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Parte terza

Capitolo 3
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III.


Una notte, mentre a palazzo tutti dormivano tranne Consalvo curvo sui volumi di Spencer, fu picchiato con grande fracasso al portone: Garino, il marito della Sigaraia, chiamava il principe a rotta di collo perchè a don Blasco era venuto un accidente.

Il monaco, floscio come un otre sgonfiato, rantolava. La vigilia aveva fatto una solenne scorpacciata e cioncato largamente: spogliato e messo a letto da donna Lucia, s’era addormentato di botto; ma nel mezzo della notte un sordo tonfo aveva fatto accorrere tutti quanti, e allora s’era visto il Cassinese disteso quant’era lungo in terra, senza più sentimento. La Sigaraia, le figliuole, la serva non la finivano di raccontar la disgrazia; ma Garino, che lasciata l’ambasciata al principe e chiamato un dottore, era tornato di corsa a casa, aveva la ciera rannuvolata e non diceva niente. Mentre il medico dichiarava di non poter far nulla, perchè il colpo era fulminante, e le donne ricominciavano a contristarsi, e ad invocare la Bella Madre Maria e tutti i santi del paradiso, Garino prese per un braccio il principe appena arrivato e lo trascinò in una stanza remota.

— Eccellenza, siamo rovinati! Ho frugato da per tutto, e non c’è niente! Rovinata Vostra Eccellenza e rovinati noi! Dopo tanti anni che l’abbiamo servito! E quelle creature anch’esse! Sua Paternità non doveva farci un simile tradimento!

— Avete cercato bene?

— La casa sottosopra, Eccellenza; che appena successe la disgrazia presi le chiavi e frugai da per tutto... nell’interesse di Vostra Eccellenza.. Ma potevo credere a una cosa simile? Dopo che Sua Paternità aveva promesso dodici tarì al giorno alle ragazze? È un tradimento! Sono rovinato! E Vostra Eccellenza pure... Io credevo che il testamento fosse scritto da anni, dall’altra volta che gli prese il capogiro...

— L’avrà forse dato al notaro?

— Ma che notaro! Sua Paternità non voleva sentirne, e anzi quando il notaro Marco gli parlò in proposito... per amicizia a noi... gli rispose brusco che il testamento l’avrebbe fatto da sè e chiuso nella sua cassa!... Ma non c’è niente in tutta la casa... Se avessi saputo una cosa simile!... — E tacque, guardando il principe.

— Che avreste fatto?

— Avrei scritto io il testamento, secondo le sue intenzioni... per darglielo a firmare... La firma ce l’avrebbe messa in mezzo minuto... Potevo anche...

Ma in quel punto chiamarono di là. Il dottore, tanto per contentare «la famiglia» aveva ordinato che si cavasse sangue al fulminato e gli s’attaccasse qualche mignatta alle tempie; Garino scappò per eseguire gli ordini del dottore, e il principe si mise a girare per la casa.

Faceva giorno quando venne il salassatore. L’operazione non giovò quasi a nulla; solo gli occhi del moribondo s’aprirono un momento; ma nè un muscolo si scosse, nè una parola uscì dalla bocca serrata. Col giorno arrivò la principessa. Gli altri parenti non sapevano ancora nulla, e cominciarono ad arrivare più tardi, uno dopo l’altro; entravano un momento nella camera del moribondo e poi passavano nella stanza attigua, girellonando, cercando il momento di prendere a parte il principe, per dirgli in un orecchio:

— C’è testamento?

— Non so... non credo... — rispondeva il principe. — Chi pensa a queste cose per ora?

Invece non pensavano ad altro, divorati dalla curiosità, dalla cupidigia dei quattrini del monaco. Dopo la vecchia principessa, don Blasco era il primo Uzeda danaroso che se ne andava; Ferdinando non era contato: aveva poca roba e quella poca era stata carpita dal principe. Il Cassinese, invece, tra i due poderi, la casa e i risparmii lasciava quasi trecento mila lire, e tutti speravano d’averne qualcosa. Se non c’era testamento i due fratelli Gaspare ed Eugenio e la sorella Ferdinanda avrebbero ereditato; e la zitellona, dopo una vita d’inimicizia, aspettava d’arruffar la sua parte. Tutti gli altri, al contrario, aspettavano un testamento che li nominasse. Il principe dichiarava piano all’orecchio dello zio duca che non sperava nulla per sè, ma qualcosa per Consalvo, e di mezz’ora in mezz’ora spediva al palazzo qualcuno dei camerieri della parentela, accorsi coi padroni, perchè chiamassero suo figlio. Ma il principino dapprima aveva risposto che era a letto, poi che dovevano dargli il tempo di vestirsi, poi che stava per venire, e finalmente gli ultimi messi non lo trovarono più. Se n’era andato al Circolo Nazionale per assistere all’adunanza d’una commissione incaricata di studiare il piano regolatore della città. Arrivò finalmente quando attaccavano le mignatte all’agonizzante. Il principe non gli rivolse neppure la parola e prese invece in disparte Garino che in quel momento tornava per la quarta o la quinta volta. Poi il marito della Sigaraia entrò nella camera del moribondo, che sua moglie e le ragazze non lasciavano un momento. Invece di giovare, le mignatte affrettarono la catastrofe; Garino affacciossi sull’uscio, annunziando:

— Il Signore l’ha chiamato con sè!

Tutti entrarono nella camera del morto. Era immobile, stecchito, con gli occhi chiusi, con le tempie butterate dai morsi delle mignatte. L’odore nauseante del sangue appestava la camera, come una beccheria; e c’era per terra e sui mobili una confusione straordinaria: panni disseminati qua e là, catinelle piene d’acqua, caraffe di aceto. La Sigaraia, dischiusa immediatamente la finestra perchè l’anima del Cassinese potesse volarsene difilato in paradiso, disponeva, singhiozzando, due candele sul comodino. Le ragazze piangevano come due fontane e Lucrezia pareva avesse perduto il suo secondo padre; ma i pianti e le preci a poco a poco cessarono; e allora, asciugatisi gli occhi, Lucrezia disse, tranquillamente:

— Adesso che lo zio è in paradiso, potremmo vedere se c’è testamento.

Nel silenzio generale, il principe, come capo della casa, fece un gesto di consenso. Ma donna Lucia, che finiva d’accendere le candele, si voltò e disse:

— C’è testamento, Eccellenza. La sant’anima, per sua bontà, me lo diede a serbare. Vado a prenderlo subito.

Si potevano udir volare le mosche mentre la donna consegnava al principe una busta aperta, e questi, per deferenza, la passava allo zio duca. Il duca diede un’occhiata al foglio dove c’erano poche righe di scritto, e senza leggere, annunziando il contenuto dei brevi periodi a mano a mano che li scorreva, disse:

— Erede universale Giacomo... esecutore testamentario... un legato di duecent’onze l’anno a don Matteo Garino...

— Nient’altro?... E nient’altro?... domandarono tutt’intorno.

— Non c’è altro.

Donna Ferdinanda s’alzò e si mise a leggere il foglio prendendolo dalle mani del principe a cui il duca l’aveva passato; ma Lucrezia, venendo a metterglisi al fianco, le disse:

— Vostra Eccellenza mi lasci vedere.

Il principe pareva del tutto disinteressato. Le due donne che stavano chine sul documento scambiarono sottovoce qualche parola; poi Lucrezia annunziò, forte: — Questo testamento è falso.

Tutti si voltarono. Il principe, con estremo stupore, esclamò:

— Come, falso?

— Falso? saltò su Garino, che se ne stava nel vano d’un uscio.

— Ho detto che è falso, — ripetè Lucrezia, dando uno spintone a suo marito che voleva leggere anche lui il foglio. — Questa non è scrittura dello zio; la scrittura dello zio la conosco.

— Fammi vedere!... e Giacomo considerò attentamente i caratteri, mentre tutti gli altri gli s’affollavano intorno, esaminandoli anch’essi.

— T’inganni, — disse il principe freddamente; — è scrittura dello zio.

Degli altri nessuno espresse un’opinione. Con tono di fine ironia, Lucrezia replicò:

— Allora, vorrei sapere quando l’ha scritto. Stanotte? C’è ancora la sabbia attaccata!

La Sigaraia intervenne:

— Eccellenza, Sua Paternità scrisse il testamento ieri l’altro: perchè, poveretto, il cuore gli parlava e gli diceva che la sua fine era prossima...

— E perchè non ne avete detto nulla? — domandò allora donna Ferdinanda.

— Eccellenza...

— Io ne fui avvertito, — affermò il principe.

— Ma a noi dicesti che non credevi ci fosse testamento...

— Fui avvertito che si sentiva poco bene, non che avesse fatto testamento!

— Avresti potuto farcelo sapere, — ribattè donna Ferdinanda.

— Ma che! — riprese Lucrezia, dando un altro spintone a Benedetto, il quale le faceva qualche osservazione prudente all’orecchio: — È un testamento falso, si vede dalla freschezza della scrittura e anche dalla firma. Lo zio firmava Blasco Placido Uzeda, col secondo nome preso in religione...

Garino allora credette di dover dire la sua:

— Eccellenza, allora Vostra Eccellenza crede...

— Voi state zitto! — esclamò Lucrezia, sprezzantemente, superba di fare atto d’autorità dinanzi a tutta la parentela.

— Vostra Eccellenza è la padrona... — continuava nondimeno il Sigaraio, con aria dignitosa, — ma non può offendere un galantuomo. Allora l’ho fatto io, il testamento falso?

E a un tratto la Sigaraia scoppiò in pianto:

— Quest’affronto!... Maria Santissima!...

Il duca, il marchese, Benedetto intervennero tutti insieme:

— Chi ha detto questo?... State zitta, in un momento simile... Silenzio, vi dico: che è questo modo?

— Tu accetti il testamento? — insisteva Lucrezia, rivolta al fratello.

— Sicuro che l’accetto!

— Allora ce la vedremo in tribunale! Intanto chiamate l’autorità per mettere i suggelli...

E la Sigaraia che si strappava i capelli, di là, inginocchiata dinanzi al morto:

— Parlate voi!... Ditelo voi se è vero!... Una simile ingiuria!... Dopo tant’anni che v’abbiamo servito!... Parlate voi dal paradiso, con la bocca della verità!...

E la lite scoppiò, più feroce di tutte le precedenti. Donna Ferdinanda non scherzava, all’idea che le avevano tolto la sua parte della successione; ma Lucrezia era implacabile, per la rivincita da prendere su Graziella che l’aveva trattata male e anche un po’ perchè sperava sull’eredità dello zio come un mezzo di mettere in piano l’amministrazione della propria casa: dacchè la teneva lei, non c’erano quattrini che bastassero. Il marchese, bonaccione, voleva evitare lo scandalo; ma Chiara, per fare il contrario di ciò che egli voleva, si schierò contro Giacomo con la zia. A poco a poco tutto l’amor suo pel marito s’era rivolto al bastardo; e poichè Federico era sempre vergognoso della paternità clandestina e non voleva riconoscerla, l’odio antico per il marito che le avevano imposto s’era venuto ridestando in lei. La sua testa di Uzeda sterile aveva concepito e maturato un disegno: lasciare Federico, adottare il bastardello e portarselo via; avendo bisogno di quattrini, sperava nella sua parte dell’eredità di don Blasco. Ella, Lucrezia e donna Ferdinanda si nettavano quindi la bocca contro quel falsario di Giacomo, contro quel ladro che voleva la roba del monaco come aveva carpito le Ghiande alla felice memoria di Ferdinando: quello sbirro di Garino aveva proposto ed eseguito il colpo, chè al tempo in cui esercitava l’onorato mestiere di spia s’era provato ad imitare le scritture dei galantuomini, per rovinarli dinanzi alla polizia. Ma il più bello che era? Che un ladro aveva rubato l’altro; giacchè Garino, il quale doveva farsi lasciare dodici tarì al giorno soltanto, aveva calcato la mano, mentre c’era, portando il legato a duecento onze l’anno! Nè il principe poteva fiatare, perchè altrimenti si sarebbe dato la zappa sui piedi!...

Garino e la Sigaraia giuravano e spergiuravano che era tutta un’infamia inventata dalla parentela, la quale non aveva mai potuto andare d’accordo. A chi volevano dunque che la buon’anima lasciasse? Alla sorella ed ai fratelli, che aveva amato come il cane i gatti? L’erede naturale era il principe, il capo della casa! Quanto ad essi, niente di più naturale che la sant’anima si fosse disobbligata dei loro buoni servigi; anzi, per dire la verità, chi si sarebbe aspettata quella miseria di 200 onze, dopo quanto avevano fatto per lui?...

O fatto o non fatto, donna Ferdinanda spedì la prima carta bollata, in cui impugnava il testamento e domandava una perizia al tribunale. Il principe si strinse nelle spalle, ricevendola. Per lui, niente era più doloroso delle liti in famiglia; e a tutte le persone che incontrava esprimeva il suo profondo rammarico per la condotta della zia e delle sorelle. Ma che poteva farci? Poteva rinunziare all’eredità? Erano esse le ostinate, le prepotenti e le pazze!... In casa, però, egli era divenuto più irascibile di prima. Contegnoso dinanzi alle persone, sfogava dinanzi alla moglie, ai figli ed ai servi la contrarietà e l’acredine. Teresa, veramente, non gli dava nessun appiglio, sempre docile e obbediente; la principessa anche lei chinava il capo al soffio della bufera; ma egli se la prendeva tutti i momenti col figliuolo, attribuendo all’apostasia politica di costui l’inasprimento di donna Ferdinanda.

— S’è messo in urto con sua zia che gli voleva tanto bene, cotesto imbecille, cotesto buffone! Perderà l’eredità, per andare a dir buffonate al circolo e al quadrato! E mi fa piovere una lite sulle spalle! Io domando e dico se mi poteva capitare maggior disgrazia d’avere un figlio così bestia e birbante!...

Ma, oltre quella, egli aveva tante altre ragioni di cruccio. Più che mai infervorato nelle sue nuove idee, deciso colla cocciutaggine di famiglia a percorrere la strada prefissa, Consalvo spendeva adesso a libri un occhio del capo. Ne faceva venire ogni giorno, intorno ad ogni soggetto, dietro una semplice indicazione del libraio, senz’altro criterio fuorchè quello della quantità, con la stessa smania di sfoggiare e di far le cose in grande che, prima, quando l’eleganza degli abiti era il suo unico pensiero, gli faceva comperare i bastoni a dozzine e le cravatte a casse. Era umanamente impossibile, non che studiare, ma neppur leggere tutta quella carta stampata che pioveva a palazzo, le opere in associazione, le voluminose enciclopedie, i dizionarii universali; e ad ogni nuovo arrivo il principe montava peggio in bestia.

— Vedi?... — rispondeva Consalvo a Teresa, quando la sorella andava a parlargli il linguaggio della pace e dell’amore. — Vedi? S’è proprio messo in capo di contrariarmi in tutto e per tutto. Che faccio di male? C’è cosa che più raccomandano, oggi: lo studio? il sapere? No: neppur questo!...

E quando il principe se la pigliava direttamente con lui, e gli rimproverava il dissidio con la zia e lo sciupio dei quattrini:

— Io penso con la mia testa, — rispondeva freddamente il figlio. — ciascuno è libero di pensarla come crede. Mia zia non può impormi le sue idee... e se spendo qualche cosa a libri, domando altro?...

Ogni domenica c’era un’altra lite per la messa. Consalvo si seccava di andare a sentirla, sorrideva d’un ambiguo sorriso allo zelo religioso del padre: costretto a confessarsi, recitava al vecchio domenicano una filastrocca di bislacchi peccati. Punzecchiava anche la sorella pel fervore che ella metteva nelle pratiche divine; voltava le spalle alle tonache nere che bazzicavano per la casa. Il principe aveva fatto costrurre, nel camposanto del Milo, un monumento di marmo e bronzo sulla sepoltura della prima moglie: negli anniversarii della morte andava lassù con la principessa e Teresa, faceva dire molte messe pel riposo dell’anima della defunta, portava grandi corone di fiori sulla tomba. Consalvo non andava mai insieme con la famiglia: o un giorno prima, o un giorno dopo. Ad ogni pretesto addotto dal figlio, il principe lo guardava fisso; poi si lasciava condurre via dalla moglie, la quale lavorava a mettere pace, ad evitar liti. E adesso l’urto era più tra figlio e padre che tra figliastro e madrigna; Consalvo si piegava piuttosto ad una buona parola della principessa che alle ingiunzioni del principe.

Un giorno annunziò che aveva preso un professore di tedesco e d’inglese. Il padre, dopo averlo guardato bene in viso, gli domandò:

— Mi spiegherai una volta che diamine vuoi fare?

Consalvo, dopo averlo guardato anche lui:

— Quel che mi pare, — rispose.

A un tratto il principe diventò rosso come un gambero e, levatosi da sedere, quasi una molla lo avesse spinto, si precipitò contro il figliuolo, gridando:

— Così rispondi, facchino?

Se la principessa e Teresa non si fossero slanciate a trattenerlo, e se Consalvo non fosse andato subito via, sarebbe finita male. Da quel momento la rottura fu assoluta. Per ordine del principe, il giovanotto non venne più a prender i pasti con la famiglia: cosa che se dispiacque alla principessa e più alla sorella, fece a lui grandissimo piacere. Egli vide il padre un momento ogni giorno, per dargli il buon giorno o la buona sera; nè questi lagnossi più del mutismo e della solitudine in cui si chiudeva il figliuolo, anzi evitò egli stesso d’incontrarlo. Prima del famoso viaggio, quando i vizii e i debiti del giovanotto procuravano al principe stravasi di bile, moti nervosi e vere malattie, un dubbio era sorto nella testa di quest’ultimo: suo figlio era forse jettatore? E il dubbio adesso facevasi strada, quantunque egli non osasse manifestarlo. Ma perchè, dunque, tutte le volte che egli affrontava una discussione col figliuolo, gli veniva il mal di capo o gli si guastava lo stomaco? Perchè, durante la lunga assenza di Consalvo, egli era stato benissimo? In un altro ordine d’idee, quella conversione politica che aveva acceso il furore di donna Ferdinanda e coonestata l’impugnazione del testamento, non era un’altra prova di malefico influsso? Rivangando nella propria memoria, il principe trovava altre ragioni di credere a quel funesto potere: una vendita andatagli male quando il figliuolo aveva detto: «Sarà difficile ottenere buoni prezzi;» una scossa di terremoto prodottasi dopo che il giovanotto aveva osservato: «L’Etna fuma!...» Pertanto egli era adesso contento di non averlo più vicino; se lo incontrava per le scale, o traversando le stanze, rispondeva con un cenno del capo al suo saluto e tirava via; se c’era una necessità qualunque di stargli da presso, in salotto, quando venivano visite, gli parlava il meno possibile, scappava appena poteva.

L’unico mezzo di rimetter la pace in famiglia era che il giovane prendesse moglie e andasse a far casa da sè. Tanto e tanto, aveva ventitrè anni, e in Casa Uzeda gli eredi del principato s’ammogliavano presto. I lavapiatti, i pettegoli, i curiosi, tutti coloro che s’occupavano dei fatti dei Francalanza come se fossero i proprii, aspettavano con impazienza il matrimonio di lui e di Teresa, discutevano i partiti possibili. Per Consalvo c’era l’imbarazzo della scelta: il barone Currera, il barone Requense, il marchese Corvitini, i Cùrcuma, tanti altri avevano figliuole straricche in età d’andare a marito; per Teresa la cosa era più difficile. Giovani a un tempo ricchi e nobili tanto da poterla sposare, non c’erano altri che i due figli della duchessa Radalì. La duchessa, sacrificati i suoi più begli anni per amor del primogenito, gelosa di lui, non gli aveva ancora dato moglie, non trovando buono nessun partito e se lo teneva cucito alle gonne, quasi potessero rubarglielo; invece lasciava libero Giovannino, perchè al giovane non venisse voglia d’ammogliarsi. L’eredità dello zio lo aveva fatto ricco quanto il fratello maggiore, ma tra loro due c’erano differenze che andavano considerate. Michele non era di fisico molto vantaggioso, a ventisei anni aveva pochi capelli ed una corporatura troppo pingue; ma era il primogenito, possedeva tutti i titoli della casa; il secondo, che godeva solo di quello non trasmissibile di barone, era fra i giovani più graziosi ed eleganti. Quantunque andassero poco dagli Uzeda dacchè c’era una ragazza da marito — anzi a causa di ciò, — le voci d’un possibile matrimonio trovavano credito; ma il principe, se gli domandavano che cosa ci fosse di vero, dichiarava che prima doveva ammogliarsi Consalvo, e la principessa si guastava addirittura. «Queste ciarle mi dispiacciono, non per niente, ma perchè potrebbero venire all’orecchio di Teresina, e io sono molto gelosa: il mio sistema è che le ragazze non debbano saper certe cose né udire certi discorsi!...»

Teresa pareva non udire nè questi nè altri discorsi, e sognare tuttodì ad occhi aperti. Divorava i pochi libri di versi e i romanzi che la principessa le consentiva di leggere, dipingeva quadretti dove si vedevano castelli merlati sorgenti in mezzo a laghi di cobalto, trovatori con la chitarra ad armacollo, o più spesso castellane inginocchiate ed oranti, Madonne col divino Figliuolo tra le braccia. Le composizioni austere e più le sacre erano le preferite dalla principessa; e la figliuola lasciava perciò da canto i soggetti frivoli. Questa costante remissione ai voleri altrui, questo senso di doverosa obbedienza erano sempre vivi in lei; più Consalvo dava motivi di cruccio in famiglia, più ella credeva suo obbligo di evitare ai parenti ogni più piccolo dispiacere. Le finzioni poetiche dei libri le accendevano la fantasia e le facevano battere il cuore, ma se la principessa giudicava troppo lungo il tempo da lei dedicato alle letture frivole, le smetteva addirittura. Spesso udiva lodare un romanzo, un dramma, un volume di versi, e si struggeva di comperarli, immaginando quanto dovevano esser belli, che piacere le avrebbero procurato; non ci pensava più se la madrigna le diceva: «No, Teresina, non sono per te.» Certe volte quei libri erano posseduti da Consalvo, il quale, benchè s’occupasse solo di studii positivi, pure comprava anche la roba amena per far vedere che era a giorno di tutto; e allora sarebbe bastato a Teresa farsi prestare il volume dal fratello per leggerlo di nascosto; ma quest’idea non le passava neppure pel capo, per la stessa ragione che, in collegio, aveva rifiutato di leggere i libri che qualche sua compagna era riuscita a procurarsi, e non aveva dato ascolto ai discorsi proibiti delle amiche sventate. Il confessore, la direttrice le avevan detto che non bisognava neppur parlare di certe cose, ed ella se ne asteneva, rigorosamente. Come quando era bambina, l’idea delle lodi e del premio da ottenere, l’ambizione di vedersi additata come esempio alle altre vincevano le tentazioni della curiosità, non le facevano sentire le privazioni che s’infliggeva.

Adesso la conducevano spesso al teatro: d’estate alla commedia, d’inverno al melodramma; ed ella non sapeva veramente dire quale dei due spettacoli le piacesse di più. Ella stessa componeva di tanto in tanto un valzer, una mazurca, oppure notturni, sinfonie, fantasie senza parole che portavano per titolo: Vorrei! Incanti, Storia mesta, Ognor..., e conoscenze, parenti, amici, tutti andavano in visibilio udendole; lo stesso maestro, un vecchietto scelto apposta dalla principessa per non mettere «l’esca accanto al fuoco,» prodigava grandi lodi: don Cono, il vecchio lavapiatti, le dava del «Bellini in gonne» ed anzi una volta esclamò: «Opino che al concerto bellico convenga appararle onde eseguirle in pubblico!» Il concerto bellico era la musica militare, che godeva la fama d’essere una delle migliori d’Italia. Teresa si schermì; la principessa, tra il piacere di far conoscere a tutti il talento di «mia figlia» e la repulsione per la pubblicità, non sapeva risolversi; il principe, poichè non ne andavan quattrini di mezzo, era del tutto indifferente; ma don Cono, incaponito nella sua idea, venne un giorno a dire che aveva già parlato al capobanda.

Il maestro venne al palazzo, in compagnia del lavapiatti; era un giovane così bello che pareva San Michele Arcangelo: bruno di capelli, biondo di baffi, roseo di carnagione. La principessa, appena lo vide, cominciò a torcere il muso e a far segni a don Cono per dirgli che non s’aspettava da lui quella parte: condurle in casa un tipo simile?... Intanto il maestro eseguiva al pianoforte le composizioni della signorina, con un colorito, un’espressione, un’anima da renderle irriconoscibili alla stessa autrice; e ad ogni pezzo le esprimeva una crescente ammirazione, e quando non ce ne furono più, disse che non sceglieva perchè erano uno più bello dell’altro: non potendoli prender tutti, lasciava che la stessa «principessa» scegliesse. Teresa gli diede Storia mesta; ma quando, finito di cavar la partitura, una settimana dopo, il maestro si presentò al portone del palazzo, per far vedere il suo lavoro, il portiere disse che i padroni non ricevevano.

— Condurmi in casa quel tipo? Non m’aspettavo un simile tiro da voi! Si vede bene che non avete figliuole! — aveva detto donna Graziella al vecchio lavapiatti, non riuscendo a darsi pace; ma ella esagerava, come in ogni cosa: la principessina di Francalanza poteva forse gettare gli occhi sopra un capobanda?

Storia mesta fu eseguita una domenica, alla Marina, dalla musica del reggimento: il concerto era veramente uno dei migliori, e la composizione di Teresa parve un vero pezzo d’opera, con certi cantabili affidati ad un corno inglese dolce come una voce umana, e certi effetti d’organo da far credere alla gente d’essere a San Nicola, dinanzi allo strumento di Donato del Piano. Teresa, in carrozza chiusa, sotto i platani, stava a udire, col cuore che le batteva come se volesse schiantarsi, con un nodo di pianto alla gola e pallida in viso come una rosa bianca, e poi a un tratto di porpora quando, al finire del pezzo, s’udì uno scroscio d’applausi... La musica sua, quella degli altri, i drammi, la poesia l’inebbriavano, la rapivano, la sollevavano in alto, in cielo, nell’etere azzurro, dove ella non sentiva più il suo corpo, dove aspirava e beveva, anche tra le lacrime, la pura felicità. Ma niente delle commozioni ora dolci, ora ardenti, or tristi, or soavi, or disperate, ineffabili sempre, che gonfiavano il suo cuore di gioia o lo serravano dall’angoscia, era noto al mondo. Ella non si tradiva: mentre l’anima sua era più turbata, al pensiero dell’amore, nell’attesa dell’amore, dinanzi agli uomini, ai giovani belli come il cugino Giovannino Radalì; mentre la fantasia le rappresentava con maggior evidenza il proprio avvenire, piaceri e dolori, fortune e sciagure, ella rimaneva tranquilla e composta e serena. Non le costava farsi forza, disperdere quelle fantasie per attendere alle minute o ingrate bisogne reali.

La conoscenza del maestro del reggimento, le sue lodi, l’esecuzione della musica avevano scatenato una tempesta in lei; ma quando il giovane, per divieto della principessa, non tornò più al palazzo, ella non pensò più a lui. Don Cono, incaponito nella sua idea, incoraggiato dal lieto successo, parlò un giorno all’assessore dei pubblici spettacoli, perchè desse ordine al direttore della musica cittadina di concertare anche lui le composizioni della principessina. Questo assessore degli spettacoli era Giuliano Biancavilla, figliuolo di don Antonio e della Bivona, un giovanotto sulla trentina, bruno di carnagione e nero di capelli come un arabo, ma fine, elegante e con gli occhi dolcissimi. Appena udì la proposta di don Cono, dette immediatamente gli ordini opportuni, e la principessa acconsentì che la figliuola avesse tutte le conferenze occorrenti col maestro, che era sulla sessantina. Ma quando il diavolo ha da ficcarci la coda! Donna Graziella, con tutte le sue precauzioni, non potè impedire che il giovane assessore mettesse, da lontano, gli occhi addosso a Teresa! Al teatro la guardava fiso, senza lasciarla un istante; al passeggio, la sua carrozza seguiva sempre quella degli Uzeda; perfino in chiesa si faceva trovare sul loro passaggio. Appena accortasi di quella commedia, la principessa riferì ogni cosa al principe, il quale lasciò cadere tre sole parole:

— È pazzo, poveretto.

E la lingua della moglie cominciò a lavorare. Un Biancavilla pretendere alla principessina di Francalanza? Forse perchè una Uzeda aveva sposato un Giulente? Poveretto, credeva d’avere a fare con un’altra Lucrezia, quell’assessore!... Nobili, sissignori: i Biancavilla erano nobili, ricchi anche; ma la loro ricchezza e la loro nobiltà non li faceva eguali ai Vicerè. «Guardate frattanto che ardimento e che petulanza! Far ciarlare la gente della mia figliuola!...» E con tutti i suoi discorsi, non s’accorgeva di diffondere più rapidamente la nuova.

In breve non si parlò d’altro in città. «Glie la daranno?... Non glie la daranno?...» Ma tutti riconoscevano che Biancavilla aveva posto gli occhi troppo in alto. Baldassarre, specialmente, non sapeva darsi pace. Egli voleva naturalmente che la principessina sposasse uno fatto per lei, un barone, a dir poco, ricco da mantenerla come una regina; e, pure aspettando che il principe facesse la sua scelta, in cuor suo aveva destinato alla padroncina il cugino don Giovannino. Questo frattanto era per lui certo: che la signorina non si sarebbe neppure accorta dell’esistenza di Biancavilla.

Invece, alla lunga, gli sguardi del giovane avevano attirato quelli di lei quasi per virtù magnetica e le facevano adesso affrettare e mancare tutt’in una volta il respiro. Anch’ella lo guardava, di tanto in tanto, senza vederlo bene, dal turbamento; ma tornava a casa felice e ridente quando lo aveva scorto anche da lontano, e si metteva a improvvisare al pianoforte, tremando da capo a piedi, come se egli potesse udire tutti i pensieri d’amore che ella confidava allo strumento, le divine speranze d’eterna felicità... In collegio, ella aveva composto talvolta qualche verso, per le feste delle maestre, per gli onomastici delle amiche: voleva adesso scriverne per lui, metterli in musica unicamente per lui...


Se fossi il pallido
raggio di luna
che a notte bruna
ti posa in fronte;

se fossi il zeffiro,
la lieve brezza
che t’accarezza...


Non riuscì ad andare più innanzi, ma si pose a comporre una romanza su quel tema, intitolato Se!... piangendo di dolcezza, quando non la vedevano, mentre le note appassionate s’involavano dal pianoforte.

In inverno, il barone Cùrcuma diede alcuni balli. Donna Graziella non aveva ancora condotto Teresa in società, prima di tutto perchè non intendeva che i giovanotti avvicinassero sua figlia, e poi anche perchè non aveva giudicato nessuna casa degna d’esser frequentata dalla principessina. Quella dei Cùrcuma, veramente, poteva passare; e poi il principe volle che tutta la famiglia vi andasse. Ma il cuore le parlava, a donna Graziella: giusto la prima sera, chi ci trovò? Giuliano Biancavilla!... Se quel petulante avesse conosciuto un poco il mondo, sarebbe rimasto quieto al suo posto; invece pensò di farsi presentare e di ballare con sua figlia!... Teresa tremava, nelle sue braccia; egli non le disse altro che qualche parola: «È stanca?... Grazie!...» ma pareva a lei d’essere in cielo, mentre la principessa stava sulle spine e faceva segni al marito per dimostrargli il pericolo. Ma il principe era in istretto colloquio col padrone di casa; e a un tratto quel petulante si ripresentò per chiedere alla signorina una mazurca. Allora donna Graziella intervenne:

— Scusate, cavaliere; mia figlia è stanca.

Con una gran stretta al cuore Teresa s’accorse dell’opposizione della madre. Infiammato per averla tenuta un momento fra le braccia, Biancavilla si mise a seguirla per le vie, come l’ombra: la principessa gonfiava, smaniava, soffiava: una volta, sulla porta della chiesa dei Minoriti, passandogli innanzi, esclamò piano, ma in modo che i vicini potessero udirla: «Che seccatore!...»

Teresa pianse a lungo, nascondendo le proprie lacrime, prevedendo che tutte le sue speranze si sarebbero infrante, se i suoi non volevano. Anche i Biancavilla sapevano che gli Uzeda non avrebbero mai consentito a quel matrimonio; ma il giovane, che era ben cotto, insisteva giorno e notte presso la madre e il padre perchè facessero la domanda; tanto che un giorno Biancavilla padre prese il suo coraggio a due mani e andò a parlare col duca. Questi, con grande consumo di «molto onorati» e di «figuratevi con quanto piacere, per me!» gli rispose che ne avrebbe parlato al principe; Giacomo ripetè allo zio le stesse tre parole dette alla moglie, con una piccola variante: «Sono pazzi, poveretti!» Quindi il duca rispose a don Antonio, con molte belle parole, che non se ne poteva far niente, «perchè il principe voleva prima accasare Consalvo.»

Non era un pretesto. Il principe aveva iniziato pratiche coi Cùrcuma ed era andato in casa loro per combinare il matrimonio della baronessina col figlio. Il partito era stato accettato a occhi chiusi, e l’assiduità di Consalvo ai balli del barone fu appresa come l’inizio della sua corte alla signorina. Ma egli non sapeva niente di quello che aveva ordito suo padre, e andava ora in società per parlare di politica e di filosofia. Tutto l’oro del mondo non lo avrebbe piegato a fare un giro di valzer: egli perorava nel cerchio degli uomini, e se avvicinava le signore o le signorine, le metteva a parte del bilancio comunale, del regolamento scolastico e del gettito dei dazii consumo, con molte citazioni statistiche e proverbii latini. Ripetuta di bocca in bocca, la notizia del suo matrimonio arrivò anche a lui; e allora egli scoppiò in una risata cordiale, dicendo, più laconico del padre:

— Sono pazzi!

Prender moglie, sposare una bambola carica d’oro come quella baronessina, legarsi ancora più strettamente a quel paese dal quale voleva andar via, crearsi gli avvincenti doveri della famiglia, quando egli aveva bisogno d’essere libero come l’aria, di dedicare tutte le proprie energie al conseguimento dello scopo prefissosi? Eran pazzi, davvero! E la cosa gli parve tanto buffa, che neppur volle smettere le visite al barone.

Giusto in quel torno, perduta ogni speranza, Giuliano Biancavilla partì. Chi diceva che sarebbe andato a Roma, chi a Parigi, chi aggiungeva che non sarebbe mai più tornato a casa, senza riguardo al dolore dei suoi. Il duca, per incarico del principe che aveva paura di parlare direttamente col figliuolo, annunziò a Consalvo che era tempo di prender moglie e che tutta la famiglia era d’accordo per dargli la baronessina.

— Benissimo, Eccellenza, — rispose il giovane. — C’è però una difficoltà.

— Cioè?

— Che io non la voglio!

— E perchè non la vuoi?

— Perché no! Si tratta di me o di Vostra Eccellenza? Si tratta di me! Dunque tocca a me manifestare la mia volontà. Io non la voglio.

Quando il duca riferì al principe questa risposta, Giacomo era già fuori della grazia di Dio, per aver saputo che il perito, incaricato dal tribunale di esaminare il testamento del fu don Blasco, s’era pronunziato contro l’ autenticità della scrittura. Udendo il decisivo rifiuto del figlio, egli scoppiò, gridando con voce rauca:

— Ah, jettatore! Lo fa apposta! Per farmi crepare! Ma voglio far crepare lui, prima! Ditegli dunque che si scelga chi diavolo vuole: sposi, sposi la prima sgualdrina che gli piace, una di quelle ciarpe con le quali andava bagordando quando ancora non s’era fitto in capo di divenire letterato! Sposi chi gli piace e vada al diavolo, perché io non voglio più trovarmelo fra i piedi, cotesto jettatore!

— Eccellenza, — rispose il principino allo zio che gli riferiva la seconda ambasciata, — io non voglio sposare nè la Cùrcuma, nè nessun’altra. Sono ancora giovane e ci sarà sempre tempo di mettermi la catena al collo. Il certo e sicuro è che per ora non bisogna parlarmi di matrimonio. Non sono una donna come la zia Chiara, che la nonna fece sposare per forza...

E la nuova tempesta si veniva addensando sordamente; i lampi guizzavano negli sguardi irosi del principe, i tuoni rumoreggiavano nella sua voce cupa.

— Santo Dio d’amore!... — diceva la principessa a Teresa. — Che dispiacere, questa guerra; che scandalo! E chi sa come e quando finirà... Per questo benedetta sii tu, figlia mia, che non hai mai dato a nessuno il più piccolo motivo di dolore!... Benedetta!... Sempre santa così!..

Teresa si lasciava abbracciare e baciare dalla madrigna, assaporando la lode, dolendosi della guerra tra il padre e il fratello, votandosi alla Madonna perchè la facesse finire. Che cosa poteva offrire alla Vergine, per ottenere tanta grazia? L’amor suo per Giuliano?... No, era troppo, era la cosa che più le stava a cuore... Ella non vedeva più il giovane, non aveva notizia della domanda e del rifiuto; sapeva nondimeno che i suoi non vedevano bene quel partito; ma la speranza era in lei viva ancora: un giorno o l’altro il padre e la madrigna avrebbero potuto ricredersi, consentire alla sua felicità...

Un giorno, invece, scoppiò la tempesta fra il padre e il fratello. Questi aveva ordinato, di suo capo, senza dirne niente a nessuno, quattro grandi scaffali per disporvi i suoi libri; quando il principe vide arrivare quei mobili, fece chiamare Consalvo e gli domandò concitato:

— Chi t’ha permesso d’ordinar nulla, in casa mia?

Il giovane rispose con la studiata freddezza che faceva imbestialire suo padre:

— Avevo bisogno di questi mobili.

— Qui comando io, t’ho detto molte volte, — ribattè l’altro, facendo sforzi violenti per contenersi. — Non s’ha da piantare un chiodo senza mio permesso! Se vuoi far da padrone, vattene via! Nessuno ti trattiene!... Prendi moglie e rompiti il collo.

— Ho già detto, — rispose Consalvo più freddo che mai, — ho già detto allo zio che non voglio ammogliarmi...

— Ah, non vuoi?... Non vuoi?... Ed io ti butterò via a pedate, bestione! facchino! animale!...

— Tanto meglio, — soggiunse il principino freddo come la neve. — Mi farete piacere...

A un tratto il principe impallidì come se stesse per svenire, poi diventò paonazzo come per un colpo apoplettico, e finalmente proruppe, abbaiando come un cane:

— Fuori di qui!... Fuori di casa mia!... Ora, all’istante, cacciatelo fuori!..."

Accorsero, pallidi ed impauriti, la principessa, Teresa e Baldassarre: con la bava alla bocca, il principe fu trascinato via dalla moglie e dal servo.

Teresa, giunte le mani tremanti dinanzi al fratello, esclamò con voce d’angosciosa rampogna:

— Consalvo!... Consalvo!... Come puoi far questo?

— Tu lo difendi? — rispose il giovane, sempre calmo, ma con voce un po’ stridula. — Difendilo, difendili, gli assassini di nostra madre.

— Ah!

Ella nascose la faccia tra le mani. Quando si guardò intorno, era sola. Un andirivieni di servi, per la casa: chiamavano un dottore, applicavano vesciche di ghiaccio alla fronte del principe. Ella andò a cadere dinanzi all’imagine di Maria Santissima. Un rimorso, dopo la scena disgustosa, dopo le terribili parole del fratello, le serrava il cuore, per non aver voluto offrire in olocausto l’amor suo, le sue speranze di bene, per evitare la lite violenta e la tremenda accusa. Ella chiedeva perdono alla Vergine del suo egoismo, le chiedeva conforto ed aiuto, tremante di paura, malferma come se il suolo oscillasse sotto le sue ginocchia. Ed era ancora in ginocchio, quando fu sorpresa dalla principessa che la chiamava al capezzale del padre.

— Figlia mia! Figlia mia!... Che cuore di figlia!... Sì, prega la Madonna santa che torni la pace: Ella sola oramai può fare questo miracolo... Tuo padre non vuole più vederlo, non lo vuole più in casa; ed egli non cede!... Tu no! Tu no!...

E tra i baci e le lacrime, le parlò di qualcuno, di lui, dandole la notizia che era partito:

— Era il meglio che potesse fare. Tu forse lo guardavi con simpatia: non te ne incolpo: siamo tutte state ragazze e so come vanno queste cose. Ma saresti stata certo infelice con lui, e tuo padre, il cui unico scopo è la tua felicità, non voleva... Non ti avrei parlato di queste cose senza i dolori che soffriamo, e se non sapessi che tu sei tanto buona, tanto giudiziosa da comprendere che tuo padre non può voler altro che il tuo bene. È vero, figlia mia?...


La prima volta, dopo quella scena, che il principe udì nominare il figliuolo, gridò:

— Non parlate più di cotesto jettatore! Non lo nominate più! O mando via tutti...

La rottura fu definitiva. Il duca, messo a giorno dell’accaduto, venne a prendersi Consalvo e lo condusse per alcune settimane in campagna. Di ritorno, fu deciso che il principino sarebbe andato ad abitare la casa che il padre possedeva alla Marina. Il giovane non chiedeva di meglio. Arredò il quartiere a modo suo, ed andò a starci contento come una pasqua. Faceva adesso da padrone, non andava più alla messa, riceveva chi voleva, invitava a casa sua i pezzi grossi del Circolo, ai quali mostrava due stanzoni tutti pieni di carta stampata. I vantaggi erano infiniti. A palazzo, non aveva ancora potuto mostrar bene i suoi sentimenti liberali, mettendo fuori lumi e bandiere per le feste patriottiche; qui il 14 marzo e il giorno dello Statuto inalberava un bandierone grande quanto una tenda, e disponeva ai balconi una fila di lampioncini che splendevano malinconicamente nelle tenebre del quartiere deserto. Poi, restava nel suo studio quanto voleva, e prendeva i suoi pasti nelle ore più stravaganti. Studiava l’Enciclopedia popolare, ne mandava a memoria gli articoli riguardanti le quistioni del giorno, e poi sbalordiva l’assemblea con la propria erudizione, dicendo: «Su questa materia hanno scritto Tizio, Caio, Sempronio, Martino, etc., etc.» Come un tempo aveva gettato sulla folla il suo tiro a quattro, così la schiacciava adesso col peso della sua dottrina, e la gente che si tirava da canto, un tempo, per non restar sotto i suoi cavalli, esclamando tuttavia: «Che bell’equipaggio!» adesso lo stava a udire, intronata della sua loquela, dicendo: «Quante cose sa!» La nativa spagnolesca albagia della razza ignorante e prepotente, e la necessità d’adattarsi ai tempi democratici si contemperavano così in lui, a sua insaputa. Pur d’arrivare all’intento, niente lo arrestava, le imprese più ardue non lo sgomentavano; leggeva i libri più pesanti come se fossero romanzi; come un romanzo avrebbe letto un trattato di calcolo sublime. Cavava da quello studio il mediocre profitto che era solo possibile: acquistava una infarinatura di tutto, ammagazzinava cognizioni disparate, idee contraddittorie, una scienza farraginosa e indigesta. Ma, in mezzo alla massa ignorante della nobiltà paesana, si guadagnava la riputazione di «istruito,» e quando la gente minuta udiva nominare il principino di Mirabella, tutti dicevano: «Quello che ora fa il letterato?»

Una bella mattina, tra le stampe che la posta gli portava a cataste, ricevette da Palermo il primo fascicolo dell’Araldo sicolo, opera istorico-nobiliare del Cavaliere don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella. Come lui, tutti i parenti, i sottoscrittori, i circoli ne ebbero un esemplare. L’opera storico-nobiliare cominciava con Brevi cenni amplificati sulle dinastie che avevano regnato nell’isola: Real Casa Normanna, Real Casa Sveva, Real Casa d’Angiò e così via discorrendo fino alla Real Casa Sabauda — chè il cavaliere aveva riconosciuto la nuova monarchia per vender copie del libro alle biblioteche dello Stato. I brevi appunti amplificati fecero ridere Consalvo, la Real Casa Sabauda fece imbestialire donna Ferdinanda, benchè del resto la vecchia adesso fosse in un immutabile stato di furore per via della lite ancora indecisa. Ma la sua collera contro la famiglia del principe s’accrebbe naturalmente, poichè la stampa di quelle «porcherie» era stata possibile per l’anticipazione fatta dal principe a don Eugenio!...

Dopo aver promesso due mila lire, il principe però non ne aveva date più di cinquecento, per le quali lo zio aveva dovuto rilasciargli una cambiale con la data in bianco; ma, dopo la morte di don Blasco, i rapporti finanziarii tra zio e nipote avevano preso una piega pericolosa. Don Eugenio, dapprima con le buone, poi con le minaccie, scriveva al nipote chiedendo altri quattrini, perchè, in caso contrario, egli avrebbe fatto lega con Ferdinanda per impugnare il testamento del fratello; il principe, da canto suo, con la cambiale in mano, pretendeva tenere in riga lo zio. Avviata la stampa dell’opera, il cavaliere piovve un giorno da Palermo: era più sordido di prima, aveva l’aria più affamata che mai. Dopo una lunga serie di trattative, il principe sborsò altre duemila lire, mediante le quali don Eugenio rinunziò con apposito atto a tutto quel che avrebbe potuto eventualmente toccargli nella spartizione dell’eredità del monaco, e riconobbe il nipote proprietario di mille esemplari dell’opera.

Il principe aveva capito che l’impresa di quella pubblicazione non era poi l’affare sballato che tutti credevano. I fascicoli successivi, dove s’iniziava la storia delle singole famiglie, andavano a ruba. Don Eugenio, in verità, si limitava a trascrivere il Mugnòs e il Villabianca, infiorandoli di locuzioni di sua particolare fattura; ma, da una parte, quei libri erano introvabili, o costavano caro e si prestavano poco alla lettura, coi loro vecchi tipi, con la loro carta secca, gialla e polverosa, mentre l’edizione di don Eugenio era veramente bella, e i fascicoli degli stemmi colorati fiammeggiavano dal tanto minio e dal tanto oro; da un altro canto, poi, il compilatore usava l’innocente artifizio di sopprimere le indicazioni troppo precise, talchè tre, quattro, cinque famiglie che portavano per caso lo stesso nome senza nessuna relazione di parentado potevano credere che la storia della sola autenticamente nobile fosse anche la propria. A Palermo, a Messina, in tutta la Sicilia, egli trovava così una quantità di «gentilesche genti» e quindi di associati. Certuni volevano dire che prendesse altri quattrini per aggiungere qua e là: «Una branca di cotanto blasonata famiglia fiorisce tuttosì nella vetusta città di Caropepe....» Donna Ferdinanda, pertanto, diventava paonazza dall’indignazione; e anche Consalvo nutriva un profondo disprezzo per quel parente che non solo prostituiva in tal modo sè stesso, ma discreditava tutta la casta. Il principino però, al contrario della zia, teneva per sè i proprii sentimenti, e manifestava solo quelli che gli giovavano. Sentiva di dover fare in politica come aveva visto fare a suo padre, in casa, quando si teneva bene con tutti e secondava le pazzie di tutti i parenti, salvo a dare un calcio a chi non poteva più nuocergli. Adesso adoperava quel metodo in grande, piaggiando tutti i partiti. Quello dello zio duca aveva sempre il mestolo in mano. Veramente nei quattro anni passati dallo scioglimento della questione romana, il favor popolare aveva a poco a poco ricominciato ad abbandonare il deputato, poichè questi, dimentico del pericolo corso, persuaso d’aver consolidato stabilmente la propria posizione, non temendo più sommosse e rivolgimenti, aveva ripreso a mostrarsi partigiano, a badare agli affari proprii e degli amici piuttosto che a quelli del paese, a trattare il collegio come un feudo; ma, se la gente spicciola incominciava a mormorare, i pezzi grossi, invece, i capi della camarilla si lasciavano ammazzare per l’Onorevole, non giuravano per altro che per lui, per i suoi sani principii di moderazione: nel novembre di quell’anno Settantaquattro, egli fu rieletto, senza dimostrazioni, ma senza opposizioni: all'unanimità. Così Consalvo, dinanzi allo zio ed ai suoi amici celebrava la saldezza della loro fede, l’eccellenza del principio conservatore «da cui dipende la salute dell’Italia»; ma trovandosi dinanzi a qualcuno degli avversarii, affermava la necessità del progresso, la convenienza che anche la Sinistra facesse la prova del governo, perchè «come dice il celebre Tal dei Tali, i partiti debbono alternarsi al potere.» E se gli stavano di fronte due che la pensavano in modo contrario, taceva o dava ragione ad entrambi e torto a nessuno. Tranne che nel grande principio aristocratico, nel profondo sentimento di sprezzo verso la ciurmaglia, nella ferma opinione d’esser fatto veramente d’un’altra pasta, nell’ardente bisogno di comandare al gregge umano come avevano comandato i suoi maggiori, egli era disposto a concedere tutto. Non aveva neppure scrupolo di sostenere a parole il contrario di quel che pensava, se era necessario nascondere il proprio pensiero ed esprimerne un altro. Le parole «repubblica» e «rivoluzione» gli facevano passare brividi di paura per la schiena; ma, per secondare la corrente democratica, per farsi perdonare la sua nascita, s’ingraziava il partito estremo. Al Circolo Nazionale buona parte dei socii, pure accettando le istituzioni, onoravano, sopra tutti gli uomini del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi; altre società, specialmente le popolari, festeggiavano il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, in loro onore; egli ripetè l’esposizione del bandierone e dei lumi anche in quell’occasione, cercò apposta i più noti repubblicani per dir loro: «Io non capisco l’esclusivismo di certuni: senza Mazzini il fuoco sacro si sarebbe spento; e senza Garibaldi, chi sa, Francesco II sarebbe ancora a Napoli.»

Nè credeva alla sincerità della fede altrui. Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire. Al Noviziato aveva avuto l’esempio della sfrenata licenza dei monaci che avevano fatto voto dinanzi al loro Dio di rinunziare a tutto; in casa, nel mondo, aveva visto che ciascuno tirava a fare il proprio comodo sopra ogni cosa. Non v’era dunque nient’altro fuorchè l’interesse individuale; per soddisfare il suo proprio egli era disposto a giovarsi di tutto. Del resto, il sentimento ereditario della propria superiorità non gli permetteva di riconoscere il male di questo scettico egoismo: gli Uzeda potevano fare ciò che loro piaceva. Il conte Raimondo aveva distrutto due famiglie; il duca d’Oragua s’era arricchito a spese del pubblico, il principe Giacomo spogliando i propri parenti; le donne avevano fatto stravaganze che confinavano con la pazzia: se egli dunque s’accorgeva talvolta d’essere in fallo, secondo la morale dei più, pensava che in fin dei conti faceva meno male di tutti costoro.

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