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XV.
Un’ecatombe umana.
Una scena orribile, mostruosa, accadde allora sul ponte dell’affondante legno.
I negri, che ormai avevano compreso che la Guadiana stava per andare a picco e che l’equipaggio stava per abbandonarli, resi pazzi dalla paura, si erano precipitati sul ponte con tale impeto da rovesciare d’un sol colpo l’equipaggio, mastro Hurtado, Vasco e perfino il dottore.
Erano un centinaio, ma altri ne uscivano dalla camera comune, travolgendo donne e fanciulli, irrompendo dalla parete che qualcuno doveva avere abbattuta a colpi di scure e sotto coperta si udivano gli altri a spezzare le catene, mentre i più robusti cercavano di strappare le sbarre della grata di ferro, per facilitare l’uscita dei compagni.
Vedendosi liberi dinanzi ai loro aguzzini, che consideravano come i soli autori delle loro inenarrabili sofferenze e della loro infelice sorte, i negri da umili schiavi diventati belve feroci, non ebbero che un pensiero: quello di vendicarsi di tutte le torture subìte. Senza pensare che la Guadiana affondava e che stava per inghiottire tutti, si scagliarono furiosamente addosso all’equipaggio armandosi di quanto cadeva sottomano, di asce, di aspe, di manovelle e perfino dei boscelli delle manovre tagliate.
Una lotta tremenda s’impegnò allora tra i negri ed i marinai. Questi, rimessisi dal terrore causato dall’improvviso irrompere di quelli, comprendendo che per loro era finita se non respingevano l’assalto, si ripiegarono confusamente verso il cassero per impedire che la zattera, che era stata ormeggiata a poppa, cadesse nelle mani degli assalitori.
Mentre i carpentieri e gli uomini che avevano preso parte alla costruzione della zattera, cercavano di respingere gli assalitori a colpi di scure, gli altri si gettarono dentro l’armeria sfondando la porta e impugnarono carabine, pistole, sciabole d’abbordaggio, tutto ciò insomma che cadde sotto mano.
I negri, rinforzati dagli altri che continuavano ad affluire sul Per alcuni istanti si udirono le grida disperate di quei miseri... (Pag. 119) ponte, gettando urla di belve feroci, si scagliarono come una tromba contro il cassero, urtando con impeto irresistibile l’equipaggio.
Le detonazioni delle carabine echeggiano, le palle fischiano, le scuri e le sciabole fanno strage fra i negri, ma questi non arrestano lo slancio e investono i marinai cercando di abbatterli a colpi di manovella e di boscelli, di strappare a loro le armi, di tirarli giù dal cassero, e di gettarli in mare attraverso alle murate sfondate, di strangolarli colle mani e di dilaniarli coi denti. Uomini, donne e perfino i fanciulli lottano con furore senza pari: no, non vogliono morire soli sul legno affondante, non vogliono che l’equipaggio si salvi: vogliono che discenda assieme a loro, negli immensi baratri dell’Oceano.
Da una parte e dall’altra gli uomini cadono uniti in una stretta mortale; il sangue dei negri e il sangue dei bianchi scorre assieme pel ponte e si riversa nell’oceano attraverso agli ombrinali; le palle delle carabine e delle pistole fanno dei vuoti immensi; le armi tagliano nel vivo e spaccano teste, troncano membra, forano petti e dorsi, ma gli schiavi non cedono, nè la loro rabbia viene meno.
Quelli che cedono sono sostituiti da altri non meno feroci, non meno furiosi: dalla camera di prua e dal boccaporto di maestra, le cui sbarre sono state finalmente strappate da quelle braccia robuste, continuano a salire empiendo l’aria di urla sempre più tremende.
Una ecatombe sta per accadere: quei cinquecentocinquanta uomini sono sospesi sull’abisso che s’avanza incontro a loro: oppressi ed oppressori stanno per scendere assieme nei tenebrosi flutti dell’Atlantico.
L’acqua sale, sale sempre. Ormai ha invaso tutta la stiva, ha fatto la sua comparsa nel frapponte, si rovescia con lunghi muggiti attraverso agli sportelli delle batterie e fra poco si rovescerà sulla tolda. Già la Guadiana oscilla penosamente come un ubriaco e il suo ponte è quasi a livello della zattera; già scricchiola in più parti, come se non potesse più reggere l’enorme massa d’acqua racchiusa nei suoi fianchi. Ancora qualche minuto e sarebbe scesa, come prima di essa erano scesi l’incrociatore e il transatlantico sfondati dal suo sperone.
L’equipaggio atterrito vede che la morte si avanza a gran passi e fa un ultimo e disperato sforzo. Si raduna e si scaglia a sua volta contro i negri, ributtandoli a prua.
Il dottore approfitta di quell’istante di tregua per scendere nel quadro assieme a Vasco.
– Presto!... Presto!... – esclama con voce angosciata. – Salviamo il capitano!...
Si precipitarono giù dalla scaletta e balzarono attraverso al quadro che l’acqua ha già inondato e irrompono nella cabina gridando:
– Niombo!... Seghira!... Alvaez!...
Nessuno risponde a quelle tre chiamate. Esteban si avvicina al letto e manda un grido terribile.
Là, disteso sulle coperte macchiate di sangue, giace il capitano Alvaez con un pugnale piantato nel petto, cogli occhi smisuratamente sbarrati, i lineamenti contratti, le mani chiuse attorno a un brano di stoffa, forse strappata al suo assassino.
– Ucciso!... Assassinato!... – esclamò Esteban, scoppiando in singhiozzi. – Ah!... Miserabili!
Ad un tratto si precipitò verso il capitano e gli strappò dalle mani quel brano di stoffa. Era un pezzo di panno azzurro che pareva avesse appartenuto alla casacca d’un marinaio.
– Ma chi lo ha ucciso adunque?... – chiese strappandosi i capelli. – E Seghira... e Niombo?...
– Sono fuggiti di là, signore – disse Vasco indicandogli il sabordo le cui invetriate erano aperte. – Ma forse li troveremo e...
– Ah! No, Vasco! – esclamò il dottore. – Non sono loro gl’infami assassini!...
In quell’istante sul ponte si udirono i marinai correre verso poppa e le urla di trionfo dei negri.
– Presto, signore, fuggiamo! – esclamò Vasco. – I nostri uomini sono stati respinti e l’acqua invade la cabina!...
– Lasciami qui con Alvaez.
– No, signore, bisogna vivere per vendicarlo.
Stavano per abbandonare la cabina, quando dalla parte del sabordo si udì una voce a gridare:
– Eccomi, capitano!...
– Niombo! – esclamarono il dottore e Vasco.
Infatti il gigantesco negro si era issato sul sabordo e si era slanciato nell’interno della cabina. Era grondante d’acqua e stringeva fra i denti una lunga navaja spagnola.
– Dov’è il capitano? – chiese egli.
– Guardalo! – disse Esteban.
Lo schiavo abbassò gli sguardi sul lettuccio e indietreggiò vivamente, dardeggiando sul dottore e su Vasco uno sguardo feroce.
– Ucciso!... – esclamò. – L’avete ucciso!...
– No, Niombo, non noi, ma un miserabile che si è introdotto furtivamente nella cabina.
– Chi?...
– È a te che lo domando, che eri qui con Seghira. Dov’è quella donna?
– L’ho portata nella zattera; me lo aveva comandato il padrone.
– Fuggiamo! – gridò Vasco. – La nave affonda!...
– Per di qui – disse Niombo, additando il sabordo. – La zattera è sotto la poppa!
La Guadiana, già piena d’acqua, affondava rapidamente sotto i loro piedi. Le onde irrompendo attraverso ai sabordi delle batterie, la trascinavano a picco.
Il dottore, Vasco e Niombo si precipitarono in mare, mentre dall’alto del cassero capitombolavano confusamente marinai e negri, emettendo urla di terrore.
La brusca invasione delle acque aveva posto fine alla terribile pugna. Ognuno cercava uno scampo, prima che gli si aprisse sotto il gorgo fatale.
Dieci o dodici marinai avevano già raggiunta la zattera ed avevano tagliati gli ormeggi. Fra di loro vi era il bretone, che durante la pugna nessuno aveva veduto.
Mentre alcuni aiutavano a salire i compagni che giungevano a nuoto, gli altri, dato piglio alle armi che si trovavano sulla zattera, respingevano a colpi di rampone, di fucile, di scure, di sciabola e di manovelle, i negri che cercavano di abbordarli.
– Fuoco su quei cani! – si udiva a tuonare il secondo. – Giù, picchiate, per mille demoni!... Sterminate queste pelli nere, affogatele!...
Il dottore, Vasco e Niombo nuotando disperatamente e respingendo coloro che cercavano di aggrapparsi ai loro panni, raggiunsero la zattera nel momento in cui alcuni marinai stavano spiegando la gran vela, per allontanarsi dall’affondante legno.
Seghira, che si era rannicchiata in un angolo, vedendoli giungere ed issarsi sulla piattaforma, si slanciò verso di loro gridando:
– Dov’è il capitano?...
– È morto – rispose Esteban.
– Morto? – esclamò ella.
Fece due passi indietro barcollando, cogli occhi sbarrati, i lineamenti sconvolti, le mani raggrinzate sul petto, poi stramazzò pesantemente sulle tavole come fosse stata fulminata.
Il dottore fece atto di slanciarsi verso di lei per soccorrerla, ma fu atterrato e travolto dai marinai che si salvavano sulla zattera inseguiti dai negri.
Allora avvenne una scena orribile. Gli schiavi che si erano gettati in acqua dietro ai marinai e che non volevano morire, assalirono il galleggiante da tutte le parti minacciando di affondarlo sotto il loro peso.
S’aggrappavano alle botti, alle travi, ai remi, agli stessi ramponi che li percuotevano, cercando di issarsi sulla piattaforma e di tirare in acqua i marinai che si difendevano colla forza della disperazione.
Invano Niombo pregava di salvare almeno alcuni e minacciava. La sua voce veniva soffocata dagli spari delle armi da fuoco e dalle urla selvagge dei combattenti. Allora ebbe un impeto di furore e impugnata una scure si slanciò fra l’equipaggio per far campo ai suoi sudditi, ma Kardec, che pareva si aspettasse quell’atto, gli sbarrò la via e puntandogli sul petto la canna di una carabina gli disse:
– Se ti muovi, ti uccido!...
La lotta stava per finire. La zattera, spinta dal vento del nord-ovest, aveva lasciate le acque della Guadiana e fuggiva verso il sud-est con tale velocità, da far perdere ai negri ogni speranza di raggiungerla.
I più abili ed i più accaniti nuotatori si sforzavano ancora ad inseguirla, ma la distanza cresceva di minuto in minuto. Ad un tratto si udirono echeggiare fra di loro delle grida che parevano impronte del più vivo terrore e si videro nuotare velocemente verso la Guadiana, sul cui ponte correvano disperatamente le donne ed i fanciulli.
Alcune code che si videro emergere qua e là, diedero la spiegazione di quella rapida ritirata.
– I pescicani! – esclamarono i marinai, rabbrividendo.
– Siano i benvenuti – disse Kardec con un atroce sorriso. – Faranno buona preda!...
In quell’istante una sorda detonazione rimbombò al largo e si vide la Guadiana, che era già immersa fino alle murate, oscillare violentemente da prua a poppa, poi inclinarsi sul tribordo.
L’aria compressa dall’invasione delle acque, aveva sfondata la coperta e fors’anche il frapponte. Le onde irruppero sopra le murate semispezzate come fossero avide d’inghiottire la disgraziata nave. In mezzo ai cavalloni si videro dibattersi le disgraziate vittime dell’infame tratta, poi una pioggia di corpi umani precipitò in mare dal castello di prua e dal cassero, i due soli punti che ancora emergevano.
Per alcuni istanti ancora si udirono le grida disperate di quei miseri che le onde travolgevano, poi la Guadiana s’inabissò bruscamente formando un gorgo immenso, un abisso mobile, il quale trascinò seco, nelle profondità dell’oceano, gli ultimi superstiti. Una muraglia liquida si distese muggendo all’intorno, poi si perdette nei lontani orizzonti. La catastrofe era finita!...
L’equipaggio, agghiacciato dal terrore, aveva assistito alla scomparsa della nave senza essere capace di dire una parola. Una vaga paura aveva invaso tutti: la paura dell’ignoto.
Kardec ruppe pel primo quel silenzio glaciale:
– Buona notte a tutti!... – disse con voce ironica.
Esteban balzò in piedi pallido d’ira e slanciandosi verso di lui coi pugni chiusi, gli disse:
– Sapete chi è sceso colla Guadiana, signor motteggiatore?...
A quell’apostrofe pronunciata con voce minacciosa, il bretone trasalì e divenne più pallido che mai.
– Lo ignoro – disse poi bruscamente.
– Il vostro capitano!...
– Il capitano!... – esclamarono i marinai. – Ma non è qui?...
– No, egli riposa a quest’ora in fondo dell’Atlantico, con un pugnale nel cuore!...
– Assassinato!...
– Sì, amici, assassinato da una mano codarda! – disse il dottore.
– Da chi? – chiesero tutti, con indignazione.
– Credo che lo sia stato da costui! – disse il bretone, additando Niombo, che stava sdraiato presso Seghira la quale era ancora svenuta.
Un urlo di furore scoppiò fra l’equipaggio.
– Ai pescicani quel miserabile!...
– Appicchiamolo!...
– Fermi tutti! – tuonò il dottore. – Kardec ha mentito!...
– Io!... – esclamò il secondo, facendosi livido.
– Voi! – disse il dottore.
– E chi vi autorizza a smentirmi, signor Esteban?...
– Datemi una prova che l’assassinio sia Niombo.
– Non l’ho, ma...
– Ed io ho una prova che l’assassino è uno dei nostri!...
– Mentite! – urlò il secondo.
– No – disse Vasco, facendosi innanzi. – La prova esiste, signor Kardec.
– E consiste?...
– In un pezzo di giubba che il capitano strappò al suo assassino e che teneva ancora in mano quando noi siamo scesi nella cabina – disse il dottore.
– Mostratemelo!
Il dottore si levò dal seno il pezzo di panno che aveva gelosamente conservato.
Nel vederlo Kardec ebbe un trasalimento nervoso che non isfuggì al dottore il quale lo fissava con due occhi di fuoco.
– È un pezzo di giubba da marinaio – disse il bretone, con voce tutt’altro che tranquilla. – Forse un giorno vi servirà per scoprire l’infame assassino.
Poi come se fosse ansioso di troncare quella scena aggiunse:
– Orsù, occupiamoci della nostra zattera ora e lasciamo i morti. Dov’è Hurtado?
Nessuno rispose alla chiamata.
– È morto? – chiese Kardec.
– Scomparso – risposero i marinai.
– Un altro dei buoni che si è annegato – disse il secondo. – A Vasco il comando!... Mettete la prua all’est; cercheremo di guadagnare le coste d’Africa che sono le più vicine.
Poi mentre l’equipaggio si disperdeva pel ponte per orientare la vela, fece atto di portarsi a prua dove giaceva Seghira, ma il dottore lo rattenne stringendogli le braccia come entro due morse.
– Signor Kardec – gli sussurrò agli orecchi. – Sapreste dirmi perchè non avete indosso la vostra giacca?...
Il bretone fissò sul dottore uno sguardo d’odio feroce, poi disse con voce sorda:
– Perchè così mi è garbato, ma ve ne sono delle altre nelle casse e le costipazioni non sono da temersi sull’oceano equatoriale. Del resto, grazie della vostra premura, dottore!...