< I libri della famiglia
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Libro secondo
Libro primo Proemio del libro terzo


libro secondo

Liber secundus de Familia: de re uxoria


Poiché Adovardo era partito ad onorare Ricciardo, il quale venia per vedere Lorenzo nostro padre, Carlo mio fratello e io eravamo rimasi con Lionardo. Tacevamo riducendoci a memoria quelle nobilissime e prestantissime cose, delle quali Adovardo e Lionardo, come nel libro di sopra raccontai, dell’ofizio de’ maggiori nelle famiglie e della osservanza de’ minori verso e’ maggiori e della educazione de’ figliuoli, copiosamente aveano insieme disputato. Lionardo doppo alquanto passeggiò due o tre volte tutta la sala, e poi con molta fronte, ma piena d’umanità si volse: — E voi ora, tu Battista e tu Carlo, che pensieri sono e’ vostri, — disse, — che sì vi veggo taciti stare in voi stessi e occupati? — Non altro rispose Carlo; ma, — Componevami fra me stessi a mente, — dissi io, — quanta sia incerta e varia cosa el ragionare. Chi mai avesse stimato, cominciando voi a conferire delle amicizie, poi così vi fussi distesi in tanti varii luoghi di filosofia e tanto alla famiglia utilissimi, ne’ quali molto m’è stato caro aver da voi impreso que’ buoni amaestramenti? Ma stimo sarebbe stata più compiuta utilità a noi e certo maggior contentamento, se voi ancora insieme avessi più oltre seguito in quelle amicizie, quali cominciasti ad amplificare con altro ordine e con altro piacevolissimo modo che a me non pare soleano gli antichi scrittori; e non dubito che da voi, come in queste altre cose, così sarei in quella parte di dottrina diventato più dotto e più erudito.

Lionardo. Quasi, Battista, come se a te non stessi a mente la sentenza del tuo Marco Cicerone, el quale tu suoli tanto lodare e amare, che giudica nessuna cosa essere più flessibile e duttibile quanto la orazione. Questa segue e viene dovunque tu la volgi e guidi, né il ragionare nostro, el quale come vedi è tra noi domestico, si richiede essere gastigato ed emendato quanto quello de’ filosafi nelle loro oscurissime e difficillime questioni, e’ quali disputando seguono ogni minimo membro, e della materia lasciano adrieto nulla non bene esplicato e molto aperto. Tra noi el nostro ragionare non cerca laude d’ingegno, né ammirazione di eloquenza. Ma mio costume sempre fra gli altri studiosi fu, e molto più con Adovardo, el quale io conosco litteratissimo e nel rispondere acutissimo, per non stare tra gli amici ozioso e muto, io ora dimando, ora rispondo difendendo il contrario di quello che gli altri dicono. Né però mi porgo in difendere l’opinione mia ostinato e difficile, ma do luogo al giudicare e alla autorità degli altri tanto quanto sostenga quello quale io difendo. E quanto non rispuosi io ad Adovardo come forse tu aspettavi, fecilo, Battista, perché io il conosceva non a’ figliuoli solo, ma a qualunque di casa amorevole, piatoso più che altri alcuno quale io conosca, e stimai non gl’essere grato se io non gli consentiva dello amore e della carità verso a’ figliuoli quanto lui con pruova e giudicio in sé stessi osservava. E onde seco altre volte mi piglio diletto a ogni sua sentenza con parole contrastare, così testé era a me gran voluttà assentendogli vedere quanto egli mi si scoprisse troppo di affezionato e veramente benivolo animo verso i suoi. Adunque non mi parse da negarli quello che lui giudicava per affezione più che per ragione.

Battista. Stimi tu, Lionardo, la sentenza del nostro Adovardo essere non verissima? Credi tu che a’ padri sieno i figliuoli meno che gli altri amici cari e commendati?

Lionardo. Io non dubito che non solo e’ figliuoli, ma qualunque di casa sempre fu apresso Adovardo quanto si può carissimo e accettissimo. Ma se Adovardo, uomo quanto vedi litterato, ma forse in questo troppo umano, errasse posponendo la vera amicizia a qual si sia di questi altri vincoli d’amore, come de’ padri a’ figliuoli, moglie a marito, fratelli, e come ancora degli amanti insieme, stimo non sia da maravigliarsi. La fortuna iniqua più dì fa gli tolse i fratelli. La età omai matura, e di dì in dì più piena di ragione e consiglio, credo l’abbia stolto da quelle cupidità amatorie. E ora i nostri duri e acerbi casi hanno insieme e lui e tutti noi d’ogni altro nelle amicizie diletto e piacere privatolo. E le condizione de’ tempi, nostra infelicità, tengono disparsa e disseminata la nostra famiglia Alberta, come vedi, parte in Ponente, a Londra, Bruggia, Cologna, pochi in Italia, a Vinegia, a Genova, a Bologna, in Roma alcuni, e in Francia non pochi sono a Vignone e a Parigi, e così per le Ispagne, a Valenza e a Barzalona, ne’ quali tutti luoghi e’ nostri Alberti sono più anni stati interissimi e onoratissimi mercatanti. Ancora in Grecia sono, quanto vedi, de’ nostri Alberti sparti e molto dagli altri suoi lontani, ché ben può avenirci quello suol dire el vulgo: «Lungi da occhi, lungi da cuore», e, «Chi raro ti mira a bene amare non dura». E così le nostre vere amicizie né hanno seguito il nostro essilio, né quegli animi già a noi benivoli ora sofferano essere compagni alla nostra calamità e miseria. Rimasono nella patria nostra gli antichi nostri meriti insieme colle vere amicizie perduti. E ora qui fuori molti solevano monstrarsi a noi amorevoli e domestici, e’ quali da lungi ora ci schifano. Così suole la condizione degli uomini in la felicità adducerti molti conoscenti, in l’avversità cancellare ogni memoria di beneficio e benivolenza. Però, se Adovardo, il quale per ora non sente quella dolcezza posta nell’uso de’ veri amici, al quale e’ figliuoli sono più che i fratelli e che gli altri suoi per ora presenti, se costui prepone l’amore paterno, non mi parrà da maravigliarci. Credi tu, Battista, se Adovardo avessi de’ veri amici qui presso, e da loro ricevessi quanto de’ figliuoli copia e presenza, credi tu che giudicasse dell’amicizia?

Battista. Credo che Adovardo in questo forse sarebbe dal tuo, Lionardo, e dal mio giudicio molto dissimile.

Lionardo. Tu, Battista, son certo, l’uso e familiarità de’ tuoi studiosi di questa età, co’ quali al continuo imparando e conferendo conversi, ti pare vincolo di benivolenza più che gli altri intero e fermo. E se in te, come spero, crescerà virtù, di dì in dì molto più conoscerai l’amicizia essere da mantenerla e troppo da conservalla. Così vi conforto facciate: giudicate niuna cosa quanto l’amicizia essere utile e molto atta a vivere bene e beato. Persuadetevi al tutto, come fo io a me stessi, questa vera una amicizia nella vita de’ mortali doppo la virtù essere tale che molto sé stessi possa non solo agli altri amori, ma a qual si sia cara e pregiata cosa preferirsi e soprastare.

Battista. Sempre fu nostro desiderio, Lionardo, con ogni arte, industria e opera renderci atti ad acquistare e mantenere amicizie assai. E ora per tuo conforto saremo, quanto più essere potremo, diligenti e solleciti in renderci benvoluti da molti e molto amati. E questo faremo per ogni rispetto, ma più ancora per seguire, come facciamo, e nell’altre cose e ancora in questa, i costumi tuoi da ogni parte molto lodatissimi. E se tu, Lionardo, per non essere ozioso né muto, usi co’ compagni a qualunque loro detto contraporti, e se ora a te fu voluttà consentire ad Adovardo, per vedere apertissimo quanto in lui fusse verso i suoi carità e amore, riputerai tu a troppa baldanza se io, per imparare da te, in questo seguo i costumi tuoi difendendo opinione alcuna contro la sentenza tua? Se a me fia licito teco imparare, a te sarà meco necessario non meno che con Adovardo usare quella facilità e umanità tua insieme col giudicio tuo prestantissimo in discernere in me quanto io sia in questi studii delle lettere atto a simigliarmiti.

Lionardo. Niuna cosa a me più essere può grata. E in ogni altro luogo, e con tutte l’altre persone potrei riputarti a biasimo se tu, più che in te richiegga l’onestà e modestia, fussi ardito e audace. Ma meco t’è licito quanto vuoi ardire, non tanto per imparare da me, ché stimo già con tua assiduità e studio serai da te non poco dotto, ma dove ancora piaccia essercitarti lo ’ngegno in confutare le mie e persuadere le tue ragioni, loderotti disputando, ove ancora esserciti la memoria recando a mente sentenze, autorità ed essempli, conferendo similitudini, argumenti, quali tu apresso i buoni scrittori arai trovate atte a quello di che noi ragionassimo. E in questo molto mi piacerà séguiti i miei costumi e la volontà tua. E perché vegga quanto a me questo essercitarti meco e per tuo e per mio utile sia grato, ché anche io in risponderti e argomentarti contra non poco mi eserciterò, priegoti, Battista, narra degli amori in che sia il tuo giudicio contrario dal mio. E acciò che la disputazione nostra sia più chiara, io così statuisco quello delle vere amicizie essere il più fermo che gli altri e il più possente amore. Tu ora ferma contro a me la tua qual sia opinione, e non peritare, imperoché per conferire sempre fu licito difendere qualunque opinione per falsa ch’ella fusse. Non adunque temere tanto parere baldanzoso che tu a me ti porga troppo timido.

Battista. Adunque, poiché tu così mi concedi licenza, Lionardo, ardirò contrapormiti; e pure non vorrei pel dir mio più che per costumi mi riputassi però men continente che modesto.

Lionardo. A me in questo tuo così nel viso alquanto arrossire, e in questo tuo fratemere delle parole, meco pare presentire ove tu voglia scoprirmiti avversario. Ma segui. Io non potrò riputare se non continentissimo te, el quale io vegga nel ragionare moderato e onesto. Segui.

Battista. Pure ardirò, Lionardo. Oh! se io dicessi cosa da voi dottissimi non lodata, dirolla non tanto perché a me paia dire il vero, quanto per essercitarmi. E se io ti paressi in quello errore, in quale forse dirai essere gl’innamorati, stimo arei da molte parti onde io potessi teco scusarmi, e assai con ragione purgherei quello quale tu forse riputassi errore. La qual cosa credo sarebbe a me licito affermare fusse forza e legge non in tutto degna d’odio e biasimo, ma più tosto da essa divina natura imposta a qualunque animante nato a produrre di sé stessi e ampliare sua stirpe, già che noi veggiamo gli animali bruti in prima, i quali da una ultima e infima parte sentono in sé le forze d’amore, tutti seguono quello così fatto apetito naturale, veemente certo e di tanta possanza che, abandonata quasi ogni altra grata a loro e necessaria cosa, solo per adempiere quanto la natura ad amare gli stimola, sofferano fame e sete, caldo e freddo, e ogni fatica; dimenticano i propri covili, non si ricordano d’alcuna di quelle altre loro voluttà, alle quali sciolti e liberi d’amore solo paiono nati e aggiudicati. E più, cosa certo degna d’ammirazione, quanto veggiamo che fra loro stessi incesi d’amore, per essere i primi amati con ogni forza e ferocità contendono. E se questo manifesto appare in ogni animale bruto e insensato, che tanto in loro può una sola espettazione di diletto qual segue d’un vile disiderio amatorio, quanto viepiù sarà gagliardo l’amore e armato a ferire e convincere gli animi umani, e in prima i giovanili poco fermi e manco robusti a rafrenare e fermare sé stessi con ragione e consiglio, e poco maturi a contenersi nella importunità e molestia de’ naturali appetiti. Non credo a noi giovani sia licito ostare all’amore, né forse biasimo seguirlo.

Alcibiade, uomo apresso gli antichi e oggi in tutte le storie famosissimo e celebratissimo, tutto avea datosi allo amare, e nel suo scudo militando portava dipinto, non qual solevano i suoi antichi, ma nuova insegna, Cupidine e sua faretra e arco. Crisippo, dottissimo filosofo, in Atene consacrò l’immagine dello Amore, e collocolla in quel santissimo seggio, unico quasi nido di tutti i filosafi, dove si nutrirono e crebbono tutte le buone e santissime arti e discipline a bene e onesto vivere, luogo chiamato Accademia. El quale uomo, certo prudentissimo, se lo amore fusse cosa degna di vituperio, non arebbe in sì religiosissimo luogo posto quella statua, quasi fermo e pubblico testimonio e segno dell’error suo. Essendo bene errore, qual uomo per freddo e insensato che fusse potrebbe non assentire ai molti diletti, co’ quali amore lietissimo e amenissimo si porge? Quale austero e in tutto solitario e bizzarro uomo fuggisse questi sollazzi, suoni, canti e feste, e l’altre molte maravigliose, sanza quella ultima della quale ora dissi, voluttà atte e valide a convincere ogni offermato e molto constantissimo animo, come veggo o sua o naturale legge, o difetto pure degli uomini, sempre ne’ mortali l’amore vincendo usò suo imperio? Non mi pare fra gli antichi istorici fatta menzione d’alcuno, per virtuosissimo che fusse e in ogni lode singularissimo, in cui amore non in gran parte monstrasse sua pruova, e superasse non e’ giovani solo, e’ quali per ogni rispetto sono in questo da no’ gli riprendere, ma vecchi ancora, e’ quali nelle cose amatorie possono parere e sazii e inetti. Scrivesi d’Antioco re di Siria, uomo per la grande età e per molto imperio gravissimo e pieno di maestà, che nell’ultima sua vecchiezza occupato d’amore si perdè amando la figliuola vergine di Neottolemo. Non fu all’amore poca licenza in uno animo per età sì freddo e per autorità sì grave incendere fiamme cotanto, come voi altri troppo severi chiamate, leggiere e lascive. E di Tolomeo re di Egitto ancora si dice, benché glorioso fusse, e quanto in uno principe si richiede altiero, pure percosso da amore cadde in amare Agatocle vulgare meretrice. Qui ebbe amore non piccolo imperio, ove valse far servo un re a una meretrice. Furono ancora non pochi in alto e prestante luogo di dignità e fama, i quali vinti d’amore interlassorono e’ fatti e gloria civile e amplissima. Rammentami fra gli antichi di Pompeio Massimo, quello uno uomo in Italia e in tutte le province celebratissimo cittadino, per cui fu la calamità farsalica e dolorosa sparsione di sangue civile. Costui, nell’altre cose solertissimo e diligentissimo, suggetto d’amore si ridusse in solitudine in villa fra gli orti e selve, ove ogni altra cosa, ogni concorso e salutazione di molti nobilissimi quali in gran copia teneva amici, ogni amministrazione delle cose pubblice e prestantissime a lui era minore che amando vivere con quella una sola sua carissima Iulia. Non fu certo, non fu poca opera allo amore tenere in solitudine quello animo amplissimo e immenso, a cui non parse troppo certare armato per ottenere lo ’mperio sopra tutti li prìncipi.

Ma tutto il dì si vede chi e laude e fama e onore meno per amare apregia. E infiniti quanto si truova prepongono l’amore all’amistà. Puossi l’amor tra moglie e marito riputar grandissimo, però che se la benivolenza sorge da alcuna voluttà, el congiugio ti porge non pochissima copia d’ogni gratissimo piacere e diletto; se la benivolenza cresce per conversazione, con niuna persona manterrai più perpetua familiarità che colla moglie; se l’amore si collega e unisce discoprendo e comunicando le tue affezioni e volontà, da niuno arai più aperta e piana via a conoscere tutto e dimonstrarti che alla propria tua donna e continua compagna; se l’amicizia sta compagna della onestà, niuna coniunzione più a te sarà religiosissima che quella del congiugio. Aggiugni che tutt’ora crescono tenacissimi vinculi di voluttà e di utilità a contenere e confirmare ne’ nostri animi infinita benivolenza. Nascono e’ figliuoli, e’ quali sarebbe lungo dire quanto e’ siano comune e firmissimo legame a colligare gli animi a una volontà e sentenza, cioè a quella unione la quale si dice essere vera amicizia. Non mi stendo in racontare quanta utilità si tragga da questa congiugale amicizia e sodalità, in conservare la casa domestica, in contenere la famiglia, in reggere e governare tutta la masserizia, le quali tutte cose sono in le donne tali, che forse alcuno stimarebbe per esse essere l’amore congiugale sopra di tutti gli altri interissimo e validissimo. Ma pure, non so come, non raro si truova a chi più piace uno strano amante che il proprio marito. E più si recita che fu apresso el fiume Ganges quella famosissima nelle province orientali reina, quale, se ben mi ramenta, Curzio storico ne’ gesti d’Allessandro raconta ch’ella amò un vilissimo barbiere, e per rendere l’amante suo ornatissimo e fortunatissimo sofferse uccidere el vero prima suo marito.

Della pietà e officio de’ padri non molto acade a dire, la qual tu stessi dianzi confessasti ad Adovardo ch’ella era cosa molto insita e infissa nel petto de’ padri. Pure non so qual maggior forza, a cui natura non può opponendosi sostenere, la iscacci qualche volta ed estermini degli animi paterni. Leggesi di Catelina quanto riferisce Sallustio storico, che amando Aurelia Orestilla uccise il suo proprio figliuolo per congiugnersela in sposa. Certo si vede adunque l’amore essere pure cosa troppo sopra le forze umane possente e valida, e manifesto si vede quanto gli animi feriti da quello divino strale, col quale i poeti descrivono che Cupidine saetta e impiaga le menti umane, siano troppo obligati e suggetti a non potere né sapere volere o seguire se non quanto stimino essere accetto e grato a chi egli amino. Cosa troppo mirabile che loro opere, loro parole, loro pensieri, loro ogni animo e mente stia tanto al continuo presta e sollicita a solo obbedire la volontà di coloro a cui l’amore l’abbia subietto, tale che non tanto a noi sono le nostre membra ossequente e faccenti, quanto l’innamorato studia d’aseguire e servire subito e pronto ogni cosa grata a colui al quale esso sé stessi tiene dedicato. E di qui mi pare sia quello antico detto del sapientissimo Catone, el quale, stimo io, niuno dubita essere verissimo, quanto e’ diceva che l’animo dello amante si riposa in altrui seno. Troppa divina forza adunque sarà questa, se amore potrà in uno volere solo infiammare, e in un petto solo contenere due anime.

Che diremo noi, Lionardo, adunque? Che l’amare sia sozzo? Che nell’amore sia poca licenza? Che allo amore sia debole forza sopra degli animi umani? Forse dirai l’amore tanto può e tanto piglia licenza quanto noi stessi gli concediamo. So desideraresti in noi giovani quell’animo senile e pieno di instituti filosofici quale confesso essere in te. Ma guarda se così convenga, come diceva Cherea apresso Terenzio..., subito nasciamo vecchi. E anche non so se a que’ tuoi filosofi medesimi sia permesso fuggire questa fiamma e ardore celeste certo e divino. Aristippo filosafo, maestro di quelli nominati Cirenaici filosofi, si legge, come sai, amava una meretrice chiamata Laide, ma diceva essere l’amor suo differenziato dagli altri, imperoché lui avea Laide, e Laide avea gli altri amanti. Stimo voleva persuadere solo sé essere amando libero, ove tutti gli altri fossero servi. Metrodoro, quell’altro filosafo....., senza onestare l’amore suo con iscusa alcuna, apertamente amava Leonzia meretrice, alla quale ancora quello Epicureo notissimo filosofo soleva scrivere sue lettere amatorie. Non adunque ammirabile suo possanza qui monstrava l’amore? Se questi animi superbi e duri, e’ quali non delle cose a tutti gli altri mortali acerbe e quasi non comportabili alcuna, non povertà, non paura, non dolore poteva abattere, ché gli veggiamo con quanta baldanza quella sola generazione d’uomini, chiamandosi amatori della virtù, facevano professione di spregiare le ricchezze, concertavano contro al dolore; nulla, né ira di nimici, né ingiuria, né morte temevano, e degl’iddii poco alcuni di loro curavano, e copiosi scrissono biasimando ogni timore di cosa umana e divina, tutti detraendo alla forza di quella qual noi conosciamo e proviamo potentissima fortuna, sempre vituperando qualunque dilicatezza del vivere; pur questi così austeri e armati di tanta ragione e sapienza cadeano e giaceano vili e convinti d’amore. Molle e lascivo amore, che rompi e attriti ogni superbia e alterezza d’animo umano! Errore, fallace cupidità, brutto amore, poiché se’ ubidito dagli animi ricchi d’ogni ragione, forti d’ogni constanza, bellissimi e nobilissimi d’ogni civiltà e costume!

Quanto, Lionardo, quando io penso alla maestà e nome di questi famosissimi filosafi e degli altri assai, quali per brevità lascio adrieto, e quando mi pongo innanzi la integrità e religione loro, e poi gli veggo soggiogati e in sì brutti luoghi posti dall’amore, stima, Lionardo, sarebbe non difficile persuadermi non solo quella sentenza qual solevan i medesimi filosafi dire esser verissima, che l’amore era ministro degli iddii dato a cura e salute della gioventù, ma molto ancor più mi può parere cosa divina; né veggo l’amicizia in sé conservi forze quanto l’amore ringiovinire negli annosi petti giovenili e amorose fiamme, e nella superbia degli imperii tenere sì basse le volontà e apetiti reali, porre in sì eccelsa dignità e stato uno infimo e abietto mercennario, farci stimare vile ogni fama, farci posporre ogni laude e glorioso essercizio, renderci debole qualunque vinculo di parentado. Ma io non voglio seguire più oltre in questa materia, ché troppo temo non ti parere quasi come se io difendessi la causa mia propia. Renditi certo, Lionardo, io non amo, e benché in me io non senta questa forza dello amore, pur quanto da molti mi ramenta avere udito assai e letto, mi pare in gran parte da consentire a queste poche ragioni quali addussi, colle quali forse mi sono monstro troppo in questa sentenza fermo e troppo indulgente verso l’amore. Ma pensa tu quale tu mi troverresti, s’io con queste ragioni insieme tenessi in me quelle faci con che amore si fa adorare e gloriare. Non dubitare ch’io statuirei l’amore essere, sopra non dico all’amicizia, ma a qualunque gloriosa cosa, degno molto e divino.

Lionardo. A me piace lo ’ngegno tuo, né mi dispiacciono questi essempli, non perché seco adducano firmissime ragioni a persuadere, ma perché in essi veggo te pure, quanto io stimava, essere studioso. Lodoti, Battista, se hai voluto così meco essercitarti, ma guarda che forse non fusse meglio scoprirti inamorato e parerti errare, che non amando parerti non errare chi ama; imperoché io con più diligenza confuterei ogni tuo argomento per in tutto levarti da questa opinione e servitù dello amore; ove ora, non bisognando biasimarti questo furore amatorio, quale a te stessi debbono que’ tuoi molti essempli porre a non poco odio, solo quanto m’occorrerà a mente seguirò teco ragionando. E perché il nostro conferire sia più chiaro, questa furia, cioè amore venereo, chiamerollo inamoramento, e chi da essa sia preso dicasi inamorato. Quello altro amore libero d’omni lascivia, el quale congiugne e unisce gli animi con onesta benivolenza, nominiàllo amicizia. Questi di così onesto e benivolo animo affezionati chiaminsi amici. Gli altri amori fra congiunti apellaremo paterni e fraterni secondo che acaderà.

Ora torniamo alla disputazion nostra, nella quale tu, volendo attribuire forza, imperio e quasi divinità allo amore, fusti molto copioso in racontare diverse stultizie d’alcuni innamorati, quasi come se noi ricercassimo chi tra gli antichi fusse stato furioso e stolto, o come niuno fra’ nostri oggi si truovi nella sua gioventù amatore, el quale insieme non sia simile a que’ tuoi in tutto furioso. Ma sia come tu vuoi. Siano gli amanti tutti da quel tanto furore, quale sanza che Catone ci amunisca, ciascuno intende che può nelle mente deboli e inferme tanto, che chi in sé lo riceve, costui in tutto si ritruovi fuori di sé stessi, e nel seno e volontà d’altrui si riposi, e ivi, suo errore, e certo grandissima e infinita stultizia, le cose degne nella vita de’ mortali, quelle pelle quali ciascun prudente espone opera, fatica, sudore, sangue e vita per in parte asseguirle, ivi dico l’innamorato lo reputi in men pregio che una sua lasciva e sozza voluttà, non si curi della fama, non d'onestà, non di niuno religiosissimo vinculo per adempiere un suo brutto apetito. Che diremo noi, Battista, questo essere forza d’amore, o vizio d’animo infermo e impeto d’opinione corrotta? Tu Antioco, e tu, o Tolomeo, chi vi trasse ad amare? Fu una leggiadra bellezza, un vezzosissimo costume; anzi fu un poco onesto e manco modesto appetito. Tu Pompeio, e tu reina orientale, qual forza vi vinse a giacere in tanta lascivia? Una troppo affezionata benivolenza? Anzi una debole ragione, una vana opinione, un troppo vostro errore. E tu Catelina, onde patisti in te tanta crudelità essere? Non fu fiamma e ardore divino, no; anzi bestiale e troppo immanissima tua libidine. Non suole l’amore fruttare odio, ma benivolenza; non iniuria, ma beneficio; non furore, ma giuoco e riso. Non adunque attribuire tanto imperio a questo amore, poiché in nostra libertà fu accettarlo, in nostra ragione lasciarlo, ma nel seguirlo somma stoltizia.

Gli animali incitati dalla natura niente possono contenersi. Adunque neanche gli uomini? Certo sì, quelli ne’ quali non sia più che nelle bestie ragione e giudicio a discernere e fuggire la disonestà e vizio, e chi mai lodasse negli uomini alcune virtù, le quali sì sono propie nostre che con altri alcuno animante terrestre mai permisse la natura esserle comuni. E quale uomo sarebbe mai da preponere, anzi da segregarlo dagli altri animali bruti e vili, se in lui non fusse questa prestanza d’animo, questo lume d’ingegno, col quale e’ senta e discerna che cosa sia onestà, onde con ragione poi sèguiti le cose lodate, fugga ogni biasimo, e simile, quanto adrizza la ragione, ami la virtù, aodii il vizio, e sé stesso inciti con buone opere ad acquistare fama e grazia, e così in ogni lascivo apetito sé medesimo rafreni e contenga con ragione, senza la quale niuno sarà da chiamare non stolto? Torrai all’uomo l’uso e modo della ragione, a lui nulla rimarrà se non le sole membra dissimili dagli altri animali silvestri e inutilissimi, i quali tutti, senza intero discorso, pure in questo participi di qualche ragione, solo quanto in loro la natura richiede a procreare obbediscono all’apetito. Ma l’uomo, el quale non sino a satisfare alla natura, ma sino a saziarsi e infastidirsi pur qui s’involge nelle voluttà, e sé stessi al continuo desta e incende a conseguire questo non naturale perché da volontà mosso, ma superchio e propio bestiale appetito, e qui con mille incitamenti, motteggi, risi, canti, danza e leggerezza assai sé stessi infiamma, non pare a te questo sia sommamente da essere biasimato, e doppo qualunque bestia abietta e infima isvilito e spregiato? Qual uomo non in tutto stolto e insensato non conosce questo essere, quanto egli è, cosa disonestissima e scelleratissima, violare l’amicizia, viziare la consanguinità, spregiare ogni costume? E qual mai si truova sì in tutto lascivo, da cui non spesso si vegga che molte sue ardentissime voglie e appetiti rimangono da vergognarsi e temere biasimo tenuti adrieto e in miglior parte svolti, ove restano contenti seguire onestà più tosto che libidine, e godono molto più satisfare all’amicizia che all’amore? Troppo sarebbe misera, imbecillita la natura umana, se a noi fosse forza sempre perseguire ogni nostro amatorio desiderio. Troppo sarebbe infelicità la nostra, se presi d’amore mai ci fusse licito non rendere le prime parti de’ nostri pensieri alla onestà, conservando el vincolo e religione de’ parentadi e amicizie.

E quel tuo Pompeio così affezionato, non prepose egli pure sempre l’amistà? Quella Flora bellissima, ramèntati, la quale formosissima fu nel tempio di Castore e Polluce come cosa venustissima e divina dipinta, benché di lei fusse Pompeio acceso, pur patì che Geminio la conoscesse. Volle in quel modo satisfare al desiderio dell’amico più molto che nel veemente suo amore a sé stessi. Fu questo, Battista, officio, fu laude, fu virtù d’amicizia, quale ne’ sani ingegni più sempre valse che ogni furia d’amore venereo. Tanto si porge la vera e simplice amicizia, come vedi, liberale, che non solo la roba, ma le proprie e, come tu chiamavi, divine affezioni e desiderii suole comunicare e donare all’amico, privarne sé, cederne a chi già gli sia congiunto di benivolenza e fede. Ma lo inamorato nulla con ragione, tutto con furia, e se mai ti vuole grande, se t’adorna, se ti rende fortunato e felice, esso lo fa per satisfarne agli occhi e piaceri suoi in prima, non per te, ma per sé stessi contentarsi. Vero. Ma in questo non solo la vera amicizia vince lo innamoramento, ma più quell’altro amore nato tra congiunti sempre qui a me e in ogni altra lode parerà essere da preporlo molto a questo tuo stolto e furioso innamoramento. Già e’ padri vecchi e in tutta la sua età con ogni travaglio e pericolo stracchi, guadagnando per sé sostenere insieme e la famiglia sua, mai però quiescono, anzi negli ultimi anni con ogni cura e sollicitudine seguono affannandosi per lasciare i suoi doppo sé più e più ricchi, e così le molte volte meno satisfanno a sé per rendere i suoi copiosi più e contenti. E ramentami quella storia come a Roma si trovò quella madre in sulla porta alle mura iscontrando il figliuol suo, qual prima udiva fosse con molti altri a Transimene morto in quel publico e doloroso ricevuto conflitto, tanta vedendolo salvo ne prese letizia che ogni suo spirito per gaudio essalò e perissi. Piatosa madre, veemente amore, mirabile affezione, la quale tu forse dirai sia da posporre al tuo divino innamoramento! Ivi furia, qui ragione; ivi biasimo, qui lodo; ivi vizio, qui onestà; ivi crudeltà, qui pietà.

Non mi pare da seguire più oltre biasimando quel tuo innamoramento, né qui acade lodarti l’amicizia, la quale non si potrebbe lodare a mezzo, e della quale sempre giudicai come diceva Catone, ottimo stoico latino filosafo, che l’amistà dura ferma più che ogni parentado. Potrei adurti Pilades e Oreste, Lelio, Scipione e l’altre coppie d’antichi amici, e’ quali per chi a loro era unito di benivolenza e d’amore, non come i tuoi innamorati abandonorono le faccende publice e gloriose disonestando sé stessi, furiando, né uccisono figliuoli e mariti, ma bene con molta lode d’animo e virtù, con molta grazia e memoria di loro, questi veri amici non recusarono esporsi agli ultimi casi e morte per salvare la vita e dignità dell’amico. Ma chi potrebbe racontare le degne lode dell’amicizia? Tanto vi ramento, frategli miei, fuggiamo questa furia amatoria, né monstriamo preporla all’amicizia, ma neanche la diciamo tra’ beni della vita umana, imperoché l’amore sempre fu pieno di fizioni, maninconie, suspizioni, pentimenti e dolori. Fuggiamo adunque questo amore. Sia in noi verso di lui quanto si richiede non poco odio, poiché manifesto si vede e con dolore si pruova ch’egli è cagione d’ogni scandolo e d’ogni male.

Battista. Io e per età e per ogni reverenza, Lionardo, non ardirei oppormi all’autorità e ragioni tue. E se io non stimassi me piacerti ragionando forse non meno che tacendo, io temerei non solo ostarti, ma ancora in parte alcuna difendere el mio benché verissimo giudicio. Ma poiché a me così persuado te essere assai certo che io e dell’amicizia e dello innamoramento giudico e sento medesimo quel che tu, che mai l’innamorato sopra l’amico meriti lodo e fama, pure Lionardo, provedi tu se così vuoi t’aconsentisca ogni innamoramento essere furioso e ogni amicizia essere perfetta. Io mai ardirei negarti la vera amicizia non essere forte, ma forse la credo meno veemente che l’innamoramento. Ma chi sarà, se già tu uomo eloquentissimo uno solo quello fussi, el quale mi provasse mai oggi in questa età nostra trovarsi quelle piladee e lelie amicizie? Certo gl’innamoramenti oggi sono qual sempre furono ne’ ricchi, ne’ poveri, ne’ signori, ne’ servi, ne’ vecchi, ne’ giovani, tale che niuna età, niuna fortuna, niuno petto umano si truova vacuo dalle fiamme amatorie. Tu le chiami furie. Io non so qual suo proprio nome le nominare, perché né ora né prima per pruova le conosco o sento. Solo ne parlo quanto e da te odo e dagli altri truovo leggendo.

Lionardo. Non credere, Battista, negli animi de’ mortali giacere fiamma alcuna d’amore venereo alla quale non sia commista molta stultizia e furia. E se così giudicherai, in questo ragionamento a te non sarà se non quanto meco vorrai essere licito. E dove ti rammenterai di quello Sofocles antico filosafo, del quale si recita che domandato chente e’ si portassi con Venere, rispuose: «Ogni altro male più tosto, dio buono, che non avere in tutto fuggito quel signore villano e furioso», — a te adunque non parrà dello amore se non quanto pare da giudicarne, ch’egli è molto da fuggirlo e odiarlo. E quanto tu pure ne’ dì nostri trovassi amicizia niuna perfetta, almanco consentirai gli innamoramenti furiosi essere tutti, e come diceva Sofocles, villani. Ma non ci obblighiamo a ragionare solo di quella somma e da ogni parte perfetta amicizia. Siamo teco disputando liberali. Aduciamo per testimoni quelli secento insieme con gli altri in Gallia chiamati Soldunni là ne’ Comentarii di Cesare, amici a quello Diantunno, e’ quali, loro costume, si profferivano e prendevano qualunque pericolo quante volte fussino dall’amico richiesti. In tanto numero certo non bene mi troverresti quella vera amicizia, la quale tu disidereresti, come si dice un volere e non volere quanto l’amico e l’onestà richiede, due persone, una anima. Già però non mi negherai questa in costoro essere stata spezie di vera e perfetta amicizia, e in qualunque grado ti paresse collocarla in laude, mai ti potrà parere spezie d’innamoramento, né con ragione la statuirai meno che ’l tuo innamoramento possente e valida negli animi nostri a monstrare sue forze e pruove. E così credo niuno non in tutto stolto, se di questi Soldunni uno per salvarli sue fortune e onore gli donasse come per l’amico solevano insieme coll’ opere e fatiche ancora il sangue e la propria vita, mai questo stimarebbe a meno che se uno innamorato, come se raro per amore sono prodighi, gli porgesse la roba.

Né dubitare che tu, Battista, e ciascuno altro giovane, di questi non perfetti, e’ quali ti doneranno del suo, troverrai molti più che innamorate le quali non voglian e domandino del tuo. E quando per disputare tu volessi difendere l’opposito, domanderei quale a te più paresse onesto o lo ’nnamoramento o l’amicizia. Tu che stimi la onestà ne’ buoni ingegni quanto si debba più sempre valere che ogn’altra affezione, so risponderesti l’amicizia essere certo più onesta, e pertanto più ferma e durabile, adunque ancora più e utile e dilettosa. Imperoché agli animi liberali e allevati in queste buone lettere, come sete voi, niuna cosa disonesta può parere non trista, non disutile e da fuggire. Così adunque fate: persuadetevi, Battista, e tu Carlo, della vita de’ mortali nulla trovarsi doppo la virtù utile e in ogni stato lieta e commoda quanto l’amicizia. Vedesi non per furia, ma con ragione e giudicio interissimo e constantissimo, che l’amicizia sta utilissima a’ poveri, gratissima a’ fortunati, commoda a’ ricchi, necessaria alle famiglie, a’ principati, alle republice, in ogni età, in ogni vita, in ogni stato. Questa medesima a’ mortali troppo si truova accommodata e dolcissima. Piacciavi adunque acquistare amici assai, i quali siano a voi e alla famiglia nostra utilissimi, e seguite con assiduo studio delle buone lettere e arti fuggire ogni ozio, ogni lascivia e amore venereo e furioso al tutto e molto villano, amate la onestà, come veggo fate, spero farete e priegovi facciate.

Battista. Né con opera, né con diligenza, Lionardo, per noi mai mancherà in questa e in qualunque altra virtù e ammunimento esserti obbedienti assai e simili, e tanto più quanto tu ci prometti queste benché volgare amicizie non solo a noi essere, ma a tutta la famiglia utilissime, per cui ti promettiamo, Carlo e io, sempre in ogni suo onore e utile ci vedrai con ogni forza e ingegno, ove acadesse, adoperarci in qual si sia fatica o pericolo prontissimi e paratissimi.

Lionardo. Così vi lodo, frategli miei, così aspetto farete. Dio e la fortuna sieno facili e propizii a’ vostri studii quanto io a voi desidero. Pertanto a voi sempre stia in mente, dell’altre cose, quali sono non molte a numero ma ben necessarie alle famiglie, e sanza le quali niuna può essere felice e gloriosa, sola l’amicizia sempre fu quella la quale fra tutte in ogni fortuna tiene il principato. E stievi a perpetua memoria quanto dianzi vostro padre disse, che ’l primo grado a farsi ben volere era fuggire il vizio, amare la virtù, e in questa e in ogn’altra cosa utile e lodata alla famiglia nostra seguite quanto mi promettete, e io aspetto voi con ogni opera e diligenza essere commodi e cari come a’ vostri, così amati e onorati dagli strani.

Battista. Poiché tu così vuoi, e noi non poco desideriamo satisfarti, Lionardo, a te sta in qualunque cosa alla famiglia nostra bene acommodata renderci più dotti, onde noi per tuo aiuto conoscendola possiamo da ogni parte meglio seguire la volontà tua e ufficio nostro, e alla espettazione de’ nostri satisfare. E se a te gli studi nostri giunti a questa volontà sono, quanto assai sono, grati, e se più che l’usato costume tuo a te ora non pare incarico averti con noi facilissimo e oficiosissimo in farci e di costumi e di virtù più di dì in dì con tua opera ornati, priego ti piaccia narrarci qual modi e qual cose sieno quelle tanto alla famiglia, quanto dicevi, commode e necessarie. Noi aremo ozio assai. Nostro padre si riposa. Tu, credo, per ora non sei ad altra migliore opera obligato. A noi qui imparando da te sarà emolumento e grazia grandissima, ove con tua opera diventeremo a’ nostri molto cari quanto desideri e accettissimi. Adunque ora, Lionardo, se da noi qui ti piace essere pregato, usa, priegoti, l’umanità e consuetudine tua facilissima e in renderci ogni dì migliori operosissima; dona, priegoti, questa opera agli studii e desiderii nostri; fruttiamo questo ozio in aseguire teco dottrina, per condurci a laude, per adurre utilità e fama alla famiglia nostra Alberta. E spera, Lionardo, da noi mai mancherà in obedire tuoi ammonimenti. Per te così non manchi di tutto ammunirci e ammaestrarci.

Lionardo.Tutte queste cose ci sono ozio, affezione a voi e agli studii vostri. E quando io ben fussi altrove occupato, sempre a me parrebbe da preporre questa opera satisfacendo ai desiderii vostri lodevoli e in tutto onestissimi. Ma voglio sappiate queste sono cose ample e maggiori a spiegarle che voi forse non istimate. Truovonsi disseminate e quasi nascoste fra molta copia di varii e diversi scrittori, onde volerle racontare tutte e ordinare, e ne’ luoghi suoi porgerle, sarebbe faccenda a qualunque ben dotto molto faticosa. Bisognerebbemi avere assai prima ripensato, riscelto e meglio rassettato ogni parte. Né però poi potrei sanza maggiore memoria profferirle e aperto esplicarle; le quali tutte cose conosco, fratelli miei, poco essere in me. Eppure volendo versare testé qui in mezzo così le cose aviluppate, interverrebbe a chi me udisse come a quelli e’ quali caminano in sul primo albeggiare della aurora: que’ di loro, e’ quali altre volte sono pel paese stati e col chiarore del sole scorsono tutti e’ siti, allora riconoscono e di chi e’ siano e quanto siano ornati, e in quell’ombra discernono se ivi più fosse o manco che l’usato; gli altri, e’ quali a migliore luce mai essaminorono que’ paesi, passando ’n poco mirano ove poco si scorga, e a chi piace e a chi dispiace. Così a me testé interverria sanza avere prima in me dilucidato lo ’ntelletto mio con molto studio e lezione di molti scrittori, distinguendo e ordinando come chi conscende a mezzo del campo perducendo le schiere ed esserciti suoi. Me stessi nel recitare inordinato perturberei, e nella dottrina poco preparato porgerei a voi di me poca utilità. Né io fra ’l buio e tenebre della poca per sé e non bene alluminata mia memoria, di me solo vi porgerei forse qualche ombra di documenti perfetti altrove, ma poco a voi aperti e manco per me chiari; onde più tosto qui potrei da e’ dotti esser negletto che dagli imperiti lodato. Ma voi meglio per voi queste erudizioni tutte con miglior guida e di più autorità potrete riconoscere. Arete fra’ Greci Platone, Aristotele, Senofonte, Plutarco, Teofrasto, Demostene, Basilio, e tra’ Latini Cicerone, Varrone, Catone, Colomella, Plinio, Seneca e molti altri, co’ quali gustarete e meglio terrete tutti questi luoghi di che frutti sieno copiosi e ornati. E poi, Battista e tu Carlo mio, parrebbevi ella pochissima presunzione la mia, quando io ben fussi a tanta materia atto e sufficiente, se io mi confidassi entrando sì gran paese potervi con mio onore tragettare? Chi vorreste voi che me stessi a udire? A’ dotti potrei io se non dire cose a loro notissime; gl’ignoranti, stimate, di me e di mie sentenze poco farebbono giudicio, poco conto. Quelli vero che sono alquanto tinti di lettere, vorrebbono udire in me quella prisca eloquenza elimatissima e suavissima. Pertanto stimate sia il meglio per ora non perdere questo tacere, ché sempre fu il favellare inutile se non quando sia chi ben t’ascolti.

Battista. Se io non conoscessi la facilità tua, Lionardo, che mai volesti troppo essere pregato, io testé dubiterei denegassi a me questa grandissima grazia solo perché io non sappia molto pregartene. Ma te, se altro non tiene a tacere, le preghiere mie pur doverebbono muovere in qualunque modo t’acadesse a donarci quanto da te e desideriamo e aspettiamo. Né ora veggo ove tu abbia da ritenerti. Niuno arà da non molto lodarti, ove tu sempre desto te sempre adoperi essere e fare i tuo’ in qualunque laude famosissimi e singularissimi. E in questi ragionamenti così tra noi domestici, qual prudente desiderasse eloquenza più elimata o più che si richiegga esquisita? Tu, non dubito, e in questa e in ogni altra copia di dottrina per memoria e per ingegno vali quanto assai basterà satisfare a’ desideri nostri, i quali sì da ogni altro, sì molto più da te sono avidissimi d’imparare. Gli altri udiamo noi volentieri come precettori; te ascoltiamo lietissimi come maestro ottimo, amico e fratello. E se tu qui degenerassi testé dalla tua usitata facilità, e se poco e’ nostri studii a te fussero a cuore, e a te pure piacesse molto esser pregato, Carlo qui, el qual tu conosci d’ingegno e di facundia atto per tua umanità ad impetrare da te qualunque cosa e’ ti pregasse, credi così tacendo ti priega tanto più quanto né a lui né a me con parole mai sarebbe possibile meglio in questo porgere preghiera alcuna. Ché già chi tace attento, come ora fa lui, dimonstra non desiderare né aspettare altro che ascoltarti.

Lionardo. Piàcev’egli pure udirmi?

Battista. Quanto tu vedi.

Lionardo. E tanto vi sta desiderio al tutto udirmi?

Battista. Niuna cosa a noi più essere può grata.

Lionardo. Non posso adunque, né voglio non satisfarvi. Ma non aspettate da me se non quanto di cosa in cosa mi verrò ramentando. Solo reciterò e’ perfettissimi e utilissimi documenti necessari alle famiglie per non cadere in infelicità, accomodatissimi e ottimi a sollevarle e porle in suprema felicità e gloria. Ma come faremo? Avete voi che domandarmi? E io risponderò. O meglio vi pare che io perpetui senza interrompermi il corso del mio recitare?

Battista. Qual più t’agrada. A noi solo questo accade a domandare, qual cose facciano una famiglia felicissima. Tu continua el dir tuo. Noi t’ascolteremo.

Lionardo. Piacemi. Così faremo, e voi, dove paresse d’andare più adagio, rattenetemi, però che io in questa materia trascorrerò con quanta brevità si potrà. Ascoltatemi.

Spesso in queste nostre acerbissime calamità, e pure oggi pensando quanto la fortuna ingiuriando ci perseguiti, né mai si stracchi di dì in dì alle miserie nostre aggiugnere nuovo dolore, miseri noi! né a lei insino a qui paia non poco averci per tutto il mondo sparsi e così tenerci oppressi con molte calamità, tenerci errando nelle terre strane luntani da tutti e’ nostri frategli, sorelle, padri, amici e mogli, non posso, ah fortuna iniqua! tenere le lacrime. Piango la nostra sciagura, e ora tanto più adoloro, frate’ miei, poiché io veggo Lorenzo vostro padre, uomo per intelletto, per autorità, per ogni virtù prestantissimo, e a voi e a tutta la famiglia nostra Alberta in questi tempi acerbi e durissimi ottimo e necessario defensore e protettore, così giacere grave. O fortuna, quanto se’ contro alla famiglia nostra irata e ostinata! Ma in questo dolore seguo in me quello approbatissimo proverbio dello Epicuro; riducomi a memoria in quanta felicità già in patria la famiglia nostra godeva quando ella si trovava grande d’uomini, copiosa d’avere, ornata di fama e autorità, possente di grazie, favore e amicizie. E così con questa felice recordazione compenso la infelicità de’ tempi presenti, e a me stessi, quando che sia, in tanta tempesta, in tanti mali, prometto alla pazienza e fortitudine nostra qualche salutifero e requieto porto. E per istôrmi dall’animo ogni acerbità, traduco il pensiero mio altrove, considerando a una famiglia quale desideri essere amplissima non altro gli bisogna se non dar modo di parere simile alla nostra famiglia Alberta, a quella dico quale era prima che, ingiuria della fortuna, ella cadesse in queste avversità e tempestose procelle. E veggo e conosco questo, che una famiglia la quale manchi in queste cose delle quali noi tutti eravamo abondantissimi, e sia piccola d’uomini, e quelli sieno poveri, vili e sanza amici, molto più avendo inimici, questa così fatta famiglia si potrà nominare mai non misera e infelicissima. Adunque chiameremo felice quella famiglia in quale saranno copia d’uomini ricchi, pregiati e amati, e quella riputeremo infelice quale arà pochi, ma infami, poveri e malvoluti uomini; imperoché dove que’ saranno temuti, questi non potranno non sofferire molte ingiurie e sdegni, e dove a quelli sarà gratificato e renduto onore, questi saranno odiati e aviliti, e dove nelle cose magnifice e gloriose quelli saranno chiamati e ammessi, questi saranno esclusi e schifati. Pare a voi questo?

Battista. Parci.

Lionardo. Adunque nel nostro ragionamento potremo constituire questi quattro generali precetti come fermi e saldissimi fondamenti onde crescano e dove s’agiungano tutti gli altri. Dicogli. Nella famiglia la moltitudine degli uomini non manchi, anzi multiplichi; l’avere non scemi, anzi accresca; ogni infamia si schifi; la buona fama e nome s’ami e seguiti; gli odii, le nimistà, le ’nvidie si fuggano, le conoscenze, le benivolenze e amicizie s’acquistino, accrescansi e conservinsi. Così adunque aremo a trattare di questi quattro documenti; e perché gli uomini son quelli e’ quali hanno a essere ricchi, virtuosi e amati, imperò prima cominceremo a vedere in che modo una famiglia diventi come diremo populosa, e considerremo in che modo alla famiglia mai multitudine manchi. Dipoi seguiremo investigando dell’altre secondo che accaderà. E troppo mi piace che non so io come quasi divino consiglio sia in luogo di proemio caduto a proposito el nostro primo qui tra noi ragionamento, nel quale io ti biasimava ogni cupidità e lascivia venerea. E se non fusse perché come allora, così molto più testé intendo essere non lungo in questa materia, forse monstrerrei quanto a ciascuna di queste quattro le quali restano a dire cose, le voluttà e lascivie amatorie siano al tutto troppo nocive e sempre pestifere. Ma di questo forse accaderà altro luogo e tempo da disputarne, poiché a voi non bisogna persuadere che co’ buoni studi, con liberali opere e arti fuggiate ogni ozio e desidia non onestissimo. Adunque torniamo al proposito nostro, del quale ragioneremo quanto potremo aperto e domestico, senza alcuna esquisita e troppo elimata ragione di dire, perché tra noi mi pare si richiegga buone sentenze molto più che leggiadria di parlare. Uditemi.

Diventa la famiglia populosa non altro modo che si diventassono populose terre, province e tutto el mondo, come ciascuno da sé stessi può immaginando conoscere che la moltitudine de’ mortali da pochi a questo quasi infinito numero crebbe procreando e allevando figliuoli. E al procreare figliuoli niuno dubiti all’uomo fu la donna necessaria. Poiché ’l figliuolo venne in luce tenero e debole, a lui era necessario avere a cui governo e fede e’ fusse caro e commendato, avere chi con diligenza e amore lo nutrisse e dalle cose nocive lo difendesse. Era loro nocivo el troppo freddo, el troppo sole, la molta piova, e i furiosi impeti de’ venti; però in prima trovorono il tetto sotto el quale nutrissino e difendessino sé stessi e il nato. Qui adunque la donna sotto l’ombra rimaneva infaccendata a nutrire e a mantenere il figliuolo. E perché essa occupata a custodire e governare lo erede, era non bene atta a cercare quello bisognava circa al suo propio vivere e circa mantenere i suoi, però l’uomo di natura più faticoso e industrioso usciva a trovare e portare secondo che a lui pareva necessario. Così alcuna volta si soprastava l’uomo, non tornando presto quanto era da’ suoi espettato. Per questo quando egli aveva portato, la donna tutto serbava, acciò che ne’ seguenti giorni, soprastando il marito, né a sé né a’ suoi cosa mancasse. A questo modo a me pare manifesto apparisca che la natura e ragione umana insegnò come la compagnia del coniugio ne’ mortali era necessaria, sì per ampliare e mantenere la generazione umana, sì per poterli nutrire e conservare già nati. E più monstrò che la sollecitudine del cercare congiunta colla cura e diligenza del conservare le utile e commode cose al vivere umano in lo congiugio era troppo necessaria. Monstrò ancora qui la natura che questa compagnia era non licita averla con più che una in uno tempo, imperoché l’uomo non potrebbe al tutto bene essere sufficiente a cercare e portare quanto per più che per sé stessi insiem’e per la donna e per suoi bisognasse, tale che avendo voluto trovare e arrecare per più donne e famiglie, a qualcuna certo una o un’altra cosa necessaria sarebbe qualche volta mancata. E quella donna a cui mancasse qual si sia delle cose al vivere dovute e necessarie, non arebbe costei ragionevole cagione abandonare quel che fosse nato per sé stessi in prima sostentare? Forse anco superchiandola qualche grande necessità, a lei sarebbe licito trovarsi altra compagnia. Così adunque fu il coniugio instituito dalla natura ottima e divina maestra di tutte le cose con queste condizioni, che l’uomo abbia ferma compagnia nel vivere, e questa sia non più che con una sola, colla quale si riduca sotto un tetto e da lei mai si partisca coll’animo, nolla mai lasci sola, anzi ritorni, porti e ordini quello che alla famiglia sia necessario e commodo. La donna in casa conservi quello che l’è portato. Vuolsi adunque seguire la natura, solo eleggersi una colla quale noi riposiamo la età nostra sotto un tetto.

Ma perché la gioventù le più volte in questo non gusta l’utilità della famiglia, dove forse a loro pare soggiogandosi al congiugio perdere molto di sua libertà e licenza del vivere, e forse perché alcuna volta stanno quale e’ comici poeti gli sogliono fingere obbligati e convinti da qualche loro amata, o forse ancora non pochissimo pesa a’ giovani avere a reggere sé, e per questo reputano soperchio e odioso incarco convenirli sostenere sé e la donna e i figliuoli, e troppo dubitano non potere onesto satisfare a’ bisogni quali di dì in dì colla famiglia crescono, per questo stimano el letto domestico essere cosa troppo molesta, e fuggono il legittimo e onestissimo accrescere della famiglia. Per queste cagioni, acciò che la famiglia non caschi in quella parte quale dicemmo essere infelicissima, in solitudine, anzi cresca in gloria e felice numero di gioventù, si vuole indurre la gioventù a tôr moglie con ragioni, persuasioni, premi, e con ogni argomento, industria e arte. Potranno qui essere accommodatissime ragioni quelle nostre di sopra a biasimare loro l’altre lascive voluttà, per adurli in desiderio di cose onestissime. Potranno le persuasioni essere simili: monstrargli quanto sia dilettoso vivere in quella prima naturale compagnia del congiugio e riceverne figliuoli, e’ quali sieno come pegno e statici della benivolenza e amore congiugali e riposo di tutte le speranze e voluntà paterne. A chi sé arà affannato per acquistare ricchezze, potenze, principati, troppo a costui pesarà non avere doppo sé vero erede e conservadore del nome e memoria sua. A cui le sue virtù servino dignità e autorità, a cui le sue fatiche porgano utilità e frutto, niuno più a questo essere può accommodato ch’e’ veri e legittimi figliuoli. Agiugni qui che colui di chi rimangono simili eredi, costui non può in tutto riputare sé spento né mancato, però ch’e’ figliuoli serbano nella famiglia el luogo e la vera imagine del padre. Didone fenissa, poiché ’l suo Enea era da lei amante partito, fra’ suoi primi lamenti non altro sopra tutto desiderava se non come ella piangendo diceva: «Oh, pure un picchino Enea qui mi giucasse!» Così, meschina abandonata amante, nel viso, ne’ gesti d’un altro fanciullino Iulio a te sarebbe stato come lì primo veneno e fiamma dell’ardente e mortifero tuo riceuto amore, così qui ultimo conforto de’ tuoi dolori e miseria.

Non poco ancora gioverà ricordare a’ giovani quanto apresso gli antichi più si contribuiva onore a chi fra loro si trovava padre, poich’e’ padri portavano gemme e simili ornamenti, e’ quali non erano liciti a chi non avesse aumentata la repubblica di nuova prole e figliuoli. Sarà utile ancora ramentare a’ giovani quanti prodighi e sviati sieno a miglior vita ridutti poiché ebbono in casa la moglie. E agiungasi a questo quanto sia nelle faccende utile mano quella de’ figliuoli, quanto e’ figliuoli a te stiano presti e fedeli ad aiutarti sostenere e propulsare gl’impeti avversi della fortuna e le ingiurie degli uomini, e quanto e’ figliuoli più che alcuno altro sieno apparecchiati e pronti a difenderti e vendicarti dalle ingiurie e rapine degli scellerati e audacissimi uomini; e così nelle cose prospere quanto siano i figliuoli sollazzosi e atti in ogni età a contentarci e darci grandissime letizie e voluttà. Queste adunque cose qui saranno utile a raccontarle, e sarà non meno di poi utile monstrargli quanto alla età grande, nella quale si vive acerchiato d’infiniti bisogni, sarà utile pensare quanto allora siano e’ figliuoli, come diceva messer Niccolaio Alberti, uomo per età e dottrina prudentissimo, e’ figliuoli sono propria e ferma crucciola de’ vecchi. Queste e simili persuasioni, le quali tutte sarebbe testé lungo perseguire, gioveranno a indurre la gioventù a non spregiare onesta compagna e a desiderare propagazione, accrescimento e felicità della famiglia. Né manco sarà utile ancora indurli con simili premi: onorare molto e’ padri, e ne’ luoghi domestici e publici preporre chi più abbia figliuoli, e così riverire meno chi in età non avesse moglie. E s’egli è chi per povertà sé scusi, sia questa e fatica e incarco prima de’ vecchi, perché a loro, quanto disse Lorenzo, sta molto provvedere a tutti e’ bisogni della famiglia. Costoro con ammunizioni, con ispesso ricordargli e stimolargli sempre gli confortino e inducano a diventare padri.

E apresso sia opera di tutta la casa in fare che, poiché vogliono, così possano onestamente avere famiglia. Contribuischi tutta la casa come a comperare l’accrescimento della famiglia, e ragunisi fra tutti una competente somma della quale si consegni qualche stabile per sostentare quegli che nasceranno, e così quella spesa la quale a un solo era gravissima, a molti insieme non sarà se non facile e devutissima. Né a me pare in le famiglie ben costumate si truovi alcuno el quale per ricomperare uno vile uomo nonché del sangue suo, ma della terra, della lingua, non dovesse sofferire ogni grande spesa. Così per restituire più uomini a sé congiuntissimi nel sangue e nella famiglia sua, non credo sia da schifare una quanto questa sarebbe piccola spesa. Tu dai più e più anni salari a gente strane, a diverse persone; tu vesti, tu pasci barbari e servi non tanto per solo fruttare l’opere loro, quanto per essere in casa più accompagnato. Molto manco ti costerà contribuire a quello uno dono quale sarà da’ tuoi medesimi. Molto più onesta e grata compagnia ti sarà quella de’ tuoi che degli strani; molto più utile e condecente opera ti sarà quella de’ cari e fedeli domestici che quella de’ condutti e quasi comperati amici. E vuolsi adunque usare questa umanità e beneficenza nella famiglia, acciò che i padri possano sperare a’ figliuoli loro mai mancherà quanto al vivere loro sia necessario.

Gioverà forse ancora sforzare e’ nostri minori in simili modi: comandino e’ padri ne’ loro testamenti: «Se tu al tempo ragionevole fuggirai da avere moglie, non essere mio erede». Del tempo ragionevole del tôrre moglie sarebbe lungo racontare tutte l’antiche opinioni. Esiodo faceva uno marito in XXX anni; a Ligurgo piaceva e’ padri in XXXVII; a’ nostri moderni pare sia utile sposo ne’ XXV anni. A tutti prima che XXV pare che sia dannoso accostare la gioventù volenterosa e fervente a simile opera, ove ella spenga quella vampa e calore della età, più atto a statuire e confermare sé stessi che a procreare altrui. E anco si vede più fallace e manco essere vigoroso quel seme nel campo a generare, el quale non sia ben maturo e pieno. Aspettisi adunque la virilità matura e soda. Indutti ch’e’ giovani saranno, opera e consiglio de’ vecchi e di tutta la casa, le madri e l’altre antiche congiunte e amiche, le quali persino dall’avola conoscono quasi tutte le vergini della terra di che costume sieno nutrite, queste scelgano tutte le ben nate e bene allevate fanciulle, el quale numero porgano al nuovo che sarà marito. Costui elegga qual più gli talenta. E’ vecchi della casa e tutti e’ maggiori non rifiutino alcuna nuora se non quelle le quali seco portino suspizione di scandolo o biasimo. Del resto contenti sé chi arà a contentare lei. Ma faccia costui qual fanno i buoni padri della famiglia i quali vogliono nelle compre più volte rivedere la possessione prima che fermino alcun patto. In ogni compera e contratto giova informarsi e consigliarsi, domandarne più e più persone, e usare ogni diligenza per non avere dipoi a pentersi della compra. Molto più dovrà essere diligente chi constituirà farsi marito. Costui per mio consiglio essamini, prevegga in più modi, più dì, qual sia quella di chi e’ dovrà essere tutti gli anni suoi marito e compagno. E stiagli l’animo a prendere moglie per due cagioni: la prima per stendersi in figliuoli, l’altra per avere compagnia in tutta la vita ferma e stabile. Però si vuole cercare d’avere donna atta a procreare, grata a esserti perpetua congiunta.

Di qui si dice che nel tôr moglie si cerchi bellezze, parentado e ricchezze. Le bellezze d’un uomo essercitato nell’armi paiono a me, quando egli arà presenza di fiero, membra di forte e atti di destro a tutte le fatiche. Le bellezze d’uno vecchio stimerò siano nella prudenza, amorevolezza e ragione delle sue parole e consigli; e qualunque altra si reputi bellezza in uno vecchio certo sarà molto dissimile a quella d’un giovane cavaliere. Così stimo le bellezze in una femmina si possono giudicare non pure ne’ vezzi e gentilezza del viso, ma più nella persona formosa e atta a portare e produrti in copia bellissimi figliuoli. E sono tra le bellezze a una donna in prima richiesti i buon costumi; ché già una barbara, scialacquata, unta e ubriaca poterà nelle fattezze essere formosa, ma sarà mai chi la stimi bella moglie. E’ primi costumi in una donna lodatissimi sono modestia e nettezza. Diceva Mario, quel prestantissimo cittadino romano, in quella sua prima conzione al popolo romano: «Alle donne mondezza, all’uomo si conviene fatica». E per certo a me così pare sia. Nulla si truova così da ogni parte stomacoso quanto una femmina sbardellata e sporca. E quale stolto dubiterà che la donna la quale non si diletti d’essere veduta netta e pulita non ne’ panni solo e membra, ma in ogni atto ancora e parole, costei non sarà da riputarla ben costumata? E chi non lo conosce che la donna scostumata rare volte si truova essere onesta? Le donne disoneste quanto sieno dannose alle famiglie sia altro luogo da pensarne e ragionarne, ché io per me non so quale alle famiglie sia maggiore infelicità o tutta la solitudine, o una sola disonesta moglie. Adunque nella sposa prima si cerchi le bellezze dell’animo, cioè costumi e virtù, poi nella persona ci diletti non solo venustà, grazia e vezzi, ma ancora procurisi avere in casa bene complessa moglie a fare figliuoli, ben personata a fargli robusti e grandi. Antico proverbio: «Qual vuoi figliuoli, tal prendi la madre», e ne’ begli figliuoli ogni virtù loro sarà maggiore. Notissimo tra i poeti detto: «Gratissima virtù vien d’un bel corpo». Lodano i fisici filosafi che la moglie sia non magra, ma sanza troppo incarco di grassezza, però che queste così piene sono di molta frigidezza e oppilazioni gravi, e pigre a concipere. Vogliono ancora sia la donna di natura ben lieta, ben fresca, ben viva di sangue e d’ogni spirito. Né punto a loro dispiace una fanciulla brunetta. Non però accettano le fusche e nere, né amano le piccole, neanche lodano le troppo grandi e troppo svelte. Ben par loro utilissima a procreare molti figliuoli quando ella sia bene istesa, ma insieme molto ampia in tutte le membra. E sempre prepongono l’età fanciullesca per più loro, dei quali testé non accade dire, rispetti, come a conformarsi insieme massime l’animo. Sono le fanciulle per età pure, per uso non maliziose, per natura vergognose e sanza intera alcuna malizia; con buona affezione presto imprendono, e sanza contumacia seguitano i costumi e voglie del marito. Così adunque quanto abbiamo detto si seguiti tutte queste cose, le quali veggiamo che sono a conoscere e scegliere atta e prolifica moglie utilissime. Aggiugni a queste che ottimo sarà indizio se la fanciulla si troverà copia di fratelli tutti maschi, imperoché di lei appresso di te potrai sperare sarà simile alla madre.

E abbiamo detto già delle bellezze. Seguita il parentado, nel quale considereremo qual cose siano bene atte e da preferire. Credo io nel parentado in prima si vuole bene essaminare la vita e modi di tutti e’ nuovi coniunti. Molti matrimonii sono stati, secondo che tutto il dì s’ode e legge, cagione di grande ruine alla famiglia, poiché sono imparentatosi con uomini litigiosi, gareggiosi, superbi e malvoluti. Qui non accade per brevità addurne essempli, ché credo niuno si truovi sì sciocco, el quale non prima volesse rimanere sanza moglie che avere a sofferire pessimi parenti. Alcuna volta si vede e’ parentadi sono stati dannosi e calamitosi a quelli sposi, e’ quali hanno avuto a sostentare la famiglia sua e quella di coloro onde cavorono la fanciulla. E non raro interviene che i nuovi parenti sapendosi nelle cose mal reggere, o forse così sendo sfortunati, tutti per bisogno s’anidano in casa del nuovo parente. Tu di fresco sposo, né puoi sanza danno ritenerli, né sanza biasimo commiatarli. Adunque, per comprendere tutto questo luogo in poche parole, ché al tutto voglio essere in questa materia brevissimo, procurisi avere questi così nuovi parenti di sangue non vulgari, di fortuna non infimi, di essercizio non vili, e nelle altre cose modesti e regolati, non troppo superiori a te, acciò che la loro amplitudine non auggi come l’onore e dignità tua, così la quiete e tranquillità tua e de’ tuoi, e acciò che, se di loro alcuno cascasse, tu possa dirizzarlo e sostenerlo sanza troppo sconciarti, e sanza sudare sotto quello alle tue braccia e forze superchio peso. Né anche voglio questi medesimi parenti essere inferiori a te, imperoché se questo t’arecò spesa, quello t’impone servitù. Siano adunque non inequali a te, e come abbiamo detto, modesti e civili.

Seguita della dota, la quale, quanto a me pare, vuole essere più tosto mediocre, certa e presente, che grande, dubbiosa e a tempo. Non so io come ciascuno, quasi da uno comune corrutto uso, si diventi collo indugio pigro a satisfarti del danaio tanto più quanto egli speri bellamente potere non ti rendere el debito, come ne’ matrimonii talora interviene. Poiché la sposata ti siede in casa, in quello primo anno tutto, non pare altro licito che confermare il parentado con spesso visitarsi e convivare. Forse ivi si reputa durezza, fra’ congiunti e fra le feste, disporsi e adirizzarsi e piatire, e domandando, come sogliono e’ nuovi mariti per non offendere la grazia ancora tenera nel parentado, con parole rattenute e lento, pare ogni piccola scusa sia da essere accettata. E se tu richiedi el tuo con più fronte, quegli ti monstrano infiniti suoi bisogni, lamentansi della fortuna, accusano i tempi, riprendono gli uomini, dicono in maggiori casi speravano poterti molto richiedere; ma quanto però in loro sia, largo ti promettono di termine in termine satisfare, prieganti, vinconti, né a te pare di spregiare le preghiere di questi pur ora accettati parenti. Così ti truovi in luogo ove ti sta necessità a tuo danno tacere, o con ispesa e nimistà intrare in litigio. Dipoi ancora pare che mai non manchi l’infinita seccagione della moglie tua. Né sono poco le sue lagrime, né hanno pochissima possanza le persuasioni e assidue preghiere d’un nuovo e testé principiato amore. Né sapresti tu, per duro e bizzarro che tu fussi, imporre silenzio a chi altri pel padre suo o pe’ fratelli così dolce e piangendo ti pregasse. Così stima molto meno potrai e per casa e nella camera non ascoltare la donna tua. Adunque alla fine a te ne risulta o danno o nimistà. Siano adunque le dote certe e presente e non troppe grandissime, perché quanto e’ pagamenti hanno a essere maggiori, tanto più tardi si riscuotono, tanto sono più litigiose risposte, tanto con più dispetto ne se’ pagato, e a te tanto nelle cose pare da fare ogni grande spesa. Poi non si può dire quanto sia acerbo e talora disfacimento e ruina delle famiglie ove dobbiamo le gran dote rendere. Detto come si debbe scegliere la moglie fuori di casa, detto come si debbe accettarla in casa, resta a conoscere come si debbe trattarla in casa.

Battista. Io non interromperei questo tuo così succinto correre, se da te non fusse a me permessa questa licenza. Ma giovi el fermarci un poco e rivolgermi adrieto per confermarci a memoria quanto, se ben mi ramenta, per infino a qui dicesti si debbe scegliere onesta compagna di buon parentado e con buona dota, e atta a far figliuoli assai. Queste tutte cose difficilissime, Lionardo, stimi tu sia facile trovarle tutte in una donna, nonché in tante di quante bisogna a una famiglia grande e simile alla nostra? Io veggo negli altri matrimonii: se la fanciulla esce di parentado, ella ne viene sanza dota, e spesso così si dice: «Se tu vuoi dota, togli vecchia o sozza», tal che tra noi mi pare sia simile usanza a quella si scrive era in Tracia, che le sozze vergine con molta dota comperavano i mariti, alle belle stava certo premio secondo il giudicio de’ publici tassatori. Adunque, Lionardo, intendi tu quel ch’io voglio dire?

Lionardo. Intendo, e piacemi sia così stato attento a quanto abbiamo insino a qui detto. Èmmi caro non m’abbi lasciato così trascorrere. E sì, è egli vero; sì, e’ matrimonii non possono tutti essere com’io gli desidero, né possono tutte le mogli trovarsi simile a quella Cornelia figliuola di Metello Scipione maritata a Publio Crasso, donna formosa, litterata, perita in musica, geometria e filosofia, e quello che in donna di tanto ingegno e virtù più meritava lode, fu d’ogni superbia, d’ogni alterezza e d’ogni importunità vacua. Ma facciasi come consigliava quel servo Birria apresso Terenzio: «Non si può quel che tu vuoi; voglia quel che tu puoi». Sposisi quella in cui appaiano meno che nell’altre mancamenti. Non si lasci bellezza per aver parentado, non parentado per asseguire dota. Lodava Catone, ottimo padre di famiglia, nelle donne molto più una antica gentilezza che una grande ricchezza. E quanto a me, benché io possa credere l’una e l’altra sarà baldanzosa alquanto e contumace, pur quella un poco più temerà vergogna e molto meno sarà disubidiente, la quale non fra l’ombra e delizie delle ricchezze, ma coll’opera e luce di buon costumi sarà nata e educata. E tolgasi moglie per allevarne figliuoli in prima; dipoi si pensi che alle fortune più sono e’ buoni parenti fermi, e a giudicio de’ buoni, utili più che la roba. La roba in molti modi si truova essere cosa fuggiasca e fragile; e’ parenti sempre durano parenti, dove tu gli reputi e tratti non altrimenti che parenti. Di questo sarà da dirne più amplamente altrove; ora ritorniamo al proposito nostro. Ma di che mi ramento io testé? Certo egli è così; altro tempo si vuole a pensar prima, poi altro tempo a dire quello che tu bene fra te pensasti. Io in questo nostro ragionare, che così mi richiedesti, non così previsto né preparato transcorro con impeto, come chi corre alla china, e proffero ciò che m’è più al dire proclive. Non ti paia maraviglia adunque se io lascio adrieto più e più a questa materia necessarie cose, quali qui restano per certo troppo utile, troppo necessarie, e sarebbe mancamento lasciarle.

Battista. Restàv’egli costì forse ancora che dire? Io più nulla stimava vi si potessi aggiugnere.

Lionardo. Pensa tu; quand’io lasciava adrieto così fatta e innanzi a tutte necessaria cosa, quante altre credi tu utili e commodissime ora mi sieno fuggite dinanzi e nascose drieto? Ma questa molto da sé illustrissima e prestantissima m’è grato a tempo essermene aveduto. Dico, poiché tu nuovo sposo arai scelto e deliberato qual fanciulla più ti piaccia, e presone consiglio e licenza da tutti e’ tuoi maggiori, e questa più che l’altre fanciulle per costumi e per bellezza a te e a’ tuoi molto sarà grata, si vuole prima sì bene fare come diceva apresso Senofonte quel buon marito a Socrate: pregare Iddio che alla tua nuova sposa dia grazia d’essere fecunda con pace e onestà della casa, molto pregarne Iddio con molta religione, però che queste sono cose troppo in una moglie necessarie, troppo misere a chi le mancano, molto lodate e felici in chi le stiano, e sono proprio dono d’Iddio. Non ha buona sposa ogni uomo che la cerca, né ha onesta donna ciascuno che la vuole, come forse alcuni si stimano. Anzi sempre fu raro e solo beneficio d’Iddio abbattersi a moglie in tutto pacifica e costumatissima, e puossi riputare felice marito colui el quale dalla moglie vedrà mai nato alcuno scandolo o vergogna. Beato colui a chi la mala moglie non porge maninconia alcuna. Però di questo molto si prieghi Dio, che al nuovo marito dia grazia di ricevere buona, pacifica, onesta e come dicemmo prolifica sposa. Ancora di nuovo dirò tanto: mai si resti di pregare Iddio che conservi nel congiugio onestà, quiete e amore.

Battista. Avendo io adritto l’animo a tôr moglie, Lionardo, non so quanto mi fusse utile udirti qui tanto diffidarti, e tanto dubitare che a’ mariti siano le moglie manco che oneste.

Lionardo. Taci, Battista, non mi calunniare, non interpretare le mie parole come se io intendessi vituperare i femminili animi e costumi. Anzi mi piace in ogni facile e difficile cosa sempre invocare l’aiuto d’Iddio. Niuna cosa si truova tanto difficile che a noi quella col favore d’Iddio non sia molto facilissima. Né cosa si truova sì facile, la quale o sua natura, o per qualche caso talora non sia in qualche uno difficillima. Però giova, Battista, pregare Iddio che le cose a tutti gli altri facili, a noi non caggiano difficili. Ma seguitiamo il primo ragionamento nostro. Dissi qual fusse in casa atta moglie a portare figliuoli; ora mi pare seguiti di considerare quanto al procreare de’ figliuoli si richiegga, la qual parte forse per qualche rispetto sarebbe da preterire. Ma sarò in quella, benché molto necessaria, pure sì copertissimo e brevissimo, che a chi ella non gustasse sarà come non detta, e a chi ce la qui aspettasse arà da non desiderarla. Provegghino i mariti non darsi alla donna coll’animo turbato di cruccio, di paura o di simili alcune perturbazioni, imperoché quelle passioni le quali premono l’animo impigriscono e infermano la virtù, e quelle altre passioni le quali infiammano l’animo, perturbano e fanno tumultuare que’ maestri e’ quali aveano indi a fabricare quella imagine umana. Di qui s’è veduto d’un padre ardito e forte e saputo uno figliuolo timido, debole e scioccaccio, e d’un moderato e ragionevole padre essere nato un furioso figliuolo e bestiale. Vuolsi ancora non aggiugnersi se ’l corpo e tutte le membra non sieno bene disposte e sincere. Dicono i fisici e con molte ragioni dimostrano queste, come e’ padri e le madri si truovono o gravi e oppressi di crapule o malizia di sangue, o deboli e vòti di vigore e polso, così sarà ragionevole siano e’ figliuoli, come alcuna volta si veggono, lebrosi, epilentichi, sporchi e non finiti di membra e vacui; le quali cose molto sono da non volerle in suoi figliuoli. Imperò comandano si conscenda a questa tal congiunzione sobrio, fermo e quanto più si può lieto, e par loro quella ora la notte attissima doppo la prima digestione, nella quale tu sia né scarco né pieno di tristi cibi, ma sviluppato e leggieri dal sonno. Lodano in questo farsi ardentemente dalla donna desiderare. Hanno ancora molti loro altri documenti, che quando sia il caldo superchio, e quando ogni sementa e radice in terra stia così ristretta, arsa da’ freddi, allora s’indugi e aspettisi l’aire temperata. Ma sarebbe troppo lungo recitare tutti e’ loro precetti, e forse doveva io avere più riguardo con chi io favello. Voi siete pur giovanetti; forse questo luogo, a che io possa pigliare scusa così sendoci a caso entrato come il ragionare mi v’ha tirato, questo medesimo non mi sarebbe licito volerlo dire ex proposito. Ma come ch’io sie o da biasimarmi o da scusarmi, io son contento avere errato purch’io a voi n’abbia pòrto qualche utile, e in questo io reputo meno errore s’io forse sono stato superchio favellatore più che disonesto.

Battista. A noi non se’ tu, Lionardo, paruto in questo ragionamento né superchio, né disonesto. Anzi, se come tu di’, come e’ fisici pruovano, come io credo sia il vero, se per non avere ogni diligenza può seguirne lebra, morbi e tali estreme malattie, se la poca temperanza ne’ padri può e suole essere cagione di furore e pazzia ne’ figliuoli, non vi si debbe egli avere grandissimo riguardo? Pertanto giova conoscere el male per poterlo schifare. E qual savio non volesse più tosto non volere figliuoli che averli morbosi e furiosi? Segui, Lionardo, non trallassare adrieto, non temere tra noi alcuno mordace calunniatore, e’ quali allora arebbono da riprendere quando tu tacessi queste sì necessarie cose, le quali osservate sono utilissime, non curate troppo sono dannosissime.

Lionardo. Sanza dubbio questi precetti sono utilissimi, ma pure egli era forse il meglio volere parere manco dotto che troppo inetto, come forse ora a me converrà essere. L’un ragionamento alletta e tira l’altro. Dissi della congiunzione, la quale ricerca ch’io dica testé come si debba trattare la donna quando ella sia gravida; e ancora nel partorire, e partorito ch’ella arà, par se gli debba qualche documento. E così dove io avea statuito narrarti gl’instituti della famiglia, io arò a descriverti precetti di medicina, e insegnarti essere, come dicevano gli antichi, ostetrici. E che più? Aremo noi a imitare quel Gaio Mazio antico amico di Gaio Cesare, el quale descrisse l’arte de’ cuochi e l’arte de’ pistori? Aremo noi a ’nsegnarti ancora a fare la pappa e zuppa pe’ fanciulli? Ma poiché noi siamo caduti in questi ragionamenti, sieci licito essere brevissimi, e lasceremo a’ medici con ragione difendere e’ documenti suoi, quali succinte raconteremo. La donna adunque, quale sentirà sé gravida, usi vita scelta, lieta e casta, vivande leggieri e di buon nutrimento; non duri superchie fatiche, non s’adormenti, non impigrischi in ozio e solitudine, partorisca in casa del marito e non altrove; produtto el parto, non esca a’ freddi, né a’ venti, se prima in lei ogni fermezza di tutti i membri suo’ non sono bene rassettati. E ho detto.

Battista. E quanto brieve!

Lionardo. Abbiamo adunque el modo a crescere la famiglia. Ora diremo in che modo ella si conservi, se in prima dico due cose necessarie a’ nati fanciugli, nelle quali veggo molti padri non poco errare. A me nella famiglia nostra Alberta, e in prima ne’ figliuoli di messer Niccolaio, diletta quella leggiadria di que’ bellissimi nomi, Diamante, Altobianco, Calcedonio, e negli altri Cherubino, Alessandro, Alesso; e pare a me ch’e’ nomi sozzi abbiano in molta parte facultà a disonestare la dignità e maestà di qualunque uomo virtuoso. Leggesi alcuni nomi essere stati infelicissimi, come in Grecia quelle vergini quali si chiamorono Milesie, per varii modi, per suspendio, precipizio, con veneno, con ferro, tutte sé stessi furiose dierono anti tempo a morte. E così e’ nomi leggiadri e magnifichi pare a me tengano buona grazia, e non so donde rendono la virtù e l’autorità in noi più splendida e più pregiata. Alessandro macedonico, el cui nome già era apresso tutte le nazioni celebratissimo, movendo le sue copie d’armi per convincere un certo castello, chiamato a sé un suo macedonico giovanetto a cui era simil nome Alessandro: «E tu, Alessandro», disse per incenderlo a meritare laude, «a te sta portare in te virtù pari al nome, quale hai, quanto puoi vedere, non vulgare». E certo io non dubito ne’ buoni ingegni uno leggiadrissimo nome sia non minimo stimolo a fare che desiderino aguagliarsi come al nome, così ancora alla virtù. E non sanza cagione e’ prudentissimi nostri maggiori, quando alcuno fortissimo e amantissimo della patria, in premio e memoria delle virtù loro per incitare e’ minori a seguire pari lode, da loro era nel numero degli idii ascritto, gl’imponevano nuovo e quanto potevano elegantissimo e chiarissimo nome, come e’ nostri Latini a Romolo, chiamòrollo Quirino, quegli altri a Leda Nemesis, a Giunone Leucotea. Ma siamoci troppo stesi. Statuiamo adunque così: non guardino e’ padri a’ passati nomi nella famiglia tanto che giudichino da non piacere in prima e’ bellissimi nomi, poiché i brutti sono odiosi e spesse ore dannosi. Siano in la famiglia nomi clarissimi e famosissimi, e’ quali costano poco, vagliono e giovano assai. Imperoché in tutti e’ nostri Alberti sempre fu questa innata e quasi naturale volontà ardentissima d’essere più che parere in ogni lodatissima cosa periti e dottissimi.

Adunque abbiamo detto una delle due quali proposi dire cose. L’altra sì è che l’ora, el dì, il mese e l’anno, e anche il luogo si noti, e in sui nostri domestici commentarii e libri secreti si scriva subito che ’l fanciullo nacque, e serbisi tra le care cose. Questo per molte cagioni, ma non essendovi altra ragione, pur e’ dimostra quanto sia nel padre in ogni cosa diligenza, ché già se si reputa diligenza scrivere il dì, far menzione del sensale per cui mano tu comperasti l’asino, sarà egli manco lodo far memoria del dì che tu diventasti padre, e del dì che a’ figlioli tuoi nacque il fratello? Aggiugni che possono accadere molti casi ove sarà necessario saperlo, converratti ricercare la memoria degli altri; nollo ritrovando al bisogno, n’averai maninconia e anche forse maggior molestia e danno, e trovandolo riputerai poco lodo se altri ne’ fatti tuoi sarà più che tu stessi curioso e memorioso.

Abbiamo adunque così fatta la casa populosa. Ora si vuole molto provedere che questa multitudine non manchi. Però mi pare da considerare le cagioni, il perché le famiglie minuiscono, e conosciute proverremo di rimediargli. Questo in prima voglio appresso di noi sia manifesto: perché gli uomini si sono morti sanza successori, però sono le famiglie mancate. Vorrebbesi potere mantenere gli uomini immortali! Non si può. Facciamo adunque che questi e’ quali sono in vita, stiano tra noi quanto più tempo a loro sia possibile; questo per ogni altro rispetto, ancora e perché quanto più staranno in vita, tanto più saranno utili alla famiglia, se non in roba in fama, se non in fama in consiglio, se non in consiglio almanco in acquistargli nuova gioventù. Come faremo a tenere l’uomo in lunga vita? Credo sarà utile fare come fa il pratico pastore a conservare gli armenti suoi. Che fa egli? E’ vede che la capra gode ne’ luoghi difficili e sterili, la bufola ne’ paesi acquosi, gli altri giumenti altrove; però così dispone ciascuno e pascegli dove è di che più si richiede alle nature loro. Così facciano e’ padri delle famiglie. Se la aria di Firenze sarà troppo a costui sottile, mandisi a Roma; se quella gli sarà troppo calda, mandisi a Vinegia; se questa troppo a lui fusse umida, traduchisi altrove, e sempre si posponga ogn’altra utilità alla sanità, e ivi si fermi dove egli stia sanza alcuna debolezza. Imperoché chi non è ben sano non può essere se non disutile, e se pure di sé costui porge qualche utilità, sarà poco tempo utile, e quando ben durassi assai, credo io più si debba avere la sanità cara che l’utile. Così adunque più piaccia a’ padri avere el figliuolo lungi da sé sano e forte, che averlo presso a sé infermo e debole. Basta questo distribuire la gioventù per luoghi bene atti alle compressioni loro? Mainò. Che gli bisogna più? Questo ancora: considerare ch’e’ cibi tristi, la vita disordinata, e’ troppi disagi sono le cagioni di fargli cadere in le infermità e a quel modo uccidergli. Però si vuole che niuna di quelle necessità gli nuoca, e che nelle debolezze e nelle malattie se gli abbia ogni diligenza per rifermarlo e sanarlo. Né vi si risparmi nulla, però che essere tegnente e massaio in que’ bisogni sarebbe non virtù ma avarizia. Né si loda la masserizia se non solo per potere a questi e agli altri casi provedere e sovenire, e non essere a’ bisogni largo e prodigo torna vergogna e danno. Troppo grandissima ed estrema avarizia mi parrebbe non avere la vita e salute d’uno uomo più cara ch’e’ danari. Troppo stimo a ciascun paia crudelità abandonare lo ’nfermo, non curare di perdere quel parente per conservare e conferire altrove qualche danaio.

E poiché noi abbiamo fatto menzione del non abandonare lo ’nfermo parente, parmi da non tacere quello ch’io dirò testé, cose più tosto utili alla famiglia che grate agli uomini troppo piatosi. Fu sempre la pietà e umanità tra le prime virtù dell’animo molto lodata, e giudicasi officio di pietà, debito di giustizia, lode di liberalità a uno parente visitare, aiutare, e in ogni caso e bisogno sovvenire al parente suo. Così richiede la ragione, la carità e umanità, e ogni costume tra’ buoni. Ma forse mi può parere poca prudenza non fuggire quelli infermi, a’ quali tu non sanza pericolo della sanità e vita tua puoi loro essere né utile né grato, qual sono e’ morbi contagiosi e più che gli altri velenosi. Le legge in malattia contagiosa ma non mortifera, permettono che l’uomo abandoni la carissima cosa, e separi sé dalla prima ottima naturale congiunzione del matrimonio. Se adunque sarà licito al marito fuggire la donna lebrosa, diremo noi che sia manco licito fuggire uno amorbato di peste? In che sarà lodata la pietà? In porgere mano e opera per sollevare e rifermare quegli afflitti, i quali o per impeto della fortuna, o per ingiuria e nequizia degli uomini, o per alcuno altro incommodo fussono colle membra o coll’animo caduti, o vero oppressi dalle calamità e infermi. Certo sarà pietà e misericordia quanto sia in noi darsi a costui, esserli oficioso e utilissimo. Ma colui sarà temerario e crudele, el quale sé stessi proferirà agli ultimi pericoli della morte, ove a’ pericoli seguiranno minimi, o forse niuno premio di laude e fama. E così stia: non se non grandissima cagione debba muovere gli animi nostri a non schifare e’ pericoli e a non pregiare noi stessi. Nuocere a sé non giovando ad altri non veggo io quanto si venga da pietà. Loderemo la giustizia e fortitudine in sapere da ogni caso avverso e da ogni male difendere e vendicare la fama, le fortune, il sangue e la vita nostra. Ma qual giusto mai offenderà sé stessi non difendendo altrui? Quale uomo mai ebbe lodo di fortitudine per inimicare sé stessi? Piace la liberalità e prudenza nell’opere magnifiche e molto utilissime; ma quale non stultissimo stimerà mai questo essere cosa degna di non grandissima riprensione darsi agli estremi pericoli ove tu non salvi, ma gratifichi a uno solo? A me certo pare stultissimo consiglio non amare più la vita certa di molti sani che la sanità dubbia d’uno infermo. Le quali cose se così sono, chi dubita che sarà pietà, giustizia e prudenza in simili casi provedere che lo ’nfermo guarisca, ma non meno sarà consiglio e ragione provedere ancora ch’e’ sani non infermino? Chi studia che lo ’nfermo si liberi, costui lo cerca sano. Adunque apresso di lui sia caro avere in sé quello quale brama in altrui. E se vogliamo la nostra prudenza e pietà essere lodata, daremo opera ch’allo ’nfermo sanza pericolo della vita nostra ogni cosa a lui utile e necessaria abondi. Aremovi medici, chiameremo speziali, non mancheranno gli astanti; ma noi provederemo alla sanità nostra, colla quale all’infermo e alla famiglia nostra saremo più che col pericolo acomodatissimi, dove perseverando in tanto pericolo sarebbe a chi giace poco utile e alla famiglia dannoso, imperoché colui così infetto può facilmente amorbare costui, e costui quell’altro, e a quel modo tutta la famiglia cadere in infermità e ruina.

Quante terre già si viddono da piccolo principio d’infezione essere cresciuto grandissimo incendio di pestilenza, tale che quasi tutta la gioventù in pochi dì si truova perita e consumata! Non bisogna qui allegarne storie, né recitarne essempli. In questo veneno niuno dubita a quanto sia forza di morte da qualunque minimo principio cresca e spandasi grande e furiosa. Vedemmo a Genova, non fa molti anni, sendo concorso il popolo a uno spettaculo religioso e publico, alcuni salirono in luoghi ove prima qualche amorbato era giaciuto e perito. Fra pochi dì qualunque ivi allo spettaculo era in su que’ luoghi dimorato, cosa miserabile! in brieve morì, e amorbossi chi gli ricevette in casa, amorbossi chi gli visitò, per modo che tutta la terra sentì la ruina e strage di quella pestiferissima velenosa furia. O veneno nocentissimo, o infirmità orribilissima, o cosa molto da fuggirla! Non so io se qui merito essere in queste parole duro e impio riputato, ma poiché di questo trattiamo, siaci licito non tacere l’utile della famiglia. Dirò quello comandano i dotti fisici, quale confermano il giudicio di ciascuno prudente, quale anche ogni uomo non in tutto pazzo può per esperienza così el vero conoscere. Fugga el padre, fugga el figliuolo, fugga il fratello, fuggano tutti, poiché a tanta forza di veneno, a tanta bestemmia, nulla si truova che giovi se non fuggirla. Fuggansi, poiché altra arme o arte cóntroli niuna ci vale. Non si può, non, propulsare, non difendere quella rabbia mortifera ed essecrabile. Adunque vorranno i savi prima salvare sé fuggendo, che rimanendo non giovare ad altri e nuocere a sé. Piaccia a’ piatosi non meno la salute sua che una vana opinione di grazia. All’uomo per salvare sé, chi niega non essere licito e concesso dalle leggi uccidere chi con inimico animo l’assaliva? Se così lice, quale pertinace mi negherà non molto più meritare perdono chi abandonerà quell’uomo, el quale al continuo gli porga pericolo di morte? Anzi qual prudente, quale affezionato al bene e salute de’ suoi mai riputasse abbandonatosi, ove si vegga di quelle cose tutte copia, quali giovano a’ bisogni suo’, medici, servidori, e medicine? Può a quel modo guarire, ove avendo atorno i suoi non però meglio potrebbe guarire, ma presto ucciderli. Non voglio essere lungo in questo ragionamento, el quale priego Iddio in la nostra famiglia mai acaggia da seguirmi con opera quanto la necessità e utilità della famiglia desidera. Torniamo a’ primi ragionamenti. Fuggansi adunque, sì come dicemmo, tutti e’ luoghi e tutte le cagioni atte a infermare alcuno della famiglia.

Truovo ancora che in altro modo si rende la famiglia men populosa, quando ella si divide, e dove prima era una sola ben populosa e ben grande, testé son due né populose, né grandi, come già intervenne ad alcuna famiglia in Italia. Qual fusse la ragione testé nollo ricerco. Ben confermo che a me pare da credere così, che qualunque padre vorrà la sua famiglia essere divisa e minore, così e più debole, per constituire sé più maggiore e più fermo, costui prima sarà ingiusto molto e da biasimare; imperoché, comune giudicio di tutti e’ prudenti, l’utilità e onore di tutta la famiglia si dee preporre alla propia, come tutto proverremo nel luogo suo; poi costui medesimo così ingiusto non si può riputare prudente, anzi giace in grandissimo errore, s’egli sta col pensiero e mente occupato a essere capo maggiore che alle membra della famiglia sua si convenga. Le deboli membra non possono sofferire el capo troppo grave, anzi pel troppo peso si fiaccano, e il capo non sostenuto da tutti i membri cade e si fracassa. Però colui el quale sarà saggio, e per giudicio intenderà in altri quello che altri co’ suoi dolori pruova, costui conoscerà che d’uno trave segato quella e quell’altra parte molto più sarà debole a sostenere il peso che s’elle fossono non dispartite. Né mai si potrà tanto raggiugnere el già diviso legno che sia, come prima era, fermo e tegnente. Ma di questa materia più diremo appieno nel luogo suo, ove acaderà a dire dell’amicizie, concordia e unione quali bisogna nella famiglia. Per ora tanto basti avisarvi che le famiglie per essere divise non solo minuiscono di numero e gioventù, ma ancora scemano d’autorità, rendono minore la fama e dignità, per modo che in grande parte ogni nome e grazia acquistata si perde. Molti ameranno, temeranno, onoreranno una famiglia unita, e’ quali di due famiglie discorde e divise nulla stimeranno.

Abbiamo adunque detto come si debbe fare e conservare la casa populosa, come a farla populosa tolgasi moglie, procreasi figliuoli, come a conservalla si vuole dare opera che la gioventù perseveri in lunga vita con sanità e unione; le quali tutte cose con nostra industria e diligenza potremo quanto al bene e utile della famiglia si richiede, essequire. Ma perché alcuna volta contro ad ogni nostra umana prudenza accade che ’l numero nella famiglia manca, o perché le mogli rimangono sterili, o perché la morte ci toglie e’ già acquistati figliuoli, però mi pare necessario qui ancora considerare in che modo allora ci sia licito mantenere la famiglia pur populosa. Appresso gli antichi, e’ quali con molta prudenza e consiglio a ogni commodità e necessità della famiglia provedevano, soleva licita essere e legittima consuetudine fare divorzio dalle loro maritate, e divider l’uso e unione congiugale e separarsi dalla moglie. Questo facevano quando vedevano del matrimonio loro seguire niuno frutto, e per pruova conoscevano così insieme sé non essere utili a quanto si desidera ne’ matrimonii, divenire padri. E nacque questo uso e licenza non prima in Roma che anni dugento e trenta doppo la rapina fatta delle donne sabine, tanto avea voluto Romulo ne’ matrimonii essere integrità e pudicizia. E non però sanza cagione Spurio Corvinio, overo Corpilio, fu el primo el quale repudiò la sua moglie perché essa era infecunda e sterile. Parsegli non disonesto lasciar questa, disiderando altronde avere figliuoli. Ma oggi e’ costumi civili, le religiose constituzioni le quali affermano el matrimonio essere non congiunzione di membra tanto, ma più unione di volontà e animo, e per questo statuiscono sponsalizio essere sacramento e legame religioso, però vetano che quegli e’ quali sono così per divino sacramento congiunti mai si separino per volontà umana. Quella adunque utile alla famiglia antiqua consuetudine di lasciare quella sterile per tôr questa colla quale s’acquisti figliuoli, oggi, come vedete, non è valida a rompere el vincolo religioso congiugale. Solo, quella può separare la congiunzione delle membra, ove siano alla salute e vita loro dannose. Giova adunque questa separazione non ad ampliare el numero della famiglia, ma a conservalla.

Restaci quella altra consuetudine antichissima che solevano e’ fortissimi cittadini, e’ quali forse aveano tradutta l’età sua nell’arme fra gli esserciti in remotissime province per rendere suo officio al nome e autorità della patria, poi quando si riducevano in riposo fra’ suoi e in la sua già ultima età cessavano dalle publice fatiche e davansi a’ civili onestissimi ozii, ove grandemente desideravano come in la superiore età coll’opera e sudore, così testé con prudenza e consiglio essere a’ cittadini suoi gratissimi e carissimi; e conoscevano quanto negli ozii sia voluttà, quel che loro nell’arme non era licito avere, la carissima e amatissima compagnia della moglie; e non dubitavano quanto sia alla republica e alle famiglie private utilissimo procreare figliuoli, e per questo curavano non uscire di vita sanza vedere chi sia nel nome e fortune sue osservatore e successore, facevano come oggi alcuni, e come a que’ tempi sì degli altri assai, sì anche el figliuolo d’Africano superiore, quale adottò el figliuolo nato di Paulo Emilio. E pare a me questa utilissima, licita consuetudine, adottarsi degli altri già nati figliuoli, ove a te quegli nascere non possano. Potrei adurne più cagioni; solo ne dirò qualcuna per brevità; e per non lasciare questo luogo sì nudo, sia licito adottare per ovviare che la famiglia non declini in solitudine e ad infelicità. Sia ancora non inutile considerare che se già e’ figliuoli nascono, a noi sta niuna certezza quanto e’ sieno per crescere e sani e interi di membra e sentimento. Ma in quelli e’ quali già in parte sono allevati, non sarà tanto da dubitare quali uomini e’ possano con nostro studio e diligenza divenire, però che già da’ costumi della indole ed effigie loro assai di presso apparisce e comprendesi onde tu possa constituire a te non incerta espettazione. Ma ritorniamo alla brevità nostra, e sia persuaso che l’adottare non è cosa se non usitata, giusta e utilissima alle famiglie. E perché questo adottare quasi non è altro se non aggiugnere uno nuovo cugino a’ tuoi nipoti e un congiunto a’ tuoi parenti, però si vuole sceglierlo tale quale que’ di casa l’acettino volentieri. Vuolsi conferire con tutti, acciò che niuno poi biasimi quello quale essi abbino lodato e consentito; vuolsi aver cura d’adottare nati di buon sangue e di buon sentimento, di gentile aspetto, e tali nell’altre cose che la casa mai abbia con ragione da dolersene. E poi’ maggiori così faranno quanto in loro sarà possibile, prima con aver buon consiglio e diligenza, poi con aver buona cura e sollecitudine in fare dotto e costumato el fanciullo e mantenerlo virtuoso. E stimi chi adotta, se nollo amerà come figliuolo, gli altri di casa non terranno quello per congiunto, onde costui sarà non solo come forestiero in casa, ma più viverà carico d’invidia, né forse libero da ingiurie e danno. E ciascuno sa quanto nelle famiglie le discordie sieno da fuggire. Vuolsi adunque adottare nati atti a virtù, amarli e farli virtuosi, ché allora tutti e’ tuoi staranno lieti e contenti vedere in la famiglia un virtuoso. Circa il fare e mantenere una famiglia populosa pare a me qui resti a dire più nulla, se già a voi non altro venisse a mente.

Battista. Io non so in che mi ti lodare più, Lionardo, o della facilità quale tu hai usata in narrarci quanto ti priegammo, o dello ingegno col quale tu hai così distinto e disposto in mezzo cose qual mai arei stimato si facessono a questa materia, sopra tutto, Lionardo, in tanta copia di perfettissimi quanti recitasti documenti. A me piace questa tua maravigliosa brevità, e in tanta brevità parse a me el tuo stile nel dire elegantissimo, facile e molto chiaro. Né mai arei pensato ivi fusse stato a gran quantità presso tanto che dirne. Abbiamotene grazia. Quando che sia a noi gioverà avere imparato da te queste cose bellissime e utilissime alla famiglia. Così aspettiamo dell’altre che restano, ché, se ben mi ricordo, rimane a dire in che modo la famiglia diventi ricca, amata e famosa. Séguita.

Lionardo. Ben istà. Ma prima quel mi pare da fare. Parmi vostro officio sempre coll’animo e con tutte l’opere osservare in ciò che potete a vostro padre esser dovunque bisogni presti, grati e utili. Ite adunque. Vedete prima se a Lorenzo bisognasse nulla. Non si vuole posporre la pietà ad alcuno studio. Va, Battista. Tu me poi ritroverrai qui.

Battista. O diem utilissimam! Vado. Carlo, tu sta con Lionardo, non rimanga solo.


Così feci. Andai. Vidi a nostro padre bisognava nulla. Per questo a lui pregai licenza, se così gli piaceva, ritornassi da Lionardo, el quale m’aspettava per seguire quanto gli avea cominciato per insegnarci cose molto utili. - Da Lionardo, - disse Lorenzo nostro padre, - non potete imparare se non virtù. Piacemi, ite, non perdete tempo; qui testé nulla bisogna di te, e, se tu bene bisognassi, più a me sarà caro sapere sia dove diventi più dotto. Va, Battista, e stima, figliuol mio, ogni tempo essere perduto se non quello el quale tu adoperi in virtù. Né potresti a me fare cosa più grata quanto di farti virtuoso. Lascia qual sia faccenda adrieto per acquistare virtù e onore. Va, non indugiare. Va, figliuol mio -. Così disse Lorenzo, e io così feci, rende’mi a Lionardo, narra’gli la risposta.

— Oh! que’ padri felici, — disse allora Lionardo, — e’ quali non avendo maggior desiderio se non che diventino virtuosi, s’abattono ad avere figliuoli, e’ quali sono cupidissimi di prendere buone arti e ornarsi d’ottimi costumi e grazia di molti. Seguite, fratelli miei, Battista e tu Carlo, adempiete quanto in voi sia la voglia ed espettazione di vostro padre, poiché né lui desidera da voi altro, né voi potete far cosa più in uomo lodata. Date opera quanto fate di dì in dì essere più dotti e più lodati. E noi ora che faremo? Seguiteremo noi dicendo di quello che resta a’ ragionamenti nostri? A me pare già tardi. Ricciardo e Adovardo omai dovranno indugiare non troppo a giugnere; però temo non ci basterà il tempo e saracci interrotto el ragionamento. Pertanto forse sarebbe il meglio soprastare in domani e direnne più pensato e più intero, ché testé mi pare stare coll’animo sospeso aspettando vedere Ricciardo, el quale uomo modestissimo, umanissimo, sempre e per sua carità in me, e per mia reverenza inverso di lui, fu a me in luogo di padre. E non so come, qualunque io sento passare mi pare sia Ricciardo, tanto desidero e aspetto vederne Lorenzo essere lieto, el quale vie più di me con troppo desiderio l’aspetta.

Allora gli rispuosi io: — Lionardo, facciamo come testé nostro padre disse: riputiamo perduto ogni tempo se non quello quale spenderemo in virtù. Ora credo non ci sia che fare altro. Adòperati in farci migliori. Tu insino a qui dicesti, quanto a mio giudicio in quella materia dir si poteva, molto utilissime cose non sanza perfetto ordine, con eloquenza non meno succinta che chiara ed elegante: onde non dubito testé potrai in quel che resta fare il simile. Ricciardo stimo non giugnerà però sì tosto, né a te l’animo mai suole pendere meno inverso l’utilità nostra che verso l’amore di Ricciardo. Per tua facilità e grazia verso di noi sempre potemmo riputarti fratello, e per quanta da te riceviamo dottrina e cognizione di cose perfettissime, dovemo ricognoscerti non solo come maestro, ma certo in luogo di padre. E non riputiamo men grado avere avuto l’essere e vita dal padre, che ricevere da te el ben starci in vita con lodo e onore. Però, Lionardo, segui. Facciamo questo tempo nostro adoperandolo. Così manco resterà domani che dire. Segui. Ascoltiànti.

Lionardo. Adunque piacemi. Sarò nondimeno, poiché ’l tempo così richiede, brevissimo quanto la materia patirà. Ascoltatemi. Abbiamo la casa come dicemmo populosa, piena di gioventù. Vuolsi essercitarla, non lasciarla impigrire in ozio, cosa come inutile e poco lodata alla gioventù, così alle famiglie gravissima e troppo dannosa. Non però bisogna qui metter a voi in odio l’ozio, quali io veggio studiosi e operosi, ma pure per più incitarvi a seguire come fate in ogni fatica e in ogni laborioso essercizio per acquistare virtute e meritar fama, ponete animo qui e pensate da voi quale uomo, non dico cupido di laude, ma in qualche parte timido d’infamia possiate non trovare, ma fingere, a cui non dispiaccia grandemente l’ozio e desidia? Chi mai stimasse potere asseguire pregio alcuno o dignitate sanza ardentissimo studio di perfettissime arti, sanza assiduissima opera, senza molto sudare in cose virilissime e faticosissime? Certo sarà necessario a chi curi d’ornarsi di laude e fama fuggire e ostare molto all’ozio e inerzia, non meno che a’ capitalissimi e nocentissimi inimici. Nulla si truova onde tanto facile surga disonore e infamia quanto dall’ozio. El grembo degli oziosi sempre fu nido e cova de’ vizii; nulla si truova tanto alle cose publice e private nocivo e pestifero quanto sono i cittadini ignavi e inerti. Dell’ozio nasce lascivia; della lascivia nasce spregiare le leggi; del non ubbidire le leggi segue ruina ed esterminio delle terre. Quanto prima si comincia essere contumace a’ costumi e modi della patria, tanto subito si stende negli animi arroganza, superbia, e ogni ingiuria d’avarizia e rapina. Ardisconsi latrocinii, omicidii, adulterii, e ogni scellerata e perniziosa licenza trascorre.

Adunque l’ozio, cagion di tanti mali, molto a’ buoni debba essere in odio. E quando bene l’ozio fusse non quanto ciascuno conosce ch’egli è, pernizioso e nimico a’ buon costumi, e origine e fabrica d’ogni vizio, quale benché inetto uomo mai volesse essere in vita sanza essercitare lo ’ngegno, le membra e ogni virtù? In qual cosa a te pare differenza da un tronco, da una statua, da un putrido cadavere a uno in tutto ozioso? Quanto a me, non parerà ben vivo colui el quale non sente onore e vergogna, né muove sua membra e sé stessi con qualche prudenza e conoscimento, ma bene stimerò non vivo colui el quale giacerà sepellito nell’ozio e inerzia, e fuggirà ogni buono studio e opera. E a me sarà costui da nollo riputare degno di vita, el quale non molto vorrà in virtù e laude usare ogni suo sentimento e movimento. E questo medesimo ozioso, mentre che seguirà invecchiando in desidia e inerzia senza porgere di sé a’ suoi e alla patria sua utilitate alcuna, questo certo sarà tra’ virili uomini da stimarlo da meno che un vilissimo tronco, poiché d’ogni cosa posta in vita manifesto si vede quanto la natura a tutte contribuisce movimento e sentimento, sanza le quale cose nulla si può veramente giudicarsi in vita. E come, benché tu abbia gli occhi, pure tenendoli chiusi e al loro officio no’gli adoperando, tanto ti gioveranno quanto se tu non gli avessi, così chi l’operazioni per le quali si distingue la vita per sé non frutterà, costui si potrà in questo riputare non aver vita. Veggonsi l’erbe, le piante, e gli arbucelli quanto s’adoperino a crescere e porgerti di sé stessi qualche piacere o utile. Gli altri animali, pesci, uccegli e quegli di quattro piè, tutti al continuo in qualche industria e opera s’afaticano, né mai si veggono oziosi, sempre s’argomentano in vita a sé e ad altri essere non inutili; e truovi chi edifica el nido pe’ figliuoli, vedi chi discorre a pascere e’ nati, tutti s’adoperano quasi da natura loro sia in odio ogni ozio, tutti con qualche buona opera fuggono la inerzia. Pertanto così mi pare da credere sia l’uomo nato, certo non per marcire giacendo, ma per stare faccendo.

L’ingegno, lo ’ntelletto e giudicio, la memoria, l’apetito dell’animo, l’ira, la ragione e consiglio e l’altre divine forze e virtù, colle quali l’uomo vince la forza, volontà e ferocità d’ogni altro animale, certo non so quale stolto negasse esserci date per nolle molto adoperare. Né mi può non dispiacere la sentenza dello Epicuro filosofo, el quale riputa in Dio somma felicità el far nulla. Sia licito a Dio, quello che forse non è a’ mortali volendo, far nulla; ma io credo ogni altra cosa potere essere a Dio di sé stessi forse meno ingrata e agli uomini, dal vizio in fuori, più licita che starsi indarno. Manco a me dispiace la sentenza d’Anassagora filosafo, el quale domandato per che cagione fusse da Dio procreato l’uomo, rispose: «Ci ha produtto per essere contemplatore del cielo, delle stelle, e del sole, e di tutte quelle sue maravigliose opere divine». E puossi non poco persuadere questa opinione, poiché noi vediamo altro niuno animante non prono e inclinato pendere col capo al pasco e alla terra; solo l’uomo veggiamo ritto colla fronte e col viso elevato, quasi come da essa natura sia così fabricato solo a rimirare e riconoscere e’ luoghi e cose celeste. Dicevano gli Stoici l’uomo essere dalla natura constituito nel mondo speculatore e operatore delle cose. Crisippo giudicava ogni cosa essere nata per servire all’uomo, e l’uomo per conservare compagnia e amistà fra gli uomini. Dalla quale sentenza Protagora, quell’altro antico filosafo, fu, quanto ad alcuni suol parere, non alieno, el quale affirmava l’uomo essere modo e misura di tutte le cose. Platone scrivendo ad Archita tarentino dice gli uomini essere nati per cagione degli uomini, e parte di noi si debbe alla patria, parte a’ parenti, parte agli amici. Ma sarebbe lungo sequire in questa materia tutti e’ detti de’ filosafi antichi, e molto più lungo sarebbe agiugnervi le molte sentenze de’ nostri passati teologi. Per ora questi m’occorsono a mente, a’ quali, come vedi, tutti piace nell’uomo non ozio e cessazione, ma operazione e azione. E confermeratti questa comune e vera sentenza, se coll’animo mirerai quanto vedi più che negli altri animali l’uomo da essa infanzia per ogni corso della sua età sé sempre adoperare, tale che quegli e’ quali sono in tutto fuori d’ogni onesta e virile opera, questi pure in qualche modo faccendo qualche cosa sé stessi oziosi trastullano. E quanto chi mi lodasse più l’ozio, chi non preponessi l’adoperare le membra, ingegno e ragione in qualche laude, costui appresso di me sarebbe in maggiore errore che s’egli stimasse vera quella opinione di quello afflitto padre per la morte della figliuola, el quale consolando sé stessi disse, poteva pensare e’ mortali essere nati per patire in vita pena de’ loro sceleratissimi flagizii e peccati! Pertanto troppo mi piace la sentenza d’Aristotile, el quale constituì l’uomo essere quasi come un mortale iddio felice, intendendo e faccendo con ragione e virtù.

Ma sopra tutte lodo quella verissima e probatissima sentenza di coloro, e’ quali dicono l’uomo essere creato per piacere a Dio, per riconoscere un primo e vero principio alle cose, ove si vegga tanta varietà, tanta dissimilitudine, bellezza e multitudine d’animali, di loro forme, stature, vestimenti e colori; per ancora lodare Iddio insieme con tutta l’universa natura, vedendo tante e sì differenziate e sì consonante armonie di voci, versi e canti in ciascuno animante concinni e soavi; per ancora ringraziare Iddio ricevendo e sentendo tanta utilità nelle cose produtte a’ bisogni umani contro la infermità a cacciarla, per la sanità a conservalla; per ancora temere e onorare Iddio udendo, vedendo, conoscendo el sole, le stelle, el corso de’ cieli, e’ tuoni e saette, le quali tutte cose non può non confessar l’uomo essere ordinate, fatte e dateci solo da esso Iddio. Aggiugni qui a queste quanto l’uomo abbia a rendere premio a Dio, a satisfarli con buone opere per e’ doni di tanta virtù quanta Egli diede all’anima dell’uomo sopra tutti gli altri terreni animanti grandissima e prestantissima. Fece la natura, cioè Iddio, l’uomo composto parte celesto e divino, parte sopra ogni mortale cosa formosissimo e nobilissimo; concessegli forma e membra acomodatissime a ogni movimento, e quanto basta a sentire e fuggire ciò che fusse nocivo e contrario; attribuìgli discorso e giudicio a seguire e apprendere le cose necessarie e utili; diègli movimento e sentimento, cupidità e stimoli pe’ quali aperto sentisse e meglio seguisse le cose utile, fuggisse le incommode e dannose; donògli ingegno, docilità, memoria e ragione, cose divine e attissime ad investigare, distinguere e conoscere quale cosa sia da fuggire e qual da seguire per ben conservare sé stessi. E aggiunse a questi tanti e inestimabili doni Iddio ancora nell’animo e mente dell’uomo, moderazione e freno contro alle cupidità e contro a’ superchi appetiti con pudore, modestia e desiderio di laude. Statuì ancora Iddio negli animi umani un fermo vinculo a contenere la umana compagnia, iustizia, equità, liberalità e amore, colle quali l’uomo potesse apresso gli altri mortali meritare grazia e lode, e apresso el Procreatore suo pietà e clemenza. Fermovvi ancora Iddio ne’ petti virili a sostenere ogni fatica, ogni aversità, ogni impeto della fortuna, a conseguire cose difficillime, a vincere il dolore, a non temere la morte, fermezza, stabilità, constanza e forza, e spregio delle cose caduche, colle quali tutte virtù noi possiamo quanto dobbiamo onorare e servire a Dio con giustizia, pietà, moderanza, e con ogni altra perfetta e lodatissima operazione. Sia adunque persuaso che l’uomo nacque, non per atristirsi in ozio, ma per adoperarsi in cose magnifice e ample, colle quali e’ possa piacere e onorare Iddio in prima, e per avere in sé stessi come uso di perfetta virtù, così frutto di felicità.

Forse a voi pareva mi fussi troppo dal proposito alienato, ma non sono state se non necessarie queste recitate cose a provare quanto io stimo avervi persuaso. Ma non disputiamo testé quale di quelle opinioni più sia vera e da tenere. Diciamo al nostro proposito che l’uomo sia posto in vita per usare le cose, per essere virtuoso e diventar felice, imperoché colui el quale si potrà dire felice, costui agli uomini sarà buono, e colui el quale ora è buono agli uomini, certo ancora è grato a Dio. Chi male usa le cose nuoce agli uomini e non poco dispiace a Dio; e chi dispiace a Dio stolto è se si reputa felice. Adunque si può statuire così: l’uomo da natura essere atto e fatto a usufruttare le cose, e nato per essere felice. Ma questa felicità da tutti non è conosciuta, anzi da diversi diversa stimata. Alcuni reputano felicità avere bisogno di nulla, e questi cercano le ricchezze, le potenze e amplitudine. Alcuni stimano a felicità non sentire incarico o dispiacere alcuno, e questi si danno alle delizie e voluttà. Alcuni altri pongono la felicità in luogo più erto e più difficile a giugnervi, ma più onesto e più sopra i lascivi appetiti, in essere onorati, stimati dagli altri uomini, e questi intraprendono le fatiche e gran fatti, le vigilie e virili essercizii. Forse di questi ciascuno può aggiugnere non molto discosto dalla felicità adoperandosi con virtù, usando le cose con ragione e modo. E così adoperando l’altre cose insieme a sé stessi con temerità e sanza ordine, gli segue molto errore, e tanto più a lungi si truova addutto errando quanto di sé e de’ doni d’Iddio peggio meriterà con vizii e impietà. Questo sarà quando el vizioso verrà ne’ suoi presi essercizii più o manco che non richiede e patisce l’onestà e ragione. Volere con avarizia, con brutte arti arricchire; volere con vizii essere onorato; volere ne’ lascivi ozii non sentire gravezza alcuna, a me pare sia non altro che disporsi a male usare le cose per nuocere agli uomini, dispiacere a Dio in quel modo ed essere infelice e misero, la qual cosa molto si debba da ciascuno non in tutto insensato fuggire, e molto più da coloro e’ quali vorranno rendere la sua famiglia felice.

Cerchino adunque costoro in prima per sé essere felici, poi procureranno la felicità de’ suoi; e, come dissi, la felicità non si può ottenere sanza essercitarsi in buone opere, giuste e virtuose. Sono l’opere giust’e buone quelle che non solo nuociono a niuno, ma giovano a non pochissimi. Sono l’opere virtuose quelle nelle quali si truova niuna suspizione né congiunzione di disonestà, e quelle saranno ottime opere, le quali gioveranno a molti, e quelle fieno virtuosissime le quali non si potranno asseguire sanza molta virilità e onestà. Se pertanto noi abbiamo a prendere essercizio virile e onestissimo, a me pare si doverrà molto bene, innanzi che noi ci dedichiamo ad alcuno fermo essercizio, ripensare molto ed essaminare con quale ci sia più facile giugnere verso alla felicità. Ogni uomo non si truova abile a così facilmente essere felice. Non fece la natura gli uomini tutti d’una compressione, d’uno ingegno e d’uno volere, né tutti a un modo atti e valenti. Anzi volse che in quello in quale io manco, ivi tu supplisca, e in altra cosa manchi la quale sia apresso di quell’altro. Perché questo? Perch’io abbia di te bisogno, tu di colui, colui d’uno altro, e qualche uno di me, e così questo aver bisogno l’uno uomo dell’altro sia cagione e vinculo a conservarci insieme con publica amicizia e congiunzione. E forse questa necessità fu essordio e principio di fermare le republice, di costituirvi le leggi molto più che come diceva... fuoco o d’acque essere stato cagione di tanta fra gli uomini e sì con legge, ragione e costumi colligata unione de’ mortali.

Ma non usciamo del proposito. Vorrassi, a conoscere quale essercizio più si convenga, considerare queste due cose: l’una essaminare lo ’ngegno, lo ’ntelletto, el corpo tuo, e ogni cosa la quale sia in te; poi appresso porre ben mente di quegli aiuti, amminicoli e appoggi e’ quali sono necessarii e utili in quel tale essercizio, a quale ti pare essere più che agli altri sufficiente, di quelli come tu abbia ad averne in tempo attitudine, copia e libertà. Pogniamo caso: se colui volessi essercitare fatti d’arme sentendosi debole, poco robusto, poco valente a sostenere le fatiche, a durare nel sudore, a stare nella polvere, sotto l’aria, sotto el sole, questo per lui non sarebbe atto essercizio. E se io volessi seguire lettere sendo povero, non avendo ben donde supplire alle spese, quali non poche si convengono agli studii delle lettere, ancora non sarebbe questo essercizio per me. Ma volendo tu darti a cose civili, trovandoti moltitudine di parenti, copia d’amici, abondanza di roba, e in te sendo d’ingegno, d’eloquenza e di grazia non rozzo, né inetto, quello essercizio ben si farebbe per te. Vorrassi adunque prima contrapesare fra sé stessi ogni cosa, come dissi, quanto la natura abbia donato a te e al corpo tuo, e quanto la fortuna ti conceda e in tempo monstri non privartene. Interviene che alcuna volta si mutano le compressioni, le fortune, e’ tempi e l’altre cose. Allora si faccia come diceva Talete filosofo: «Adàttati al tempo». Se tu avessi a ire in villa possendovi andar bellamente per qualche viottolo, vorresti tu pure irvi per la strada militare e regia quando quella fosse rotta, piena di precipizii, fatiche e pericoli? Credo io che pur no. Anzi, sendo tu non imprudente, andresti per una dell’altre, la quale in sé più fusse onesta e più a te facile. Così sarà nel corso della vita nostra umana prudenza fare. Se ’l fiume e onda de’ tempi, se l’impeto e diluvio della fortuna c’interrompe la via, se la ruina delle cose la impaccia e guastala, vuolsi allora pigliare altro essercizio a tradurci quanto meglio a noi sia possibile verso la desiderata felicità. E non stimo io essere altro felicità se non vivere lieto, sanza bisogno e con onore. E se tu vedrai te essere atto a più che uno essercizio, adrìzzati in prima con quello el quale più sia onorato in sé e utile a te e alla famiglia tua; e a qualunque essercizio ti darai, sempre ti segga in mente essere nato a bene adoperarti per adducerti a felicità, e sempre ti sia proposto in animo che al bene adoperarsi niuna cosa più giova quanto se tu al tutto delibererai essere quello el quale agli altri vorrai parere. Chi aspetterà essere riputato liberale, Battista, sarà suo debito donare a molti spesso e largheggiare; chi vorrà essere riputato giusto e buono, costui conviene mai ingiurii alcuno, sempre retribuisca secondo e’ meriti, vincendo non di contenzione ma d’umanità e facilità; chi soccombe al dolore e teme e’ casi avversi, chi pregia la fortuna e le cose caduche, costui mai meriterà essere riputato né forte, né di grande animo. Ma colui del quale sarà la memoria, el conoscimento, el vero fermo e intero giudicio da’ suoi cittadini provato e adoperato, colui uno si potrà riputare e stimarlo prudente. Adunque ciascuno in quello essercizio al quale sé stessi darà, studii con ogni opera e diligenza essere quale e’ vuol parere. E stimo io niuno vorrebbe parere cattivo o maligno. Più tosto credo ciascuno ama essere tenuto modesto, umano, temperato, facile, amorevole, servente, faccente, studioso. Le quali lode se sono da pregiarle e da volerle, a noi rimane officio quanto in noi sia con opera non meno che con animo e volontà così essercitarci d’essere, perché poi essendo in noi, così agli altri parremo. Niuna cosa manco si può occultare che la virtù. Sempre fu la virtù sopra tutti gli umani beni clarissima e illustrissima. E dipoi si cerchi e sforzisi con tutte le mani e co’ piedi, con tutti e’ nerbi, con ogni diligenza, sollecitudine e cura, curisi ivi con ogni nostra opera, arte e industria, tra gli essercitati ed eruditi uomini in quello al quale ti desti essercizio, essere sopra tutti peritissimo e dottissimo. E chi, quanto si richiede, persevererà affaticandosi e sudando in quel ch’egli studii al tutto e contenda essere molto el primo, stimo a costui non sarà cosa troppo difficilissima occupare ogni prima laude e nome. Dicesi che l’uomo può ciò che vuole. Se tu ti sforzerai, come ho detto, con tutte le forze e arte tue, sono io un di quegli che non dubito te in qualunque essercizio conscenderai al primo e suppremo grado di perfezione e fama. Chi s’inframmette ad essercizio non in tutto atto e condecente a sé, di costui non merita lo studio però essere biasimato. E chi con ogni studio e diligenza seguirà essercitandosi in quello che la natura e fortuna gli asecondi, costui merita lode e pregio, benché ivi a lui quello riesca poco fruttuoso. Ma ben meriterebbe essere ripreso chi eleggesse cosa poco a sé accommodata. Non in ogni cosa si loda opporsi alla fortuna, né poco giova sapere col corso delle cose tragittarsi a buona quiete e tranquillità del vivere. Conviensi adunque aviare in modo che a tempo non di te abbia, ma più della fortuna, se caso aviene, ad inculparti. E certo poco arai da rimordere te stessi, ove con maturo consiglio tu arai preso essercizio quanto dissi atto a te e alla fortuna tua. Così colui el quale averà preso atto e conveniente essercizio a sé, e in quello resterassi adrieto e non ascenderà alle prime lode, le più volte costui non arà se non da incolpare la sua negligenza.

E in questa materia si può addurre similitudine. Pogniamo per caso che al porto di Vinegia s’aparasse e ornasse uno spettaculo navale, nel quale fusse grande multitudine di concertatori e navi, e tu fra esse fussi duttore d’una, le quali tutte rigattessero un lungo corso simile a quello discrive Virgilio fatto ne’ giuochi d’Enea appresso di Cicilia, ma più ciascuna delle navi adoperasse o veli o remi, quali al navichiero paresse al suo presto tragettare convenientissimo. Tu per giugnere al termine ove si serba le grillande e insigni della vittoria, e ove si rendono i premi e onori meritati, sommamente contenderesti onde la tua e quell’altra e anche la terza nave aggiugnerebbono a’ primi meritati onori, e forse anche la quarta ne riporterebbe se non suppremo premio, almen qualche nome, e pure ritornerebbe ricordata dalla moltitudine, e in le recitazioni del veduto spettaculo forse sarebbe o da qualche loro avenuta sciagura, o da qualche errore scusata, e così in qualche parte onestata e lodata dove accadesse. Ma l’altre tutte sarebbono sconosciute, e di loro si tacerebbe, per modo che forse meglio sarebbe a que’ concertatori essersi stati in terra oziosi con gli altri giudicando, ridendo, e quanto volessino biasimando la tardità e negligenza d’altri, che con essi aversi con negligenza, se così si può dire, affannato, e vedersi non pregiati, ancora e beffati da tutti. Così nel corso e concertazione dell’onore e laude nella vita de’ mortali mi stimo sarebbe utilissimo provedere e prendere atta in prima e facile navicella e via alle forze e ingegno tuo, e con essa sudare d’essere il primo, come agli animi non desidiosi e piccolissimi sta bene sperare e desiderare d’essere, e al tutto contendere d’essere se non il primo almanco tra’ primi veduto fuori di quella moltitudine sconosciuta e negletta, certare con tutte le forze e ingegno di conseguire qualche clarità e laude. A conseguire laude si richiede virtù; a ottenere virtù solo bisogna così volere sé tanto essere, più che parere, tale quale desideri d’essere tenuto. Per questo si dice che alla virtù pochissime cose sono necessarie. Come vedi, solo la ferma, intera e non fitta volontà basta, e sarà in colui fizione, el quale monstrerrà quello volere quale gli dispiace. Ma non ci stendiamo in disputare quanto sia facillissimo conseguire la virtù. Altrove sarà da dirne. Solo statuiamo che a chi cerca meritare il primo, sederà onesto nel secondo luogo; fra gli ultimi niuno siede se non sconosciuto e negletto, ove non si truova onestamento alcuno. E qui sia utile ancora considerare quanto ogni tua opera e fatica ti seguirà con emolumento e profitto, con molto onore e frutto di fama, ove tu te conduchi tra’ primi. Tu vedi in ogni artificio chi si truova più dotto, in colui più concorrono ricchezze, e più tra’ suoi gli s’augumenta autorità e dignità. Pensa tu stessi quali sono quegli, a fare per vil cosa ch’ella sia, diciamo così un calzare, e’ quali non cerchino tra quegli artefici sempre il miglior maestro. Se ne’ vilissimi mestieri sempre i più dotti più sono richiesti, e così più famosi, voglio stimate questo che ne’ lodatissimi essercizii non sarà punto il contrario. Anzi a te più gioverà essere il primo, o vero tra’ primi, quanto intenderai in te essere più parte di felicità che in e’ molt’altri. Se tu sarai litterato, tu conoscerai quanto sieno meno felici gl’ignoranti, e quanto sieno infelicissimi quegli ignoranti e’ quali pure vorranno parere dotti.

E vogliovi adducere una similitudine giocosa, ma molto, quanto stimo, appropriata a questi ragionamenti. Se fusse chi volesse parere notatore, in verità non fusse, ma sé stessi così in sul lito al securo comovesse, spandendo le palme e gittando le braccia molto, e soffiasse qua e là, e a sua posta galleggiasse in terra simile a quelli che nuotano dentro al fiume, se Dio t’aiuti, Battista, potresti tu vedendolo tenerti di non ridere? Quanto io, credo tra la brigata sarebbe a chi verrebbe voglia dargli qualche sferzata. Tu vero che? Riputerestilo in questo essere non pazzo? Certo non ti parrebbe savio. E se questo medesimo stolto pur volesse parere notatore, e gittassesi a mezzo là nel corso e onda del fiume, non sarebbe egli veramente pazzo? Sì, credo. E quell’altro il quale si stava cortese e vestito, né curava essere lodato né conosciuto per notatore, pur vedendo perire quel temerario, cupido di parere quel che non era, e presuntuoso in monstrare di sapere quello che non sapeva, subito si spogliò e gittossi e cavonnelo. Che dici? Non sarà costui da molto rendergli grazia e lodo? Però vedi tu quanto nelle cose meglio sia essere che parere. E quinci tu stessi da te considera quanto giovi sopra degli altri sapere, e quanto sia lodo a’ tempi e a’ bisogni adoperare quello che tu sai. Alle quali cose se tu ben vi penserai, credo non dubiterai che così in ogni essercizio chi vuole parere conviene certo che sia. Abbiamo detto la gioventù non stia indarno ma pigli onesto essercizio, nel quale sé esserciti con virile opera, e seguasi quello essercizio quale renda più utile e fama alla famiglia; eleggasi essercizio qual sia più atto alla natura e alla fortuna nostra, e in quello si perseguiti in modo essercitando che per noi non manchi aggiugnere a’ supremi gradi.

Ora, perché le ricchezze, per le quali quasi ciascuno in prima si essercita, sono utilissime a perseverare nelle principiate faccende con lodo e grazia, ad acquistarsi amistà, onore e fama, però sarà luogo a dire in che modo s’acquisti ricchezza, e in che modo quelle si conservino. La qual cosa era una delle quattro quali dicemmo essere necessarie a rendere e mantenere felice una famiglia. Adunque ora cominceremo ad accumulare ricchezze. Forse questo tempo, che già siamo presso al brunire della sera, s’aconfarà a questi ragionamenti. Niuno essercizio, a chi hane l’animo grande e liberale, pare manco splendido che paiono quegli instituti essercizi per coadunare ricchezze. Se voi qui considererete alquanto e discorrerete, riducendo a memoria quali siano essercizii accomodati a fare roba, voi gli troverete tutti posti non in altro che in comperare e vendere, prestare e riscuotere. E io stimo che a voi’, e’ quali, quanto giudico, pur non avete l’animo né piccolo né vile, que’ tutti essercizii suggetti solo al guadagno potranno parervi bassi e con poco lume di lode e autorità. Già poiché in verità el vendere non è se non cosa mercennaria, tu servi alla utilità del comperatore, paghiti della fatica tua, ricevi premio sopraponendo ad altri quello che manco era costato a te. In quel modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua; per la roba rimane a te commutato el danaio; per la fatica ricevi il soprapagato. El prestare sarebbe lodata liberalità, se tu non ne richiedessi premio, ma non sarebbe essercizio d’aricchirne. Né pare ad alcuni questi essercizii, come gli chiameremo, pecuniarii mai stieno netti, sanza molte bugie, e stimano non poche volte in quegli intervenire patti spurchi e scritture non oneste. Però dicono al tutto questi come brutti e mercenarii sono a’ liberali ingegni molto da fuggire. Ma costoro, quali così giudicano di tutti gli essercizii pecuniarii, a mio parere errano. Se l’acquistare ricchezza non è glorioso come gli altri essercizii maggiori, non però sarà da spregiar colui el quale non sia di natura atto a ben travagliarsi in quelle molto magnifiche essercitazioni, se si trametterà in questo al quale essercizio conosce sé essere non inetto, e quale per tutti si confessa alle republice essere molto e alle famiglie utilissimo. Sono atte le ricchezze ad acquistare amistà e lodo, servendo a chi ha bisogno. Puossi colle ricchezze conseguire fama e autorità adoperandole in cose amplissime e nobilissime con molta larghezza e magnificenza. E sono negli ultimi casi e bisogni alla patria le ricchezze de’ privati cittadini, come tutto el dì si truova, molto utilissime. Non si può sempre nutrire chi coll’arme e sangue difenda la libertà e dignità della patria solo con stipendii del publico erario; né possono le republice ampliarsi con autorità e imperio sanza grandissima spesa. Anzi, soleva dire messer Cipriano nostro Alberti che lo ’mperio delle genti si compera dalla fortuna a peso d’oro e di sangue. El quale detto d’uomo prudentissimo se si può riputare quanto a me pare verissimo, certo le ricchezze de’ privati cittadini le quali soppriranno a’ bisogni della patria saranno da crederle utilissime. E secondo che soleva dire messer Benedetto nostro Alberti, quello erario sarà copiosissimo non el quale arà infinite somme di debitori e amplissimo numero di censi, ma ben sarà abundantissimo fisco quello al quale e’ cittadini suoi non poverissimi saranno affezionati, e al quale tutti e’ ricchi saranno fedelissimi e giustissimi.

Né qui a me pare da udire coloro e’ quali stimano tutti gli essercizii pecuniarii essere vili. Io veggo la casa nostra Alberta, come in tutti gli altri onestissimi, così in questi essercizii pure pecuniarii, gran tempo aversi saputo reggere e in Ponente e in diverse regioni del mondo sempre con onestà e integrità, onde noi abbiamo conseguita fama e autorità appresso di tutte le genti non pochissima, né a’ meriti nostri indegna. Imperoché mai ne’ traffichi nostri di noi si trovò chi ammettesse bruttezza alcuna. Sempre in ogni contratto volsono i nostri osservare somma simplicità, somma verità, e in questo modo siamo in Italia e fuor d’Italia, in Ispagna, in Ponente, in Soria, in Grecia, e a tutti e’ porti conosciuti grandissimi mercatanti. E sono e’ nostri Alberti sempre a’ bisogni della patria nostra stati non poco utilissimi. Truovasi che de’ trenta e due danari, e’ quali la patria nostra in que’ tempi spendeva, sempre di quegli più che uno era aggiunto dalla famiglia nostra. Gran somma! ma sempre maggiore fu la volontà, affezione e prontitudine nostra verso la patria. Così acquistammo nome, fama e pregio apresso di tutti, ma grazia e amore più apresso tutte le nazioni strane che appresso de’ nostri cittadini. Ma sia altro tempo a dolerci della fortuna e de’ casi nostri. Gloriànci più tosto e godiamo di quanto si può la famiglia nostra Alberta veramente gloriare. Di questo, Battista e tu Carlo, e’ mi giova ragionare con voi, di simile cose le quali appartenghino a memoria e predicazione delle lode de’ nostri Alberti, uomini prestantissimi e singularissimi, acciò che voi siate cupidissimi, quanto sete, e molto affezionati sempre e volenterosi di mantenere quanto in voi sia, e accrescere in quel tutto potrete la dignità, autorità, fama e gloria di casa nostra, le quali acquistate da’ nostri maggiori, a noi sarebbe vergogna nolle conservare con molta virtù. Dico si può gloriare la casa Alberta che da ducento e più anni in qua mai fu essa sì povera ch’ella non fusse tra le famiglie di Firenze riputata ricchissima. Né a memoria de’ nostri vecchi, né in nostre domestice scritture troverrete che in casa Alberta non sempre fussono grandissimi e famosissimi, veri, buoni e interi mercatanti. Né per ancora in la patria nostra vederete essere durata ricchezza alcuna sì grande, sì lungo tempo, e con manco biasimo quanto la nostra. Anzi, pare in la terra nostra niuna, se non solo la nostra famiglia Alberta, gran ricchezza niuna giugnesse mai a’ suoi nipoti eredi. In pochi dì sono inanite e ite, come dicono e’ vulgari, in fummo, e di qualche una di loro rimasone povertà, miseria e infamia. Non mi piace qui stendere a recitare essempli, né investigare che cagione o che infortunio così tra’ nostri concittadini dilegui le grandissime ricchezze, ché arei troppo che dire, e infiniti m’occorrono essempli verissimi ma odiosi. Sia ditto da me con onore e reverenza delle famiglie: questo sarà dolersi della fortuna, non biasimarsi de’ costumi d’alcuno. Cerchi, Peruzzi, Scali, Spini e Ricci, e infinite altre famiglie nella terra nostra amplissime e oggidì ornatissime di virtù e nobilissime, le quali già abondavano di grandissime e ismisurate ricchezze, si vede quanto subito, ingiuria della fortuna, sieno cadute in infelicità e parte in grandissime necessitati. Ma della famiglia nostra, in ogni altro modo perseguitata dalla fortuna, mai si trovò chi a ragione si chiamasse non giuste e benigne trattato da noi. Mai fu nella famiglia nostra Alberta chi ne’ traffichi rompesse la fede e onestà debita, el quale onestissimo costume, quanto veggo, in la famiglia nostra Alberta sempre s’osserverà, tanto veggo e’ nostri uomini non avari al guadagno, non ingiusti alle persone, non pigri alle faccende. E stimo io sia non tanto per prudenza e sagacità de’ nostri uomini, ma veramente premio d’Iddio, poich’e’ nostri onestamente avanzano. Così Iddio, a cui sopra tutto piace l’onestà e giustizia, dona loro grazia che possino in lunga prosperità goderne.

Perché mi sono io steso in questo ragionamento? Solo per monstrarvi che ancora degli essercizii non pochi si truovano onesti e lodati, co’ quali s’acquista non minime ricchezze; e, come vedete l’uno essere questo dei mercatanti, così pensate si truova degli altri simili essercizii onestissimi e pecuniosissimi. Adunque si vuole conoscere questi quali e’ sieno. Così faremo. Porremo qui in mezzo tutti gli essercizii, e sceglieremo qua’ sieno e’ migliori; poi cercheremo in che modo con quegli si diventi pecunioso e copioso. Gli essercizii e’ quali non referiscono premio e guadagno, mai ti faranno esser ricco, e quegli essercizii e’ quali porgono guadagni spessi e grandi, questi così fatti sono attissimi ad aricchirti. Consiste adunque, se io non erro, quanto ci acquista la nostra industria, non quanto ci doni la ventura, grazia o favore d’alcuno, el ragionevole diventare ricco solo ne’ guadagni. El diventar povero ove consisterà? Nella fortuna, confessolo. Ma escludiamo la fortuna ove noi ragioniamo della industria. Se adunque nel guadagnare s’adempie le ricchezze, e se i guadagni seguono la fatica, diligenza e industria nostra, adunque l’impoverire contrario al guadagno diverrà dalle cose contrarie, dalla negligenza, ignavia e tardità, li quali vizii non sono in la fortuna, né in le cose estrinsece, ma in te stessi. Consiste ancora lo ’mpoverire, quanto si vede, in un soperchio spendere, e in una prodigalità la quale dissipi e getti via le ricchezze. Contrario allo spendere, contrario alla negligenza mi pare la sollecitudine e cura delle cose, cioè la masserizia. La masserizia adunque conserverà le ricchezze. Così abbiamo trovato che per diventare ricco si conviene guadagnare e poi serbare el guadagnato, e con ragione esserne massaio.

Ma diciamo prima universale di tutti e’ guadagni, poi udirete della masserizia. E’ guadagni vengono parte da noi, parte dalle cose fuor di noi. In noi sono atte a guadagnare l’industrie, lo ’ngegno e simili virtù riposte negli animi nostri come son queste: essere, chiamiàllo per nomi suoi, argonauta, architetto, medico e simili, da’ quali in prima si richiede giudicio e opera d’animo. Sonci ancora a guadagnare atte le operazioni del corpo, come di tutte l’opere fabrili e meccanice e mercenali, andare, lavorare colle braccia, e simili essercizii, ne’ quali e’ primi premi si rendono alla fatica e sudore dell’artefice. E sono ancora in noi accommodati a guadagnare quegli essercizii ne’ quali l’animo e le membra insieme concorrono all’opera e lavoro, nel quale numero sono e’ pittori, scultori, e citaristi, e altri simili. Tutti questi modi del guadagnare, e’ quali sono in noi si chiamano arti, e sono quelle le quali sempre con noi dimorano, le quali col naufragio non periscono, anzi insieme co’ nudi nuotano, e al continuo seguono compagne della vita nostra, nutrice e custode delle lode e fama nostra. Fuori di noi le cose atte a guadagnare sono poste sotto imperio della fortuna, come trovare tesauri ascosi, venirti eredità, donazioni, alle quali cose sono dati uomini non pochi. Molti fanno suo essercizio acquistarsi amicizie di signori, rendersi familiari a ricchi cittadini, solo sperando indi riceverne qualche parte di ricchezza, de’ quali si dirà a pieno nel luogo suo. E sono que’ tutti essercizii nella fortuna posti, da’ quali la nostra industria umana lungi sarà esclusa. Solo el caso e corso delle cose in essi potrà satisfare alle espettazioni e desiderii nostri. Niuna nostra opera o consiglio potrà ivi acquistarvi se non quanto la fortuna vorrà con noi liberale essere e facile. E fuor di noi ancora si truovano posti guadagni, e’ quali si tranno delle cose, come sono usure, e come si piglia frutto da’ nostri armenti, dall’agricoltura, da’ boschi, e in Toscana da’ nostri scopeti, le quali cose sanza umana fatica, sanza molta industria fruttano. Sono poi da questi usciti essercizii quasi infiniti, ne’ quali adoperano chi una, chi una altra parte, chi più e chi tutte queste da me dette cose, animo, corpo, fortuna, e cose. Quali essercizii sarebbe prolisso e forse superfluo tutti annumerarli, però che ciascuno da sé stessi collo ingegno discorrendo facile può tutti riconoscerli. Ma poiché da questi principii noi tutti gli abbiamo qui in mezzo, diànci a scegliere qua’ sieno più atti a una magnifica e simile alla nostra onoratissima famiglia.

E’ primi lodati essercizii, dicono alcuni, sono quegli ne’ quali la fortuna tiene licenza niuna, imperio niuno, ne’ quali l’animo e il corpo non serve. La quale sentenza a me sempre parerà virile e interissima, imperoché se la fortuna non potrà turbarli, quelli a te dureranno utili quanto vorrai, e se questi dureranno a tua voglia, non potranno essere certo non utili a te e lieti. E molto qui a me piace costoro in questa sentenza commendino libertà, però che in quel modo ivi pare escludano usure, avarizie, e tutti e’ mercennarii e viziosi guadagni, ché sapete l’animo sottomesso ad avarizia non si può chiamare libero, e niuna opera mercennaria si truova ben degna di libero e nobile animo. Ma che alcuno mi escluda in tutto da’ nostri essercizii la fortuna non so quanto sia da consentirli. Né so se io qui mi stimo bene, non però vorrei io errare, ma quasi così potrei credere che niuno famoso essercizio si truova nel quale la fortuna non guidi le prime parti. In le opere militari, credo si può dire che la vittoria sia figliuola della fortuna. Gli essercizii delle lettere ancora si truovano sottoposti a mille impeti della fortuna; ora mancano e’ padri; ora seguano e’ parenti invidiosi, duri, inumani: ora t’asalisce povertà, ora cadi in qualche infortunio, per modo che certo non puoi negare la fortuna ivi tenere gran parte d’imperio come sopra delle cose umane, così sopra gli studii tuoi, ne’ quali tu non puoi molto perseverare sanza copia delle medesime umane cose sottoposte alla fortuna. E così adunque in ogni essercizio famosissimo e glorioso converratti non escludere la fortuna, ma moderarla in prudenza e consiglio. Potresti dire, ragioniamo pure del guadagno, nel quale sempre la ’ndustria e prudenza insieme colla sollecitudine e cura troppo valse. Sta bene. Non però ancora mi pare stôrmi di quella opinione, e pure stimo così: s’e’ guadagni vengono da nostra industria, quegli saranno non grandi, quando la nostra industria e consiglio sarà piccolo. De’ piccoli traffichi niuno, per grande industria che si truovi, può ritrarne grandissimi guadagni. Questi pertanto diventeranno maggiori crescendo in noi colle faccende insieme industria e opera. Adunque in gran traffichi si truovano e’ gran guadagni, ne’ quali io dubito la fortuna non raro vi s’aviluppi in le mercatantie simili a quelle di quegli nostri Alberti, quando e’ facevano per terra venire dall’ultima Fiandra insino in Firenze lane a un tratto quanto bastava a tutti e’ pannieri di Firenze insieme e gran parte di Toscana. Non racontiamo l’altre moltissime mercantie condutte in Firenze, tradutte da que’ di casa nostra sino dalle estreme provincie con molta spesa, per monti e passi asperrimi e difficillimi. Quelle tante lane venivan elle forse fuori delle braccia della fortuna? Quanti pericoli passavano, quanti fiumi, quante difficultà prima ch’elle si posassino al sicuro! Ladri, tiranni, guerre, negligenza, vizio di procuratori, e simili casi da ogni banda loro non gli mancavano. Così credo intervenga quasi in tutte le grande faccende, in tutti e’ traffichi e mercantie degni a una tanto nobile e onesta famiglia. Vogliono essere e’ mercatanti così fatti come furono i nostri passati, come sono i presenti, e non dubito per avenire sempre saranno i nostri Alberti, - fare grande imprese, condurre cose utilissime alla patria, serbare l’onore e fama della famiglia, e di dì in dì non meno in autorità e in grazia crescere che in pecunia e roba. Potremo adunque statuire, come dicevano coloro, sia ne’ nostri essercizii l’animo mai servo, sempre libero, il corpo non suggetto ad alcuna disonestà e turpitudine, ma sempre ornato di modestia e temperanza, e seguasi in quegli essercizii ne’ quali la fortuna tenga, non vo’ dire niuna, ma non troppa licenza.

Abbiamo ora scelto e’ primi migliori essercizii. E’ secondi migliori saranno quegli e’ quali più a questi primi s’accosteranno, e gli altri appresso saranno que’ che manco giaceranno da’ primi lodatissimi essercizii rimossi e luntani, in quali se servirà meno, e quali anco meno alla fortuna saranno sottoposti. Abbià’gli tutti scelti. Ora di questi quali apprenderemo noi? Quegli certo, come dissi di sopra, e’ quali più a noi si confaranno. Poi come gli adopereremo noi? Qui forse si richiederebbe maggiore e più accurata risposta, ma per essere brevissimo vi darò regole generali, colle quali potrete in ogni essercizio non errare. Dicovelo: in quel che appartiene all’animo, fate quanto dicevano coloro: l’animo mai serva. Serve l’animo quando e’ sia cupido, avaro, misero, timido, invidioso, o sospettoso, imperoché i vizii signoreggiano e premono l’animo, né mai lasciano aspirarlo con alcuna libertà e leggiadra volontà a degnamente acquistare lode e fama. E come l’infermità del corpo tengono el corpo giacendo e grave in modo che lo ’nfermo non ha libertà delle membra sua, così l’avarizia, la timidità, la suspizione, la sete del guadagno e gli altri simili morbi dell’animo debilitano la forza dello ’ngegno, e tengono la mente oppressa, né lasciano el discurso e ragione nell’animo satisfare ad alcuna propria necessità. E sono, come al corpo vacazion d’ogni dolore, sincerità di sangue e fermezza di membra, così all’animo necessarie quiete, tranquillità e verità, le quali cose, come le sue a el corpo sono da moderato e netto vivere, così queste all’animo nascono da ragione e virtù. Ma alla virtù qual si richiede all’animo, sta contro el vizio, el quale sempre sta grave e priva la mente, cogitazione e operazione degli animi d’ogni virile e dovuta libertà. Adunque non sia vizioso l’animo, e non servirà; ornisi di virtù, e arà libertà. Non sia sottoposto l’animo ad alcuno errore, non si sottometta ad alcuna disonestà per avanzare auro, fugga ogni biasimo per non perdere fama, non perda virtù per acquistare tesauro, imperoché, come soleva dire Platone, quel nobilissimo principe de’ filosofi: «Tutto l’oro nascoso sotto terra, tutto l’oro serbato sopra terra, tutto l’avere del mondo non è da comparare colla virtù». Più vale la virtù constante e ferma che tutte le cose sottoposte alla fortuna, caduche e fragili, più la fama e nome nutrita da virtù che tutti e’ guadagni. Troppo sarà grandissimo guadagno, se noi asseguiremo grazia e lode, per le quali cose solo si cerca vivere in ricchezza. Non servirà l’animo adunque per arricchire, né constituirà el corpo in ozio e delizie, ma userà le ricchezze solo per non servire. E forse non è se non spezie di servitù sottomettersi, pregare e suplicare per sovvenire a’ bisogni tuoi. Non, pertanto, si spregino le ricchezze, ma signoreggisi alle cupidità e nel mezzo della copia e abundanza delle cose. Così viveremo liberi e lieti. Poi in quello ove s’adopera il corpo, perché ogni opera del corpo si può quasi chiamare servitù, non è servitù a mio credere altro che stare sotto imperio altrui. Avere imperio sopra d’alcuno credo sia non altro che fruttare l’opere sue. Qui adunque servasi el manco si può, servasi non per premio, ma per grazia; servasi più tosto alla famiglia sua che agli altri, più tosto agli amici che agli strani, più volentieri a’ buoni che a’ non buoni; la patria vero a tutti si preponga. In quello che avviene dalla fortuna nolla temete, neanche la desiderate. Se la fortuna vi dona ricchezze, adoperatele in lodo e onore vostro e de’ vostri, sovvenitene agli amici, adoperatele in cose magnifiche e onestissime. Se la fortuna con voi sarà tenace e avara, non però per questo viverete solliciti, né troppo manco contenti, neanche prenderete nell’animo gravezza alcuna sperando, aspettando da lei più che la vi porga. Spregiatela più tosto, ché facile cosa vi sarà spregiare quello che voi non arete. E se la fortuna a voi toglie le già date e bene adoperate ricchezze, che si dee fare se non portarlo in pace e forte? Volere con maninconie, con miseria d’animo acquistare o riavere quello che a noi sia vietato, sarebbe pazzia, sarebbe servire, sarebbe certo essere infelice. In quello poi procede dalle cose, si vuole esservi né sì desidioso, né si occupato, che tu ancora non sia utile agli altri più lodati essercizii.

Agiugni a tutti questi documenti quello che sempre mi parse necessario a tutta la vita, sanza il quale nulla rimane lodato, nulla sta utile, nulla con autorità e dignità si conserva; e questo sarà quello che darà l’ultimo lustro a tutte le nostre operazioni, pulitissimo e splendidissimo in vita, e doppo noi firmissimo e perpetuissimo, dico la onestà. In tutti e’ tuoi pensieri e instituti, in tutti gli atti e modi, in tutt’i fatti, opere ed essercizii, in tutte le parole, in tutte le espettazioni, in tutti e’ desiderii, in tutte le volontà, in tutti gli appetiti, in ogni qualunque sia nostra cosa consiglierenci sempre colla onestà, la quale sempre fu ottima maestra delle virtù, fedele compagna delle lodi, benignissima sorella de’ costumi, religiosissima madre d’ogni tranquillità e beatitudine al vivere. E non sia inetta al proposito questa similitudine: stimate che l’ombra nostra sia questa divina e santissima onestà, la quale sempre presente intende, conosce, pon mente, giudica quanto, in che modo, e a che fine qui noi adoperiamo e facciamo; così tutto nota, tutto distingue, tutto essamina, tutto ci va considerando; del ben fare graziosa ti loda, abondante ti ringrazia, molto ti porge dignità e autorità; del male irata ti sgrida, veemente t’acusa, turbata ridice, promulga a tutti el vizio e il vituperio tuo. Con questa così fatta onestà adunque fate che voi vi consigliate sempre, e con molta reverenza e osservanza seguite el consiglio suo, el quale sempre sarà interissimo e maturissimo, non manco e utilissimo. L’onestà mai ti lascerà servire, sempre sarà tuo scudo verso gl’impeti della fortuna, né mai seguendo e ubidendo suoi comandamenti e consigli, cosa maravigliosa e incredibile, mai di tuo alcuno detto o fatto arai da penterti. E così sempre satisfacendo al giudicio della onestà ci troverremo ricchi, lodati, amati e onorati. Ma se il vizioso non si consiglierà, non seguirà el giudicio e ricordo della onestà, lui mai si troverrà contento, ricco, né lodato, né amato, né felice, e infinite volte vorrebbe più tosto essere povero che vivere ricco con quelle molte reprensioni acerbissime, le quali e’ disonesti al continuo patiscono ne’ loro animi. E stimate sempre che manco nuoce la povertà che il disonore, e più giova la fama e grazia che tutte le ricchezze. Ma di questo sarà altrove da disputarne. Noi vero qui ci consiglieremo in ogni nostra via, in ogni spasso, non colla utilità, non colla voluttà, ma colla onestà. Sempre daremo luogo alla onestà, che con noi sia come un publico, giusto, pratico e prudentissimo sensale, el quale misuri, pesi, anoveri molto bene più volte, e stimi e pregi ogni nostro atto, fatto, pensiero e voglia. E così con lei diventeremo, se non di molta roba ricchi, almeno di fama, lodo, grazia e favore e onore abundantissimi, cose tutte da preporre a qual si sia grandi e amplissime ricchezze. Così adunque faremo. Saracci sempre l’onestà presso e a fronte, temerélla e amerélla. Credo per ora qui bastino questi come generali documenti a non essere povero. Noi non cerchiamo altro. Le ricchezze si vogliono per non aver bisogno, e troppo a me sarà colui ricco a chi nulla bisognerà; e chi come abbiamo detto sé stessi esserciterà, costui certamente di nulla arà bisogno, anzi più tosto d’ogni onesta cosa abonderà. Poiché noi così testé abbiamo veduto quali sieno e’ più utili essercizii, più da pigliare, e in che modo s’abbia a reggervisi, ora veggo vorresti spiegassimo e riconoscessimo qua’ sian questi essercizii, come sieno chiamati, se sono que’ dell’arme, quegli dell’agricultura, o quelli delle scienze e arti, o vero pur quegli della mercantia, e usciti di questi essercizii disiderresti udire della masserizia, la quale dissi era delle due l’una a diventar ricco.

Battista. Sì. Ma pon mente, Carlo, e’ mi pare sentire...

Lionardo. E anche a me. Ben te lo dissi, Battista, e tu vedi testé, che apunto in sul più fermo nostro ragionare...

Carlo. Egli è Ricciardo.

Battista. Sì?

Carlo. Sì.

Lionardo. Andià’gli contro, poi domani per tempo saremo qui insieme.

Battista. Sta bene. Và. Io ti seguo.

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