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Calipso faceva di tutto per trattenere Ulisse, ma egli voleva andarsene a ogni costo, voleva ancora
...veder dai tetti
Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Se avesse saputo ciò che si faceva in casa sua, la smania del ritorno sarebbe stata in lui ancora più forte.
I principi di tutte le isole della Grecia
Quanti ha Dulichio e Same e la boscosa
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci...
tutti s’erano radunati intorno alla moglie di Ulisse, le dicevano che si mettesse il cuore in pace e non pensasse più al marito che certamente era morto, le dichiaravano che si doveva considerare come vedova e che doveva sposare uno di loro.
Mentre la casta donna indugiava a prendere una deliberazione, quei signori proci mangiavano, bevevano, giocavano, cantavano, facevano baldoria giorno e notte nella casa di Ulisse:
Pingui capre scannavansi e i più grandi
Montoni, e grossi porci, e una buessa
Di branco, e il prandio si apprestava...
Per mettersi frattanto in appetito
Gli alteri Proci alla magion davante
Dischi lanciavan per diletto, e dardi
Sul pavimento lavorato e terso,
Della baldanza loro solito arringo.
Un araldo, per nome Medonte, piaceva a quei signori proci più degli altri, ed era quello che veniva ad annunziare che il pranzo era imbandito. Allora
Nel regale atrio e sulle fresche pelli
Degli uccisi da lor pingui giovenchi,
Sedeano, e trastullavansi fra loro
Cogli schierati combattenti bossi
De la Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean qua e là serventi e araldi,
Frattanto altri mescean nelle capaci
Urne l’umor dell’uva e il fresco fonte;
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi
E le molte partian fumanti carni.
Quando avevano mangiato e bevuto il mangiabile e il bevibile
Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo
Che gli ornamenti son d’ogni convito.
Penelope aveva fatto il patto della famosa tela, e la storia durò quattro anni. Antinoo, uno di quei signori pretendenti, ne parla così:
Con simil fola leggermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finché il giorno splendea tessea la tela
Superba, e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di mute faci.
Antinoo dice che egli e i suoi compagni furono indignati di quell’inganno.
Se avrò ancora un giorno d’ozio nel tempo che mi rimane da vivere, lo consacrerò a un lavoro accademico per dimostrare che i proci sapevano perfettamente ciò che faceva Penelope, fingevano nondimeno di ignorarlo per tirare avanti allegramente.
Se Penelope avesse avuto finita la tela un mese dopo di averla incominciata e avesse scelto il nuovo sposo, tutti gli altri avrebbero dovuto andarsene e sarebbe stata finita la festa. Gli arrosti fumanti, i vini generosi, i canti, i balli, i giuochi, quella bella vita sfaccendata a spese d’altri avrebbe cessato per tutti, meno che per uno. Anche quell’uno, il felice prescelto, diventando marito e re, avrebbe dovuto occuparsi un poco del governo della casa e dell’isola, e la spensieratezza gaudente avrebbe dovuto cedere il posto a non poche cure. Meglio adunque valeva continuare a tenere l’affare sospeso, pur fingendosi tutti smaniosi di arrivare a una conclusione.
Esposi un giorno a Giosuè Carducci queste mie vedute su tale importantissima parte dell’«Odissea»; egli mi disse che erano nuove ed ebbe la bontà d’incoraggiarmi.
Ne ho fatto qui ora questo breve cenno per mettere altri sulla traccia nel caso probabile che io non possa dar corpo al mio divisamento, e perché i proci, Penelope, Itaca, mi ritornano nella memoria pensando a ciò che Omero riferisce del vecchio cane di Ulisse, Argo, il quale rivede il suo amato padrone, travestito da mendicante dopo vent’anni di assenza, lo riconosce, e muore di gioia.
Riporto, come ho fatto fin qui, i versi della traduzione del Pindemonte.
Ulisse è accompagnato da Eumeo, vecchio servo guardiano dei porci, che non ha riconosciuto il padrone, e crede di accompagnare proprio un mendico. Sono arrivati alla soglia della casa dove i proci stanno banchettando. Eumeo crede meglio entrar primo, ma consiglia a Ulisse di non tardar troppo a tenergli dietro. Questi gli risponde che farà come egli dice e lo rassicura, soggiungendo che i travagli della vita lo hanno fatto paziente a tutta prova.
Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch’ivi giacea, del pazïente Ulisse,
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l’eroe,
Ma còrne, spinto dal suo fato a Troia,
Poco frutto poté. Bensì condurlo
Contra i lepri, ed i cervi, e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,
Finché i poderi a fecondar d’Ulisse
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com’egli vide il suo signor più presso,
E, benché tra quei cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò; ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s’asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi da Eumeo, cui disse tosto:
Eumeo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa
Cui nutron per bellezza i lor padroni.
E tu così gli rispondesti, Eumeo:
Del mio Re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo e d’atti, quale
Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,
Sì veloce a vederlo e sì gagliardo,
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or l’infortunio ei sente.
Perì d’Itaca lunge il suo padrone,
Né più curan di lui le pigre ancelle:
Ché pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando il padrone lor più non impera.
L’onniveggente di Saturno figlio
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile.
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avviossi drittamente ai Proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
gli occhi nel sonno della morte chiuse.
Il cane del povero che seguiva il carro sul quale era portato al cimitero il padrone morto, il cane che, nudrito dalla pietà degli uomini che gli porgevano un po’ di cibo, rimase sette anni sulla zolla dove il suo padrone era sepolto e ci morì; il cane del malfattore romano fatto annegare nel Tevere che seguì a nuoto e cercava di sostenere a galla il padrone agonizzante, hanno degno posto vicino al cane di Ulisse. agro e un cane di merda come il suo padrone perche e porto come un figlio di puttana