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Parte terza

Capitolo 4
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Il principe Giacomo tardò molto a riaversi interamente dal colpo che l’ultima spiegazione col figlio gli aveva procurato. Minacciato di una congestione cerebrale, si condannò da sè stesso, pel terrore di morire di subito, a una dieta magra che gli impoverì il sangue. Debole, irritabile, divenne più di prima il terrore della casa, e attribuendo più che mai il proprio male al pestifero influsso del figliuolo, non soffriva più d’udirlo nominare. Nei primi tempi, se Baldassarre o qualcuno dei lavapiatti o della servitù alludeva al principino, egli esclamava, afferrando l’ignobile amuleto, tenendolo stretto come in procinto di naufragare: «Salute a noi!... Salute a noi!...» e ingiungeva alle persone di tacere, di smettere immediatamente, rosso in viso come se davvero fosse per morir soffocato. La gente si faceva il segno della croce udendo parlare di quella paura inumana, di quell’avversione contro natura: Teresa ne soffriva più di tutti. Poichè suo fratello non poteva più venire al palazzo, ella stessa andava a trovarlo, in compagnia della principessa, per la quale Consalvo era tornato d’un’indifferenza quasi serena ed urbana, poco lontana dall’affabilità. La madrigna, di nascosto dal principe, mandava al giovanotto buona parte della roba che i fattori portavano dalla campagna e, quantunque ella stessa disponesse di pochi quattrini, pure metteva a disposizione del figliastro la propria borsa. Consalvo, ringraziandola, non accettava nulla: suo padre gli aveva fatto un assegno, e Baldassarre gli portava ogni primo del mese i quattrini. Erano pochi, ma egli s’ingegnava di farli bastare, soffocava i suoi bisogni costosi, mortificava i suoi desiderii di lusso; e non ne soffriva, o ne soffriva come d’una cura dolorosa, necessaria al riacquisto della salute. Quanto al principe, era come se egli non avesse più quel figliuolo: costretto a parlare di lui, non lo chiamava più «mio figlio,» nè «Consalvo,» né «il principino,» ma «Salut’a noi!...» Diceva, per esempio, a Baldassarre: «Porta la mesata a Salut’a noi...» oppure domandava alla principessa, in qualche raro momento di buon umore: «Che dice quella bestia di Salut’a noi?...»

E Teresa non pensava più a Giuliano, dimenticava il proprio dolore, atterrita da quell’odio scellerato. Ella non leggeva più, non sedeva più al pianoforte, col triste pensiero sempre nella mente. L’esilio del fratello era grave al suo cuore; ma perchè aveva egli suscitato l’ira del padre? Come aveva osato incolparlo?... Se pure egli avesse avuto ragione? se era vero?... Ed ella si nascondeva il viso tra le mani, come nel pauroso momento della rivelazione, per non pensare, per non rammentare. Non rammentava ella la madrigna far da padrona in casa della sua povera mamma? Non rammentava il dolore provato all’annunzio che suo padre sposava quell’altra qualche mese dopo la morte della sua santa mamma?... Ma no! Ma no! Questo non voleva dir nulla! Per scacciare l’orribile pensiero, si segnava, pregava, e usciva fortificata dall’orazione. Era colpa dimorare in quei pensieri, continuar quell’indagine: ella unicamente doveva al padre rispetto, obbedienza ed amore. E credendo suo debito compensarlo della ribellione di Consalvo, lo ubbidiva cecamente, lo serviva con umiltà. Il principe non le sapeva grado di quella sua inesauribile bontà. Se talvolta, essendo triste, provando il bisogno di sollevare un istante lo spirito oppresso, ella si metteva al pianoforte, i suoni lo irritavano, ingiungeva che smettesse. Sempre più interessato, litigava sulle spese per le sue vesti; Teresa si contentava di tutto. Ma pel solo capriccio di criticare, di esercitare comunque la propria autorità, ed anche per una specie d’invidia che, goffo com’era sempre stato, gli destava l’abilità con la quale ella faceva figurare come un abito di lusso la più modesta vesticciuola, la punzecchiava assiduamente a proposito della sarta o del figurino di mode.

Un giorno però, cosa strana, s’occupò dell’abbigliamento della figliuola non per rimproverarne l’eleganza, ma per giudicarlo troppo modesto.

— Non hai un abito più grazioso da mettere oggi?

Era una domenica d’estate, e come di consueto la principessa e Teresa andavano fuori in carrozza per prendere il gelato e fermarsi poi dinanzi al cancello del Giardino pubblico, a veder la folla pedestre che v’entrava borghesemente a udirvi la musica. Ma, usciti appena dal portone, donna Graziella, che s’abbottonava ancora i guanti, disse a Teresa:

— Andiamo a fare una visita alla zia Radalì. Oggi è il suo onomastico.

Da un pezzo non la conducevano più lì; ma la principessa e la duchessa si salutarono come se si fossero lasciate il giorno innanzi. C’erano i due figliuoli, il duca e il barone, e altri parenti; furono serviti i gelati, la società si sciolse molto tardi.

La duchessa restituì la visita coi figliuoli, e le relazioni furono riprese con più intrinsichezza di prima. Il duca Michele, mezzo calvo, grasso, asmatico, trascurato nel vestire, stava male e mal volentieri in società; Giovannino invece vi figurava moltissimo. Salutando la cugina, mettendosi vicino a lei, parlandole, egli faceva mostra di molta grazia, d’una viva premura; il primogenito, più grossolano, più ignorante, apriva di rado la bocca, non parlava se non di quaglie e di conigli, del Biviere e del Pantano, di cani e di doppiette. Teresa, cortese ed amabile con tutt’e due, sentiva risorgere e a poco a poco farsi più forte l’ammirazione per la bellezza del cugino. Ella aveva dimenticato Biancavilla, ma c’era un vuoto nel suo cuore: il pensiero di Giovannino lo colmava. Dopo una lunga mortificazione, l’anima sua schiudevasi ancora una volta all’amore; il canto le fioriva sulle labbra, il pianoforte ridiventava il suo confidente, i libri di poesia i suoi ispiratori.

Tra le due famiglie l’intimità si venne stringendo sempre più; c’era un continuo scambio di regali, la voce del matrimonio di Teresa con uno dei cugini tornava ad acquistar nuovo credito; ma nè il principe nè la principessa si spiegavano con nessuno. Baldassarre però trionfava: il partito che egli aveva destinato alla padroncina era quello che i padroni preferivano! E con un piacere immenso, con una gioia indicibile, vedeva che tra la padroncina e il barone la simpatia cresceva ogni giorno. Il duca Michele regalava gran quantità di cacciagione agli Uzeda, ma Giovannino, che si occupava con amore di fioricoltura, mandava grandi mazzi di fiori i quali finivano nella cameretta di Teresa, o piante rare e delicate che ella educava amorosamente. Amante della buona tavola, il primogenito era sempre un po’ intorpidito dal cibo e dalle libazioni; se si facevano quattro salti, egli stava sopra una poltrona a sonnecchiare; Giovannino ballava con Teresa. Una delle cose che più facevano piacere alla principessina era l’udir parlare del fratello in quella casa dove non si poteva più nominarlo: farne le lodi, vantarne l’intelligenza, la serietà della conversione, era il miglior mezzo per guadagnarsi il cuore della sorella. E Giovannino, rammentando i tempi del Noviziato e le monellate commesse a San Nicola, profetava a Consalvo il più lieto avvenire, andava apposta a fargli visita per riferire a Teresa d’averlo trovato intento allo studio.

— Sapete, cugina, — le disse una sera, — Consalvo...

— Sst...! — esclamò piano Teresa, giungendo le mani. — Il babbo....

Infatti il principe passava in quel momento vicino ad essi, dirigendosi verso la duchessa.

— Vogliono Consalvo, — rispose Giovannino all’orecchio della cugina, — consigliere comunale. Vedrete che risulterà dei primi....


Benedetto Giulente, come aveva promesso, fu il padrino del candidato. Egli non sospettava di preparare il terreno ad un rivale. Gli pareva che un posto nella rappresentanza civica bastasse all’attività e all’ambizione del nipote; tutt’al più Consalvo avrebbe potuto prender parte, più tardi, all’amministrazione municipale, essere eletto assessore e, chi sa, un giorno, nominato anche sindaco. Che aspirasse al Parlamento, nè sospettava, nè credeva possibile. Prima di tutto, lo zio duca gli aveva garantito tante volte che, ritirandosi dalla politica militante, avrebbe ceduto a lui, Benedetto, il proprio posto; e questo ritiro, attesa l’età dell’Onorevole, poteva tardare ancora di poco; forse il seggio sarebbe rimasto libero alla prossima legislatura, quando Consalvo non avrebbe neppur avuti gli anni di legge. Del resto gli mancavano tante altre cose, l’esperienza della vita pubblica, principalmente, e sopratutto il patriottismo. Agli occhi di Benedetto, che si struggeva da tanti anni dal desiderio d’esser mandato alla Camera, aver preso parte alle battaglie dell’indipendenza e dell’unità, aver pagato un tributo di sangue, era il massimo titolo per aspirare alle pubbliche cariche. Ora Consalvo non solo era bambino quand’egli si batteva sul Volturno, ma fino a due anni addietro non aveva nascosto a nessuno l’affezione e il rimpianto per l’antico regime. Giulente credeva che la conversione del nipote fosse in gran parte merito proprio, e ne andava naturalmente altero, e si credeva destinato a guidare ancora per lungo tempo l’erede degli Uzeda nella vita pubblica; l’attitudine ossequiente del giovanotto lo confermava in questa fiducia.

Ad aprirgli gli occhi non valse l’esito delle elezioni amministrative. Egli stesso era tra i candidati, avendo finito il suo quinquennio, e Consalvo si presentava per la prima volta; Consalvo fu eletto il secondo, subito dopo lo zio duca, sempre primo; Giulente ebbe il decimo posto... Alla prima riunione del Consiglio riconvocato, il principino venne severamente vestito d’una redingote tagliata all’inglese, con cravatta nera e cappello alto: mentre già tutti erano ai loro posti, egli s’aggirava per l’angusta sala delle riunioni, salutando i conoscenti, chiacchierando col sindaco, interrogando il segretario e volgendosi di tanto in tanto alla mezza dozzina di curiosi che stavano vicino all’uscio. Sedutosi finalmente in un angolo, per evitar vicinanze, cominciò a sfogliare, con mani inguantate, il volume del bilancio e a prendere appunti, facendo correre l’usciere per spedir biglietti a destra e a manca, come aveva visto che usava a Montecitorio. Appena si presentò l’occasione di parlare, l’acchiappò a volo. Trattavasi dell’inaffiamento stradale che facevano con un metodo troppo primitivo: egli chiese di parlare e spiegò quello che aveva visto all’estero. Raccomandò il sistema di Londra e suggerì al sindaco l’idea di scrivere al Lord Mayor «che è il primo magistrato civico della capitale inglese.» Mentre c’era, aggiunse che il Municipio avrebbe dovuto pensare anche ad ordinare un corpo di pompieri. «Nei miei viaggi, non vidi mai città, per piccola che fosse, la quale non avesse simile istituzione, la cui necessità non ho bisogno di far notare agli onorevoli del consiglio.» Nondimeno, per dimostrare la convenienza di aver delle pompe, enumerò quante case s’incendiavano a Costantinopoli, in media, ogni anno. «È vero che non siamo in Turchia...» e fece una breve pausa per dar tempo ai colleghi di ridere della facezia, «ma pensate un poco, onorevoli del Consiglio, ai grandi magazzini di zolfo che si trovano ad ogni pie’ sospinto dentro le mura della nostra città.» Allora spiegò che lo zolfo «è una sostanza eminentemente combustibile, come quella che entra nella composizione della stessa polvere pirica; e se le sue lente combinazioni con l’ossigeno, preparate nelle officine, sono di tanta applicazione nell’industria e nel commercio col nome di acido solforico, una combinazione troppo rapida manderebbe in fiamme la nostra città....»

Il discorso ebbe un bel successo: pochi osservarono che quel giovanotto di primo pelo aveva l’aria di far la lezione; quasi tutti ammirarono la facilità della sua parola e giudicarono che il principino di Mirabella era davvero un giovane «istruito.» Egli continuò a parlare ogni giorno; per la discussione del bilancio pronunziò una trentina di concioni una più sbalorditiva dell’altra, sulla quistione della dote al Comunale tirò in ballo Sofocle ed Euripide, gli odei della Grecia e i circhi romani; parlando dell’ospedale fece un piccolo corso di clinica distinguendo tutte le malattie per le quali bisognava poter disporre di altrettante sale; a proposito della pescheria citò Darwin e l'Origine della specie, «giacchè il pesceluna che s’imbandisce nelle nostre mense e le sardine che alimentano il popolo discendono dagli stessi protozoi.» Sul capitolo del camposanto arrischiò questa idea: «Io, veramente non sarei alieno dal concetto storicamente più estetico e scientificamente più razionale della cremazione...» ma le unanimi, vivaci proteste di una dozzina di consiglieri clericali lo fecero accorto che sbagliava strada.

Lì dentro, e nel paese, i clericali erano una forza con la quale bisognava patteggiare. Già essi avevano notato che il principino, imbandierando e illuminando la sua casa per tutte le feste costituzionali e democratiche, pareva non accorgersi delle solennità religiose, della festa di Sant’Agata specialmente. La celebravano, come sempre, due volte all’anno: in febbraio e in agosto; ma un’amministrazione libera-pensatrice, giudicato che una sola gazzarra bastasse, aveva soppresso dal bilancio l’assegno per la festa estiva. Questo fu il segnale di una specie di guerra civile. Dal pulpito, nei confessionali, nelle sacrestie i preti incitavano i fedeli alla riscossa: i liberali si ostinavano nel loro proposito, gl’indifferenti erano costretti a prendere un partito, e le cose minacciavano di guastarsi. Il consiglio fu chiamato a decidere. Una folla straordinaria assistè alle tempestose sedute: sagrestani, scaccini, appaltatori e mercantucci interessati alla festa pel guadagno che ne speravano; giornalisti improvvisati badavano a stendere precise relazioni del dibattimento e divulgarle. I campioni liberali facevano grandi sfoggi di eloquenza, ma erano fischiati di santa ragione; i clericali, quasi tutti poveri oratori, erano invece portati alle stelle. Il duca d’Oragua non parlava, come non aveva mai parlato, ma si sapeva che avrebbe votato a favore; Giulente, in cuor suo, era contrario, ma per far la corte allo zio avrebbe votato come lui. Con chi si sarebbe messo il principino? C’era una grande curiosità di saperlo; pertanto, il giorno che egli parlò, una folla tripla del consueto si stipava nella angusta sala e tendeva le orecchie dalle contigue. Egli cominciò a parlare in mezzo a un silenzio profondo. L’esordio accrebbe la curiosità, consistendo al solito nella ripetizione laudativa di tutto ciò che avevano detto «gli egregi preopinanti.» Poi: «ma, signori del consiglio, consentitemi di lasciare per un momento la quistione che sta sul tappeto e di rivolgere a me stesso una domanda, che parrebbe non avere, ma invece ha diretto rapporto con quella (i cronisti notarono: segni d’attenzione). La domanda è questa: i rappresentanti del paese vengono a sedere nell’aula consiliare per sostenere le idee che passano loro pel capo, e siano pure provvide e giuste, o non piuttosto per eseguire il mandato che ripetono dal popolo sovrano?... Certamente per tutelare gl’interessi, per soddisfare i bisogni del popolo che rappresentano. Ora, di fronte alla quistione che ci occupa, il paese ha una volontà? Se sì, qual è dessa?... Signori del consiglio, sarebbe vano nasconderlo: il paese, o per lo meno la più gran parte di esso, vuole la festa!» Il silenzio religioso mantenuto fino a quel punto fu rotto da un urlo d’approvazioni: uragano d’applausi, notarono i cronisti clericali, mentre i consiglieri liberi-pensatori scrollavano il capo, facevano atto di protesta, chiedevano di parlare. Calmo in mezzo alla tempesta, data un’occhiata alle cartelle che teneva dinanzi, egli riprese, dominando il tumulto con la voce squillante: «Consideriamo per un momento accertato che la volontà del paese è per la festa: noi, suoi delegati, qual altro obbligo avremo se non quello di tradurla in atto? E mi scusino i miei colleghi che siedono a quei posti (additando i liberali più avanzati) io comprenderei che a questo concetto si ribellassero tutti gli altri, non mai essi, i quali fanno consistere nell’imperativo categorico uno dei punti più salienti del loro programma!...» Nel silenzio che tornò a regnare tutt’intorno, egli cominciò allora una lezione sul libero arbitrio, citando il «celebre Aristotile,» l’«illustre scuola scozzese,» e nominando un grand'uomo tedesco, inglese o francese ogni mezzo minuto. Il peso di quel discorso schiacciava l’uditorio; ma egli s’era già guadagnato il cuore della folla, e la sua erudizione non poteva se non farlo ammirare di più. Tuttavia, per non dispiacere ai rappresentanti delle idee radicali, quando finì la sua lezione, riappiccò: «Nè la persona rivestita d’una procura abdica ai proprii princìpii per il fatto che esegue la volontà del mandante. Ho sentito lanciare in quest’aula l’accusa di clericalismo contro tutti coloro che voteranno la festa; ma, signori del consiglio, chi può essere così ardito da leggere nelle coscienze? Vogliamo forse tornare ai tempi infausti del Torquemada? Voi sapete che qui seggono uomini d’un patriottismo superiore ad ogni discussione» la piaggeria andava allo zio duca «i quali, votando la festa, non intendono per nulla cancellare tutto un passato che la storia ha scritto a lettere d’oro nei suoi annali imperituri!... Anch’io voterò la festa (formidabile scoppio d’applausi), ma il mio voto non pregiudica i miei principii (nuovi applausi). Dei miei principii sono responsabile dinanzi alla mia coscienza, e con la mia coscienza io non transigo! (benissimo!) Nè io consiglierei mai agli egregi oppositori di transigere con la loro; ma, o signori del consiglio, in quest’aula vi possono essere clericali, cattolici, atei, protestanti.... ebrei.... turchi, se volete (ilarità), e siete proprio sicuri che io non segua la dottrina di Maometto? (nuova ilarità) Ho letto il Corano, che è il Vangelo degli Islamiti, e se davvero esiste il paradiso delle Urì, forse più d’uno fra voi si convertirebbe alla fede ottomana! (scoppio di risa generali) Ma anche un turco, siatene sicuri, se venisse in quest’aula mandato dal nostro popolo che vuole la festa, la voterebbe!... Se io ordino al procuratore che amministra i miei feudi di eseguire un certo lavoro, sarebbe per lo meno curioso che il mio procuratore si rifiutasse, perché ostano i suoi principii! (ilarità, applausi) Se costui si rifiuta, sapete che cosa succede? Io lo mando via! E se noi rifiuteremo la festa, che farà il paese? Eleggerà altri consiglieri che cancelleranno il nostro voto e ristabiliranno l’assegno!»

Oramai ad ogni periodo gli applausi scrosciavano come gragnuola, e quando egli cominciò a dimostrare per quali interessi «legittimi, rispettabili, onesti» tutte le classi della popolazione volevano la festa, l’ovazione si mutò in trionfo: i festaiuoli per poco non lo portarono a braccia per le vie; gli stessi oppositori dovettero riconoscere la sua abilità. Per la festa i suoi balconi furono illuminati a giorno; e poichè la processione della Santa passava sotto casa sua, egli fece dar fuoco a un considerevole numero di bombe e mortaretti.

Il Consiglio, il giorno prima, lo aveva eletto assessore.


Giusto per la festa, in casa del principe ci fu grande ricevimento: la duchessa coi figliuoli arrivò tra i primi, e Giovannino, presa a parte Teresa, le diede la notizia della nomina del fratello. Ella non potè gustarla, perchè il principe era di un umor nero da far spavento. Nella mattina, il tribunale aveva pubblicato la sentenza relativa al testamento di don Blasco; la quale, sulla fede del risultato della perizia, dichiarava false le ultime volontà del Cassinese, buon’anima sua. Quel disastro, coincidente con l’assunzione di Consalvo all’assessorato, era parso al principe una nuova prova del potere jettatorio di «Salut’a noi» e tutto il giorno egli aveva fatto come un pazzo. Ora, perchè non si dicesse che egli era troppo dolente della cosa, sforzavasi di mostrarsi indifferente, di discorrere del più e del meno. Gira e rigira, ogni discorso però finiva con una sfuriata contro i periti corrotti e i giudici birbanti. «Li hanno pagati apposta, per far dire bianco al nero. Se avessi voluto pagarli anch’io, a quest’ora la sentenza direbbe tutto il rovescio....»

Teresa aiutava la madre a servire gl’invitati; il duca Radalì non si faceva pregare, sempre pronto a bere ed a mangiare; ma Giovannino aspettava che Teresa avesse finito per servirla egli stesso. Ella assaggiò appena il gelato che il giovane le offrì. Il malumore del padre non le dava cuore di divertirsi, di goder della festa, della compagnia di Giovannino. Questi non la lasciava cogli occhi, pareva cercar l’occasione di restarle vicino un momento.

— Che avete, cugina?... Non siete contenta?... — le disse, mentre la folla degl’invitati affacciavasi per veder passare la processione.

— No, non ho nulla... Perchè?

— Avete una cert’aria... Non per colpa mia, spero?

— Che dite mai!... Venite a veder la Santa.

Ella troncava così ogni volta i colloquii che minacciavano di prendere una piega pericolosa. Era dover suo fare così; non già che le parole tenere, gli sguardi innamorati del cugino le dispiacessero. L’altro fratello, meno riguardoso, senza dirle nulla di gentile, era capace di metterle le mani addosso, di brancicarla, di abbracciarla, voltando poi la cosa in ischerzo, facendo ridere tutti, togliendo a lei il modo di dolersene; ma i tentativi timidi e secreti di Giovannino la turbavano, come qualcosa di proibito, un vero peccato.

Al balcone, dove c’era ressa di signore, ella potè appena sporgere il capo per veder la processione: Giovannino le si pose accanto, fingendo anch’egli di guardare.

— Arriva...! Eccola...! Accendono i fuochi...

Saliva dalla via un rumore come d’alveare, tanta era la folla, e il campanone del Duomo coi suoi rintocchi lenti e gravi pareva batter la solfa alle campane della Badia, della Collegiata e dei Minoriti: «Viva Sant’Agata!...» Tutte le signore s’inginocchiarono; Teresa, prostrata, col capo basso, gli occhi fissi alla Santa, fece il segno della croce. Cominciava lo sparo dei fuochi d’artificio pagati dal principe; in mezzo al fumo che pareva quello d’una battaglia lampeggiavano i colpi rapidi e frequenti come le scariche di un reggimento; le grida di viva si perdevano in mezzo al fragore degli scoppii e solo vedevansi sul mar delle teste sventolare i fazzoletti come sciami di colombe impazzate. Teresa piangeva a calde lagrime, dalla commozione, pregando la Martire gloriosa di ricondurre la pace in famiglia, di comporre tutti i dissensi, di far felici il padre, il fratello, la madrigna, le zie, tutti, tutti.... E a un tratto sentì prendersi, premersi, stringersi forte la destra: era Giovannino, inginocchiato al suo fianco. Ella non ebbe cuore di svincolarsi da quella stretta: le pareva che Sant’Agata benedicesse a quell’unione, che le promettesse il suo aiuto. E il crepitìo delle bombe e dei mortaretti, il clamore delle campane e delle grida umane diveniva più assordante; e in mezzo a quel frastuono le parve d’udire parole soavi, la voce sua che mormorava: «Teresa.... Teresa, mi vuoi bene?»

I fuochi cessarono a un tratto, e l’urlo degli evviva salì al cielo. Allora, dolcemente, lentamente, dopo aver risposto alla stretta di Giovannino, ella liberò la propria mano... E nel silenzio rifattosi a poco a poco, s’udì una voce che gridava:

— Ma siete insorditi?

Era il cavaliere don Eugenio, arrivato allora allora. Egli pareva più morto di fame di quando era partito. L’abito, tutto macchiato e rattoppato, gli piangeva addosso; le scarpe non dovevano veder cerotto chi sa da quanto, la cravatta pareva un pezzo di corda. Il viso del principe, alla vista dello zio, se era già scuro, si fece buio pesto. Dopo la sentenza contraria, ci mancava quest’altro affamato! Ed appunto don Eugenio aveva fatto il viaggio da Palermo per chiedere nuovi quattrini:

— Ho un’idea: siccome l’Araldo...

— Volete ancora denari?.... — gli gridò sul muso il principe, mettendo da banda l’Eccellenza. — State fresco! Non vi bastano tutti quelli che vi siete presi? Invece di restituire, chiedete dell’altro?

— Io non ho da restituire nulla; puoi pretendere solo le copie!

— Sicuro che le voglio!

— Dopo che ho rinunziato alla causa!

— Grazie tanto della rinunzia! Dice che il testamento è falso: avete capito? Andate a riscuotere la vostra parte, andate!...

I danari arruffati con l’Araldo Sicolo non avean fatto pro al cavaliere. Prima di tutto, la gente da lui mandata attorno ad incassare il prezzo dei fascicoli si tratteneva, di riffe o di raffe, una buona metà: certuni poi se l’eran battuta col valsente. Provato a far da sè, i guadagni se n’eran andati a spese di viaggio. Il cartaio, l’incisore e il tipografo avevano avuto da parte loro solo qualche acconto; quindi s’erano accordati per sequestrar le copie dell’opera e non lasciarle se non dopo pagamento, talchè don Eugenio, se ne volle vendere, dovè pagarle quanto costavano e contentarsi di guadagnarci qualche lira. I premii pagati dai «branchi» delle «blasonate famiglie» gli eran serviti a fare qualche giorno di buona vita, e adesso egli precipitava di nuovo nella miseria. Per sollevarsi, tentava un altro colpo: il Nuovo Araldo, ossivero Supplimento all’opera storico-nobiliare. Con meno pudore e più fame di prima, egli voleva metterci non solo le famiglie dimenticate, ma anche i nuovi nobili, quelli che non si trovavano nel Mugnòs e nel Villabianca, la gente che si faceva dare del cavaliere senza avere titoli autentici, che sfoggiava stemmi più o meno fantastici. Ma per far questo gli bisognavano altri quattrini... Visto di non poter sperare nulla dal principe, andò da Consalvo, che nella sua qualità di assessore poteva dargli aiuto; ma il principino adesso aveva fatto un altro passo avanti nelle idee politiche. Il 16 marzo di quell’anno 1876, dopo sedici anni, il partito di destra era finalmente capitombolato con grande stupore del moderatume paesano e gioia infinita dei progressisti. In quel frangente i nemici del duca profetarono che il grande patriotta, seguendo la solita tattica, si sarebbe voltato contro gli antichi amici, a favore dei nuovi trionfatori; ma la profezia non s’avverò. Il duca, che non andava più da tanto tempo alla capitale, e non sapeva perciò le ragioni e l’importanza della «rivoluzione parlamentare,» non credette alla riuscita e alla durata di essa, e si mostrò più che mai saldo nelle proprie idee. Questa fu la sua salvezza; perchè i progressisti trionfanti non avevano ancora voce in capitolo, mentre quasi tutta la classe dirigente del paese era contro la strombazzata novità. Sciolta la Camera, un certo avvocato Molara ardì presentarsi contro il duca, facendo un programma quasi rivoluzionario in cui si parlava del «più che trilustre sgoverno,» di diritti «conculcati,» di rivendicazioni «imminenti,» non che di redde rationem. I fautori del duca si strinsero intorno a lui sentendosi con lui minacciati. Per rispondere alla «sfida» del Molara, il duca mise fuori, dopo cinque legislature, una «Lettera ai miei elettori». Benedetto Giulente, che aspettava ancora di poter fare un programma per proprio conto, la scrisse. Essa enumerava i titoli della Destra alla gratitudine dell’Italia, la cui unificazione era tutta opera di quel partito: se errori erano stati commessi, questi avevano la loro origine nelle circostanze e non nelle intenzioni. Don Gaspare fu così rieletto con duecento e più voti; Molara potè raggruzzarne a stento un centinaio. Uno dei nuovi ministri della Riparazione, passando da Catania, fu accolto a fischiate.

Ma intanto che il duca s’ubriacava del nuovo trionfo, Consalvo fiutava il vento, si rendeva conto del mutamento operatosi in tutta Italia, dell’imminenza delle riforme liberali. Pertanto, senza prender parte all’agitazione elettorale, dichiarò che la Destra era morta e sepolta. Tenendo la gente a distanza, per non contagiarsi, cominciò a dichiarare d’esser «democratico». E lo zio don Eugenio veniva appunto in quel frangente a proporgli l’affare del Nuovo Araldo!... Egli lasciò che quello straccione facesse anticamera un bel pezzo; poi, udita la sua domanda, alzò le spalle.

— Ma che araldo e trombettiere! Queste cose hanno fatto il loro tempo! Il municipio non può spendere i denari dei contribuenti per incoraggiare pubblicazioni ispirate alla divisione delle classi sociali. Ce n’è una sola: quella dei liberi cittadini!

E la risposta, udita dagli impiegati, ripetuta in tutti gli ufficii, gli valse il plauso dei buoni democratici. Il cavaliere andò subito a riferirla al principe, per farsi un merito mettendogli in peggior vista il figliuolo. Ma nè questo, nè le insistenti preghiere gli valsero un soldo: suo nipote anzi pretendeva i quattrini anticipati, e l’accusava di sciocchezza, soprammercato, a causa del sequestro che s’era lasciato porre dallo stampatore.

Il cavaliere fece un nuovo passo presso la sorella Ferdinanda. Presentatosi in casa sua, gli chiusero l’uscio sul muso. Nondimeno egli fece parlare alla zitellona per ottenere un piccolo prestito che a lei non sarebbe costato nulla ed a lui avrebbe assicurato un pane: la vecchia rispose che neppure a vederlo crepar di fame gli avrebbe dato un soldo per stampare quelle «schifezze.»

Chiusa quest’altra via, don Eugenio andò dalla nipote Chiara. Trovò il marchese solo: sua moglie, la quale da un certo tempo non gli dava più requie, aveva un bel giorno fatto attaccare di nascosto e se n’era andata al Belvedere col bastardello per non tornarci più. Il cavaliere tentava di esporre i suoi guai al nipote; ma questi non finiva più di narrare i proprii, tutto ciò che quella pazza gli aveva fatto soffrire; talchè il povero Gentiluomo di Camera se ne andò via ancora una volta a mani vuote.

Allora, non sapendo più a qual santo votarsi, si rivolse a Giovannino Radalì. Col fiuto d’un bracco affamato, s’era accorto dell’amoretto fra i due cugini, specialmente dai discorsi di Baldassarre. Il maestro di casa era più che mai contento e soddisfatto della piega che prendevano le cose. L’intimità cresciuta tra le due famiglie era indizio che il principe approvava il matrimonio — giacchè Sua Eccellenza non faceva nulla senza un secondo fine — e il bene che i due giovani si volevano assicurava la loro unione. Se ancora non se ne parlava, la ragione andava cercata nei dispiaceri che il principe aveva avuto per via del testamento: siccome il padrone trattava gli affari ad uno per volta, bisognava naturalmente aspettare che la lite finisse del tutto perchè egli si decidesse a maritar la figliuola. Sciogliendo il riserbo che manteneva scrupolosamente sulle faccende dei padroni, Baldassarre dava quindi agli intimi l’assicurazione che, finita la lite, il matrimonio si sarebbe certamente combinato.

Il cavaliere pertanto cominciò a strizzar l’occhio a Giovannino, a parlar bene di lui dinanzi a Teresa, la quale si faceva di mille colori. «Quasi non si sapesse che sarà tuo marito!...» sussurrava alla nipote; e al giovane: «Quasi non si sapesse che sarà tua moglie!...» Egli li incoraggiava, dava all’uno notizie dell’altra, riferiva saluti e ambasciate, finchè chiese a Giovannino un piccolo prestito di mille lire. Il giovane le diede subito, e allora don Eugenio prese il volo.

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