale o tal altro guattero era stato congedato, egli trovava un buon pretesto, oppure diceva che era stato il signor Marco. Stimava pertanto l’amministratore, che era come lui geloso del buon nome della casa e pieno di rispetto verso il principe e di giusta severità verso i dipendenti.
Del resto, alla lunga, gl’invidiosi si stancavano di sparlare. Prima di tutto, alcuni dei parenti andarono via e perciò i motivi di lite scemarono. Il contino Raimondo un bel giorno, senza aver detto niente a nessuno, fece i bauli e se ne partì con la moglie per Palermo, lasciando a Pasqualino l’incarico di vendere la mobilia comperata un anno prima. Poi partì il duca diretto a Firenze e conducendo via anche la principessina Teresa, per metterla al collegio, com’erasi stabilito. La bambina, nel congedarsi, piangeva dirottamente dal dolore di lasciar la sua casa, di entrare nel collegio di Firenze, tanto lontano, dove neppure la domenica, neppur dietro a una grata, come a San Placido, avrebbe potuto vedere la sua cara mamma. La comare però le diceva: «Non piangere così; non vedi che fai male a tua madre?...» e allora ella inghiottiva le sue lacrime, si ricomponeva. Il giorno della partenza, la principessa ebbe una convulsione di pianto, abbracciando furiosamente la figlia; e la stessa cugina aveva gli occhi rossi, ma faceva coraggio a tutti: «Teresina tornerà fra qualche anno; e poi ogni autunno l’andremo a trovare, è vero, Giacomo?... Verrò anch’io: sei contenta così?... Vedrai poi, quando tornerai istruita ed educata come conviene, quando tutte t’invidieranno!... Vedrai anche tu, Margherita, quanto sarai orgogliosa della mia figlioccia!...» La bambina allora chinò il capo, s’asciugò gli occhi, e disse alla sua mamma, seria e composta com’era sempre stata: «Non t’angustiare, mamma mia bella: ci scriveremo ogni giorno, ci rivedremo presto.... Vedi che sono ragionevole?...» Un amore di figliuola, quella lì; vera razza dei Vicerè!
Poi partì anche il cavaliere don Eugenio per Palermo. La ragione di questa partenza qui non si seppe molto bene. Il cavaliere aveva detto che certe grandi case palermitane lo avevano chiamato per associarlo in grandi e nuove speculazioni dove c’era da arricchire in poco tempo; ma le male lingue, che non tacciono mai, volevano dare a intendere che egli era scappato perchè, mangiatisi i quattrini degli zolfi presi a credenza, contro cambiali che non poteva più pagare, correva rischio di prendersi qualche soma di sante legnate.... Comunque andasse la cosa, fatto sta che, partite tutte queste persone, la pace tornò a regnare in famiglia. La cugina, affezionatissima, veniva giorno, sera e notte a tenere compagnia e a dare una mano alla principessa, che le era gratissima di tante attenzioni; venivano anche gli altri parenti, non più inviperiti come un tempo; gridavano, è vero, ogni tanto: don Blasco, per esempio, a motivo della soppressione dei conventi annunziata nel programma della nuova legislatura, o la signora donna Lucrezia contro il marito e i liberali; ma niente di positivo. Il principe, da canto suo, badava agli affari dell’amministrazione, ma senza più affaticarsi troppo, senza più tenere le interminabili sedute d’un tempo col signor Marco.
Ora un giorno, che fu giusto il 31 dicembre 1865, Baldassarre corse ad una chiamata del padrone il quale era nel proprio scrittoio in compagnia del notaro.
— Accompagna il notaio dal signor Marco e consegnagli questo biglietto, — gli disse il padrone.
— Eccellenza, — rispose Baldassarre, — è andato fuori mezz’ora addietro....
— Va bene; metterai dunque il biglietto sul suo tavolino. E voi, notaro, mi farete il piacere d’aspettare un poco.... Tu va a prendere un cartellino col si loca, di quelli delle botteghe; ce ne dev'essere, nel magazzino.... E attaccalo al balcone della sala del signor Marco.
Baldassarre, nonostante la sua abituale passività nell’obbedienza, restò un momento a guardar per aria. — Il si loca nel balcone della sala: hai capito? — ripetè il padrone che non amava dire due volte le cose.
— Subito, Eccellenza.
Corso a prendere il cartellino, il maestro di casa salì a quattro a quattro le scale dell’amministrazione, entrò nel quartierino del signor Marco, e lasciato il biglietto sulla tavola, aperse la vetrata e si mise ad attaccar l’appigionasi. Non capiva bene che cosa significasse quell’ordine nè quel che stesse per succedere; ma sentivasi inquieto. Giusto mentre finiva di legare la tavoletta, apparve, giù nella via, il signor Marco. Si fermò, un istante a guardare in alto, poi cominciò a gesticolare, domandando al maestro di casa che diamine facesse, e Baldassarre gli rispondeva additando le finestre del padrone, per fargli intendere che questi aveva voluto così. A un tratto il signor Marco si mise quasi a correre, e dopo pochi minuti gli arrivò dinanzi pallido e col fiato ai denti.
— Che fai? Perchè il si loca? Chi diavolo t’ha detto?
— Il principe, il signor principe.... c’è anzi una lettera.... lì, sulla tavola....
Leggendo il biglietto, le mani e le labbra tremavano al signor Marco, come se gli stesse per prendere un accidente; e Baldassarre, impaurito, si tirava un poco indietro, pronto a chiamare soccorso; quando, strappato malamente il foglio, l’altro gridò, con voce rotta:
— A me?... Il congedo?... Come a un guattero? L’ultimo del mese? Ladro schifoso? Principe porco?
— Don Marco!... — balbettò Baldassarre, atterrito.
— A me il congedo?... E il notaro per la consegna?... Credeva forse che gli volessi portar via i suoi denari?... Quelli che ha rubati ai fratelli e alle sorelle?... O le sue carte? le prove delle sue ruberie? delle sue falsità? ladro, ladro, ladrone? e più porco io che gli tenni mano?... Mi manda via perchè non ha più da spogliare nessuno?...
Con le mani in capo, Baldassarre scongiurava: «Don Marco!... Signor Marco!... per carità!... possono udirvi!...» ma l’altro, fuori della grazia di Dio, tremando dall’ira, buttava fuori quel che aveva in corpo contro il padrone e tutta la sua razza:
— Dieci anni! dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi e birbanti!... E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l’affezione, il rispetto alle volontà di sua madre: pezzo di gesuita più di quell’altro Sant’Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell’altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant’è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all’altr’ieri?...
— Don Marco! — gridò Baldassarre, minaccioso finalmente anche lui, per tentar d’arrestare quella fiumana di male parole che i gesti disperati di preghiera e di paura non erano valsi a frenare. E il signor Marco lo guardò stralunato, quasi accorgendosi in quel punto della sua presenza.
— Mi meraviglio! — continuava il maestro di casa, fermo e contegnoso. — La volete finire, una buona volta?...
Allora l’altro gli tirò sul muso un’amara sghignazzata.
— Zitto, tu! Prendi le parti di tuo fratello, bastardo?
Giusto in quel momento comparve il notaro che saliva dal quartiere del principe:
— Signor Marco.... — ma l’altro non lasciò dire:
— Venite per la consegna, eh? — riprese a tonare. — Che cosa volete che vi consegni? le carte false del vostro padrone? gli atti carpiti? le transazioni strozzate?... Ecco qui, prendete!... — E cominciò a buttare all’aria tutto ciò che si trovava sulla scrivania, sugli scaffali. — Temete che io li porti via? Non ne ho bisogno. Lo sanno tutti che razza d’imbroglione, di ladro e di falsario è il vostro principe! Voi lo sapete, che ha rubato la sorella monaca e la Badìa col cavillo dell’approvazione regia, e quell’altra pazza per consentire al suo matrimonio, e il Babbeo perchè è babbeo e il contino per dargli mano a quegli altri pasticci!... Voi le sapete meglio di me tutte le trame che ha ordite, le cambiali vecchie pagate dalla madre, fatte ripagare due volte, prima ai legatarii, poi al coerede; e i debiti supposti, la procura carpita....
— Di grazia, signor Marco.... un po’ di misura....
— Misura? Sono misuratissimo, sono! O credete che mi dolga del posto perduto?... Ne troverò un altro, non dubitate!... E da per tutto sarò trattato meglio che tra questi arlecchini finti principi.... Forse temevano che io li rubassi, eh? Che io m’arricchissi a spese loro?... Lo disse una volta, quel maiale del monaco: vi pare che non l’abbia risaputo?... Io che ci ho rimesso di sacca mia! perché se trovavano un centesimo mancante gridavano un mese durante!... Casa munifica, in verità, da poterci fare il nido!... — E spalancando gli armadii e le cassette riprendeva: — Qui!... Prendete, vi consegno ogni cosa!... Venite a guardare sotto il letto, se c’è il cantero!... Frugatemi addosso, se gli porto via qualche cosa.... A voi, chiappate: sono le chiavi delle casse e degli armadii; ditegli che se le.... — E le lasciò correre per terra. A un tratto, vide, nell’armadio spalancato, appesa a un uncino di rame dorato, quella della bara della principessa, l’unico regalo fattogli dalla defunta oltre le vecchie tabacchiere, dopo quasi trent’anni di servizii prestati alla madre ed al figlio. Afferrarla e scaraventarla contro il muro, fu tutt’uno.
— E questa con l’altre.... — gridò, con una mala parola da far arrossire la morta, laggiù, nelle catacombe dei Cappuccini.