< I libri della famiglia
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Proemio del libro terzo Libro quarto


LIBRO TERZO


Liber tertius Familie: economicus


Avea già datoci a più cose risposta Lionardo, delle quali Carlo e io circa i ditti di sopra ragionamenti o dubitavamo o non bene ci ricordavamo, e avea cominciato grandemente a lodarci della diligenza la quale Carlo e io avàmo tenuta la notte passata in trascrivere in brevissimi commentarii quanto il dì di sopra nelle udite sue disputazioni tenevamo. In questo, Giannozzo Alberto, uomo per sua grandissima umanità e per suoi costumi interissimi da tutti chiamato e riputato, come veramente era, buono, sopragiunse. Venia per vedere Ricciardo. Salutocci e domandò quanto si sentisse bene Lorenzo, e quanto si fusse confortato per la giunta del fratello. Lionardo lo ricevè con molta riverenza e disse: — Ben vorrei, Giannozzo, voi fossi qui ieri da sera stato quando Ricciardo qui giunse.

Giannozzo. Bene arei così voluto. Nollo seppi in tempo.

Lionardo. Sarebbevi l’animo, credo, tutto intenerito. Stavasi Lorenzo pur grave a dire il vero, pur debole, Giannozzo. Questo suo male verso la sera il prieme, e più lo tiene la notte grave che il dì. Sentì Lorenzo e conobbe la voce del fratello quasi come lasso si destasse. Alzò su gli occhi insieme e levò alquanto una mano con tutto il braccio scoperto e lasciollo un poco più là ricadere, e sospirò, e volgendosi verso el fratello lo mirava ben fiso, e in tutto che fosse debolissimo pur s’aiutava ad onorarlo. Porsegli la mano. Ricciardo si gli accostò, e così presi si tenerono non piccolo spazio abbracciati. L’uno e l’altro pareva volesse salutarsi e dire più cose, ma nulla potesse profferire. Lacrimorono.

Giannozzo. Ah, carità!

Lionardo. Poi si lasciorono l’uno l’altro. Ricciardo si sforzava molto non parere piangioso. Lorenzo, doppo un poco, le prime sue parole furono queste: «Fratello mio, Battista costì e Carlo ormai saranno tuoi». Non fu tra noi chi più potesse tenere le lacrime.

Giannozzo. O pietà! E Ricciardo?

Lionardo. Pensatelo voi.

Giannozzo. O fortuna nostra! Ma come si sente Ricciardo?

Lionardo. Pur bene di quello ch’io veggia.

Giannozzo. Io venia per vederlo.

Lionardo. Credo io lui testé si posa.

Giannozzo. Non suole Ricciardo così essere pigro e sonnolento. Mai mi sta in mente vidi uomo più che Ricciardo desto e sempre adoperarsi.

Lionardo. Non vi maravigliate, Giannozzo, se Ricciardo soprastà alquanto ricreandosi. Stanotte molto si riposò tardi, rotto pel camminare, e forse coll’animo da molti pensieri stracco e convinto.

Giannozzo. Troppo bene a noi vecchiacciuoli ogni piccolo travaglio nuoce. Questo pruovo io testé in me. Stamani in su la prima aurora per servire allo onore e utile d’uno mio amico io sali’ in Palagio. Non fu tempo ivi a quello ch’io volea; vennine qua ratto. Se in questo mezzo salutassi Ricciardo, potrei ire al tempio a vedere il sacrificio e adorare Iddio, poi tornerei a fare quanto allo amico mio bisognasse. Ora qui a me pare essere tutto rotto, tutto sono lasso. Per certo questi dì serotini fanno a noi il contrario che agli arbori. Sogliono e’ dì serotini alleggerire, spogliare e diffrondare gli alberi. Vero a noi vecchietti e’ dì serotini nella età nostra ci caricano e veston di molta ombra e affanno. E così, figliuoli miei, chi più ci vive più ci piange in questo mondo. Quello mio amico, anche lui si sente carico d’anni e di povertà, e se io non traprendessi parte de’ suoi incarichi, sallo Iddio in quanta miseria giacerebbe.

Lionardo. Adunque non sanza cagione da’ nostri e dagli altri tutti vi sento, Giannozzo, appellare buono, poiché per molte altre ragioni e per questa ancora così meritate, che mai vi sentite sazio di molto servire agli amici, sollevare e’ miseri, sovvenire agli affannati. Ma sedete, Giannozzo. Voi siete stracco, e a questa età si conviene così. Sedete.

Giannozzo. Or sì, farò. Intendi però, Lionardo, questo m’interviene da non molti anni in qua. Non posso affaticarmi a gran parte quanto io soleva.

Lionardo. E quante ancora cose a voi era consuetudine fare giovane, quale ora non faresti vecchio! E piàcevi testé quante altre che allora forse non vi pareano grate!

Giannozzo. Molte, Lionardo mio. E’ mi ricorda quando io era giovane, se si faceva, come spesso in quelli tempi, in quello buono stato della terra nostra si faceva, giostre o simile alcuno publico giuoco, la maggiore contenzione tra’ miei vecchi e me era questa una, però che io insieme con gli altri al tutto volea uscire in mezzo a farmi valere. Tornavano quelli di casa nostra sempre con molta lode e pregio. Io di questo godea tra me stessi, ma pure e’ mi dolea non essere stato di quelli uno in affannarmi e come gli altri meritare. O famiglia Alberta, che sempre vedevi altretanti più che di tutte le maggiori famiglie di Firenze nostra gioventù Alberta a mezzo il campo trascorrere lieta, animosa, atta nell’armi! Tutto il popolo parea non avesse cura ad altri che a’ nostri Alberti; non sapea il popolo lodare chi non era Alberto; pareva a ciascuno frodare de’ meriti nostri, se ivi si lodava altri che noi Alberti. Io, pensa, come dall’uno lato godea della tanta grazia in quale giustamente erano i nostri Alberti, e dall’altro lato, stima tu, Lionardo, uno giovane che abbia l’animo desto e virile, quale in quelli tempi era il mio, gli sarà troppa molestia non potendo come desidera essere tra quelli suoi, farsi mirare da tutti e lodare. Così a me intervenia. Io aodiava chiunque me ne stoglieva, e ogni parola di quelli nostri vecchi allora mi pareva veramente alle orecchie mie, Lionardo, una sassata. Non poteva ascoltarli quando e’ mi sgomentavano tutti insieme, e dicevano la giostra essere giuoco pericoloso, di niuno utile, di molta spesa, atta ad acquistarsi più invidia che amistà, più biasimo che lodo, esservi troppe sciagure, nascervi questioni, avermi più caro che io non pensava né forse meritava. E io queto, accigliato. Poi appresso quelli pur numeravano molte storie di quanti erano usciti di quelle armi parte morti, parte in tutto il resto della vita inutili e guasti. Fare’ti ridere se io ti contassi con quante astuzie più volte cercai ottenere licenza da’ miei maggiori, senza le cui voluntà arei né in quello, né in altra cosa mai fatto nulla. Interposi pregatori, parenti, amici e amici degli amici. Dissi averlo promesso, eravi chi affirmava me averlo giurato a’ compagni. Nulla giovava. Pertanto fu volta che io volea loro, non quanto io solea, bene. Ben conosceva io tutto farsi perché io era loro pur troppo caro, e perché amorevoli temevano a me non intervenisse qualche sciagura, come spesso a’ ben robusti e a’ molto valenti interviene o in la persona o nello onore. Ma pure e’ mi parevano odiosi in tanto dissuadermi e così essere contro a questa mia virile voglia troppo ostinati. E molto più mi dispiacevano quando io stimava lo facessino per masserizia, come egli erano, sai, pur buoni massaiotti, quale io testé sono diventato. E in quelli tempi era giovane, spendeva e largheggiava.

Lionardo. Testeso?

Giannozzo. Testé, Lionardo mio, sono io prudente, e cognosco chi getta via il suo essere pazzo. Chi non ha provato quanto sia duolo e fallace a’ bisogni andare pelle mercé altrui, non sa quanto sia utile il danaio. E chi non pruova con quanta fatica s’acquisti, facilmente spende. E chi non serva misura nello spendere, suole bene presto impoverire. E chi vive povero, figliuoli miei, in questo mondo soffera molte necessità e molti stenti, e meglio forse sarà morire che stentando vivere in miseria. Sicché, Lionardo mio, quello proverbio de’ nostri contadini, credi a me come a chi in questo possa per pruova e conoscimento non più esserne certo, così comprendo che gli è verissimo: «Chi non truova il danaio nella sua scarsella molto manco il troverrà in quella d’altrui». Figliuoli miei, e’ si vuole essere massaio, e quanto da uno mortale inimico guardarsi dalle superflue spese.

Lionardo. Non credo però, Giannozzo, in questo tanto fuggire le spese a voi piaccia né essere, né parere avaro.

Giannozzo. Dio me ne guardi! Avaro sia chi male ci vuole. Nulla si truova tanto contrario alla fama e grazia degli uomini quanto la avarizia. E qual sarà sì chiara e nobile virtù alcuna, la quale non stia oscurata e isconosciuta sotto della avarizia? Ed è cosa odiosissima quanto al continuo abita in l’animo degli uomini troppo stretti e avari, gran rodimento e grave molestia ora affannata in congregare, ora adolorata per qualche fatta spesa, le quali cose pessime sempre vengono agli avari. Mai gli veggo lieti, mai godono parte alcuna delle sue fortune.

Lionardo. Chi non vuole parere avaro, lo tiene necessità essere spendente.

Giannozzo. E anche a chi vuole parere non pazzo, gli sta necessità essere massaio. Ma se Dio t’aiuti, perché non è egli da volere prima essere massaio che spendente? Queste spese, credete a me, il quale omai per uso e pruova intendo qualche cosa, queste simili spese non molto necessarie tra’ savi sono non lodate, e mai vidi, e così stimo voi vederete mai fatta sì grande, né sì abondante spesa, né sì magnifica ch’ella non sia da infiniti per infiniti mancamenti biasimata: sempre v’è stato o troppo quella, o manco quella altra cosa. Vedetelo se uno apparecchia uno convito, benché il convito sia spesa civilissima e quasi censo e tributo a conservare la benivolenza e contenere familiarità tra gli amici: lasciamo adrieto il tumulto, la sollecitudine, gli altri affanni: quello si vorrà, questo bisognerà, anzi questo altro; il trambusto, le seccaggine, che prima ti senti stracco che tu abbi cominciato a disponere alcuno apparecchio; e anche passiamo il gittare via la roba, scialacquamenti, strusciamenti per tutta la casa: nulla può stare serrato, perdesi questo, domandasi questo altro; cerca di qua, accatta da colui, compera, spendi, rispendi, getta via. Agiugni qui dipoi e’ ripetii e molti pentimenti, quali tu e col fatto e doppo nell’animo porti, che sono affanni e stracchezze inestimabili e troppe dannose, delle quali tutte, spentone il fummo alla cucina, spentone ogni grazia, Lionardo, ogni grazia, e apena ne se’ guatato in fronte. E se la cosa è ita alquanto assettata, pochi ti lodano di veruna tua pompa, e molti ti biasimano di poca larghezza. E hanno questi molto bene ragione. Ogni spesa non molto necessaria non veggo io possa venire se non da pazzia. E chi in cosa alcuna diventa pazzo, gli fa mestiero ivi in tutto essere pazzo, imperoché volere essere con qualche ragione pazzo sempre fu doppia e incredibile pazzia. Ma lasciamo andare tutte queste cose, quali sono piccole a petto a quest’altre, le quali testé diremo. Queste simili spese del convivare e onorare gli amici possono una o due volte l’anno venire, e seco portano ottima medicina, ché chi una volta le pruova, se già costui non sarà fuori di sé, credo fuggirà la seconda. Vieni tu stessi, Lionardo, qui apresso uno poco pensando. Pon mente che niuna cosa più sarà atta a fare ruinare non solo una famiglia, ma uno comune, uno paese, quanto sono questi..., come gli chiamate voi ne’ vostri libri, questi e’ quali spendono sanza ragione?

Lionardo. Pròdigi.

Giannozzo. Chiamali come tu vuoi. S’io avessi di nuovo a imporli nome, che potre’ io chiamarli se non molto male che Iddio loro dia? Sviàti che e’ sono da sé molto, e’ isviano altrui. L’altra gioventù, com’è corrotto ingegno de’ giovani trarre più tosto a’ sollazzosi luoghi che alla bottega, ridursi più tosto tra giovani spendenti che tra vecchi massai, veggono questi tuoi pròdigi abondare d’ogni sollazzo, subito ivi s’accostano, dànnosi con loro alle lascivie, alle delicatezze, allo ozio, fuggono i lodati essercizii, pongono la loro gloria e felicità in gittar via, non amano essere quanto si richiede virtuosi, poco stimano ogni masserizia. Vero, e chi di loro mai potesse diventare virtuoso vivendo assediato da tanti assentatori ghiotti, bugiardi, e da tutte le turme de’ vilissimi e disonestissimi uomini, trombetti, sonatori, danzatori, buffoni, ruffiani, frastagli, livree e frange? E forse che tutta questa brigatina non concorre a fare cerchio in su l’uscio a chi sia prodigo, come a una scuola e fabrica de’ vizii, onde e’ giovani usati a tale vita non sanno uscirne? O! per continuarvi, Dio buono, che non fanno egli di male! Rubano il padre, parenti, amici, impegnano, vendono. E chi mai potrebbe di tanta perversità dirne a mezzo? Ogni dì senti nuovi richiami, ogni ora vi cresce fresca infamia, al continuo si stende maggiore odio e invidia e nimistà e biasimo. Alla fine, Lionardo mio, questi pròdigi si truovano poveri in molta età, sanza lodo, con pochissimi, anzi con niuno amico; imperoché quelli goditori leconi, quali e’ riputavano in quelle grande spese essere amici, e quelli assentatori bugiardi, e’ quali lodavano e chiamavano virtù lo spendere, cioè il diventare povero, e col bicchiere in mano giuravano e promettevano versare la vita, tutti questi sono fatti come tu vedi e’ pesci: mentre l’esca nuota a galla, e’ pesci in grande quantità germugliano; dileguata l’esca, solitudine e diserto. Non mi voglio stendere in questi ragionamenti, né dartene essempli, o racontarti quanti io n’abbia con questi occhi veduti prima ricchissimi, poi per sua poca masserizia stentare, Lionardo, ché sarebbe lunga narrazione; non ci basterebbe il dì. Sicché per essere brieve dico così: quanto la prodigalità è cosa mala, così è buona, utile e lodevole la masserizia. La masserizia nuoce a niuno, giova alla famiglia. E dicoti, conosco la masserizia sola essere sofficiente a mantenerti che mai arai bisogno d’alcuno. Santa cosa la masserizia! e quante voglie lascive, e quanti disonesti appetiti ributta indrieto la masserizia! La gioventù prodiga e lasciva, Lionardo mio, non dubitare, sempre fu attissima a ruinare ogni famiglia. I vecchi massari e modesti sono la salute della famiglia. E’ si vuole essere massaio, non fosse questo per altro se none che a te stessi resta nell’animo una consolazione maravigliosa di viverti bellamente con quello che la fortuna a te concesse. E chi vive contento di quello che possiede, a mio parere non merita essere riputato avaro. Questi spendenti veramente sono avari, i quali perché e’ non sanno saziarsi di spendere, così mai si sentono pieni d’acquistare e da ogni parte predare questo e quello. Non stimassi tu però essermi grata alcuna superchia strettezza. Ben confesso questo; a me pare da dislodare troppo uno padre di famiglia se non vive più tosto massaio che godereccio.

Lionardo. Se gli spenditori, Giannozzo, dispiaciono, chi non spenderà vi doverà piacere. L’avarizia, bench’ella stia, come dicono questi savi, in troppo desiderare, ella ancora sta in non spendere.

Giannozzo. Bene dici il vero.

Lionardo. E l’avarizia dispiace?

Giannozzo. Sì troppo.

Lionardo. Adunque questa vostra masserizia che cosa sarà?

Giannozzo. Tu sai, Lionardo, che io non so lettere. Io mi sono in vita ingegnato conoscere le cose più colla pruova mia che col dire d’altrui, e quello che io intendo più tosto lo compresi dalla verità che dall’argomentare d’altrui. E perché uno di questi i quali leggono tutto il dì, a me dicesse «così sta», io non gli credo però se io già non veggo aperta ragione, la quale più tosto mi dimonstri così essere, che convinca a confessarlo. E se uno altro non litterato mi adduce quella medesima ragione, così crederrò io a lui senza allegarvi autorità, come a chi mi dia testimonianza del libro, ché stimo chi scrisse pur fu come io uomo. Sì che forse io testé non saprò così a te rispondere ordinato quanto faresti tu a me, che tutto il dì stai col libro in mano. Ma vedi tu, Lionardo, quelli spenditori, de’ quali io ti dissi testé, dispiaciono a me, perché eglino spendono sanza ragione, e quelli avari ancora mi sono a noia, perché essi non usano le cose quando bisogna, e anche perché quelli medesimi desiderano troppo. Sa’ tu quali mi piaceranno? Quelli i quali a’ bisogni usano le cose quanto basta e non più, l’avanzo serbano; e questi chiamo io massai.

Lionardo. Ben v’intendo, quelli che sanno tenere il mezzo tra il poco e il troppo.

Giannozzo. Sì, sì.

Lionardo. Ma in che modo si conosce egli quale sia troppo, quale sia poco?

Giannozzo. Leggermente, colla misura in mano.

Lionardo. Aspetto e desidero questa misura.

Giannozzo. Cosa brevissima e utilissima, Lionardo, questa. In ogni spese prevedere ch’ella non sia maggiore, non pesi più, non sia di più numero che dimandi la necessità, né sia meno quanto richiede la onestà.

Lionardo. O Giannozzo, quanto giova più nelle cose di questo mondo uno simile sperto e pratico che uno rozzo litterato!

Giannozzo. Che dici tu? Non avete voi queste cose tutte ne’ libri vostri? Eppur si dice nelle lettere si truova ogni cosa.

Lionardo. Così può essere, ma io non mi ricordo altrove averle trovate. E se voi sapessi, Giannozzo, quanto ci siate utile e bene accaduto a proposito, voi ve ne maraviglieresti.

Giannozzo. Dici tu il vero? Io godo se io vi sono utile in cosa alcuna.

Lionardo. Utilissimo. Questi giovani qui, Battista e Carlo, desideravano udire della masserizia qualche buono documento, e io insieme con loro bramava il simile. Ora da chi poteriamo noi udirne più a pieno e con più verità che da voi, il quale siete tra’ nostri riputato né sì spendente che in voi non sia onestissima masserizia, né sì sete massaio che uomo vi possa riputare non liberale? Però voglio avervi pregato, poiché la masserizia è sì utilissima, non vogliate noi non la conosciamo più tosto da voi, da cui l’udiremo con più fede e con più verità che da altri, il quale c’insegnerebbe forse più tosto essere avaro che vero massaio. Seguite, Giannozzo, dirci quello sentite di questa santa masserizia, che spero udiremo da voi come sino a qui così del resto cose elettissime.

Giannozzo. Io non saprei dirvi di no per rispetto alcuno, pregandomi tu, Lionardo. E’ m’è debito fare cose piaccino a’ miei. E tanto più voglio essere facile a narrarvi quello quale per pruova alla masserizia conosco, quanto voi avete voglia, e quanto a voi sarà utilissimo avermi udito. Né voi avete più desiderio d’udirmi che io di farvi massai. E dicovi tanto, a me questo giova la masserizia: se io mi truovo in fortuna alcuna, come mi truovo, grazia d’Iddio, mezzanamente ben posto, io vi posso dire avermivi più per masserizia che per altra industria alcuna. Vero... Ma sedete. Siedi, Lionardo. Questi garzoni staranno in piè.

Lionardo. Sto bene.

Giannozzo. Siedi.

Lionardo. Sedete voi. Sapete il costume nostro di casa. In presenza dei più atempati fu mai chi s’asedesse.

Giannozzo. Sì, fuori in publico. Questi saranno ragionamenti tra noi in casa, utili a noi. Siedi. Egli è meglio lasciarsi vincere ubidendo che volere fare a suo modo stimando parere costumato. Siedi. Or bene, che diciavamo noi della masserizia? Ch’ella era utile. Io non so quelli vostri libri quello se ne vogliano; io vi dirò di me, che masserizia sia la mia, di che cose e in che modo. Che la masserizia sia utile, necessaria, onesta e lodata stimo niuno dubita. Che se ne dice apresso de’ vostri libri?

Lionardo. Che stimate voi, Giannozzo, se none, come voi dicesti, quelli antichi scrittori fussero uomini come testé sete voi?

Giannozzo. Sì, ma più dotti. E se così non fosse, l’opere loro non viverebbono tante età.

Lionardo. Confessolo, ma a mio parere e’ non dicono però di queste simili altro che quello se ne vegga per ogni diligente padre di famiglia. Che poterebbono essi dire più che voi in sul fatto stessi ve ne vediate con l’occhio e colla pruova? Troppo dicono, se non fusse chi serbasse, sarebbe stultizia portare in casa il guadagnato, e anche sarebbe non manco da ridere se uno volesse serbare quello che non li fusse arecato.

Giannozzo. Sì. Oh, quanto e’ dicono bene! Che giova guadagnare se non se ne fa masserizia? L’uomo s’afatica guadagnando per avéllo a’ bisogni. Procaccia nella sanità pella infirmità, e come la formica la state pel verno. A’ bisogni adunque si vuole adoperare le cose; non bisognando, serbàlle. E così hai: tutta la masserizia sta non tanto in serbare le cose quanto in usarle a’ bisogni. Intendi?

Lionardo. Sì bene, però che non usare a bisogni sarebbe avarizia e biasimo.

Giannozzo. Ancora e danno.

Lionardo. Danno?

Giannozzo. Grande. Ha’ tu mai posto mente a queste donnicciuole vedovette? Elle ricolgono le mele e l’altre frutte. Tèngolle serrate, sèrballe, né prima le guaterebbono s’elle non fossero magagnate e guaste. Fanne conto; troverrai ch’ella n’averà a gittare e’ tre quarti pelle finestre, e può dire averle serbate per gittarle. Non era meglio, stolta vecchierella, gittare quelle poche prime, prendere le buone pella tua mensa, donarle? Non si chiama serbare questo, ma gittare via.

Lionardo. E quanto meglio! Arebbene qualche utile, o vero gliene sarebbe renduto pur qualche grazia.

Giannozzo. Ancora: e’ cominciò a piovere una gocciola in sulla trave. L’avaro aspettava domani, e di nuovo posdomane. Pioveva ancora; l’avaro non volle entrare in spesa. Di nuovo ancora ripiove; all’ultimo il trave corroso dalle piove e frollo si troncò. E quello che costava uno soldo, ora costa dieci. Vero?

Lionardo. Spesso.

Giannozzo. Però vedi tu ch’egli è danno questo non spendere e non sapere usare le cose al bisogno. Ma poiché la masserizia sta in usare e serbare le cose, veggiamo quale cose s’abbino a usare e serbare. E qui in prima a me pare che volere usare e serbare le cose altrui sarebbe o arroganza, o violenza al tutto o ingiustizia. Dico io bene?

Lionardo. Molto.

Giannozzo. Però conviene le cose di che noi abbiàno a essere veri e solliciti massai veramente siano nostre. Ora quali saranno elleno?

Lionardo. Io odo dire la moglie mia, e’ figliuoli miei, la casa mia. Forse queste?

Giannozzo. Oh! queste, Lionardo mio, non sono nostre. Quello che io ti posso tôrre a ogni mia posta, di chi sarà. Tuo?

Lionardo. Più vostro.

Giannozzo. La fortuna può ella a ogni sua posta tôrci moglie, figliuoli, roba e simili cose?

Lionardo. Può certo sì.

Giannozzo. Adunque sono elle più sue che nostre. E quello che a te mai può essere tolto in modo alcuno, di chi sarà?

Lionardo. Mio.

Giannozzo. Può egli a te essere tolto questo che a tua posta tu ami, desideri, appetisca, sdegni e simili cose?

Lionardo. Certo no.

Giannozzo. Adunque simili cose sono tue proprie.

Lionardo. Vero dite.

Giannozzo. Ma per dirti brieve, tre cose sono quelle le quali uomo può chiamare sue proprie, e sono in tanto che dal primo dì che tu venisti in luce la natura te le diede con questa libertà, che tu l’adoperi e bene e male quanto a te pare e piace, e comandò la natura a quelle sempre stiano pressoti, né mai persino all’ultimo dì si dipartano di sieme da te. L’una di queste sappi ch’ell’è quello mutamento d’animo col quale noi appetiamo e ci cruciamo tra noi. Voglia la fortuna o no, pure sta in noi. L’altro vedi ch’egli è il corpo. Questo la natura l’ha subietto come strumento, come uno carriuolo sul quale si muova l’anima, e comandògli la natura mai patisse ubidire ad altri che all’anima propria. Così si vede in qualunque animale si sia rinchiuso e subietto ad altri, mai requia per liberarsi e rendersi proprio a sé, per adoperare sue alie o piè e altri membri non a posta d’altri, ma con sua libertà, a sua voglia. Fugge la natura avere il corpo non in balia dell’anima, e sopra tutti l’uomo naturalmente ama libertà, ama vivere a sé stessi, ama essere suo. E questo si truova essere generale appetito in tutti e’ mortali. Adunque queste due, l’animo e il corpo, sono nostre.

Lionardo. La terza quale sarà?

Giannozzo. Ha! Cosa preziosissima. Non tanto sono mie queste mani e questi occhi.

Lionardo. Maraviglia! Che cosa sia questa?

Giannozzo. Non si può legare, non diminuirla; non in modo alcuno può quella essere non tua, pure che tu la voglia essere tua.

Lionardo. E a mia posta sarà d’altrui?

Giannozzo. E quando vorrai sarà non tua. El tempo, Lionardo mio, el tempo, figliuoli miei.

Lionardo. Bene dite il vero, ma non mi venia in mente possedere cosa alcuna, quale io non potessi transferire in altrui. Anzi mi parea tutte l’operazioni dell’animo mio potélle dare ad altri per modo che più non fossino mie: amare, odiare, e a persuasione d’altrui commuovermi, e a volontà d’altrui volere, non volere, ridere e piagnere.

Giannozzo. Se tu avessi te in una barchetta e navigassi alla seconda per mezzo del nostro fiume Arno, e, come alcuna volta a’ pescatori acade, avessi le mani e il viso tinti e infangati, non sarebbe tua quella acqua tutta, ove tu la adoperassi in lavarti e mondarti? Vero? Così, se tu non la adoperassi...

Lionardo. Certo non sarebbe mia.

Giannozzo. Così proprio interviene del tempo. S’egli è chi l’adoperi in lavarsi il sucidume e fango quale a noi tiene l’ingegno e lo intelletto immundo, quale sono l’ignoranza e le laide volontà e’ brutti appetiti, e adoperi il tempo in imparare, pensare ed essercitare cose lodevoli, costui fa il tempo essere suo proprio; e chi lascia transcorrere l’una ora doppo l’altra oziosa sanza alcuno onesto essercizio, costui certo le perde. Perdesi adunque il tempo nollo adoperando, e di colui sarà il tempo che saprà adoperarlo. Ora avete voi, figliuoli miei, l’operazioni dell’animo, il corpo e il tempo, tre cose da natura vostre proprie, e sapete quanto le siano preziose e care. Per rimedire e sanare il corpo ogni cosa preziosa si spone, e per rendere l’anima virtuosa, quieta e felice, s’abandona tutti gli appetiti e desiderii del corpo; ma il tempo quanto e a’ beni del corpo e alla felicità dell’anima sia necessario, voi stessi potete ripensarvi, e troverrete il tempo essere cosa molto preziosissima. Di queste adunque si vuole essere massaio tanto e più diligente quanto elle più sono nostre che altra cosa alcuna.

Lionardo. Mandate a memoria, Battista e tu Carlo, questi non detti de’ filosofi, ma come oraculi d’Apolline ottimi e santissimi documenti, quali non troverrete in su’ nostri libri. Troppo vi siamo obligati, Giannozzo. Seguite.

Giannozzo. Dissi che la masserizia stava in usare ancora e in serbare le cose. Parmi da investigare di queste tre, corpo, anima e tempo, in che modo s’abbino a conservare, e poi apresso s’abbino a usare. Ma io dispongo essere brevissimo. Uditemi. E prima dell’animo, del quale io così fo masserizia, Lionardo mio. Io l’adopero in cose necessarie a me e a’ miei, e cerco conservallo in modo che piaccia a Dio.

Lionardo. Quale sono le cose necessarie a voi e a’ vostri?

Giannozzo. La virtù, la umanità, la facilità. Non mi detti alle lettere quando io era giovane, e questo venne più tosto da negligenza de’ miei che da mio alcuno mancamento. E’ miei missoro me ad altri essercizii, quanto a quelli tempi loro parse necessario, forse desiderando prima da me utile che laude, quali né seppi, né potei facilmente lasciarli. Ma io per me sempre mi sono adoperato in farmi bene volere con ogni quale si possa ingegno e arte, e sopra tutto con essere e volere parere buono, giusto e quieto, e non mai dispiacere, non ingiuriare alcuno: non in detti, né in fatti, mai alcuno, né presente né assente, molestai. E sono queste l’operazioni dell’animo veramente ottime, alle quali sono simili fare come testé fo io, insegnare quello che l’uomo sa di bene, ammonire chi errasse, tutto porgerti pieno di fede e carità, emendando come padre, consigliando con diligenza, verità e amore, e così adoperare lo ’ngegno, l’industria, l’intelletto in onore di me e de’ miei. Sono ancora operazioni dell’animo quali io di sopra dissi, amare, odiare, sdegnarsi, sperare, desiderare e simili. Adunque si vuol queste bene saperle usare e contenere, amare i buoni, odiare i viziosi, sdegnarti contro a’ maligni, sperare cose amplissime, desiderare cose ottime e lodatissime.

Lionardo. Santamente. E queste parole di Giannozzo, Battista e tu Carlo, vedete voi quanto abbino in sé nervo e polso. Ma seguite, Giannozzo. Poi per conservare l’animo a Dio, che modo tenete voi?

Giannozzo. Due modi tengo, l’uno in cercare e fare quanto possa in me stessi l’animo lieto, né mai averlo turbato d’ira, o cupidità, o alcuno altro superchio appetito. Questo sempre stimai essere ottimo modo. L’animo puro e simplice troppo mi pare che piaccia a Dio. L’altro modo a piacere a Dio a me pare sia fare mai cosa della quale dubiti s’ella sia bene fatta o male fatta.

Lionardo. E questo credete voi che basti?

Giannozzo. Credo certo sì che basti assai, secondo che io mi ricordo avere inteso. Eh! figliuoli miei, sapete voi perché i’ dissi fare mai se tu dubiti? Imperoché le cose vere e buone stanno da sé allumate e chiare, allegre, scorgonsi invitanti, voglionsi fare. Ma le cose non buone sempre giaciono adombrate di qualche vile o sozzo diletto, o di che viziosa opinione si sia. Non adunque si vogliono fare, ma fuggille, seguire la luce, fuggire le tenebre. La luce delle operazioni nostre sta nella verità, stendesi con lode e fama. E niuna cosa più è tenebrosa nella vita degli uomini quanto l’errore e la infamia.

Lionardo. Niuna masserizia tanto sarà mai quanto questa vostra perfettissima. Oggi impariamo non solo quale sia la vera masserizia, ma insieme l’ottimo civilissimo vivere, diventare virtuoso, adoperare la virtù, vivere lieto e fare cose delle quali non dubiti. Ma, Giannozzo, s’egli è licito il domandarne, questi prestantissimi e divini ammaestramenti fabricastegli voi stessi da voi, o vero gli avete, quanto mi parse testé dicessi, imparati da altrui?

Giannozzo. Ben vi paiono begli, che, figliuoli miei? Tenetegli a mente.

Lionardo. Così faremo, che nulla più potrebbe esserci grato e a perpetua memoria commendato.

Giannozzo. Egli è quanto? L’anno doppo al quarantotto, dico io bene? Anzi fu l’anno doppo, in casa di messer Niccolaio Alberto, padre di messere Antonio, al quale Niccolaio messere Benedetto, padre di messer Andrea, Ricciardo e di Lorenzo vostro padre, Battista e tu Carlo, fu fratello cugino, però che Iacopo padre di messer Niccolaio e Nerozzo vostro bisavolo, padre di Bernardo tuo avolo, Lionardo, e padre di messer Benedetto, e Francesco avo di Bivigliano furono fratelli nati d’Alberto fratello di Lapo e Neri figliuoli di messer Iacobo iurisconsulto nato di messer Benci iurisconsulto, e fu questo Lapo avolo di messer Iacobo cavaliere, il quale messer Iacobo fu fratello di Tomaso nostro padre, e fu padre del vescovo Paolo nostro cugino, e cugino di messer Cipriano, al quale testé vive el nepote messere Alberto, e quello Neri di sopra fratello di Lapo e Alberto fu padre di messere Agnolo. Mai sì.

Lionardo. E tutta questa moltitudine de’ nostri avoli chiamati messeri, furono eglino cavalieri o pur così per età o altra dignità chiamati?

Giannozzo. Furono, e notabilissimi, cavalieri quasi tutti fatti con qualche loro singularissimo merito. E questo messer Niccolaio nostro, uomo d’animo e costumi nobilissimo, uno di quelli sedendo in magistrato, tenendo il suppremo luogo ad aministrare giustizia fra il collegio di quelli pochi i quali reggono tutta la republica, porgendo la insegna e vessillo militare al guidatore del nostro essercito contro all’oste di Pisa, non sanza grande letizia di tutti i nostri cittadini e merito della famiglia nostra, li fu donato grado e onoranza di cavalleria sulla porta di quello palagio, di quello publico seggio e ridotto de’ nostri magistrati, al quale fondato e principiato da’ nostri Alberti, sempre fu ogni sua dignità e maiestà con quanta mai potemmo opera e spesa per noi conservata e amplificata. Come sapete, i primi fondamenti del nostro publico palagio furono imposti sendo Alberto figliuolo di messer Iacobo iurisconsulto collega priore in la amministrazione della republica. E io spesso fra me stessi pongo mente che da grandissimo tempo sino a qui mai fu in casa nostra Alberta alcuno del sangue nostro il quale non fosse padre, o figliuolo, zio o nipote di cavalieri nati di noi Alberti.

Ma lasciamo andare questa genealogia, la quale non sarebbe al proposito nostro della masserizia, né a quello di che tu mi adomandi se quelli precetti quali io recitava erano da me fabricati, o pur intesi da altri. Dico che in casa di messer Niccolaio, sendovi messer Benedetto Alberto, come era loro usanza mai ragionare di cose infime, sempre di cose magnifice, sempre fra loro in casa conferendo quanto apartenesse allo utile della famiglia, allo onore e commodo di ciascuno, sempre stavano o leggendo questi vostri libri, sempre o in palagio a consigliare la patria, e in qualunque luogo disputando con valenti uomini, monstrando la virtù loro e rendendo virtuosi chi gli ascoltava, così solevano al continuo essercitarsi. Onde per questo io e gli altri nostri giovani Alberti, quanto dalle altre faccende a noi era licito, al continuo eravamo con loro per imparare e per onorarli. E fra l’altre volte, come degli altri tuttora, in casa di messer Niccolaio capitò uno sacerdote vecchio, canuto, tutto ornato di modestia e umanità, con quella sua barba stesa e piena di molta gravità, con quel fronte aperto pieno di costumi e riverenza, il quale fra molti bellissimi ragionamenti cominciò ivi narrare di queste cose, non della masserizia no, ma diceva de’ doni quali Iddio diede a’ mortali, e seguiva narrando quanto dovea l’uomo di tanti beneficii averne grazia a Dio, e molto dimonstrava quanto sarebbe l’uomo ingrato non riguardando e non adoperando bene la grazia quale avesse ricevuta da Dio. Ma diceva niuna cosa era propria nostra, se non solo un certo arbitrio e forza di mente, e se pure alcuna si poteva chiamare nostra, queste erano le sole tre quali dissi, anima, corpo e tempo. E benché il corpo fusse sottoposto a molti morbi, a molti casi e miserie, pure il dimonstrava in tanto essere nostro quanto sofferendo con virilità e con pazienza, vincendo le cose avverse e moleste, noi meritavamo non meno che adoperando le membra in cose liete e ben grate. Ma io non saprei racontare queste cose sì bene quanto colui le seppe con maraviglioso ordine dire. Stesesi in uno grande ragionamento, disputando quale di queste tre dette cose più fosse proprie de’ mortali, e se io bene mi ricordo, fece non piccolo dubio se il tempo era più o meno nostro che l’animo, e così ci tenne dicendo molte cose, le quali messer Benedetto e messer Niccolaio confessorono mai avere udite. E’ mi piacque tanto quello vecchio che io l’udi’ fermo e fiso parecchi ore senza tedio alcuno. Né mai mi dimenticai quelle sue gravissime parole; sempre mi rimase in animo quella dignità e presenza sua. Se non mel pare testé vedere modesto, grazioso e nel ragionare riposato e dolce. Poi, come vedi, da me a me adussi que’ suoi detti al mio proposito nel vivere.

Lionardo. Dio gli renda premio a quello vecchio, e a voi mercé, che sì bene avete quei suoi detti recitati. Ma poiché così al vostro ragionare consegue dire, detto dell’animo, ora del corpo che masserizia ne fate voi?

Giannozzo. Buona, grande, simile a quella dell’animo. Io l’adopero in cose oneste, utili e nobili quanto posso, e cerco conservallo lungo tempo sano, robusto e bello. Tengomi netto, pulito, civile, e sopratutto cerco d’adoperare così le mani, la lingua e ogni membro, come l’ingegno e ogni mia cosa, in onore e fama della patria mia, della famiglia nostra e di me stessi. Sempre m’afatico in cose utili e oneste.

Lionardo. Certo meritate grazia e lode, e con queste parole date a noi buono ricordo a seguire quanto ci solete monstrare con vostra opera ed essemplo. Ma poi, Giannozzo, alla sanità che trovate voi essere utile? A voi crederrò io, perché mai mi ramenta vedere più fresco, più ritto, e da ogni parte più bello vecchio di voi: la voce, la vista, e’ nervi tutti netti, puri e liberi. Cosa maravigliosa e troppa rara in questa età.

Giannozzo. Ben! grazia d’Iddio, così mi sento assai sano, ma manco gagliardo che io non solea. Benché a questa età non si richiede gagliardia, ma prudenza e discrezione, pur vorrei almanco potere, come io solea, camminare. Né dubitare, per questo pur lascio adrieto molte faccende e mie e degli amici miei, ove io non posso essere per altrui opera sollicito quanto sarei per la mia. Ma, lodato Iddio, pur mi reputo parte di lodo in questa mia età essere come io sono più che molti altri meno vecchi di me, libero e leggiere da ogni infermità. La sanità in uno vecchio suole essere testimonianza della continenza avuta nella gioventù; e vuolsi avere cura della sanità in ogni età, e tanto avella più cara quanto ella è maggiore; e delle cose care dobbiamo esserne riguardatori e buoni massai.

Lionardo. Così confesso si vuole esserne massaio. Ma che cose trovate voi in prima utilissime alla sanità?

Giannozzo. Lo essercizio temperato e piacevole.

Lionardo. Doppo questo?

Giannozzo. Lo essercizio piacevole.

Lionardo. E apresso?

Giannozzo. Lo essercizio, Lionardo mio. L’essercitarsi, figliuoli miei, sempre fu maestro e medico della sanità.

Lionardo. E non faccendo essercizio?

Giannozzo. Rare volte m’accade che io non possa darmi a qualche essercitazione, ma pur se mai m’interviene per altre occupazioni che io manco m’esserciti che l’usato, truovo che molto mi giova la dieta. Non mangiare se tu non senti fame; non bere se tu non hai sete. E truovo in me questo: per cruda che sia cosa a digestire, vecchio come io sono, soglio dall’uno sole all’altro averla digestita. Ma, figliuoli miei, prendete questa regola brieve, generale, molto perfetta: ponete diligenza in conoscere qual cosa a voi suole essere nociva, e da quella molto vi guardate; quale vi giova, e voi quella seguite.

Lionardo. Sta bene. Adunque la pulitezza, l’essercizio, la dieta, guardarsi da’ contrarii, conservano la sanità.

Giannozzo. E anche la gioventù e la bellezza. In questo mi pare differenza tra ’l vecchio e ’l giovane, perché l’uno è debole, l’altro è robusto, l’uno è fresco, l’altro sta vincido e passo. Adunque chi conserva la sanità conserva le forze e la gioventù insieme e le bellezze. E pare a me stiano le bellezze in molta parte giunte al buono colore e freschezza del viso, e niuna cosa tanto conserva all’uomo buono sangue e bene vigoroso colore quanto l’essercizio insieme colla sobrietà del vivere.

Lionardo. Avete detto della masserizia quale fate dell’animo e di quella del corpo. Resta a dire del tempo. E di questa, Giannozzo, che masserizia ne fate voi? Il tempo al continuo fugge, né puossi conservare.

Giannozzo. Dissi io la masserizia sta in bene adoperare le cose non manco che in conservalle, vero? Adunque io quanto al tempo cerco adoperarlo bene, e studio di perderne mai nulla. Adopero tempo quanto più posso in essercizii lodati; non l’adopero in cose vili, non spendo più tempo alle cose che ivi si richiegga a farle bene. E per non perdere di cosa sì preziosa punto, io pongo in me questa regola: mai mi lascio stare in ozio, fuggo il sonno, né giacio se non vinto dalla stracchezza, ché sozza cosa mi pare senza repugnare cadere e giacere vinto, o, come molti, prima aversi vinti che certatori. Così adunque fo: fuggio il sonno e l’ozio, sempre faccendo qualche cosa. E perché una faccenda non mi confonda l’altra, e a quello modo poi mi truovi averne cominciate parecchie e fornitone niuna, o forse pur in quello modo m’abatta avere solo fatte le piggiori e lasciate adrieto le migliori, sapete voi, figliuoli miei, quello che io fo? La mattina, prima, quando io mi levo, così fra me stessi io penso; oggi in che arò io da fare? Tante cose: annòverole, pensovi, e a ciascuna assegno il tempo suo: questo stamane, quello oggi, quell’altra stasera. E a quello modo mi viene fatto con ordine ogni faccenda quasi con niuna fatica. Soleva dire messer Niccolaio Alberto, uomo destissimo e faccentissimo, che mai vide uomo diligente andare se non adagio. Forse pare il contrario, ma certo, quanto io pruovo in me, e’ dice il vero. All’uomo negligente fugge il tempo. Segue che il bisogno o pur la volontà il sollecita. Allora quasi perduta la stagione gli sta necessità fare in furia e con fatica quello che in sua stagione, prima, era facile a fare. E abbiate a mente, figliuoli miei, che di cosa alcuna mai sarà tanta copia, né tanta abilità ad averla che a noi non sia difficilissimo quella medesima fuori di stagione trovarla. Le semente, le piante, e’ nesti, fiori, frutti e ogni cosa alla stagione sua pronto si ti porge: fuori di stagione non senza grandissima fatica si ritruovano. Per questo, figliuoli miei, si vuole osservare il tempo, e secondo il tempo distribuire le cose, darsi alle faccende, mai perdere una ora di tempo. Potrei dirvi quanto sia preziosa cosa il tempo, ma altrove sia da dirne con più elimata eloquenza, con più forza d’ingegno, con più copia di dottrina che la mia. Solo vi ricordo a non perdere tempo. Così facciate come fo io. La mattina ordino me a tutto il dì, il giorno seguo quanto mi si richiede, e poi la sera inanzi che io mi riposi ricolgo in me quanto feci il dì. Ivi, se fui in cosa alcuna negligente, alla quale testé possa rimediarvi, subito vi supplisco: e prima voglio perdere il sonno che il tempo, cioè la stagione delle faccende. Il sonno, il mangiare e queste altre simili posso io recuperare domane e satisfarle, ma le stagioni del tempo no. Benché, a me rarissimo aviene, — se io arò bene distribuito le faccende mie a ciascuno tempo e ordinato, né sarò stato dipoi negligente, — dico, rarissimo e quasi mai m’acade che io abbia ivi a perdere o sopratenere mia necessità alcuna. E se egli acade che io per allora nulla possa rimediarvi, vengo insegnando a me stessi come per l’avenire abbia non simile a perdere tempo. Fo adunque di queste tre cose quanto avete udito. Adopero l’animo e il corpo e il tempo non se non bene. Cerco di conservalle assai, curo non perderne punto. E a questo mi porgo sollecitissimo e quanto più posso desto e operoso, imperoch’elle a me paiono quanto le sono preziosissime e molto più proprie mie che altra alcuna cosa. Ricchezze, potenze, stati, sono non degli uomini, no, della fortuna sì; e tanto sono degli uomini quanto la fortuna gli permette usare.

Lionardo. E di queste così a voi concesse per la fortuna, fatene voi masserizia alcuna?

Giannozzo. Lionardo mio, non faccendo masserizia di quello che usandolo diventa nostro, sarebbe negligenza ed errore. Tanto sono le cose della fortuna nostre sì quanto ella ce le permette, e ancora quanto noi le sappiamo usare. Benché, a noi Alberti in queste nostre calamità la fortuna ci sta pur troppo contraria e molesta, non facile e liberale delle cose sue, ma iniqua e malvagia a turbarci qualunque nostra ben propria cosa, e possiamo, a dirti il vero, male essere veri massai. In questo nostro essilio sempre siamo stati in quella espettazione di ritornare alla patria, riaverci in casa nostra, riposarci tra’ nostri, la quale cosa quanto più speravamo e desideravamo, tanto più ci era dolore a noi insieme e danno, imperoché mai sapemmo fermare l’animo né il vivere nostro ad alcuno stabile ordine. E se io avessi potuto il primo dì non dico in noi credere, ma fingere quanto infortunio e quanta miseria abbia la famiglia nostra Alberta già tanto tempo sofferta, se io giovane avessi creduto quel che io pruovo vecchio, diventare fuori di casa mia canuto, figliuoli miei, forse arei tenuto altri modi.

Lionardo. Però dice, Battista, — raméntati quello terenziano Demifo, — ciascuno, quando le cose gli secondano, allora molto gli è mestiero fra sé pensare in che modo, accadendo, e’ sofferisca l’avversa signoria della fortuna, pericoli, danni, essilii. Tornando di viaggio sempre pensi qualche malefatto de’ figliuoli, o della moglie, o qualche sinistro a’ suoi, cose possibili quali tutto il dì avengono, acciò che all’animo nulla sopravenga non preveduto. Suole meno ferire il visto prima dardo. E così ciò che truovi salvo meglio che non avevi teco pensato, stimalo a guadagno. Se così dobiamo fare ne’ tempi felici, ancora molto più quando le cose cominciano a declinare e ruinare.

Giannozzo. O Lionardo mio, in che modo arei io così potuto stimare in altrui durezza nelle ingiurie nostre più che in me stessi? Come potevo io, figliuoli miei, stimare che quelli i quali avevano per qual che si fosse o non onesta, o poco licita cagione offesa la famiglia nostra, più fossero ostinati in malivolenza e odio che noi, i quali ogni dì più sentavamo l’offese e le ingiurie loro? E io pur sono uno di quelli quale già più anni dell’animo mio cancellai il nome e memoria di ciascuno da chi noi perfino testé sentiamo tanta iniquità e tanto dolore. Né mi parse mai in uomo alcuno durare quanto in costoro animo al tutto inumano e crudelissimo, ingiusti a cacciarci, crudeli a perseguitarci. Né loro basta tenerci in tanta miseria vivi. Ancora pongono premio a chi ci acresca l’ultime nostre miserie. Ma Dio di questo sia inverso di noi iudice più piatoso che severo verso chi erra. E dico, figliuoli miei, che buono per me, se io già più anni in me avessi avuta altra opinione.

Lionardo. E che aresti voi fatto? Come aresti voi ordinato la masserizia?

Giannozzo. Meglio del mondo; una vita quieta senza grave alcuna sollecitudine. Are’mi così pensato, — vieni qua, Giannozzo, monstra qui che cosa ti concede la fortuna. Truovomi da lei avere in casa la famiglia, la roba, vero? E altro? Sì. Che? Lo onore e l’amistà di fuori.

Lionardo. Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi nelli uffici e nello stato?

Giannozzo. Niuna cosa manco, Lionardo mio; niuna cosa manco, figliuoli miei. Niuna cosa a me pare in uno uomo meno degna di riputarsela ad onore che ritrovarsi in questi stati. E questo, figliuoli miei, sapete voi perché? Sì perché noi Alberti ce ne siamo fuori di questi fummi, sì anche perché io sono di quelli che mai gli pregiai. Ogni altra vita a me sempre piacque più troppo che quella delli, così diremo, statuali. E a chi non dovesse quella al tutto dispiacere? Vita molestissima, piena di sospetti, di fatiche, pienissima di servitù. Che vedi tu da questi i quali si travagliono agli stati essere differenza a publici servi? Pratica qui, ripriega quivi, scapùcciati a questo, gareggia con quello, ingiuria quell’altro; molti sospetti, mille invidie, infinite inimistà, niuna ferma amicizia, abundanti promesse, copiose proferte, ogni cosa piena di fizione, vanità e bugie. E quanto a te più bisogna, tanto manco truovi chi a te serbi o promessa o fede. E così ogni tua fatica e ogni speranza a uno tratto con tuo danno, con dolore e non senza tua ruina, rimane perduta. E se a te pur con infinite prieghiere accade qualche ventura, che però truovi tu averti acquistato? Eccoti sedere in ufficio. Che n’hai tu d’utile se none uno solo: potere rubare e sforzare con qualche licenza? Odivi continui richiami, innumerabili accuse, grandissimi tumulti, e intorno a te sempre s’aviluppano litigiosi, avari, ingiustissimi uomini, empionti l’orecchie di sospetti, l’animo di cupidità, la mente di paure e perturbazioni. Convienti abandonare e’ fatti tuoi proprii per distrigare la stultizia degli altri. Ora si richiede dare ordine alle gabelle, alle spese; ora provedere alle guerre; ora confirmare e rinovare le legge; sempre sono collegate le molte pratiche e faccende, alle quali né tu solo puoi, né con gli altri mai t’è licito fare quanto vorresti. Ciascuno giudica la volontà sua essere onesta, e il giudicio suo essere lodato, e l’opinione sua migliore che gli altri. Tu seguendo l’errore comune o la arroganza d’altrui acquisti propria infamia, e se pur t’adoperi in servire, compiaci a uno, dispiaci a cento. Au! furia non conosciuta, miseria non fuggita, male non odiato da ciascuno quanto e’ merita; la qual cosa a me pare che avenga solo perché questa una sola servitù pare vestita di qualche onore. O pazzia degli uomini! i quali tanto stimano l’andare colle trombe inanzi e col fuscello in mano, che a loro non piace più il proprio riposo domestico e la vera quiete dell’animo. O pazzi, fummosi, superbi, proprii tiranneschi, che date scusa al vizio vostro! Non potete sofferire gli altri meno ricchi, ma forse più antichi cittadini di voi, essere pari a voi quanto si richiede: non potete vivere senza sforzare e’ minori, però desiderate lo stato. E per avere stato, stolti, che fate voi? Pazzi, che vi sponete a ogni pericolo, porgetevi alla morte; bestiali, che chiamate onore così essere assediato da tutti i cattivi, né sapete vivere cogli altri buoni, convienvi servire e confratellarvi a tutti i ladroncelli, quali perché sono vili, così poco stimano la vita in seguire le voluntà vostre! E chiamate onore essere nel numero de’ rapinatori, chiamate onore convenire e pascere e servire agli uomini servili! O bestialità! Uomini degni di odio, se così pigliate a piacere tanta perversità e travaglio quanto trabocca adosso a chi sia in questi uffici e amministrazioni publiche! E che piacere d’animo mai può avere costui, se già e’ non sia di natura feroce e bestiale, il quale al continuo abbia a prestare orecchie a doglienze, lamenti, pianti di pupilli, di vedove, e di uomini calamitosi e miseri? Che contentamento arà colui il quale tutto il dì arà a porgere fronte e guardarsi insieme da mille turme di ribaldi, barattieri, spioni, detrattori, rapinatori e commettitori d’ogni falsità e scandolo? E che recreamento arà colui al quale ogni sera sia necessario torcere le braccia e le membra agli uomini, sentirli con quella dolorosa voce gridare misericordia, e pur convenirli usare molte altre orribili crudeltà, essere beccaio e squarciatore delle membra umane? Au! cosa abominevole a chi pur vi pensa, cosa da fuggilla. Tu adunque, uomo crudelissimo, chiederai li stati? Dirai tu certo sì, perché a me sarà lodo soffrire quelle gravezze, per gastigare i mali, sollevare e ornare i buoni. Adunque per gastigare e’ mali tu in prima diventi pessimo? A me non pare buono colui il quale non vive contento del suo proprio, e colui sarà piggiore il quale desidererà e cercherà quello d’altri, e quello sarà sopra tutto pessimo il quale bramerà e usurperà le cose publice. Non ti biasimerò se di te porgerai tanta virtù e fama che la patria ti riceva e impongati parte de’ incarichi suoi, e chiamerò onore essere così pregiato da’ tuoi cittadini. Ma che io volessi fare come molti fanno, gittarmi sotto questo, fare coda a quello altro, e servendo cercare di signoreggiare, o vero che io mi dessi a diservire o ingiuriare alcuno per compiacere a costui col favore del quale io aspettassi salire in stato, o vero che io volessi, come quasi fanno tutti, ascrivermi lo stato quasi per mia ricchezza, riputarlo mia bottega, ch’io pregiassi lo stato tra le dote alle mie fanciulle, ch’io in modo alcuno facessi del publico privato, quello che la patria mi permette a dignità transferendolo a guadagno, a preda, non punto, Lionardo mio, non, figliuoli miei. E’ si vuole vivere a sé, non al comune, essere sollicito per gli amici, vero, ove tu non interlasci e’ fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo grande. A noi non sarà amico colui il quale non fugga ogni danno e vergogna nostra. Vorrassi per gli amici lasciare adrieto parte delle faccende tue, ove a te sia dipoi renduto non dico premio, ma grado e grazia. Starsi così, sai, mezzanamente, sempre fu cosa felice. Voi altri, che avete lette le molte storie, di questo più di me potete ramentare essempli assai, ne’ quali mai troverrete, mai caduto alcuno giacere se none chi saliva troppo alto. Basti a me essere e parere buono e giusto, colla quale cosa mai sarò disonorato. Questa sola onoranza sta meco e in essilio, e si starà mentre che io non l’abandonerò. Abbiansi gli altri le pompe, e’ venti gonfino quanto la fortuna gliele concede, godansi infra gli stati, dolgansi non l’avendo, piangano dubitando pèrdello, addolorino quando l’abbino perduto, ché a noi, i quali siamo contenti del nostro privato e mai desiderammo quello d’altrui, sarà mai dispiacere non avere quello che sia publico o perdere quello di che noi non facciamo stima. E chi facesse stima di quelle servitù, fatiche e innumerabili martorii d’animo? Figliuoli miei, stiamoci in sul piano, e diamo opera d’essere buoni e giusti massai. Stiànci lieti colla famigliuola nostra, godiànci quelli beni ci largisce la fortuna faccendone parte alli amici nostri, ché assai si truova onorato chi vive senza vizio e senza disonestà.

Lionardo. Quanto a me pare comprendere del dire vostro, Giannozzo, in voi sta quella magnifica e animosa volontà, la quale sempre a me parse maggiore e più degna d’animo virile che qualunque altra quale si sia volontà e appetito de’ mortali. Veggo preponete il vivere a sé stessi, proposito degno e proprio d’animo reale stare in vita non avendo bisogno d’alcuno, vivere contento di quello che la fortuna ti fa partefice. Sono alcuni e’ quali io con voi insieme posso giustamente riprendere, ove essi stimano grandezza e amplitudine d’animo prendere ogni dura e difficile impresa, ogni laboriosissima e molestissima opera, per potere nelle cose più che gli altri cittadini. De’ quali uomini come altrove così alla terra nostra si truovano non pochi, perché cresciuti in antichissima libertà della patria e con animo troppo pieno d’odio acerbissimo contro a ogni tiranno, non contenti della comune libertà vorrebbono più che gli altri libertà e licenza. E certo, Giannozzo, chi se immetterà a volere sedere in mezzo a’ magistrati per guidare le cose publiche non con volontà e ragione di meritare lode e grazia da’ buoni, ma con appetito immoderato solo di principare ed essere ubidito, costui non vi nego sarà da essere molto biasimato, e, come dite, dimonstrerà sé essere non buono cittadino. E affermovi che il buono cittadino amerà la tranquillità, ma non tanto la sua propria, quanto ancora quella degli altri buoni, goderà negli ozii privati, ma non manco in quello degli altri cittadini suoi, desidererà l’unione, quiete, pace e tranquillità della casa sua propria, ma molto più quella della patria sua e della republica; le quali cose non si possono mantenere se chi si sia ricco, o saggio, o nobile fra’ cittadini darà opera di potere più che gli altri liberi, ma meno fortunati cittadini. Ma neanche quelle republiche medesime si potranno bene conservare, ove tutti e’ buoni siano solo del suo ozio privato contenti. Dicono e’ savi ch’e’ buoni cittadini debbono traprendere la republica e soffrire le fatiche della patria e non curare le inezie degli uomini, per servire al publico ozio e mantenere il bene di tutti i cittadini, e per non cedere luogo a’ viziosi, i quali per negligenza de’ buoni e per loro improbità perverterebbono ogni cosa, onde cose né publiche né private più potrebbono bene sostenersi.

E poi vedete, Giannozzo, che questo vostro lodatissimo proposito e regola del vivere con privata onestà qui solo, benché in sé sia prestante e generoso, non però a’ cupidi animi di gloria in tutto sia da seguire. Non in mezzo agli ozii privati, ma intra le publiche esperienze nasce la fama; nelle publiche piazze surge la gloria; in mezzo de’ popoli si nutrisce le lode con voce e iudicio di molti onorati. Fugge la fama ogni solitudine e luogo privato, e volentieri siede e dimora sopra e’ teatri, presente alle conzioni e celebrità; ivi si collustra e alluma il nome di chi con molto sudore e assiduo studio di buone cose sé stessi tradusse fuori di taciturnità e tenebre, d’ignoranza e vizii. Pertanto a me mai parrebbe da biasimare colui, il quale, come colle altre virtuose opere e studii, così con ogni religione e osservanza di buoni costumi procacciasse essere in grazia di qualunche onestissimo e interissimo cittadino. Né chiamerei servire quello che a me fosse debito fare: senza dubio a’ giovani sempre fu debito riverire i maggiori e apresso di loro molto cercare quella fama e dignità in quale i maggiori si truovano amati e riveriti. Neanche chiamerei appetito tirannesco in colui, nel quale fusse sollecitudine e cura delle cose laboriose e generose, poiché con quelle s’acquista onore e gloria. Ma perché forse testé di quelli e’ quali tengono occupati e’ magistrati nella terra nostra niuno vi pare d’ingegno non furioso e d’animo non servile, però tanto biasimate chi desiderasse essere ascritto nel numero di quelli così fatti non buoni, anzi pessimi cittadini. Io pur sono in questo desiderio, Giannozzo, che per meritare fama, per acquistare grazia e nome, per trovarmi onorato, amato e ornato d’autorità e di grazia fra’ miei cittadini nella patria mia, mai fuggirei, Giannozzo, mai alcuna inimistà di quale si fusse malvagio e iniquo cittadino. E dove bene bisognasse essequire qualche estrema severità, a me certo parrebbe cosa piissima esterminare e spegnere i ladroni e ciascuno vizioso, insieme e ciascuna fiamma d’ingiusta cupidità persino col sangue mio. Ma, poiché questo per ancora a noi non lice, restiamo di richiedere quello quale non, come voi dite, si debbe stimare poco, ché a me lo onore e la fama sempre fu da stimare più che ogni altra fortuna; ma, dico, non seguiamo con desiderio quello che per ancora non accade potere con opera ottenere. Facciamo come voi c’insegnate: aspettiamo la stagione sua, ché forse quando che sia la pazienza e modestia nostra troverrà qualche premio, e la ingiustizia e iniquità de’ maligni e furiosi, i quali per ancora non restano di trascorrere ogni spazio d’ingiuria e crudelità contro di noi, forse, giustizia di Dio, s’intropperà in qualche degna e meritata vendetta. Noi in questo mezzo, Battista e tu Carlo, seguiamo con virtù, con ogni studio, con ogni arte a meritare lodo e fama, e così apparecchiànci essere utili alla republica, alla patria nostra, acciò che, quando la stagione interverrà, noi ci porgiamo tali che Giannozzo, né questi temperatissimi e modestissimi vecchi ci reputino indegni vederci tra’ primi luoghi publichi onorati.

Giannozzo. Così mi piacerà facciate, figliuoli miei, così spero e aspetto farete, e a quello modo acquisterete e conserverete onore assai. Ma bene vi ramento che mai, non dico per acquistare onore, ché per onore si vogliono molte cose lasciare adrieto, ma dico per reggere altri, mai lasciate di reggere voi stessi; per guidare le cose publiche non lasciate però le vostre private. Così vi ramento, però che a chi mancherà in casa, costui molto meno troverrà fuori di casa; e le cose publiche non sovvengono alle necessità private. Gli onori di fuori non pascono la famiglia in casa. Arete cura e diligenza delle vostre cose domestiche quanto al bisogno sarà debito, e alle cose publiche vi darete non quanto l’ambizione e l’arroganza v’aletterà, ma quanto la virtù vostra e grazia de’ cittadini vi darà luogo.

Lionardo. Molto bene ci ricordate, Giannozzo, quello che bisogna. Così faremo. Ma di tutte queste cose private e domestiche, le quali voi dicevi essere quattro, due in casa, la famiglia e le ricchezze; due fuori di casa, l’onore e l’amistà, a quale saresti voi più affezionato?

Giannozzo. Da natura l’amore, la pietà a me fa più cara la famiglia che cosa alcuna. E per reggere la famiglia si cerca la roba; e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co’ quali ti consigli, i quali t’aiutino sostenere e fuggire l’averse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della famiglia e della amicizia, si conviene ottenere qualche onestanza e onorata autorità.

Lionardo. Che chiamate voi famiglia?

Giannozzo. E’ figliuoli, la moglie, e gli altri domestici, famigli, servi.

Lionardo. Intendo.

Giannozzo. E di questi sai che masserizia se ne vuole fare? Non altra che di te stessi: adoperàlli in cose oneste, virtuose e utili, cercare di conservalli sani e lieti, e ordinare che niuno di loro perda tempo. E sai in che modo niuno di loro perderà tempo?

Lionardo. Se ciascuno farà qualche cosa.

Giannozzo. Non basta. Anzi se ciascuno farà quello se gli apparterrà; se la donna governerà e’ picchini, custodirà le cose, e provederà a tutta la masserizia domestica in casa; s’e’ fanciulli studieranno d’imparare; se gli altri attenderanno a fare bene e diligente ciò che da’ maggiori loro sia comandato. E sai in che modo e’ perderanno tempo?

Lionardo. Credo se faranno nulla.

Giannozzo. Certo sì; e ancora se quello quale può fare uno, ivi saranno infaccendati due o più; e se dove bisogna due o più ivi sudi uno solo; e se a uno o più sarà data faccenda alla quale e’ sia inutile o disadatto. Imperoché dove siano troppi, alcuno sta indarno, e ove sono manco e inutili, egli è peggio che se facessino nulla, però che così s’afaticano senza frutto, e disturbano in grande parte e guastano le cose.

Lionardo. Bene dite.

Giannozzo. Maisì, a questo modo non si lasciono perdere tempo: comandisi a ciascuno cosa quale sappi e possa fare. E acciò che tutti possano e vogliano con più diligenza e amore fare quello se gli appartiene, si vuole fare come fo io il debito mio. A me s’apartiene comandare a’ miei cose giuste, insegnarle loro fare con diligenza e bene, e a ciascuno dare quello sia necessario e comodo. E sai quello che io fo per meglio fare il debito mio? Io penso prima molto a lungi, a costoro che può bisognare, quale sarebbe meglio; dipoi apresso io di tutto cerco, duro fatica per averla, poi con diligenza la serbo, e così insegno a’ miei serballo sino al tempo suo, e allora l’adopero.

Lionardo. Prendete voi delle cose quanto pensate vi bisogni, e non più?

Giannozzo. Pur qualche cosa più, se se ne versasse, guastasse, perdesse, che non manchi al bisogno.

Lionardo. E se ne avanzasse?

Giannozzo. Penso quale sia il meglio, o acquistarne e servirne uno amico, o vero se pur bisognasse per noi serballa, ché mai alla famiglia mia volsi minima cosa alcuna mancasse. Sempre mi piacque avere in casa tutte le cose comode e necessarie al bisogno della famiglia.

Lionardo. E che trovate voi, Giannozzo, bisognare a una famiglia?

Giannozzo. Molte cose, Lionardo mio: buona fortuna, e simile quale non possono gli uomini.

Lionardo. Ma quelle quali possono gli uomini, quali sono?

Giannozzo. Sono avere la casa ove si riduca insieme la tua brigata, avere da pascerli, poterli vestire.

Lionardo. E farli virtuosi e costumati?

Giannozzo. Anzi niuna cosa tanto mi pare alle famiglie quanto questa una necessaria, fare la gioventù sua costumatissima e virtuosissima. Ma non accade al proposito della masserizia qui dire della disciplina in allevare e’ figliuoli.

Lionardo. E in quelle adunque come fate voi?

Giannozzo. Dissiti io testé in queste nostre avverse fortune a me non è licito essere vero massaio.

Lionardo. Dicesti sì; ma pur quanto io veggio voi avete gran famiglia, e voleteli tutti essere simili a voi onesti e modesti, e così vivete civile e splendido in casa. Adunque in queste cose che ordine tenete voi?

Giannozzo. Secondo il tempo e le avversità quanto più posso migliore.

Lionardo. Ma, per avere da voi compiuto ammaestramento, ponete caso essere in questa età mia, avere moglie e figliuoli, essere prudente, essercitato come vi sete, e al tutto disponessi vivere vero massaio. In che modo guideresti voi le cose?

Giannozzo. O figliuolo mio, se io fussi di questa età tua, molte cose potrei, quali testé non possendo non faccio. E la prima faccenda mia sarebbe d’avere la casa in luogo ove io potessi starmivi a mia voglia lungo tempo, bene agiato, e senza avermi a tramutare. Non è cosa da credere, e tu, Lionardo, nollo provando non in tutto mi crederesti, quanto sia cosa dannosa e di grandissima spesa, quanto porti disagio e molestia questo tramutarsi di luogo a luogo. Perdonsi le cose, smarrisconsi, romponsi. Agiugni a quelli danni, che tu con l’animo e con la mente troppo ti svii e turbi, e stai una età prima che ti ritruovi bene rassettato. E delle spese, le quali ti crescono per assettarti in casa, dico nulla. Però si vuole trovare luogo in prima conveniente e atto come io diceva.

Lionardo. Oimè, Giannozzo, e noi ancora giovani, parte nati in essilio, parte cresciuti nelle terre altrui, ancora siamo non ignoranti quanto sia fastidio e travaglio questo tramutarsi, come la nostra iniquissima fortuna tutto il dì ci getta ora qua, ora là, senza permetterci minima alcuna requie, miseri noi, sempre perseguitandoci, sempre con nuove ingiurie, sempre con maggiori calamità opprimendoci. Ma Dio lodato, il quale così a noi dà materia d’acquistare non poco lodo della infinita pazienza nostra in tanti mali, e in sì grande avversità troppo incredibile e maravigliosa constanza. Ma ritorniamo al proposito nostro. Dico, Giannozzo, come faresti voi a trovare luogo di così lungo riposo, a trovarlo per le terre altrui?

Giannozzo. Cercherei quale terra a questo mi fosse atta, donde io non avessi a tramutarmi, e dove io potessi molto vivere sano senza disagio e con onore.

Lionardo. E a che conosceresti voi la terra quanto fosse atta a queste tutte cose? Non sarebbe egli difficile non solo conoscerla, ma trovarla?

Giannozzo. Non punto. A me non sarebbe certo molto difficile, no, Lionardo mio, e vedi come. Io in prima conoscerei quanto ivi si vivesse bene, sano. Porrei mente la gioventù in prima e a’ fanciulli; s’e’ fossino freschi e belli, stimerei ivi fosse buona aere e sana, imperoché la età puerile, pare a me, teme e sente molto l’aere e le cose non buone alla sanità. E se ivi fusse quantità di vecchi ben prosperi, diritti e vigorosi, stimarei anche io invecchiarvi. Poi, dicoti, porrei mente che paese, che vicini, come sia aperto o chiuso contro alle scorrerie de’ forestieri inimici, e notarei se questo luogo fusse da sé fertile, o se pur gli bisognasse chiedere le cose d’altronde, e vederei in che modo quelle vi si conducessono, e vorrei sapere se alle subite necessità ivi si possa presto e con facilità porvi rimedio. Essaminerei s’e’ vicini qui fussino utili o dannosi, e domanderei se gli altri casi, pestilenza, febre e simili, raro l’asalisseno; e considerrei se accadendo il bisogno io potessi tôrmi indi senza troppo fare spesa. E sopra tutto con diligenza molto investigherei se ivi e’ cittadini fussino ricchi e onesti; e informare’mi se la terra avesse buono e stabile reggimento, giuste legge e modesti rettori, imperoché, figliuoli miei, se la terra sarà con giustizia ordinata e con maturità retta, a lei mai verranno impeti di nimici, né casi avversi né ira di Dio; anzi, arà buoni a sé vicini, pacifico stato e fermo reggimento. E se i cittadini saranno onesti e ricchi, non aranno bisogno, né voglia di rapire l’altrui, anzi aiuteranno gl’industriosi e onoreranno i buoni.

Lionardo. E dove si troverrebbe mai una sì fatta terra compiuta di tante lode? Se già a voi, il quale vi dilettate abitare in Vinegia, quella una terra non vi paresse in tutte queste meno che l’altre viziosa; certo credo sarebbe difficile trovarla.

Giannozzo. E io pur ne cercherei. Non vorrei avermi a pentire della negligenza mia. E quella ove io trovassi le più e le migliori di tutte quali dissi cose, ivi mi fermerei.

Lionardo. E quale sono le migliori?

Giannozzo. Intendi, Lionardo mio? e’ non mi pare poco giudicarne; e quanto io, testé non bene scorgo il certo, ma così quanto m’occorre inanzi senza pensarvi. Tra queste sarà da preporre la sanità; però molto ricercherei ove fusse l’aria e l’altre cose più atte alla sanità. Sapete voi, figliuoli miei, l’uomo sano per tutto guadagna in qualche modo, e l’uomo infermo mai si può riputare ricco; e chi è giusto e buono, costui pur si truova riguardato da tutti.

Lionardo. Lo onore?

Giannozzo. In ogni lato, Lionardo mio, chi sarà buono e farassi conoscere buono, costui sarà onorato e pregiato.

Lionardo. Sono contento. Ma in prima che parrebbe a voi bene atto alla sanità?

Giannozzo. Quella quale, voglia tu o no, tale ti conviene usarla quale tu la truovi: l’aria.

Lionardo. Poi apresso?

Giannozzo. L’altre buone cose al cibo e al vivere nostro, — e fra esse il buono vino, Lionardo mio. Tu ridi?

Lionardo. E quivi vi fermeresti?

Giannozzo. Dove io bene mi riposassi e bene fussi veduto.

Lionardo. Come faresti voi? Comperresti voi la casa, o pur ivi ne torresti una a pigione?

Giannozzo. A pigione certo no, però che in tempo l’uomo si truova più volte avere comperata la casa e non averla; che me ne comperrei una ariosa, spaziosa, atta a ricevere la famiglia mia, e più, se ivi capitasse qualche amicissimo, poterlo ritenere in casa onestamente. E in questa cercherei spendere quanto manco potessi danari.

Lionardo. Torresti voi forse fuori di mano la casa, ove le abitazioni sogliono vendersi vile, e come si dice a migliore mercato?

Giannozzo. Non dire migliore mercato. Niuno può essere buono pregio quale tu spendi in cosa non ti s’acconfaccia. Ma cercherei spendere in casa mi s’aconfacesse, non più ch’ella si valesse; né sarei furioso, né mi monstrerrei volenteroso comperatore. Eleggere’mi casa posta in buona vicinanza e in via famosa ove abitassono onestissimi cittadini, co’ quali io potessi senza mio danno farmegli amici, e così la donna mia dalle donne loro avesse onesta compagnia senza alcuno sospetto. E anche m’informerei molto bene prima chi ne’ tempi di sopra l’avessi abitata, e domanderei quanto gli abitatori ivi siano vivuti sani e fortunati. Sono alcune case nelle quali mai alcuno pare vi sia potuto vivere lieto.

Lionardo. Certo sì, dite il vero. Ramentami d’alcuna e bella e magnifica stanza vederne esperienza: chi vi impoverì, chi vi rimase solo, chi con molta infamia ne fu cacciato; tutti, male arrivati, si dolerono. E sono veramente ottimi questi vostri ricordi, tôrre atta casa in buona e onesta vicinanza, in terra giusta, ricca, pacifica, sana e abondante di buone cose. E, Giannozzo, avendo queste, come ordineresti voi l’altra masserizia?

Giannozzo. Vorrei tutti i miei albergassero sotto uno medesimo tetto, a uno medesimo fuoco si scaldassono, a una medesima mensa sedessono.

Lionardo. Per più vostra consolazione, credo; per non vi trovare in solitudine, per vedervi in mezzo padre di tutti ogni dì sera acerchiato, amato, riverito, padrone e maestro di tutta la gioventù, la quale cosa suole essere a voi vecchi troppo supprema letizia.

Giannozzo. Grandissima. E anche, Lionardo mio, egli è maggiore masserizia, figliuoli miei, starsi così insieme chiusi entro ad uno solo uscio.

Lionardo. Così affermate?

Giannozzo. E faronne certo ancora te. Dimmi, Lionardo, se testé fusse notte e buio, qui ardesse il fanale in mezzo, tu, io e questi insieme vederebbono assai, quanto bastasse a leggere, scrivere e fare quello ci paresse. Vero? E se noi ci dividessimo, tu assettassi te colà, io suso, questi altrove, volendo ciascuno di noi quanto prima vedere bene lume, credi tu il cavezzo quale ci toccasse in parte durasse ardendo quanto prima durava il tutto insieme?

Lionardo. Certo manco. Chi ne dubita? Imperoché dove prima ardeva uno capo, testé si consumarebbe in tre.

Giannozzo. E se testé fosse il gran freddo e noi avessimo qui in mezzo le molte braci accese, tu di queste volessi altrove la parte tua, questi se ne portassino la loro, che stimi tu, potresti meglio scaldarti o peggio?

Lionardo. Peggio.

Giannozzo. Così accade nella famiglia. Molte cose sono sufficienti a molti insieme, le quali sarebbono poche a pochi posti in distanti parti. Altro caldo arà l’uno pell’altro fra’ suoi cittadini e fra gli strani, e altro lume di lode e di autorità conseguirà chi se truovi accompagnato da’ suoi per molte ragioni fidati, per molte ragioni temuti, che colui, il quale sarà con pochi strani o senza compagnia. Molto più sarà conosciuto, più e rimirato il padre della famiglia quale molti de’ suoi seguiranno, che qualunque si sia solo e quasi abandonato. E voglio testé favellare teco come uomo più tosto pratico che litterato, addurti ragioni ed essempli atti all’ingegno mio. Io comprendo questo, che a due mense si spiega due mappe, a due fuochi si consuma due cataste, a due masserizie s’adopera due servi, ove a uno assai bastava solo uno. Ma io non ti so bene dire quello che io sento; pur stima che io ti dico il vero. A fare d’una famiglia due, gli bisogna doppia spesa, e molte cose delle quali si giudica per pruova meglio che dicendo, meglio si sentono che non si narrano. Però a me mai piacque questo dividere le famiglie, uscire e intrare per più d’uno uscio; né mai mi patì l’animo che Antonio mio fratello abitasse senza me sotto altro tetto.

Lionardo. Da lodarvi.

Giannozzo. Sì, Lionardo mio, sotto uno tetto si riducano le famiglie, e se, cresciuta la famiglia, una stanza non può riceverle, assettinsi almeno sotto una ombra tutti d’uno volere.

Lionardo. O parola degna di tanta autorità quanta è la vostra! Ricordo da tenerlo a perpetua memoria. Sotto uno volere stiano le famiglie. E dipoi, Giannozzo, quando ciascuno fosse in casa, dimanderebbono da cena.

Giannozzo. Vero. Però si dia ordine che possino desinare e cenare, Lionardo mio, al tempo e molto bene.

Lionardo. Cenare bene, posso io intendere pascersi di buone cose?

Giannozzo. Buone, Lionardo mio, ancora e abundanti. Non paoni, capponi e starne, né simili altri cibi elettissimi, quali s’apparecchiano agl’infermi, ma pongasi mensa cittadinesca in modo che niuno de’ tuoi costumato desideri cenare altrove, sperando ivi saziare meglio la fame sua che teco. Sarà la mensa tua domestica, senza mancamento di vino, pane in copia. Sarà il vino sincero e il pane insieme quanto si richiede buoni, e arai con questi netti e sofficienti condimenti al pane.

Lionardo. Piacemi. E queste cose, Giannozzo, le comperresti voi di dì in dì?

Giannozzo. Non comperrei, no, imperoché non sarebbe masserizia. Chi vende le cose sue stimi tu venda testé quello che potrebbe più oltre serbare? Che credi tu che si cavi di casa, il migliore o pur il piggiore?

Lionardo. Il piggiore, e quello quale pensa non potere bene serbare. Ma ancora alcuna volta per necessità del danaio si vendono le cose buone e utili.

Giannozzo. Così confesso. Ma se costui sarà savio, e’ prima venderà il piggiore; e vendendo il migliore, non fa egli di venderlo più che non viene a sé? Non cerca egli con ogni astuzia fartelo parere migliore che non è?

Lionardo. Spesso.

Giannozzo. Però, vedi tu, chi compera spende quello superchio, e stassi a rischio di non avere tolto cosa falsificata, male durabile e poco buona. Vero? E quando mai vi fusse altra cagione, a me avermi presso tutto quello mi bisogna, a me avere provato più anni le cose mie e conoscerle quanto e in che stagione siano buone, più mi giova che cercarne altrove.

Lionardo. Voi forse vorresti avere in casa per tutto l’anno quanto alla spesa domestica bisognasse?

Giannozzo. Vorrei, sì, avere quello che in casa si può senza pericolo, senza grande fatica bene serbare. E quello che io non potessi bene serbare se non con grande sinistro e troppo ingombro della casa, io quello venderei, e poi al tempo me ne rifornirei, ché meglio mi mette per sino alla stagione lasciarne fatica, incarco e pericolo ad altri.

Lionardo. Venderesti voi quello che prima comperasti?

Giannozzo. Quanto prima potessi, ove serbandola me ne nascesse danno. Ma io, possendo, non vorrei avere a vendere e comperare ora questo ora quello, che sono faccende da mercennarii, e vili occupazioni, alle quali non è se non masserizia, per uscire di trama, sopraspendervi qualche cosa più e attendere a maggiori faccende. E parrebbemi più masserizia di tutto fornirmi a’ tempi. E anche ti dico, vorrei non avere ogni anno a scemare i danari anoverati in cassa.

Lionardo. Non veggo come cotesto si possa.

Giannozzo. Móstrotelo. Così. Darei io modo d’avere la possessione la quale per sé con molto minore spesa che comperandole in piazza fusse atta a tenermi la casa fornita di biave, vino, legne, strame e simili cose, ove farei alevarvi suso pecugli, colombi e polli, ancora e pesce.

Lionardo. In ogni cosa, Giannozzo, io appruovo la vostra sentenza, ma in questo non so se fusse masserizia fare queste quali dite imprese su terreni altrui, le quali, benché sieno utili alla famiglia e grate ad acquistarsi benivolenza da chi sono le possessioni, pure stimo non troverresti chi poi non richiedesse le possessioni per godersele quando voi con quelle simili spese e opere così l’avessi bene migliorate. E senza quelle spese non mi pare la villa sia quanto voi volete atta a pascere la famiglia. E rinovare ogni dì nuovi lavoratori, condurli a pregio e prestare loro quanto s’usa, dipoi ove tu stimavi riaverne opere o servigi convenirti, mutando possessione, in parte, come accade, perdere, non credo questo sia da lodare tra veri massai.

Giannozzo. Per questo proprio e per altre cagioni assai io mi comperrei la possessione de’ miei danari, che fusse mia, poi e de’ figliuoli miei, e così oltre de’ nipoti miei, acciò che io con più amore la facessi governare bene e molto cultivare, e acciò che e’ miei rimanenti in quella età prendessono frutto delle piante e delle opere quali io vi ponessi.

Lionardo. Vorresti voi campi da ricorre tutto in uno solo sito insieme, quanto diciavate: grano, vino, olio, e strame e legne?

Giannozzo. Vorrei, possendolo.

Lionardo. Or ditemi, Giannozzo. A volere il buono vino, bisogna la costa e il solitìo; a fare buono grano si richiede l’aperto piano morbido e leggiere; le buone legne crescono nell’aspero e alla grippa; il fieno nel fresco e molliccio. Tanta adunque diversità di cose come troverresti voi in uno solo sito? Che dite, Giannozzo? Stimate voi si truovino simili molti siti atti a vigna, sementi, boschi e pascoli? E trovandoli, crederresti voi averli a pregio non carissimo?

Giannozzo. Quanto sì! Ma pure, Lionardo mio, io mi ricordo a Firenze quanto siano degli altri assai, e ancora quelli nostri luoghi, quelli di messer Benedetto, quelli altri di messere Niccolaio, e quelli di messer Cipriano, e quelli di messere Antonio, e gli altri de’ nostri Alberti, a’ quali tu non desiderresti cosa più niuna, posti in aere cristallina, in paese lieto, per tutto bello occhio, rarissime nebbie, non cattivi venti, buone acque, sano e puro ogni cosa. Ma tacciamo di quelli, e’ quali più sono palagi da signori, e più tengono forma di castella che di ville. Non ci ricordiamo al presente delle magnificenze Alberte, dimentichianci quelli edificii superbi e troppo ornatissimi, ne’ quali molti vedendovi testé nuovi abitatori trapassano sospirando, e desiderandovi l’antiche fronti e cortesie nostre Alberte. Dico, cercherei comperare la possessione ch’ella fusse tale quale l’avolo mio Caroccio, nipote di messer Iacobo iurisconsulto, e padre di quello nostro zio messer Iacobo cavaliere, di cui nacque il secondo Caroccio Alberto, solea dire voleano essere le possessioni, che portandovi uno quartuccio di sale ivi si potesse tutto l’anno pascere la famiglia. Così adunque farei io, provederei che la possessione in prima fusse atta a darci tutto quello bisognasse per pascere la famiglia, e se non tutto, almeno insieme le più necessarie cose, pane, vino. E per la via d’andare alla possessione, o ivi presso, torrei il prato, per potere andando e rivenendo porre mente se cosa ivi mancasse, e così sempre per quivi farei la via, rivedendo tutti e’ campi e tutta la possessione; e molto vorrei o tutto insieme o ciascuna parte bene vicina per meglio poterli spesso senza troppa occupazione tutti trascorrere.

Lionardo. Buona ragione, però che, mentre che voi sollicitassi quelli là su, questi lavoratori qua giù sarebbono forse più negligenti.

Giannozzo. E anche per non avere a trafficare con troppa famiglia di villani: cosa da nolla credere, quanto in questi aratori cresciuti fra le zolle sia malvagità. Ogni loro studio sempre sta per ingannarti; mai a sé in ragione alcuna lasciano venire inganno; mai errano se non a suo utile; sempre cercano in qualunque via avere e ottenere del tuo. Vorrà il contadino che tu prima gli comperi il bue, le capre, la scrofa, ancora la giumenta, ancora e le pecore; poi chiederà gli presti da satisfare a’ suoi creditori, da rivestire la moglie, da dotare la figliuola; poi ancora dimanderà che tu spenda in rassettarli la capanna e riedificare più luoghi e rinnovare più masserizie, e poi ancora mai resterà di lamentarsi; e quando bene fusse adanaiato più forse che il padrone suo, allora molto si lagnerà e dirassi povero. Sempre gli mancherà qualche cosa; mai ti favella che non ti adduca spesa o gravezza. Se le ricolte sono abundanti, lui per sé ne ripone due le migliori parti. Se pel temporale nocivo o per altro caso le terre furono questo anno sterile, il contadino a te non assegnerà se non danno e perdita. Così sempre dell’utile riterrà a sé le più e le migliori parti, dello incomodo e disutile tutto lo getta sopra al soccio suo.

Lionardo. Adunque forse sarebbe il meglio a spendere qualche cosa più in piazza per fornire la casa, che avere a communicare con simili malvagie genti.

Giannozzo. Anzi giova, Lionardo mio, molto giova trassinare tali ingegni villaneschi, per poi meglio sapere sofferire e’ cittadini, quali forse abbiano simili costumi villani e dispettosi; e inségnanti e’ rustici non poco essere diligente. E poi, dove tu non arai a conversare con troppa moltitudine di lavoratori, a te non sarà la loro malizia odiosa, e dove tu sarai diligente a’ fatti tuoi, il tuo agricultore poco potrà ingannarti, e tu delle sue malizuole arai mille piaceri fra te stessi, molto e riderai.

Lionardo. A me questa vostra prudenza troppo piace, Giannozzo, sapete persino da’ malvagi cavarsene qualche utilità e lodo nel vivere.

Giannozzo. Maisì, figliuoli miei, così farei. Ma io cercherei questa possessione in luogo dove né fiumi, né ruine di piove me gli potessoro nuocere, e dove non usassono furoncelli; e cercherei ivi fusse l’aria ben pura. Imperoch’io odo si truovano ville, peraltro fruttuose e grasse, ma ivi hanno l’aere piena d’alcune minutissime e invisibili musculine; non si sentono, ma passano, alitando, sino entro al pulmone, ove giunte si pascono, e in quello modo tarmano l’enteriori, e occidono gli animali, ancora e molti uomini.

Lionardo. Ben mi ricorda avere letto di ciò apresso agli antichi.

Giannozzo. Però cercherei non manco d’avere ivi buono aere che buono terreno. In buono aere, s’e’ frutti non crescono in grandissima quantità come certo vi crescono, quelli pur che vi crescono molto più sono saporiti, molto più che gli altri altrove migliori. Agiugni qui ancora che la buona aere, riducendoti in villa, conferma molto la sanità, e porgeti infinito diletto. E ancora, Lionardo mio, cercherei d’avere la possessione in luogo donde i frutti e le ricolte mi venissino a casa senza troppa vettura, e potendola avere non lungi dalla terra troppo mi piacerebbe, però che io più spesso v’anderei, spesso vi manderei, e ogni mattina anderebbe pelle frutte, per l’erbe e pe’ fichi; e andere’mivi io stessi spassando per essercizio, e quelli lavoratori, vedendomi spesso, raro peccarebbono, e a me per questo porterebbono più amore e più riverenza, e così sarebbono più diligenti a’ lavorìi. E di queste possessioni così fatte poste in buono aere, lontane da diluvii, vicine alla terra, atte a pane e vino, credo io se ne troverebbe assai. E di legne in poco tempo me la fare’ io fertilissima, imperoché mai resterei di piantarvi così in sulle margini, onde s’auggiasse il vicino campo non il mio, e vorre’vi allevare ogni delicato e raro frutto. Farei come solea messer Niccolaio Alberti, uomo dato a tutte le gentilezze, quale volse in le sue ville si trovassino tutti e’ frutti nobilissimi quali nascono per tutti e’ paesi. E quanta fu gentilezza in quello uomo! Costui mandò in Sicilia per pini, i quali nati fruttano prima ch’eglino agiungano al settimo anno. Costui ancora nelli orti suoi volle pini de’ quali e’ pinocchi da sé nascono fessi: lo scorzo dall’uno de’ lati è rotto. Costui ancora di Puglia ebbe quelli pini, e’ quali fruttano pignuoli collo scorzo tenerissimo da fràngelli colle dita, e di questi fece la selva. Sarebbe lunga storia racontare quanta strana e diversa quantità di frutti quello uomo gentilissimo piantasse negli orti suoi, tutti di sua mano posti a ordine, a filo, da guardalli e lodalli volentieri. E così farei io: pianterei molti e molti alberi con ordine a uno filo, però che così piantati più sono vaghi a vedelli, manco auggiano e’ seminati, manco mungono il campo, e per côrre e’ frutti manco si scalpesta e’ lavorati. E are’mi grande piacere così piantare, innestare e aggiugnere diverse compagnie di frutti insieme, e dipoi narrare agli amici come, quando e onde io avessi quelle e quelle altre frutte. Poi a me sarebbe, Lionardo mio, che tu sappia, utile molto grande, se quelli piantati fruttassono bene; e se non fruttassono, a me ancora sarebbe utile: taglierei per legne, ogni anno disveglierei e’ più vecchi e’ meno fruttiferi, e ogni anno ivi ristituirei migliori piante. E quanto io, di questo arei troppo in me piacere.

Lionardo. Quale uomo fusse, il quale non si traesse piacere della villa? Porge la villa utile grandissimo, onestissimo e certissimo. E pruovasi qualunque altro essercizio intopparsi in mille pericoli, hanno seco mille sospetti, seguongli molti danni e molti pentimenti: in comperare cura, in condurre paura, in serbare pericolo, in vendere sollicitudine, in credere sospetto, in ritrarre fatica, nel commutare inganno. E così sempre degli altri essercizii ti premono infiniti affanni e agonie di mente. La villa sola sopra tutti si truova conoscente, graziosa, fidata, veridica. Se tu la governi con diligenza e con amore, mai a lei parerà averti satisfatto; sempre agiugne premio a’ premii. Alla primavera la villa ti dona infiniti sollazzi, verzure, fiori, odori, canti; sforzasi in più modi farti lieto, tutta ti ride e ti promette grandissima ricolta, émpieti di buona speranza e di piaceri assai. Poi e quanto la truovi tu teco alla state cortese! Ella ti manda a casa ora uno, ora un altro frutto, mai ti lascia la casa vòta di qualche sua liberalità. Eccoti poi presso l’autunno. Qui rende la villa alle tue fatiche e a’ tuoi meriti smisurato premio e copiosissime mercé, e quanto volentieri e quanto abundante, e con quanta fede! Per uno dodici, per uno piccole sudore più e più botti di vino. E quello che tu aresti vecchio e tarmato in casa, la villa con grandissima usura te lo rende nuovo, stagionato, netto e buono. Ancora ti dona le passule e l’altre uve da pendere e da seccare, e ancora a questo agiugne che ti riempie la casa per tutto il verno di noci, pere e pomi odoriferi e bellissimi. Ancora non resta la villa di dì in dì mandarti de’ frutti suoi più serotini. Poi neanche il verno si dimentica teco essere la villa liberale; ella ti manda la legna, l’olio, ginepri e lauri per, quando ti conduca in casa dalle nevi e dal vento, farti qualche fiamma lieta e redolentissima. E, se ti degni starti seco, la villa ti fa parte del suo splendidissimo sole, e porgeti la leprettina, il capro, il cervo, che tu gli corra drieto, avendone piacere e vincendone il freddo e la forza del verno. Non dico de’ polli, del cavretto, delle giuncate e delle altre delizie, quali tutto l’anno la villa t’alieva e serba. Al tutto così è: la villa si sforza a te in casa manchi nulla, cerca che nell’animo tuo stia niuna malinconia, émpieti di piacere e d’utile. E se la villa da te richiede opera alcuna, non vuole come gli altri essercizii tu ivi te atristi, né vi ti carchi di pensieri, né punto vi ti vuole affannato e lasso, ma piace alla villa la tua opera ed essercizio pieno di diletto, il quale sia non meno alla sanità tua che alla cultura utilissimo.

Giannozzo. Che bisogna dire, Lionardo? Tu non potresti lodare a mezzo quanto sia la villa utile alla sanità, commoda al vivere, conveniente alla famiglia. Sempre si dice la villa essere opera de’ veri buoni uomini e giusti massari, e conosce ogni uomo la villa in prima essere di guadagno non piccolo, e, come tu dicevi, dilettoso e onesto. Non ti conviene, come negli altri mestieri, temere perfidia o fallacie di debitori o procuratori. Nulla vi si fa in oscuro, nulla non veduto e conosciuto da molti, né puoi esservi ingannato, né bisogna chiamare notari e testimoni, non seguire litigii e l’altre simili cose acerbissime e piene di malinconie che alle più fiate sarebbe meglio perdere che con quelle suste d’animo guadagnare. Agiugni qui che tu puoi ridurti in villa e viverti in riposo pascendo la famigliuola tua, procurando tu stessi a’ fatti tuoi, la festa sotto l’ombra ragionarti piacevole del bue, della lana, delle vigne o delle sementi, senza sentire romori, o relazioni, o alcuna altra di quelle furie quali dentro alla terra fra’ cittadini mai restano, — sospetti, paure, maledicenti, ingiustizie, risse, e l’altre molte bruttissime a ragionarne cose, e orribili a ricordarsene. In tutti e’ ragionamenti della villa nulla può non molto piacerti, di tutte si ragiona con diletto, da tutti se’ con piacere e volentieri ascoltato. Ciascuno porge in mezzo quello che conosce utile alla cultura; ciascuno t’insegna ed emenda, ove tu errassi in piantare qualche cosa o sementare. Niuna invidia, niuno odio, niuna malivolenza ti nasce dal cultivare e governare il campo.

Lionardo. E anche vi godete in villa quelli giorni aerosi e puri, aperti e lietissimi; avete leggiadrissimo spettacolo rimirando que’ colletti fronditi, e que’ piani verzosi, e quelli fonti e rivoli chiari, che seguono saltellando e perdendosi fra quelle chiome dell’erba.

Giannozzo. Sì, Dio, uno proprio paradiso. E anche, quello che più giova, puoi alla villa fuggire questi strepiti, questi tumulti, questa tempesta della terra, della piazza, del palagio. Puoi in villa nasconderti per non vedere le rubalderie, le sceleraggine e la tanta quantità de’ pessimi mali uomini, quali pella terra continuo ti farfallano inanti agli occhi, quali mai restano di cicalarti torno all’orecchie, quali d’ora in ora seguono stridendo e mugghiando per tutta la terra, bestie furiosissime e orribilissime. Quanto sarà beatissimo lo starsi in villa: felicità non conosciuta!

Lionardo. Lodate voi abitare in villa più che in mezzo alla città?

Giannozzo. Quanto io, a vivere con manco vizio, con meno maninconie, con minore spesa, con più sanità, maggiore suavità del vivere mio, sì bene, figliuoli miei, che io lodo la villa.

Lionardo. Parrebbevi egli pertanto d’allevare ivi e’ figliuoli vostri?

Giannozzo. Se i figliuoli miei non avessoro in età a conversare se non con buoni, certo a me piacerebbe averli cresciuti in villa. Ma egli è sì piccolo il numero de’ non pessimi uomini, che a noi padri conviene, per essere sicuri da’ viziosi e dai molti inganni loro, volere ch’e’ figliuoli nostri li conoscano; né può bene giudicare de’ viziosi colui il quale non conosce il vizio. Chi non conosce il suono della cornamusa non può bene giudicare se lo strumento sia buono o non buono. Però sia nostra opera fare come chi vuole diventare schermidore, prima imparare ferire, per meglio conoscere e a tempo sapere fuggire la punta e scostarsi dal taglio. S’e’ vizii abitano, come fanno, tra gli uomini, a me potrà parere il meglio allevare la gioventù nelle terre, poiché ivi abondano non meno vizii che uomini.

Lionardo. E anche, Giannozzo, nella terra la gioventù impara la civilità, prende buone arti, vede molti essempli da schifare e’ vizii, scorge più da presso quanto l’onore sia cosa bellissima, quanto sia la fama leggiadra, e quanto sia divina cosa la gloria, gusta quanto siano dolci le lode, essere nomato, guardato e avuto virtuoso. Destasi la gioventù per queste prestantissime cose, commove e sé stessi incita a virtù, e proferiscesi ad opere faticose e degne di immortalità; quali ottime cose forse non si truovano in villa fra’ tronchi e fra le zolle.

Giannozzo. Con tutto questo, Lionardo mio, dubito io quale fusse più utile, allevare la gioventù in villa o nella terra. Ma sia così, abbiasi ciascuna cosa le sue proprie utilità, siano nelle terre le fabriche di quelli grandissimi sogni, stati, reggimenti, e fama, e nella villa si truovi quiete, contentamento d’animo, libertà di vivere e fermezza di sanità, io per me così ti dico: se io avessi villa simile quale io narrava, io mi vi starei buoni dì dell’anno, dare’mi piacere e modo di pascere la famiglia mia copioso e bene.

Lionardo. Non daresti voi anche modo, come diciavate bisognare, di vestire la famiglia?

Giannozzo. Fra’ miei primi pensieri questo sarebbe, come sempre fu, il primo, d’avere la mia famiglia quanto a ciascuno si richiedesse onestamente bene vestita, però che, se io in questo fussi negligente, la brigata mi servirebbe con poca fede, e i miei mi porterebbono odio; sare’ne spregiato, quelli di fuori me ne biasimerebbono, sare’ne riputato avaro, e per tanto sarebbe non buona masserizia non vestirli bene.

Lionardo. Come la terresti voi vestita?

Giannozzo. Pur bene: civili vestimenti, sopratutto puliti, atti e bene fatti; colori lieti, aperti quali più s’afacesse loro; buoni panni. Questi frastagli, questi ricami a me piacquono mai vedelli, se non solo a’ buffoni e trombetti. In dì solenni la vesta nuova, gli altri dì la vesta usata, in casa la vesta più logora. Le veste, Lionardo mio, onorano te. Vero? Onora tu adunque, onora le veste. E soglio io porre mente, e parmi qui non s’abbia quanto merita riguardo; e benché potrebbe parere ai larghi e spendenti uomini cosa da non ne fare troppa stima, pure egli è così: il cignere la vesta fa due mali, l’uno che il vestire pare meno ampio e meno onorevole, l’altro si vede che il cinto lima il panno e bene subito arà stirpato il pelo, tale che tu arai la vesta per tutto nuova, solo nel cingere sarà consumata e vecchia. Non si vogliono adunque cingere le belle veste, e voglionsi avere le belle veste, perché ove elle onorano te molto, tu il simile riguardi loro.

Lionardo. Vestiresti voi così tutta la famiglia ornata di belle veste?

Giannozzo. Vedi tu, sì, bene, a ciascuno secondo se gli richiedesse.

Lionardo. E a quelli i quali si riducessono con voi in casa, donaresti voi il vestire quasi in premio?

Giannozzo. Sarei sì bene con questi ancora liberale, ove io gli vedessi amorevoli e diligenti verso di me e verso de’ miei.

Lionardo. Per premiarli, stimo, così faresti.

Giannozzo. E anche per incitare gli altri e meritare da me quanto quelli buoni avessino ricevuto. Niuna cosa sarà tanto molto atta e utile a rendere bene modesta, costumata e officiosa tutta la famiglia, quanto onorando e premiando e’ buoni, però che le virtù lodate crescono negli animi de’ buoni, e nelle menti de’ non così buoni incendono gli altrui premii e lode voluntà di meritare con simili opere e virtù.

Lionardo. Piacemi, e dite bellissimo. Così certo confesso essere. Ma a vestire la famiglia onde soppliresti voi? Venderesti voi e’ frutti della possessione?

Giannozzo. Se quelli m’avanzassino, perché non mi dovessi io farne danari, e in altro spenderli quando bisognasse? Sempre fu utile al padre della famiglia più essere vendereccio che compraiuolo. Ma sappi che alla famiglia tutto l’anno accaggiono minute spese per masserizie e aconcimi e manifatture; e così non raro ti sopravengono dell’altre maggiori spese, delle quali tutte quasi le prime sono il vestire. Cresce la gioventù, apparecchiansi le nozze, anoveransi le dote, e chi a tutte volesse colla sola possessione satisfarvi, credo io, non li basterebbe. Però farei d’avere qualche essercizio civile utile alla famiglia, commodo a me, atto a me e a’ miei, e con questo essercizio guadagnando di dì in dì quanto bisognasse sopplirei; quello che avanzasse mi serberei per quando accadessino maggiori spese: o servirne la patria, o aiutarne l’amico, o donarne al parente, o simili, quali tutto il dì possono intervenire, spese non piccole, non da nolle fare, sì perché sono dovute, sì perché sono piatose, sì anche perché acquistano amistà, nome e lodo. E a me molto piacerebbe a quello modo avere ove ridurmi, e dove contenessi e’ miei giovani non scioperati e non oziosi.

Lionardo. Quale essercizio prenderesti voi?

Giannozzo. Quanto potessi onestissimo, e quanto più potessi a molti utilissimo.

Lionardo. Forse questo sarebbe la mercantia?

Giannozzo. Troppo, ma, per più mio riposo, io m’eleggerei cosa certa, quale di dì mi vedessi migliorare tra le mani. Forse farei lavorare le lane, o la seta, o simili, che sono essercizii di meno travaglio e di molto minore molestia, e volentieri mi darei a tali essercizii a’ quali s’adoperano molte mani, perché ivi in più persone il danaio si sparge, e così a molti poveri utilità ne viene.

Lionardo. Questo sarebbe officio di grandissima pietà, giovare a molti.

Giannozzo. E chi ne dubita? Massime faccendo come vorrei io si facesse, ché arei fattori e garzoni miei, né io porrei mano più oltre se non a provedere e ordinare che ciascuno facesse il debito suo, e a tutti così comanderei: siate con qualunque si venga onesti, giusti e amichevoli, con gli strani non meno che con gli amici, con tutti veridici e netti, e molto vi guardate che per vostra durezza o malizia mai alcuno si parta dalla nostra bottega ingannato, o male contento; ché, figliuoli miei, così a me pare perdita più tosto che guadagno, avanzando moneta, perdere grazia e benivolenza. Uno benevoluto venditore sempre arà copia di comperatori, e più vale la buona fama e amore tra’ cittadini che quale si sia grandissima ricchezza. E anche comanderei nulla sopravendessino superchio, e che, con qualunque o creditore o debitore si contraesse, sempre loro ricorderei con tutti stessino chiari e netti, non fossoro superbi, non maledicenti, non negligenti, non litigiosi, e sopratutto alle scritture fussono diligentissimi. E in questo modo spererei Dio me ne prosperasse, e aspetterei acrescermi non poco concorso alla bottega mia, e fra’ cittadini stendermi buono nome, le quali cose non si può di leggieri giudicarne quanto col favore di Dio e colla grazia degli uomini di dì in dì faccino e’ guadagni essere maggiori.

Lionardo. E’ fattori, Giannozzo, spesso sono poco solliciti, e raro cercano fare prima l’utile vostro che il suo proprio.

Giannozzo. E io per questo sarei diligente in tôrre fattori onesti e buoni, e apresso vorrei molto spesso conoscere e rivedere persino alle minime cose, e qualche volta, benché io sapessi ogni cosa, di nuovo ne ridomanderei per parere più sollecito. Non farei così per monstrarmi suspizioso troppo o sfidato, ma per tôrre licenza a’ fattori d’errare. Se ’l fattore vederà niuna cosa a me essere occulta, stima che vorrà meco essere sollicito e veritiero; e volendo essere il contrario non poterebbe, però che, io spesso riconoscendo le cose, non potrebbono gli errori invecchiarmi tra le mani, e dove fosse cadutovi errore alcuno, se non oggi, domani subito si rinverrebbe, e non fuori di tempo si gli rimedierebbe. E se cosa fosse ascosa sotto qualche malizia, credi che spesso razzolandovi e ricercandovi di leggieri si scoprirebbe. Dicea messer Benedetto Alberti, uomo non solo in maggiori cose della terra, in reggere la repubblica prudentissimo, ma in ogni uso civile e privato savissimo, ch’egli stava così bene al mercatante sempre avere le mani tinte d’inchiostro.

Lionardo. Non so se io questo m’intendo.

Giannozzo. Dimonstrava essere officio del mercatante e d’ogni mestiere, quale abbia a tramare con più persone, sempre scrivere ogni cosa, ogni contratto, ogni entrata e uscita fuori di bottega, e così spesso tutto rivedendo quasi sempre avere la penna in mano. E quanto a me questo precetto pare troppo utilissimo, imperoché, se tu indugi d’oggi in domane, le cose t’invecchiano pelle mani, vengonsi dimenticando, e così il fattore piglia argomento e stagione di diventare o vizioso, o come il padrone suo negligente. Né stimare alle cose tue altri sia più che tu stesso sollicito, e così alla fine te n’hai il danno, o vero ti perdi il fattore. Né dubitare, Lionardo mio, ch’egli è peggio avere male fattore che in tutto nollo avere. La diligenza del maestro può d’uno fattore non molto buono farlo migliore, ma la negligenza di chi debba avere principale cura delle cose sempre suole di qualunque buono lasciarlo piggiorare.

Lionardo. E quanto! Uno fattore vizioso ti ruba e inganna per suo maligno ingegno, benché tu sia sollicito, e molto più ti nocerà ove vedrà alle cose tue in te stessi essere negligenza. E bene questo spesso provorono e’ nostri, e bene spesso hanno avuto chi per suo vizio molto più che per nostra negligenza ci è stato dannoso. Ma da’ viziosi raro si può senza danno ritrarsi.

Giannozzo. A me, quando io riduco a memoria quelli danni e perdite di molti mercatanti, e ove io veggo che de’ sei infortunii e’ cinque sono occorsi per difetto di chi governa le cose, pare veramente possa così affermare che niuna cosa tanto fa buono fattore quanto la diligenza del maestro. La pigrizia, tralasciare e non spesso rivedere e’ fatti suoi troppo, figliuoli miei, troppo nuoce. E stolto colui, il quale non saprà favellare de’ fatti suoi se non per bocca altrui. Cieco per certo sarà colui, il quale non vedrà se non con gli occhi altrui. Vuolsi adunque stare sollicito, desto, diligente, rivedere spesso ogni nostra cosa, perché così nulla si può facilmente perdere, e ismarrita più tosto si truova. Agiugni che sendo negligente ti si fa una somma di faccende quale a scioglierle non vi basta il dì, né ivi puoi quanto bisogna fatica, e truovi quel che tu ne’ tempi suoi aresti fatto bene e con diletto, ora, volendo quello quanto bisogna doppo allo indugio, t’è impossibile o farlo a compimento, o delle molte parti farne alcuna bene quanto certo prima aresti nelle stagioni loro fatto. Così adunque io sarei sempre in ogni cosa diligente, e in questa quanto a me s’apartenesse molto sarei sollicito, prima in scegliere quanto più potessi buono fattore, poi sarei diligente in nollo lasciare piggiorare rivedendo spesso e riconoscendo ogni mia cosa. E acciò ch’e’ miei avessino cagione d’essere migliori, io gli onorerei e largamente bene gli tratterei, e studiare’mi farli amorevoli a me e alle cose mie.

Lionardo. Così mi pare certo necessario avere grande diligenza in scegliere e’ fattori bene buoni, e ancora avere non minore diligenza in non gli lasciare piggiorare, e ancora quanto dite molto bisogna essere diligente in farli di dì in dì amorevoli e studiosi delle cose vostre.

Giannozzo. Molto, e sai come? Conviensi prima da più persone domandarne, avisarsi delle condizioni loro, informarsi de’ costumi, porre bene mente che usanze, che maniere siano le loro.

Lionardo. E per fattori quali a voi piacerebbono più, o gli strani o pure e’ vostri della casa? Perché spesso vidi fra mercatanti farne non piccolo dubio. Eravi chi diceva potersi meglio vendicare e valersi con più facilità da uno strano che da uno della sua propria famiglia. Altri stimava gli strani più essere ubbidienti a’ maestri e più suggetti. Altri parea non volesse ch’e’ suoi fossero in tempo per venire in tale fortuna che potessino tôrsi il primo grado e occupare l’autorità e luogo di chi governa. E così erano varie le loro opinioni.

Giannozzo. Quanto io, Lionardo mio, mai chiamerei fattore, ma più tosto nimico mio, e non vorrei tra’ miei domestici quello uomo da cui aspettassi vendicarmi; né apresso comprendo per che cagione io dagli strani dovessi più essere riverito che da’ miei, quantunque da’ miei a me più parrebbe onesto accettarne benivolenza e amore che obedienza e servitù; né io stimo meno essere utile alle faccende la fede e diligenza di quelli quali ci portino amore, che sia la subiezione di chi noi tema; e non reputo degno di buona fortuna, né meritare autorità, né doversi grado alcuno a colui al quale sia molesto l’onore e felicità de’ suoi; e a me potrà parere stultissimo colui, il quale stimerà senza favore e aiuto de’ suoi mantenersi in dignità o in felice alcuno stato. Credete a me, figliuoli miei, che di questo mi ramenta infiniti essempli, quali per più brevità non riferisco; credete a me, niuno può durare in alcuna buona fortuna senza spalle e mano degli altri uomini; e chi sarà in disgrazia a’ suoi, costui stolto s’egli stima mai essere bene agli strani accetto. Ma per diffinire la questione tua, presupponi tu, Lionardo, ch’e’ tuoi sieno buoni o mali?

Lionardo. Buoni.

Giannozzo. Se fiano buoni, mi rendo io certissimo molto saranno migliori meco i miei che gli strani. E così ragionevole a me pare stimare ne’ miei essere più fede e amore che in qualunque sia strano, e a me più debba essere caro fare bene a’ miei che agli altrui.

Lionardo. O se fossoro mali?

Giannozzo. Come, Lionardo? Che non sapessino procurare bene? Non sarebbe qui a me, Lionardo, maggiore debito insegnare a’ miei che agli strani?

Lionardo. Certo. Ma se, come alcuna volta accade, e’ v’ingannassino?

Giannozzo. Dimmi, Lionardo, a te saprebbe egli peggio se uno tuo avesse de’ beni tuoi, che se uno strano se gli rapisse?

Lionardo. Meno a me dorrebbe se a uno de’ miei le mie fortune fusseno utili, ma più mi sdegnerei se di chi più mi fido più m’ingannasse.

Giannozzo. Lievati dall’animo, Lionardo, questa falsa opinione. Non credete che de’ tuoi alcuno mai t’inganni, ove tu lo tratti come tuo. Quale de’ tuoi non volesse più tosto avere a fare teco che con gli strani? Pensa tu in te stessi: a chi saresti tu più volentieri utile, a’ tuoi pure o agli altrui? E stima questo, che lo strano si riduce teco solo per valersi di meglio; e ricòrdati (spesso lo dico perché sempre ci vuole essere a mente) ch’egli è più lodo e più utile fare bene a’ suoi che agli strani. Quello poco o quello assai, quale lo strano se ne porta, non torna più in casa tua, né in modo alcuno in tempo sarà a’ nipoti tuoi utile. Se lo strano teco diventa ricco, perché così stima meritare da te, poco te ne sa grado; ma, se da te il parente tuo arà bene, e’ confesserà esserti obligato, e così arà volunterosa memoria fare il simile a’ tuoi. E quando bene e’ non te ne sapesse né grado, né merito, se tu sarai buono e giusto, tu prima dovrai volere in buona fortuna e’ tuoi che quale si sia strano. Ma pensa che di questo mai a te bisognerà temere, se tu così sarai diligente a eleggere buono, e desto a non lasciare peggiorare el fattore. E dimmi ancora: scegliendo il fattore ove ara’ tu manco indizii a bene conoscere de’ costumi? Pigliando de’ tuoi, e’ quali a te sono cresciuti nelle mani, e’ quali tu hai pratichi tutto il dì, o pure togliendo degli strani, co’ quali avesti molto manco conoscenza e molto minori esperienze? Così credo io, Lionardo mio, molto più sia difficile conoscere lo ’ngegno degli strani che de’ tuoi. E se così è, se a noi per bene scegliere molto si conviene conoscere ed essaminare e’ costumi, chi mai credesse più tosto investigalli in uno strano che ne’ suoi proprii? Chi mai volesse più tosto uno strano non bene conosciuto che uno suo bene conosciuto? Voglionsi aiutare e’ nostri quando e’ sono buoni e atti, e se da sé non sono, con ogni nostra industria e aiuto voglionsi e’ nostri di dì in dì rendere migliori. Segno di poca carità sdegnare e’ suoi per beneficare agli altri, segno di grande perfidia non si fidare de’ suoi per confidarsi degli altri. Ma io dico forse troppo in questa materia. A te, Lionardo, che ne pare?

Lionardo. A me pare, questa vostra, amorevole, iusta e verissima sentenza, e tale che s’ella fusse da tutti, come da me, creduta e gustata, forse la famiglia nostra arebbe manco da dolersi di molte ingiurie, quali già più volte ricevette dagli strani. E certo la vostra così confesso essere giusta sentenza: non sa amare chi non ama e’ suoi.

Giannozzo. E quanto giustissima! Mai, se tu puoi avere de’ tuoi, non mai tôrre gli altrui. E’ ti giova sollicitarli, pigli piacere a insegnarli, godi ove te vedi riputar padre, puoi ascriverti a felicità averti con tuoi beneficii addutta in luogo di figliuoli molta gioventù, la quale speri e disponga teco tutta la sua età. Quale cose non così farà lo strano. Anzi, quando egli arà cominciato a più qualcosa sapere o avere, e’ vorrà essere compagno, diratti volersi partire, moveratti doppo questo una, e doppo quella un’altra lite per migliorare sua condizione, e del danno tuo, della infamia tua poco stimerà ove a sé ne risulti bene. Ma lasciamo passare. Io potrei monstrarti infinite ragioni pelle quali vederesti che lo strano sempre sta teco come nimico, dove e’ tuoi sempre sono amici. Procurono e’ tuoi il bene e l’onore tuo, fuggono il danno e la infamia tua, perché d’ogni tuo onore a loro ne risulta lodo, e d’ogni disonore sentono parte di biasimo. E così occorrerebbono doppo queste infinite altre ragioni, pelle quali manifesto vederresti ch’egli è più dovuto, più onesto, più utile, più lodato, più sicuro tôrre de’ suoi che degli strani. E quando a te questo bene paresse il contrario, io ti consiglierei sempre più verso e’ tuoi avessi carità che verso gli strani, e ricordere’ti quanto a noi stia debito avere cura della gioventù, trarla in virtù, condurla in lode. E stima tu certo che a noi padri di famiglia non è se non gran biasimo, possendo onorare e grandire e’ nostri, se noi li terremo adrieto quasi spregiati e aviliti.

Lionardo. A me non bisogna udirne più ragioni. Io stimo in parte di grandissimo biasimo non sapere gratificarsi a’ suoi, e confesserei io sempre che chi non sa vivere co’ suoi molto meno saprà vivere con gli strani. E di questi vostri ricordi, in la masserizia troppo utilissimi, molto vi siamo questi giovani e io obligatissimi, e anche ci sarà molto più dono e debito da voi aver sentito il resto quanto aspettiamo seguitiate. Poiché detto avete della casa, della possessione e degli essercizii accommodati alla masserizia, ora c’insegnate quanto abbiamo a seguire in queste spese, le quali tutto il dì accaggiono, oltre al vestire e al pascere la famiglia, e ancora ricevere amici, onorarli con doni e liberalità. E accade tale ora a fare qualche spesa la quale apartenga allo onore e fama di casa, come alla famiglia nostra delle altre assai e fra molte quella una de’ padri nostri in edificare nel tempio di Santa Croce, nel tempio del Carmine, nel tempio degli Agnoli e in molti luoghi dentro e fuori della terra, a Santo Miniato, al Paradiso, a Santa Caterina, e simili nostri publici e privati edificii. Adunque a queste spese che regola o che modo daresti voi? So in questo come nell’altre forse dovete avere perfetti documenti.

Giannozzo. E hogli tali che nulla meglio.

Lionardo. E quali?

Giannozzo. Uditemi. Io soglio porre mente, e pènsavi ancora tu s’io tengo buona opinione; vedi, a me pare le spese tutte siano o necessarie o non necessarie, e chiamo io necessarie quelle spese, senza le quali non si può onesto mantenere la famiglia, quali spese chi non le fa nuoce allo onore suo e al commodo de’ suoi; e quanto non le faccendo più nuociono, tanto più sono necessarie. E sono queste numero a raccontarle grandissimo; ma insomma possiamo dire siano quelle fatte per averne e conservarne la casa, la possessione e la bottega, tre membri onde alla famiglia s’aministra ogni utilità e frutto quanto bisogna. Vero, le spese non necessarie sono o con qualche ragione fatte, o senza alcuna pazzamente gittate via. Ma le spese non necessarie con qualche ragione fatte piacciono, non fatte non nuocono. E sono queste come dipignere la loggia, comperare gli arienti, volersi magnificare con pompa, con vestire e con liberalità. Sono anche poco necessarie, ma non senza qualche ragione, le spese fatte per asseguire piaceri, sollazzi civili, senza quali ancora potevi onesto e bene viverti.

Lionardo. Intendovi: come d’avere bellissimi libri, nobilissimi corsieri, e simile voglie d’animo generoso e magnifico.

Giannozzo. Proprio questo medesimo.

Lionardo. Adunque si chiamino queste spese voluntarie, perché satisfanno più tosto alla voluntà che alla necessità.

Giannozzo. Piacemi. Di poi le spese pazze sono quelle quali fatte meritano biasimo, come sarebbe pascere in casa draconi o altri animali più che questi terribili, crudeli e venenosi.

Lionardo. Tigri forse?

Giannozzo. Anzi, Lionardo mio, pascere scelerati e viziosi uomini, imperoch’e’ mali uomini sono più che le tigre e che qualunque si sia pestifero animale molto piggiori. Uno solo vizioso mette in ruina tutta una universa famiglia. Niuno si truova veneno maggiore, né sì pestilenzioso quanto sono le parole d’una mala lingua; niuna rabbia tanto sarà rabbiosa quanto quella d’uno invidioso raportatore. E chi pasce simili scelerati, costui certo fa spese pazze, bestialissime, e molto merita biasimo. Vuolsi fuggire quanto una pestilenza ogni uso e dimestichezza di simili maledici, raportatori e ghiottonacci quali s’inframettono fra gli amici e conoscenti delle case. Né mai si vuole essere amico di chi racolga volentieri simili viziosi, imperoché a chi ama e’ viziosi piace il vizio: a chi piace il vizio costui non è buono, e a’ mali uomini mai e’ buoni furono amici. Pertanto sarà né utile, né facile acquistarsi amistà di questi tali, de’ quali non stia l’uscio e l’orecchie molto serrato a tutti e’ viziosi.

Lionardo. Sì certo, Giannozzo, sì dite il vero, e sono spese non solo pazze ma anche troppo dannose, ché sogliono e’ viziosi con loro raportamenti e false accusazioni, godendo in usare la sua malvagità, addurti in suspizione e odio a tutti e’ tuoi, solo perché tu non abbia a credere a chi te veramente ami, quando e’ t’avisasse del vizio e malignità di quelli.

Giannozzo. Però né queste, né simili spese pazze mai si vogliono fare. Voglionsi fuggire, non udire, né riputare amico chi le domandi, né chi te ne consigli.

Lionardo. E quelle altre due, Giannozzo, le necessarie e le volontarie spese, con che ragione abbiamo noi ad essequille?

Giannozzo. Come ti pensi? Sai come fo io le necessarie spese? Quanto più posso le fo presto.

Lionardo. Non vi pensate voi prima quale modo sia il migliore?

Giannozzo. Certo sì. Né stimare che in cosa alcuna a me mai piaccia correre a furia, ma bene studio fare le cose maturamente presto.

Lionardo. Perché?

Giannozzo. Perché quello che era necessario fare mi giova subito avello fatto, non fusse per altro se none per avermi scarico di quello pensiero. Così adunque fo le necessarie subito, ma le voluntarie spese traduco io in altro modo buono, utile.

Lionardo. E quale?

Giannozzo. Ottimo, utilissimo. Dicotelo. Indugio, Lionardo mio, indugio parecchi termini, indugio quanto posso.

Lionardo. E questo perché?

Giannozzo. Pur per bene.

Lionardo. Desidero sapere che buona cagione vi muova, ché so nulla fate senza ottima ragione.

Giannozzo. Dicotelo. Per vedere se quella voglia m’uscisse in quello mezzo; e non m’uscendo, io pure mi truovo avere spazio da pensare in che modo ivi si spenda manco, e più a pieno mi satisfaccia.

Lionardo. Ringraziovi, Giannozzo. Voi testé m’avete insegnato schifare molte spese, alle quali io, come gli altri giovani, raro mi sapeva rafrenare.

Giannozzo. Però non è se non dovuto che a noi vecchi si renda molta riverenza, e così a voi giovani pare sia utile in ogni vostra faccenda addimandiate e riceviate da noi padri consiglio. Molte cose di questo mondo meglio per pruova si conoscono che per giudicio e prudenza, e noi uomini non gastigati dalle lettere, ma fatti eruditi dall’uso e dagli anni, e’ quali a tutto l’ordine del vivere abbiamo e pensato e distinto quale sia il meglio, non dubitare, possiamo in bene molte cose con la nostra pratica forse più che a voi altri litterati non è licito colle vostre sottigliezze e regole di malizia. E dicovi, sempre a me parse via brevissima a, come voi dite, bene filosofare, conversare e assiduo trovarsi apresso de’ vecchi, domandarli, udirli e ubidilli, imperoché il tempo, ottimo maestro delle cose, rende e’ vecchi buoni conoscitori e operatori di tutte quelle cose, quali a noi mortali sono nel vivere nostro utili e buone a tradurre l’età nostra in quiete, tranquillità e onestissimo ozio.

Lionardo. Bene aspettavamo da voi apreendere molte e perfette cose, ma voi e in questo e negli altri vostri singularissimi e perfettissimi ditti superasti ogni nostra espettazione. Tante cose c’insegnate quante io mai arei pensato si potessoro adattare alla masserizia. Ma non so se io mi giudico il vero. Dico, Giannozzo, che volere essere padre di famiglia come voi ce l’avete distinto, mi pare forse sarebbe opera molto faticosa: prima essere massaio delle sue proprie cose, reggere e moderare l’affezioni dell’animo, frenare e contenere gli appetiti del corpo, adattarsi e usufruttare il tempo, osservare e governare la famiglia, mantenere la roba, conservare la casa, cultivare la possessione, guidare la bottega, le quali cose da per sé ciascuna sarà non piccolissima a chi voglia in quella essere diligentissimo, e in tutte insieme credo io, perché sono difficili, sarà quasi impossibile adoperarsi in modo che la nostra sollecitudine in qualche una non manchi.

Giannozzo. Non essere in questa opinione. Elle non sono, come a te forse paiono, Lionardo mio; queste non sono difficili quanto credevi, però che elle sono tutte collegate insieme e incatenate per modo, che a chi vuole essere buono padre di famiglia, a costui conviene, guidandone bene una, tutte l’altre seguano pur bene. Chi sa non perdere tempo sa fare quasi ogni cosa, e chi sa adoperare il tempo, costui sarà signore di qualunque cosa e’ voglia. E quando queste bene fussino difficili, elle porgono tanta utilità e tanto piacere a chi in esse si diletti, e con tuo tanto biasimo ti stanno adosso ove tu nolle molto procuri, ch’elle debbono non attediare, né straccare, anzi parere giocundissime a chi sia in sé buono, e non in tutto pigro e negligente, e a noi debba piacere farci e’ fatti nostri. Niuna cosa tanto si truova piacevole quanto contentare sé stesso, e assai si contenta chi fa quello che gli piace, e dobbiamo riputarci a lode fare e’ fatti nostri pur bene, ove faccendoli male sentiamo per pruova quanto ci sia non meno biasimo che danno. E quando pure ti piacesse più alleggerirti, piglia di tutti una certa parte quale più all’ingegno, età, costumi e autorità tua s’aconfaccia, ma sempre statuisci te sopra tutti, in modo che non tu per le mani e indizio d’altri, ma gli altri tuoi tutti per la volontà e sentenza tua ne’ fatti tuoi seguano quanto sia onesto e devuto, e così sempre provedi che ciascuno de’ tuoi faccia il debito suo. Terrai e’ tuoi fattori distribuiti pelle faccende, quello alla villa, questo alla terra, gli altri ove bisogna, e così ciascuno in quale meglio si gli aconfaccia.

Voi litterati (quanto spesso, ora mi ramenta, fu costume di messer Benedetto Alberti, uomo in casa studioso e assiduo alle lettere, e fuori fra’ cittadini e amici umanissimo, il quale con una sua letizia piena di gravità sempre ragionava di cose onestissime e bellissime, grate e utili a chi l’ascoltava, soleva ragionando seguire questi vostri litterati), e’ quali trattando della prudenza e vivere umano solete adurre essemplo dalle formiche, e dite che da loro si debba prendere amonimento provedendo oggi a’ bisogni di domane; e così constituendo il principe solete prendere argomento dall’api, le quali tutte a uno solo obediscono, e pella publica salute tutte con fortissimo animo e ardentissima opera s’essercitano, queste a mietere quella suprema calugine de’ fiori, queste altre a suportare e condurre il peso, quelle a distribuirlo in opera, quelle altre a fabricare lo edificio, e tutte insieme a difendere le loro riposte ricchezze e delizie; e così avete molte vostre piacevolissime similitudini atte a quello che voi intendete dimonstrare e molto dilettose a udirle: e sia testé ancora licito a me con qualche mia similitudine non tanto apropriatissima quanto le vostre, ma certo non in tutto inetta, per meglio e più aperto narrarvi, e quasi dipignere, e qui in mezzo porvi inanzi agli occhi quello che a me pare in uno padre di famiglia sia necessario, sia, dico, testé a me licito seguire ne’ miei ragionamenti la vostra lodata e nobile consuetudine. Voi vedete el ragno quanto egli nella sua rete abbia le cordicine tutte per modo sparse in razzi che ciascuna di quelle, benché sia in lungo spazio stesa, pure suo principio e quasi radice e nascimento si vede cominciato e uscito dal mezzo, in quale luogo lo industrissimo animale osserva sua sedia e abitacolo; e ivi, poiché così dimora, tessuto e ordinato il suo lavoro, sta desto e diligente, tale che, per minima ed estremissima cordicina quale si fosse tocca, subito la sente, subito s’apresenta e a tutto subito provede. Così faccia il padre della famiglia. Distingua le cose sue, pongale in modo che a lui solo tutte facciano capo, e da lui s’adirizzino e ferminsi ai più sicuri luoghi; e stia il padre della famiglia in mezzo intento e presto a sentire e vedere il tutto, e dove bisogni provedere subito provegga. Non so, Lionardo mio, quanto questa mia similitudine ti dispiaccia.

Lionardo. In che modo potrebbe alcuno vostro detto dispiacermi? Giurovi, Giannozzo, mai a me parse vedere più atta, né più utile similitudine, e bene certo comprendo, certo così essere quanto voi diciavate, che il modo e diligenza di chi governa le cose rende ogni grande e grieve fatto facile e trattabile. Ma non so io come tale ora pare che le faccende di fuori impacciano le domestiche, e le domestiche necessità spesso non lasciano bene di servire alle cose publiche. Però dubito la diligenza nostra a tutte le cose in tempo fusse non quanto si richiede sufficiente.

Giannozzo. Non stimare costì ancora non sia presto e ottimo rimedio.

Lionardo. Quale?

Giannozzo. Dicotelo. Faccia il padre della famiglia come feci io. Perché a me parea non piccolo incarco provedere alle necessità entro in casa, bisognando a me non raro avermi fuori tra gli uomini in maggiori faccende, però mi parse di partire questa somma, a me tenermi l’usare tra gli uomini, guadagnare e acquistare di fuori, poi del resto entro in casa quelle tutte cose minori lascialle a cura della donna mia. Così feci, ché a dirti il vero, sì come sarebbe poco onore se la donna traficasse fra gli uomini nelle piazze, in publico, così a me parrebbe ancora biasimo tenermi chiuso in casa tra le femine, quando a me stia nelle cose virili tra gli uomini, co’ cittadini, ancora e con buoni e onesti forestieri convivere e conversare. Non so se tu in questo mi lodi, già che io veggo alcuni, e’ quali vanno rovistando e disgruzzolando per casa ogni cantuccio, nulla sofferano rimanere ascoso, nulla può tanto essere occulto che questi ivi non pongano gli occhi e le mani, tutto essaminano, persino se le lucerne avessino i lucignoli troppo doppi, e dicono essere vergogna niuna, né fare ingiuria ad alcuno se procurano e’ fatti suoi, o se danno sue legge e suoi costumi in casa sua, e allegano quello detto solea dire messer Niccolaio Alberti uomo diligentissimo, che la cura e diligenza delle cose sempre fu madre delle ricchezze. Molto mi piace e lodo questa sentenza, ché essere diligente in ogni cosa giova; ma pure io non posso darmi a credere che agli uomini occupati in cose non feminili stia bene essere o monstrarsi tanto curiosi circa queste tali infime masseriziuole domestiche. Non so se io erro qui. Tu, Lionardo, che ne di’, che te ne pare?

Lionardo. Aconsentisco, ché proprio sete della opinione degli antichi ove dicevano che gli uomini hanno da natura l’animo rilevato e più che le femine atto con arme e consiglio a propulsare ogni avversità quale premesse la patria, le cose sacre, o e’ nati suoi. Ed è l’animo dell’uomo assai più che quello della femmina robusto e fermo a sostenere ogni impeto de’ nimici, e sono più forti alle fatiche, più constanti negli affanni, e hanno gli uomini ancora più onesta licenza uscire pe’ paesi altrui acquistando e coadunando de’ beni della fortuna. Contrario le femmine quasi tutte si veggono timide da natura, molle, tarde, e per questo più utili sedendo a custodire le cose, quasi come la natura così provedesse al vivere nostro, volendo che l’uomo rechi a casa, la donna lo serbi. Difenda la donna serrata in casa le cose e sé stessi con ozio, timore e suspizione. L’uomo difenda la donna, la casa, e’ suoi e la patria sua, non sedendo ma essercitando l’animo, le mani con molta virtù per sino a spandere il sudore e il sangue. Però non è da dubitare, Giannozzo, questi scioperati, i quali si stanno il dì tutto tra le femminelle, o che si pigliano ad animo tali simili penseruzzi femminili, certo non hanno il cuore maschio né magnifico, e tanto sono da biasimare costoro quanto e’ dimonstrano più piacerli sé essere femina che uomo. A chi piace l’opere virtuose dimostra piacerli sé essere virtuoso; a chi non ha in odio queste minime cose femminili facilmente dimonstra non fuggire d’essere riputato femminile. E per questo molto mi pare siate da essere lodato, poiché alla donna vostra lasciasti il governo delle cose minori, e per voi, quanto vidi sempre, vi tenesti ogni faccenda virile e lodatissima.

Giannozzo. Or sì ben sai così sempre mi parse debito a’ padri della famiglia non solo fare le cose degne all’uomo, ma ancora fuggire ogni atto e fatto quale s’apartenga alle femmine. Vuolsi lasciare le faccenduzze di casa tutte alle donne come feci io.

Lionardo. Voi potete lodarvi che aveste la donna forse più che l’altre virtuosissima. Non so quanto si trovasse altrove donna tanto faccente e tanto nel reggere la famiglia prudente quanto fu la vostra.

Giannozzo. Fu certo la mia e per suo ingegno e costumi, ma molto più per miei ammonimenti ottima madre di famiglia.

Lionardo. Voi adunque gl’insegnasti?

Giannozzo. In buona parte.

Lionardo. E come facesti voi?

Giannozzo. Dicotelo. Quando la donna mia fra pochi giorni fu rasicurata in casa mia, e già il desiderio della madre e de’ suoi gli cominciava essere meno grave, io la presi per mano e andai monstrandoli tutta la casa, e insegna’li suso alto essere luogo pelle biave, giù a basso essere stanza per vino e legne. Monstra’li ove si serba ciò che bisognasse alla mensa, e così per tutta la casa rimase niuna masserizia quale la donna non vedesse ove stesse assettata, e conoscesse a che utilità s’adoperasse. Poi rivenimmo in camera mia, e ivi serrato l’uscio le monstrai le cose di pregio, gli arienti, gli arazzi, le veste, le gemme, e dove queste tutte s’avessono ne’ luoghi loro a riposare.

Lionardo. A tutte queste cose preziose adunque era consegnato luogo in camera vostra, credo perché ivi stavano più sicure, e più rimote e serrate.

Giannozzo. Anzi ancora, Lionardo mio, per potelle rivedere quando a me paresse senza altri testimoni; ché, siate certi, figliuoli miei, non è prudenza vivere sì che tutta la famiglia sappia ogni nostra cosa, e stimate minore fatica guardarvi da pochi che da tutti. Quello el quale saputo da pochi più sarà sicuro a serballo, ancora perduto più sarà facile a riavello da pochi che da molti, e io per questo e per molti altri rispetti sempre riputai meno pericolo tenere ogni mia cosa preziosa quanto si può occulta e serrata in luogo remoto dalle mani e occhi della moltitudine; sempre volli quelle essere riposte in luogo ove elle si serbino salve e libere da fuoco e da ogni sinistro caso, e dove spessissimo e per mio diletto e per riconoscere le cose io possa solo e con chi mi pare rinchiudermi, senza lasciare di fuori a chi m’aspetta cagione di cercare di sapere e’ fatti miei più che io mi voglia. Né a me pare a questo più atto luogo che la propria camera mia ove io dormo, in quale, come io diceva, volsi niuna delle preziose mie cose fosse alla donna mia occulta. Tutte le mie fortune domestiche gli apersi, spiegai e monstrai. Solo e’ libri e le scritture mie e de’ miei passati a me piacque e allora e poi sempre avere in modo rinchiuse che mai la donna le potesse non tanto leggere, ma né vedere. Sempre tenni le scritture non per le maniche de’ vestiri, ma serrate e in suo ordine allogate nel mio studio quasi come cosa sacrata e religiosa, in quale luogo mai diedi licenza alla donna mia né meco né sola v’intrasse, e più gli comandai, se mai s’abattesse a mia alcuna scrittura, subito me la consegnasse. E per levarli ogni appetito se mai desiderasse vedere o mie scritture o mie secrete faccende, io spesso molto gli biasimava quelle femmine ardite e baldanzose, le quali danno troppo opera in sapere e’ fatti fuori di casa o del marito o degli altri uomini; ramentavagli che sempre si vide questo essere verissimo quale mi ricorda messer Cipriano Alberti, uomo interissimo e prudentissimo, disse alla moglie d’uno suo amicissimo, che pur vedendola troppo curiosa in domandare e investigare dove e con cui il marito fusse albergato, per amonilla quanto poteva e per rispetto della amicizia forse dovea, così gli disse: «Io ti consiglio per tuo bene, amica mia, che tu sia molto più nelle cose di casa sollecita che in quelle di fuori, e ramentoti come a sorella che’ savi dicono che le donne quali spiano pure spesso degli uomini non sono senza sospetto che a loro troppo stiano nell’animo gli uomini, e forse si monstrano più desiderose di sapere se altri conosce e’ costumi suoi che cupide di conoscere e’ fatti d’altrui, e di queste pensa tu quale alle oneste donne stia peggio». Così dicea messer Cipriano; così io con simili detti ammaestrai la donna mia, e sempre m’ingegnai ch’ella in prima non potesse, e apresso poi ch’ella non curasse sapere le mie secrete cose più che io mi volessi; né vuolsi mai, per minimo secreto che io avessi, mai farne parte alla donna né a femina alcuna. E troppo mi spiacciono alcuni mariti, i quali si consigliano colle moglie, né sanno serbarsi dentro al petto secreto alcuno: pazzi che stimano in ingegno femminile stare alcuna vera prudenza o diritto consiglio, pazzi per certo se credono la moglie ne’ fatti del marito più essere che ’l marito stessi tenace e taciturna. O stolti mariti, quando cianciando con una femmina non vi ramentate che ogni cosa possono le femmine eccetto che tacere. Per questo adunque sempre curai che mio alcuno secreto mai venisse a notizia delle donne, non perché io non conoscessi la mia amorevolissima, discretissima e modestissima più che qual si fusse altra, ma pure stimai più sicuro s’ella non poteva nuocermi che s’ella non voleva.

Lionardo. O ricordo ottimo! E voi non meno prudente che fortunato, se mai la donna vostra da voi trasse alcuno secreto.

Giannozzo. Mai, Lionardo mio, e dicoti perché: prima come ella era modestissima, così mai si curò più sapere che a lei s’apartenesse, e io poi questo seco osservava, che mai ragionava se none della masserizia o de’ costumi o de’ figliuoli, e di queste molto spesso faceva seco parole assai, acciò che ella e dal dire mio imparasse fare, e per saperne meco ragionare e rispondermi studiasse conoscere e con opere bene asseguire tutto ciò che a quelle s’apartenesse; e anche, Lionardo mio, così faceva per tôlli via d’entrare meco in ragionamenti d’alcuna mia maggiore e propria cosa. Così adunque feci: e’ secreti e le scritture mie sempre tenni occultissime; ogni altra cosa domestica in quella ora e dipoi sempre mi parse licito consegnalle alla donna mia, e lascialle non in tanto a custodia sua che io spesso non volessi e sapere e vedere ogni minuta cosa dove fosse e quanto stesse bene salva. E poiché la donna così ebbe veduto e bene compreso ove ciascuna cosa s’avesse a rassettare, io gli dissi: «Moglie mia, quello che doverà essere utile e grato a te come a me mentre che sarà salvo, e quello che a te sarebbe dannoso e arestine disagio se noi ne fossimo straccurati, di questo conviene ancora a te esserne sollicita non meno che a me. Tu hai vedute le nostre fortune, le quali, grazia d’Iddio, sono tante che noi doviamo bene contentarcene: se noi sapremo conservalle, queste saranno utili a te, a me e a’ figliuoli nostri. Però, moglie mia, a te s’apartiene essere diligente e averne cura non meno che a me».

Lionardo. E qui che vi rispuose la donna?

Giannozzo. Rispuose e disse che aveva imparato ubidire il padre e la madre sua, e che da loro avea comandamento sempre obedire me, e pertanto era disposta fare ciò che io gli comandassi. Adunque dissi io: «Moglie mia, chi sa obedire il padre e la madre sua tosto impara satisfare al marito. Ma, — dissi, — sa’ tu quel che noi faremo? Come chi fa la guardia la notte in sulle mura per la patria sua, se forse di loro qualcuno s’adormenta, costui non ha per male se ’l compagno lo desta a fare il debito suo quanto sia utile alla patria, io, donna mia, molto arò per bene, se tu mai vedrai in me mancamento alcuno, me n’avisi, imperoché a quello modo conoscerò quanto l’onore nostro, l’utilità nostra e il bene de’ figliuoli nostri ti sia a mente; così a te non spiacerà se io te desterò dove bisogni. In quello che io mancassi supplisci tu, e così insieme cercheremo vincere l’uno l’altro d’amore e diligenza. Questa roba, questa famiglia, e i figliuoli che nasceranno sono nostri, così tuoi come miei, così miei come tuoi. Però qui a noi sta debito pensare non quanto ciascuno di noi ci portò, ma in che modo noi possiamo bene mantenere quello che sia dell’uno e dell’altro. Io procurerò di fuori che tu qui abbia in casa ciò che bisogni; tu provedi nulla s’adoperi male».

Lionardo. Come vi parse ella udirvi? Volentieri?

Giannozzo. Molto, e disse gli piacerà fare con diligenza quanto saprà e potrà quello che mi sia a grado. Però dissi io: «Donna mia, odimi: sopra tutto a me sarà gratissimo faccia tre cose: la prima, qui in questo letto fa’, moglie mia, mai vi desideri altro uomo che me solo, sai». Ella arrossì e abassò gli occhi. Ancora glielo ridissi che in quella camera mia ricevesse solo me, e questa fu la prima. La seconda, dissi, avesse buona cura della famiglia, contenessela e reggessela con modestia in riposo, tranquillità e pace; e questa fu la seconda. La terza cosa, dissi, provedesse che delle cose domestiche niuna andasse a male.

Lionardo. Monstrastile voi come ella dovesse fare quanto li comandavate, o pure essa da sé in queste tutte era maestra e dotta?

Giannozzo. Non credere, Lionardo mio, che una giovinetta possa essere in le cose bene dotta. Né si richiede dalle fanciulle tutta quella astuzia e malizia quale bisogna in una madre di famiglia, ma molto più modestia e onestà, quali virtù furono in la donna mia sopra tutte l’altre, e non potrei dirti con quanta riverenza ella mi rispondesse. Dissemi la madre gli avea insegnato filare, cucire solo, ed essere onesta ancora e obediente, che testé da me imparerebbe volentieri in reggere la famiglia e in quello che io gli comandassi quanto a me paresse d’insegnarli.

Lionardo. E voi come, Giannozzo, insegnastili voi queste cose?

Giannozzo. Che? Forse adormentarsi senza uomo altri che me appresso?

Lionardo. Molto mi diletta, Giannozzo, che in questi vostri ricordi e ammonimenti santissimi e severissimi voi ancora siate giocoso e festivo.

Giannozzo. Certo sarebbe cosa da ridere se io gli avessi voluto insegnare dormir sola. Non so io se quelli tuoi antichi li sepporo insegnare.

Lionardo. Ogni altra cosa. Ma e’ racontano bene come e’ confortavano la donna che con suoi atti e portamenti ella non volesse parere più disonesta che in verità non fusse. E racontasi come e’ persuadevano alle donne per questo non si dipignessono il viso con cerusa, brasile e simile liscio alcuno.

Giannozzo. Dicoti che in questo io bene non mancai.

Lionardo. Molto vorrei udire il modo per, quando anche io arò la donna, sappia fare quello quale poco sanno molti mariti. A ciascuno dispiace vedere la moglie lisciata, ma niuno pare sappia distornela.

Giannozzo. E in questo fu’ io prudentissimo, né ti dispiacerà udire in quanto bello modo io gli ponessi in odio ogni liscio; e perché a voi sarà utilissimo avermi udito, ascoltatemi. Quando io ebbi alla donna mia consegnato tutta la casa, ridutti come racontai serrati in camera, e lei e io c’inginocchiammo e pregammo Iddio ci desse facultà di bene usufruttare quelli beni de’ quali la pietà e beneficenza sua ci aveva fatti partefici, e ripregammo ancora con molta divotissima mente ci concedesse grazia di vivere insieme con tranquillità e concordia molti anni lieti e con molti figliuoli maschi, e a me desse ricchezza, amistà e onore, a lei donasse integrità e onestà e virtù d’essere buona massaia. Poi, levati diritti, dissi:

«Moglie mia, a noi non basta avere di queste ottime e santissime cose pregatone Iddio, se in esse noi non saremo diligenti e solleciti quanto più ci sarà licito, per quanto pregammo essere e asseguirle. Io, donna mia, procurerò con ogni mia industria e opera d’acquistare quanto pregammo Iddio: tu il simile con ogni tua voluntà, con tutto lo ingegno, con quanta potrai modestia farai d’essere essaudita e accetta a Dio in tutte le cose delle quali pregasti; e sappi che di quelle niuna tanto sarà necessaria a te, accetta a Dio e gratissima a me e utile a’ figliuoli nostri quanto la onestà tua. La onestà della donna sempre fu ornamento della famiglia; la onestà della madre sempre fu parte di dote alle figliuole; la onestà in ciascuna sempre più valse che ogni bellezza. Lodasi il bello viso, ma e’ disonesti occhi lo fanno lordo di biasimo e spesso troppo acceso di vergogna o pallido di dolore e tristezza d’animo. Piace una signorile persona, ma uno disonesto cenno, uno atto di incontinenza subito la rende vilissima. La disonestà dispiace a Dio, e vedi che di niuna cosa tanto si truova Iddio essere severo punitore contro alle donne, quanto della loro poca onestà: rendele infame e in tutta la vita male contente. Vedi la disonestà essere in odio a chi veramente e di buono amore ama, e sente costei la disonestà sua solo essere grata a chi a lei sia inimico; e a chi solo piace ogni nostro male e ogni nostro danno, a costui solo può non dispiacere vederti disonesta. Però, moglie mia, se vuol fuggire ogni specie di disonestà e dare modo di parere a tutti onestissima, ché a quello modo faresti ingiuria a Dio, a me, a’ figliuoli nostri e a te stessi, a questo modo acquisti lodo, pregio e grazia da tutti, e da Dio potrai sperare le preghiere e i voti tuoi essere non poco essauditi. Adunque, volendo essere lodata di tua onestà, tu fuggirai ogni atto non lodato, ogni parola non modesta, ogni indizio d’animo non molto pesato e continente. E in prima arai in odio tutte quelle leggerezze colle quali alcune femmine studiano piacere agli uomini, credendosi così lisciate, impiastrate e dipinte, in quelli loro abiti lascivi e inonesti, più essere agli uomini grate che monstrandosi ornate di pura simplicità e vera onestà; ché bene sono stultissime e troppo vane femmine, ove porgendosi lisciate e disoneste credono essere da chi le guata lodate, e non s’aveggono del biasimo loro e del danno, non s’aveggono meschine che con quelli indizii di disonestà elle allettano le turme de’ lascivi; e chi con improntitudine, chi con assiduità, chi con qualche inganno, tutti l’assediano e combàttolla per modo che la misera e isfortunatissima fanciulla cade in qualche errore, donde mai si lieva se non tutta brutta di molta e sempiterna infamia».

Così dissi alla donna mia; e ancora per rèndella bene certa quanto alle donne fosse non solo biasimo, ma molto ancora dannoso marcirsi il viso con quelle calcine e veneni quali le pazze femine appellano lisci, vedi, Lionardo mio, come bellamente io l’amaestrai. Ivi era il Santo, una ornatissima statua d’argento, solo a cui il capo e le mani erano d’avorio candidissimo: era pulita, lustrava, posta nel mezzo del tabernaculo come s’usa. Dissili: «Donna mia, se la mattina tu con gessi e calcina e simili impiastri imbiutassi el viso a questa imagine, sarebbe forse più colorita e più bianca sì, ma se poi fra dì il vento levasse alto la polvere la insusciderebbe pur sì, e tu la sera la lavassi, e poi e’ dì seguenti in simili modo la rimpiastrassi e rilavassi, dimmi, doppo molti giorni volendola vendere così lisciata, quanti danari n’aresti tu? Più che mai non avendola lisciata?» Rispuose ella: «Molti pochi». «E così sta», dissi io, «però che chi compera l’imagine non compera quello impiastro quale si può levare e porre, ma appregia la bontà della statua e la grazia del magisterio. Tu adunque aresti perduta la fatica e le spese di quelli impiastri. E dimmi, se tu seguissi pur lavandola e impiastrandola più mesi o anni, farestila tu essere più bella?». «Non credo», disse ella. «Anzi», dissi io, «la guasteresti, logorerestila, renderesti quello avorio incotto, riarso con quelle calcine, e livido, giallo e frollo. Certo sì. E se queste adunque pultiglie tanto possono in una cosa durissima, in uno avorio, ché vedi l’avorio per sé durare eterno, stima certo, moglie mia, quelle molto più potranno nel fronte e nelle guance tue, quali senza imbrattalle sono tenere e delicate, e con qualunque liscio diventeranno aspre e vizze. E non dubitare che quelli veneni, se tu poni mente, tutte sono cose ne’ vostri lisci venenose, e a te molto più che a quello avorio noceranno, già che ogni poca polvere, ogni piccolo sudore ti farà il viso imbrattato. Né a quello modo sarai più bella, anzi più sozza, e a lungo andare ti troverresti fracide le guance».

Lionardo. Monstrò ella assentirvi e stimare che voi le dicessi il vero?

Giannozzo. E quale pazza stimasse il contrario? Anzi ancora perché ella più mi credesse, la domandai d’una mia vicina, la quale tenea pochi denti in bocca, e quelli pareano di busso tarmato, e avea gli occhi al continuo pesti, incavernati, il resto del viso vizzo e cennericcio, per tutta la carne morticcia e in ogni parte sozza; solo in lei poteano alquanto e’ capelli argentini guardandola non dispiacere. Adunque domandai la donna mia s’ella volesse essere bionda e simile a costei. «Oimè no!», disse ella. «O perché?», dissi io, «ti pare ella così vecchia? Di quanta età la stimi tu?». Rispuosemi vergognosa dicendo che male ne sapeva giudicare, ma che li parea quella fosse di tanta età quanta era la balia della madre sua. E io allora li giurai il vero che quella sì fatta vicina mia non era due anni nata prima di me, né certo agiugneva ad anni trenta e due, ma cagione de’ lisci così era rimasta pesta, e tanto parea oltre al suo tempo vecchia. Dipoi che io di questo la vidi assai maravigliarsi, io gli puosi a mente tutte le fanciulle nostre Alberte mie cugine e l’altre della casa. «Vedi tu, donna mia», dissi io, «come le nostre tutte sono frescozze e tutte vive, non per altro se none perché a loro solo basta lisciarsi col fiume. Così farai tu, donna mia», dissi io. «Tu non ti intonicherai né scialberai il viso per parermi più bella, già che tu a me se’ candida troppo e colorita, ma come le nostre Alberte solo coll’acqua, così tu terrai lavata te e netta. E, donna mia, tu non hai a piacere se non a me in questo, e stima non potere piacermi volendomi ingannare, monstrandoti lisciata quello che tu non fussi; benché me non potresti tu ingannare, perché io ti veggo ogni ora e bene mi stai in mente come tu se’ fatta senza liscio. Di quelli di fuori, se tu amerai me, stima tu quale potrà esserti ad animo più che il marito tuo. E sappi, moglie mia, che chi cerca più piacere a quelli di fuori che a chi ella debba in casa, costei monstrerrà meno amare il marito che gli strani».

Lionardo. Prudentissime parole. Ma fustine voi obedito?

Giannozzo. Pur tale ora alle nozze, o che ella si vergognasse tra le genti, o che ella fosse riscaldata pel danzare, la mi pareva alquanto più che l’usato tinta; ma in casa non mai, salvo il vero una sola volta quando doveano venire gli amici e le loro donne la pasqua convitati a cena in casa mia. Allora la moglie mia col nome d’Iddio tutta impomiciata, troppa lieta s’afrontava a qualunque venia, e così a chi andava si porgeva, a tutti motteggiava. Io me n’avidi.

Lionardo. Crucciastivi voi seco?

Giannozzo. Ah! Lionardo, colla donna mai mi crucciai.

Lionardo. Mai?

Giannozzo. Perché dovessino tra noi durare crucci? Di noi niuno mai volse dall’altro cosa se non tutta onesta.

Lionardo. Pur credo vi dovesti turbare se in questo la donna non quanto dovea voi ubidiva.

Giannozzo. Sì, questo sì bene. Ma non però mi li scopersi turbato.

Lionardo. Non la riprendesti voi?

Giannozzo. Eh! Eh! pur con buono modo, ché a me sempre parse, figliuoli miei, correggendo cominciare con la dolcezza, acciò che il vizio si spenga e la benivolenza s’accenda. E apprendete questo da me. Le femmine troppo meglio si gastigano con modo e umanità che con quale si sia durezza e severità. El servo potrà patire le minaccia, le busse, e non forse sdegnerà se tu lo sgriderai; ma la moglie più tosto te ubidirà amandoti che temendoti, e ciascuno libero animo più sarà presto a compiacerti che a servirti. Però si vuole, come feci io, l’errore della moglie in tempo bellamente riprendere.

Lionardo. E in che modo la riprendesti voi?

Giannozzo. Aspettai di riscontrarla sola, sorrisili e dissili: «Tristo a me, e come t’imbrattasti così il viso? Forse t’abattesti a qualche padella? Lavera’ti, che questi altri non ti dileggino. La donna madre della famiglia conviene stia netta e costumata, s’ella vuole che l’altra famiglia impari essere costumata e modesta». Ella me intese, lacrimò. Io gli die’ luogo ch’ella si lavasse le lacrime e il liscio. Dipoi ebbi mai di questo che dirgliene.

Lionardo. O moglie costumatissima! Di lei bene posso io credere che sendo a voi tanto ubbidiente e tanto in sé modesta, molto potesse rendere l’altra famiglia reverente e costumata.

Giannozzo. E così tutte le moglie sono a’ mariti obediente quanto questi sanno essere mariti. Ma veggo alcuni poco prudenti che stimano potere farsi ubidire e riverire dalle moglie alle quali essi manifesto e miseri servono, e dimonstrano con loro parole e gesti l’animo suo troppo lascivo ed effeminato, onde rendono la moglie non meno disonesta che contumace. A me mai piacque in luogo alcuno né con parole né con gesto in quale minima parte si fusse sottomettermi alla donna mia; né sarebbe paruto a me potermi fare ubidire da quella a chi io avessi confessato me essere servo. Adunque sempre mi li monstrai virile e uomo, sempre la confortai ad amare la onestà, sempre le ricordai fusse onestissima, sempre li ramentai qualunque cosa io conosceva degna sapere alle perfette madri di famiglia, e spesso gli dicea: «Donna mia, a volere vivere in buona tranquillità e quiete in casa, conviene che in prima sia la famiglia tutta costumata e molto modesta, la quale stima tu questo tanto sarà quanto saprai farla ubidiente e riverente. E quando tu in te non sarai molto modesta e molto costumata, sia certo quello quale tu in te non puoi, molto manco potrai in altri. E allora potrai essere conosciuta modestissima e bene costumatissima quando a te dispiaceranno le cose brutte; e gioverà questo ancora che quelli di casa se ne guarderanno per non dispiacerti. E se la famiglia da te non arà ottimo essemplo di continenza e costume interissimo, non dubitare ch’ella sarà poco a te ubidiente e manco riverente. La riverenza si rende alle persone degne. Solo e’ costumi danno dignità, e chi sa osservare dignità sa farsi riverire, e chi sa fare sé riverire costui facilmente si fa ubidire, ma chi non serba in sé buoni costumi, costui subito perde ogni dignità e reverenza. Per questo, moglie mia, sarà tua opera in ogni atto, parole e fatti essere e volere parere modestissima e costumatissima. E ramentoti che una grandissima parte di modestia sta in sapere temperarsi con gravità e maturità in ogni gesto, e in temperarsi con ragione e consiglio in ogni parola sì in casa tra’ suoi, sì molto più fuori tra le genti. Per questo, molto a me sarà grato vedere a te sia in odio questi gesti leggieri, questo gittare le mani qua e là, questo gracchiare quale fanno alcune treccaiuole tutto il dì e in casa e all’uscio e altrove, con questa e con quella, dimandando e narrando quello ch’elle sanno e quel ch’elle non sanno, imperoché così saresti riputata leggiere e cervellina. Sempre fu ornamento di gravità e riverenza in una donna la taciturnità; sempre fu costume e indizio di pazzerella il troppo favellare. Adunque a te piacerà tacendo più ascoltare che favellare, e favellando mai comunicare e’ nostri segreti ad altri, né troppo mai investigare e’ fatti altrui. Brutto costume e gran biasimo a una donna star tutto il dì cicalando e procurando più le cose fuori di casa che quelle di casa. Ma tu con diligenza quanto si richiede governerai la famiglia, e conserverai e adopererai le cose nostre domestiche bene».

Lionardo. E voi credo, come l’altre cose, così ancora gl’insegnasti il governo della famiglia.

Giannozzo. Non dubitare che io m’ingegnai farla in ogni cosa ottima madre di famiglia. Dissili: «Moglie mia, reputa tuo officio porre modo e ordine in casa che niuno mai stia ozioso. A tutti distribuischi qualche a lui condegna faccenda, e quanto vedrai fede e industria, tu tanto a ciascuno commetterai; e dipoi spesso riconoscerai quello che ciascuno s’adopera, in modo che chi sé essercita in utile e bene di casa conosca averti testimone de’ meriti suoi, e chi con più diligenza e amore che gli altri farà il debito suo, costui, moglie mia, non t’esca di mente molto in presenza degli altri conmendarlo, acciò che per l’avenire a lui piaccia essere di dì in dì più utile a chi e’ senta sé essere grato, e così gli altri medesimi studino piacere fra’ primi lodati. E noi poi insieme premiaremo ciascuno secondo e’ meriti suoi, e a quello modo faremo che de’ nostri ciascuno porti molta fede e molto amore a noi e alle cose nostre».

Lionardo. Ma pur, Giannozzo, poiché così si vede non solo de’ servi, ma de’ famigli ancora la maggiore parte sono non in tutto discreti, ché, se fussero di più industria e sentimento, non starebbono con noi, adatterebbonsi a qualche altro essercizio, per questo insegnasti voi alla donna come ella avesse a farsi ubidire e aversi con simile gente rozza e inetta?

Giannozzo. Sia certo ch’e’ servi son quanto e’ signori li sanno volere obedienti. Ma truovo alcuni, e’ quali vogliono ch’e’ servi sappiano ubidirli in quelle cose quali essi non sanno comandare, e altri sono che non sanno essere né farsi riputare signori. E stimate questo, figliuoli miei, che mai sarà servo sì ubidiente el qual v’ascolti se voi non saprete come signori loro comandare, né mai sarà servo sì contumace il quale non ubidisca, se voi saprete con modo e ragione essere signori. Vuolsi sapere da’ servi essere riverito e amato non meno che ubidito, e truovo io che a farsi riputare molto giova quello che io dissi alla donna mia facesse, che quanto manco potea manco stesse a ragionare con la fante, ancora e manco con famigli, imperoché la troppa dimestichezza spegne la reverenza. E dissili che loro spesso comandasse non come fanno alcuni, quali comandano a tutti insieme e dicono: «Uno di voi così faccia», e poi, dove niuno l’ubidisce, tutti sono in colpa e niuno si può correggere; e comandasse alle fante e a’ servi che di loro niuno uscisse di casa senza sua licenza, acciò che imparassino essere assidui e presti al bisogno; e mai desse a tutti licenza in modo che in casa non fusse al continuo qualcuno a guardia delle cose, a ciò che, se caso avenisse, sempre vi sia qualcuno aparecchiato. E per questo sempre a me piacque così ordinare la famiglia, che, a qualunque ora il giorno e la notte, sempre in casa fusse chi vegghiasse per tutti e’ casi quali alla famiglia potessono avenire. E sempre volsi in casa l’oca e il cane, animali destissimi e, come vedete, suspiziosissimi e amorevoli, acciò che l’uno destando l’altro e chiamando la brigata sempre la casa fusse più sicura. Così adunque soglio. Ma torniamo a proposito. Dissi alla donna mia mai a tutti desse licenza, e, quando rivenissono tardi volesse con modo, facilità e maturità saperne la cagione. E più li dissi:

«Perché spesso acade ch’e’ servi, quantunque obedienti e reverenti, pur tale ora sono tra loro discordi e gareggionsi, per questo a te, donna mia, comando sia prudente, né mai te inframettere in rissa o gare d’alcuno, né debbasi mai a chi si sia in casa dare ardire che faccia o dica più che a lui s’apartenga. E se tu, moglie mia, così vorrai provedere a questo, non porgere mai orecchie né favore ad alcuno raportamento o contendere di qualunque si sia, imperoché la famiglia gareggiosa mai può avere pensiero o voluntà ferma a bene servirti. Anzi chi reputa sé offeso o da quello rapportatore o da te ascoltatore, costui sempre sta con quello incendio in animo pronto a vendicarsi, e in molti modi cerca addurti a disgrazia quello altro, e così arà caro colui commetta in le cose nostre qualche grandissimo errore, per a quello modo cacciarlo; e se il pensiero gli riesce, esso piglia licenza e arte di fare il simile a chi altri e’ volesse. E chi potrà cacciare di casa nostra quale a lui talenterà, costui, moglie mia, non vedi tu che sarà non servidore, ma signore nostro? E se costui non potrà vincere, sempre la casa per lui sarà in tempesta, e dall’altro lato penserà in che modo perdendo l’amistà tua possa di meglio valersi, né per satisfare a sé molto si curerà del danno nostro; e a costui medesimo, partitosi da te, mai per iscusare sé mancherà materia da incolpare noi. Così adunque tenere uomo rapportatore e gareggiatore in casa vedi quanto sia danno; mandarlo vedi quanto a noi sia danno e vergogna. Agiugni che tenendolo, di dì in dì sarà forza mutare nuova famiglia, la quale, per non servire a’ nostri servi, cercherà nuovo padrone, onde quelli scusando sé infameranno te, e così tu resti pelle parole loro riputata superba e strana, o avara e misera».

E certo, figliuoli miei, delle gare de’ suoi di casa niuno può averne se non biasimo. Non sarà la casa gareggiosa, se chi la governa non è imprudente. Il poco senno di chi governa fa l’altra famiglia essere poco modesta e poco regolata, e così sempre sta perturbata, serveti peggio, perdine utile e fama non poca. Per questo debbono a’ padri della famiglia troppo dispiacere questi raportatori, e’ quali sono principio e cagione d’ogni gara, d’ogni discordia e rissa, subito li doverebbono cacciare; e troppo debba piacere vedersi la casa vòta d’ogni tumulto, piena di pace e concordia, quali cose ottime se vorranno bene potere quanto si richiede, faranno quanto dissi io alla donna mia, non daranno orecchie o arbitrio a raportamento o gare di qualunque si sia. E più dissi alla donna mia, se pure in casa fusse alcuno non ubidiente, quanto alla quiete e tranquillità della famiglia s’apartiene mansueto e fedele, con lui non contendesse né gridasse, imperoché in donna simile a te, dissi io, moglie mia, onestissima e degna di riverenza, troppo pare sozzo vederla con la bocca contorta, con gli occhi turbati, gittando le mani, gridando e minacciando, ed essere sentita, biasimata e dileggiata da tutta la vicinanza, dare di sé che dire a tutte le persone. Anzi, moglie mia, una donna d’autorità quale di dì in dì spero sarai tu, tanto quanto in te saprai servare modestia e dignità, sarebbe bruttissimo non dico solo amonendo, ma comandando ancora e ragionando mai alzare la voce, quale fanno alcune parlando per casa come se tutta la famiglia fusse sorda, o come volessero d’ogni sua parola tutta la vicinanza esserne testimone: segno d’arroganza e costume di trecca, usanza di queste fanciulle montanine, quali sogliono chiamare gridando per essere intese da questo monte a quello. Vuolsi adunque, dissi io, moglie mia, amonire con dolcezza in ogni atto e parole, essere non però vezzosa e leziosa, ma molto mansueta e continente, comandare con ragione e in modo che non solo sia fatto quanto comandi, ma usare comandando, quanto patisce la dignità tua, ogni facilità e modestia, e in modo che chi ubidisce faccia il debito suo volentieri con molto amore e con intera fede.

Lionardo. Quali documenti più si possono trovare altrove utilissimi a informare una ottima madre di famiglia quanti sono questi di Giannozzo, el quale prima insegna parere ed essere onestissima e continentissima, insegnali farsi ubidire, temere, amare e riverire? O noi beati mariti, se quando aremo moglie sapremo con questi vostri ricordi, Giannozzo, fare le nostre donne simili alla vostra in tante virtù lodatissima! Ma poiché voi così a lei monstrasti quanto si gli richiedea onestà e regola a contenere la famiglia, monstrastili voi ancora conservare e bene usare le cose?

Giannozzo. Apunto, io vi farò qui ridere.

Lionardo. Come, Giannozzo?

Giannozzo. Lionardo mio, come quella la quale era di pura simplicità e d’ingegno non malizioso, stimandosi già essere prudente madre di famiglia pelle cose quali da me ella con sì grande attenzione avea comprese, dicendoli io che a una madre di famiglia non solo era sufficiente il volere fare il debito suo, se ella insieme ancora non sapea bene quanto bisognava essequire, e domandandola se in questo fusse esperta, quanto dalla madre sua avesse veduto in procurare le cose domestice che niuna andasse a male, disse la simplice che in questo credea assai da sé poterne essere quasi maestra. «Ben, moglie mia», dissi io, «piacemi ti proferisca a me molto esperta quanto stimo in te sia proposito averti compiuta buona madre di famiglia in tutte le cose. Ma, che Dio a te sia favorevole a questa tua buona voluntà e conservi in te molta onestà, moglie mia, come faresti tu?».

Lionardo. Che rispuose ella?

Giannozzo. Rispuosemi presto lieta lieta, ma pur col viso alquanto rosato con qualche fiammolina di verecundia. «Farò io bene», disse ella, «tenendo ogni cosa bene serrata?». «Mainò», dissi io. E vedi, Lionardo mio, quale essemplo mi occorresse a mente stimo ti piacerà. Dissili: «Donna mia, se tu nel tuo forziere nuziale insieme colle veste della seta e con tuoi ornamenti d’oro e gemme ponessi la chioma del lino, ancora v’asettassi il vasetto dello olio, ancora vi chiudessi entro e’ pulcini e tutto serrassi a chiave, dimmi, ti parrebbe averne forse così buona cura perché sono bene serrate?» Ella fermò il guardare suo basso a terra, e tacendo parea dolersi troppo essere stata ratta e subita a rendermi risposta. Io allora non poco fui in me stessi lieto, vedendo in lei quello ornatissimo pentirsi, quale a me diede indizio a persuadermi che se lei pensava essere paruta troppo a rispondermi leggiere, ella pell’avenire curarebbe nelle parole e ne’ fatti di dì in dì essere più matura e più grave. Pure doppo un poco questa con una tardità umile e molto onestissima su levò verso me gli occhi e tacendo sorrise. E io: «Come ti parrebbe dalle vicine tue esserne lodata, se quando elle venendo a salutarti in casa trovassino te avere sino alle predelle serrato? E ben sai, moglie mia, che collocare e’ pulcini in mezzo il lino sarebbe dannoso, porre l’olio apresso delle veste sarebbe pericoloso, e serrare le cose le quali tutta ora s’adoperano in casa sarebbe poca prudenza. Però bisogna che non tutte le cose sempre stiano quanto dicevi serrate, ma sia quanto si richiede ciascuna a’ luoghi suoi, e non solo ne’ luoghi suoi, ma in modo ancora che l’una non possa essere nociva all’altra. E così tutte si rasettino in lato ove ciascuna per sé molto si salvi, molto sia presta e apparecchiata a’ bisogni con quanto manco si possa ingombro della casa. E tu hai veduto, dissi io, donna mia, ove ciascuna per sé abbia a stare, e se a te parrà forse altrove stessono più assettate, più apparecchiate e più serrate, pènsavi bene e rassettale meglio. E se tu vorrai che nulla vada a male, fa’, subito che sarà la cosa adoperata, subito si riponga nel luogo suo, acciò che quando altra volta accaderà d’adoperalla, questa si possa subito rinvenire, e s’ella si smarrisse o fosse prestata a qualche amico, tu subito vedendo il luogo suo vacuo conosca in che modo ella manchi e subito studii di riaverla, che per negligenza non si perda, e poi riavutola tu la rasegnerai al luogo suo, ove, se sarà da tenerla serrata, comanderai si serri e rendasi le chiavi a te, però che tu, moglie mia, hai a custodire e mantenere ciò che sta in casa. E per bene potere questo, a te conviene non tutto il dì sedendo starti oziosa colle gomita in sulla finestra, quale fanno alcune mone lentose, quali per suo scusa tengono il cucito in mano che mai viene meno. Ma pigliati questo piacevole essercizio di rivedere ogni dì più volte da sommo a imo tutta la casa, rinumerare se le cose sono ne’ luoghi loro, e conoscere ciascuno quanto s’adoperi, lodare più chi meglio faccia il debito suo, e se quello che fa costui meglio si potesse in altro modo fare, informarlo: al tutto sempre fuggire l’ozio, sempre in qualche cosa essercitarti, imperoché questo essercizio molto gioverà alla masserizia, e molto anche a te sarà utilissimo, ché poi cenerai con migliore appetito, sara’ne più sana, più colorita, fresca e bella, e la famiglia ne sarà più regolata, non potranno così scialacquare la roba».

Lionardo. Certo dite il vero. Quando e’ famigli non temono essere veduti, né hanno chi gli rasegni, quelli allora gettano via più molto che non logorano.

Giannozzo. Ancora ivi surge maggiore danno, diventano ghiotti e lascivi, e dalla negligenza de’ padri della famiglia pigliano licenza e ozio a maggiori vizii. Però dissi io alla donna mia, quanto potesse fusse diligente provedendo che in casa si distribuisse le cose con ragione e ordine, e che per casa non sofferisse essere alcuna cosa in uso la quale fusse più che al bisogno s’apartenesse superflua, ma scemasse ogni superchio e quello facesse riporre in luogo salvo; se fusse disutile, lo desse a vendere, e sempre più si dilettasse di vendere che di comperare, e de’ danari comperasse solo cose necessarie alla famiglia.

Lionardo. Insegnastili voi conoscere quando qualche cosa si dovesse giudicare superchia?

Giannozzo. Feci. Dissili: «Donna mia, ogni cosa senza la quale onestamente si può a’ nostri bisogni supplire, quella si vuole stimare superchia, e vuolsi non lasciarla per casa alle mani di tutti, ma riporla: come gli arienti, quali in casa ogni dì non s’adoperano, ripo’gli, assettali ne’ luoghi loro, e quando noi onoraremo gli amici, tu allora ne ornerai la mensa. E così quello che s’adopera solo il verno provederai non stia per casa la state, e quello che si adopera solo la state conviene stia riposto il verno; e quanto di qualunque cosa nell’uso nostro domestico potrai onestamente scemare, stima ivi tutto quello esservi troppo. Però scemalo, ripollo e serbalo».

Lionardo. E per serballo desti voi alla donna regola alcuna?

Giannozzo. Sì, diedi questa. Dissili: «Bisogna per conservare le cose prima provedere che da sé a sé quelle non si guastino, poi guardalle che da altri non fussino magagnate o destrutte. Pertanto in prima bisogna riporre ciascuna in luogo atto a molto mantenerla, come il grano in luogo fresco, scoperto da tramontana, el vino in luogo dove né caldo né freddo superchio, né vento né cattivo alcuno odore vi possa nuocere; e conviensi spesso rivedella, che se per caso alcuno incominciassi a corrompersi, subito si possa o risanarla o prima adoperarla che in tutto ella sia fatta disutile, o per modo medicarla ch’ella tutta non si perda; poi sarà necessario tenerle chiuse in parte che non a ogni persona sia licito aoperarla e logorarla». Adunque così li dissi; in questo non biasimerei se le cose da serbare, per non le lasciare in mano e uso della brigata, si serrassino ne’ luoghi loro colle chiavi, e lodarei le chiavi tutte stessono apresso della madre di famiglia, la quale osservasse ch’elle non andassono per troppe mani, anzi le tenesse tutte apresso di sé; solo quelle chiavi quali s’adoperassino tutta ora, come della cella e della dispensa, queste consegnasse a uno de’ più assidui in casa e più fidato, più onesto, più costumato, più amorevole e massaio verso le cose nostre.

Lionardo. E a questo desse quelle chiavi, che andasse in su in giù portando quanto bisogna?

Giannozzo. Sì, ancora perché sarebbe una ricadia alla donna dare e richiedere le chiavi sì spesso. Ma dissi: «Donna mia, ordina che le chiavi sempre siano in casa, per non aver cercando ad indugiare se forse bisognasse, e ordina che al tempo costui apparecchi in modo che la brigata tutto abbi ciò che bisogna a fuggire la sete e la fame, però che loro mancando questo, ci servirebbono male e non procurerebbono con diligenza le cose nostre. A’ sani farai dare le cose buone, acciò che di loro niuno infermi; e’ non sani farai molto governare, e con molta diligenza curerai che tornino a sanità, imperò che egli è masserizia presto guarirli; mentre che giacessoro, tu non saresti servita e arestine spesa. Quando e’ saranno sani e liberi, e’ ti serviranno con più fede e con più amore. Sì che, donna mia, così farai ciascuno in casa abbia quello che a lui bisogna». Così li dissi, e agiunsi ancora questo: «Moglie mia, acciò che a questo e agli altri domestici bisogni non manchi le cose, fa in casa come fo io nel resto fuori di casa. Pensa molto prima quale cosa possa bisognare, poni mente quanto di ciascuna sia in casa, quanto quella soglia bastare, quanto sia durata, e quanto ancora all’uso nostro possa supplire; e a quello modo bene comprenderai ove sia da provedere, e subito me lo dirai molto prima che quella a noi in casa scemi afatto, acciò che io possa di fuori trovare del migliore e con minore spesa. Sì, quello che si compera in fretta le più volte sarà male stagionato, mal netto, guastasi presto, costa più, e così se ne getta via altretanto più che non se n’adopera».

Lionardo. E la donna così faceva, prevedeva e avisava?

Giannozzo. Sì, e per questo sempre io avevo spazio a procacciarne del migliore.

Lionardo. Trovate voi masserizia in comperare sempre del migliore?

Giannozzo. E quanto grande! Se tu manometti il vino forte, el salato guasto, o qualunque altra cosa non buona a pascere la famiglia, non so come veruno sappia farne riserbo. Gettasi, versasi, niuno se ne cura, ciascuno se ne duole, e per questo ti serve di peggio, ascrivonti questo ad avarizia, chiàmanti misero. Adunque ne ricevi danno e infamia, e così chi non ama le cose tue triste impara poco amare e riverire te. Ma se tu hai il vino buono, il pane migliore, l’altre cose competente, la famiglia sta contenta e lieta a servirti. Il dispensatore fa delle buone cose masserizia, e delle cattive insieme con gli altri si duole; e per ciascuno de’ tuoi le cose buone si riguardano, e dagli strani molto ne se’ onorato, e durano sempre le cose buone più che le non buone. Eccoti questa mia cioppa quale io tengo in dosso. Qui già sotto ho io consumato più e più anni, poiché io me la feci persino quando maritai la prima mia figliuola, e fui di questa onorevole parecchi anni le feste; testé per ogni dì ancora vedi quanto ella sia non disdicevole. Se io allora non avessi scelto il migliore panno di Firenze, io dipoi n’arei fatte due altre, né però sarei stato di quelle onorevole come di questa.

Lionardo. Ben si suole dire le cose buone meno costano che le non buone.

Giannozzo. Non dubitare, egli è verissimo. Le cose quanto sono migliori tanto più durano, tanto più ti onorano, tanto più ti contentano, tanto più si riguardano. E voglionsi avere in casa le cose buone, e averne in copia quanto basti. E quello detto d’alcuni e’ quali dicono essere meglio carestia di piazza che dovizia di casa, mi pare solo vero in una famiglia disordinata e sanza regola. Ma chi per tempo e con ordine sa regolare sé e’ suoi, a costui giova avere la casa doviziosa e abondante d’ogni bene. Né si potrebbe dire a mezzo quanto in ogni cosa sia nocivo il disordine, e per contrario utilissimo l’ordine, né so quale più sia alle famiglie dannoso o la straccuraggine de’ padri o il disordine della famiglia.

Lionardo. Dicesti voi alla donna di questo ordine quanto bisognava?

Giannozzo. Nulla rimase adrieto. Più e in più modi lodai l’ordine e biasimai il disordine, quali modi testé sarebbe lungo recitarli. Monstra’li che l’ordine era necessario, come con l’ordine si facevano le cose leggiermente e bene, e doppo molte ragioni io diedi questa similitudine: dissi: «Eh! moglie mia, se il dì solenne della grande festa tu uscissi in publico e mandassiti inanzi le fanti e le serve, tu poi seguissi drieto cortese, e fussi vestita col broccato, e avessi il capo fasciato come quando tu vai a posarti, e portassi cinta la spada e in mano la rocca, come ti parrebbe esserne lodata? Quanto ne saresti tu onorata?».

Lionardo. Considerate voi, Battista e tu Carlo, quanto in sé abbino forza queste similitudini insieme e quanta grazia. Ma che vi rispuose ella, Giannozzo?

Giannozzo. «Certo», disse ella, «trista a me, in quello abito mi riputeresti pazza». «Però», li dissi io, «moglie mia, si vuole avere ordine e modo in tutte le cose. A te non sta portare la spada, né come gli uomini fare l’altre cose virili, né ancora alle donne sta bene in ogni luogo e a ogni tempo fare ogni cosa licita alle femmine, come tu vedi che tenere la rócca, portare el broccato, avere il capo fasciato non si conviene se non ciascuno a’ tempi e a’ luoghi suoi. Ma sia tuo officio, donna mia, essere la prima inanzi a tutto il resto della famiglia, non con superbia, ma con molta umanità, e con ogni diligenza avere a tutto buono ordine e buona cura, e provedere che le cose siano in uso a’ tempi dovuti, per modo che quello el quale s’afaceva all’autunno non si consumi il maggio, e quello dovea bastare uno mese non si logori in uno dì».

Lionardo. Come vi parse la donna bene animata a fare quante cose voi contavi?

Giannozzo. Ella pure stava non poco in sé sospesa. Per questo li dissi: «Moglie mia, queste cose quali io dico, se tu disporrai di farle, tutte verranno a te leggiermente fatte. Non ti paia grieve fare quello di che tu sarai lodata; più tosto ti pesi lasciare adrieto quello quale non faccendo saresti biasimata. Credo io sino a qui tu, in ciò che io t’ho detto, abbia inteso me senza alcuna fatica, e piacemi. Dicoti, come queste a te sono state leggieri ad imparare, così molte saranno dilettose a farle, ove tu amando me, desiderando l’utile nostro, qui porrai l’animo a fare con ordine e diligenza quanto da me tutto il dì imparerai. E, moglie mia, quello che tu farai volentieri, per difficile che sia, ti verrà fatto bene. Sempre quello che si fa non volentieri, per facile che sia, non si fa bene. Non però voglio tu sia quella che facci ogni cosa, no. Molte cose a te sarebbono male a fare, sendovi altri che le facesse, ma a te sta nelle cose più infime comandare, e in tutte, quanto spesso ti dico, conoscere in casa quello che ciascuno s’adoperi».

Lionardo. O buoni e santissimi amaestramenti, quali desti alla donna vostra: fusse e volesse parere onesta, comandasse e facessesi riverire, curasse l’utile della famiglia e conservasse le cose domestice! E quanto li dovesti voi parere uomo da gloriarsi esservi moglie!

Giannozzo. Sia certo, ella conobbe che io li dissi il vero, comprese quanto io diceva per sua utilità, intese me essere più savio di lei; però sempre mi portò grandissimo amore e molta riverenza.

Lionardo. Quanto fa, quanto è il sapere ammaestrare e’ suoi! Ma quanto vi parse ella avervene grazia?

Giannozzo. La maggiore. Anzi solea dire spesso tutte le ricchezze sue, tutte le fortune sue essere in me, e con l’altre donne sempre dicea che io era e’ suoi ornamenti. E io dicea: «Donna mia, gli ornamenti tuoi e le bellezze tue saranno la modestia, il costume, e le ricchezze tue staranno nella tua diligenza; però più si loda in voi donne la diligenza che la bellezza. Mai fu la casa per vostra bellezza ricca, ma sì spesso diventa per diligenza ricchissima. Pertanto tu, donna mia, e sarai e desidererai parere più diligente, modesta e costumata che bella, e a quello modo ogni tuo bene sarà in te».

Lionardo. Queste parole la doverono incendere per modo che tutti e’ suoi pensieri, tutto el suo ingegno mai dovea restare di fare ogni cosa quale vi piacesse, sempre studiarsi e sollicitarsi in procurare bene ogni cosa, mai dovea requiare di provedere a tutto per monstrare sé essere diligente e amorevole quanto ella dovea.

Giannozzo. Ella pure da prima era alquanto timidetta in comandare, come quella ch’era usata ubidire alla madre, e ancora la vedeva oziosetta, e pareva alquanto starsi malinconosa.

Lionardo. E a questo non rimediasti voi?

Giannozzo. Rimediai. Quando io giugneva in casa, io la salutava con apertissimo fronte, acciò che ella vedendo me lieto ancora si rallegrasse, e vedendo me stare tristo non avesse cagione di contristarsi. Dipoi li dissi come el compar mio, uomo prudentissimo, solea subito tornando in casa avedersi se la moglie sua, la quale era ritrosissima, avesse conteso con alcuno, non ad altro segno se non quando e’ vedea ch’ella fusse meno che l’usato lieta. E qui, molto biasimandoli el contendere in casa, io affermava che le donne sempre doverebbono in casa stare liete, e questo sì per non parere diverse come la comare e contenziose, sì ancora per più piacere al marito. Una donna lieta sempre sarà più bella che quando ella stia accigliata. «E ponvi mente tu stessi, moglie mia», dissi io, «quando io torno in casa con qualche acerbo pensiero, che spesso accade a noi uomini perché conversiamo e abbattiànci a’ malvagi maligni e a chi ci inimica, tu, così vedendomi turbato, tutta in te t’atristi e dispiaceti. Così stima interviene e molto più a me, perché so tu non puoi avere in animo alcuna acerbità se non di cose quali vengono solo per tuo mancamento. A te non accade se non vivendo lieta farti ubidire e procurare l’utile della nostra famiglia. Per questo mi dispiacerebbe vederti non lieta, ove io comprenderei con quello tuo attristirti confesseresti avere in qualche cosa errato». Questo e molte simili cose atte alla materia più volte li dissi, confortandola al tutto fuggisse ogni tristezza, sempre a me, a’ parenti e agli amici miei si porgesse con molta onestà, lieta, amorevole e graziosa.

Lionardo. E’ parenti assai credo essa potea conoscere quali fossino, ma non so quanto a una giovinetta di quella età sia facile discernere chi sia amico, ove troviamo in la vita quasi niuna cosa più difficilissima che in tanta ombra di fizioni, in tanta oscurità di voluntà, e in tante tenebre d’ errori e vizii, quanto da ogni parte abondano, scorgere quale ti sia vero amico. Per questo a me sarebbe caro sapere se voi alla donna vostra insegnasti conoscere chi vi fusse amico.

Giannozzo. Non l’insegnai conoscere, no, chi mi fosse amico, però che, come tu di’, così questo a me pare cosa incertissima e molto fallace intendere l’animo d’uno se m’è vero amico o no. Ma io bene alla donna insegnai conoscere chi ci fosse inimico, e poi appresso l’insegnai chi ella dovesse riputare amico. Dissili: «Non stimare, moglie mia, uomo alcuno mai essere nostro amico el quale tu vegga cercare contro all’utile nostro; e stima colui essere inimicissimo il quale cerchi cosa alcuna contro al nostro onore, imperoché più a noi debba essere caro molto l’onore che la roba, più la onestà che l’utile. Manco ci farà danno chi a noi torrà qualche cosa, che chi ci darà infamia. E perché, moglie mia, in due modi si vive contro alli inimici, o superchiandoli con forza, o fuggendoli ove tu sia più debole, agli uomini giova adoperare la forza vincendo, ma alle donne non resta se non il fuggire per salvarsi. Fuggi adunque, non mai porre occhio a niuno nostro inimico, ma riputa amico qualunque io in presenza onoro e in assenza lodo». Così li dissi. Dipoi ella così facea. Era onestissima, lieta, governava con modo, procurava con molta diligenza tutta la famiglia. Ma in questo peccava, che alcuna volta, per parere troppo diligente, si sarebbe data a fare una o una altra cosa infima, e io subito gliele vietava, diceali questo comandasse ad altri, e comandando facesse valere sé apresso e’ suoi, in qualunque modo avendosi per casa come si richiede patrona e maestra di tutti, e fuori di casa ancora cercasse acquistare in sé qualche dignità; e per questo qualche volta ancora, per prendere in sé qualche autorità e per imparare comparire tra la gente, si porgesse fuori aperto l’uscio con buona continenza, con modo grave, per quale e’ vicini la conoscessoro prudente e pregiassoro, e così e’ nostri di casa molto la riverissono.

Lionardo. Così a me pare ragionevole la donna sia riverita.

Giannozzo. Anzi fu sempre necessario questo. Se la donna non si fa riverire, la famiglia non cura e’ comandamenti suoi, e ciascuno fa le cose a sua voglia, sta la casa perturbata e male servita. Ma se la donna sarà desta e diligente alle cose, tutti e’ suoi la ubidiranno. S’ella sarà costumata, tutti la riveriranno.

In questo ragionamento Adovardo discese verso noi. Giannozzo e Lionardo si levorono incóntroli a salutarlo. Carlo e io subito ascendemmo, se cosa fusse bisognata a nostro padre per vederlo. Trovammo e’ famigli aveano in comandamento stare in sull’uscio fuori della camera che niuno là entro entrasse. Maravigliammoci e subito ritornammo giù ove Adovardo rispondeva a Giannozzo come Ricciardo era tutta questa mattina stato a rinvenire scritture e commentarii secreti, e che ora così era rimaso con Lorenzo per essere con lui solo insieme, e che Lorenzo molto gli parea migliorato. Allora disse così Giannozzo: — Se io avessi così stimato Ricciardo essere stamani infaccendato, non mi sarei qui tanto indugiato, anzi in questo mezzo sarei ito a riverire Iddio e adorare il sacrificio, come già molti anni sempre fu mia usanza fare ogni mattina.

Adovardo. Costume ottimo, e vuolsi prima cercare la grazia d’Iddio chi desidera essere quanto siete voi agli uomini grato e accetto.

Giannozzo. Così mi pare condegno rendere grazia a Dio de’ doni quali la sua pietà sino a qui ci concede, e pregarlo ci dia quiete e verità d’animo e di intelletto, e pregarlo ci conceda lungo tempo sanità, vita, e buona fortuna, bella famiglia, oneste ricchezze, buona grazia e onore tra gli uomini.

Adovardo. Sono queste le preghiere quali porgete a Dio?

Giannozzo. E sono, e ogni mattina così soglio. Ma costoro stamani qui m’hanno tenuto. Fuggitosi il tempo ragionando, non ce ne siamo acorti.

Lionardo. Stimate, Giannozzo, questo vostro officio di pietà essere gratissimo a Dio non meno che se fossi stato al sacrificio, avendoci insegnato tante buone e santissime cose.

Adovardo. Che ragionamenti sono stati e’ vostri?

Lionardo. E’ più nobili, Adovardo, e’ più utili; e quanto ti sarebbe piaciuto avere udito infiniti perfettissimi suoi ragionamenti!

Adovardo. Bene so io, dove tu sia, mai si ragiona di cose se non molto nobilissime, e conosco in tutti e’ suoi ragionamenti Giannozzo essere da udirlo molto volentieri.

Lionardo. In tutte l’altre cose sempre fu Giannozzo da essere ascoltato, ma in questa una più che nell’altre ti sarebbe veduto e da ’scoltarlo e da maravigliartene, tante sono state le sue sentenze alla masserizia elegantissime e maturissime, innumerabili, inaudite.

Adovardo. Quanto vorrei esserci stato!

Lionardo. Gioverebbeti, ché aresti inteso come la masserizia non manco sta in usare le cose che in serballe, e come quelle delle quali si dee fare più che dell’altre masserizia sono le cose più che tutte l’altre proprie nostre; e aresti udito come la roba, la famiglia, l’onore e l’amicizie non in tutto sono nostre, e aresti impreso in che modo di queste si debba essere massaio; giudicaresti questo dì esserti felicissimo.

Adovardo. Duolmi altrove essere stato occupato, ché niuna cosa a me sarebbe più cara che avermi trovato con questi vostro discipolo, Giannozzo, a imparare quel che oggimai m’accade, diventare buono massaio, ché così mi pare si convenga a noi, quanto prima diventiamo padri, crescendo in famiglia simile si cresca in masserizia.

Giannozzo. Non ti lasciare così leggiere persuadere, Adovardo, quello che non è. Lionardo qui sempre fu in me troppo affezionato, e forse gli sono piaciuto ragionando della masserizia, la quale cosa per ancora non gli accade interamente provare; piacegli udirne come di cosa nuova. E se io sono a lui in questi nostri passati ragionamenti piaciuto più che le mie parole né meritavano, né cercavano, non lo imputate a me, ma giudicate che la troppa affezione di Lionardo in me fa che ogni mia parola gli pare sentenziosa. Di mie parole che grazia posso io porgere apresso di voi litterati e studiosi, i quali tutto il dì leggete e vedete divini ingegni, trassinate sentenze nobilissime, trovate detti prudentissimi apresso quelli vostri antichi, le quali cose in parte alcuna non sono in me? Ben mi sono certo ingegnato dire cose utili, quali dirle con eloquenza, con ordine, intesservi essempli, adducervi autorità, ornalle di parole, come solete dire voi che bisogna, arei né saputo né potuto; ché mi conoscete sono idiota. Quello che io volessi dire d’altra cosa in quale io sono meno pratico non sarebbe degno d’audienza, né anche quello della masserizia si potesse per me narrare sarebbe se non quanto per lunga pruova così truovo essere utile; sì che dicoti, Adovardo mio, non ti dolga non ci essere stato. Tu hai moglie e figliuoli; pruovi e conosci di dì in dì quello medesimo quale ho conosciuto io, e quanto tu hai più ingegno di me insieme e più dottrina, tanto più e presto e meglio da te a te comprenderai e’ bisogni, il modo, l’ordine e tutto quello si richiede alla masserizia.

Adovardo. Né Lionardo stima di voi più che vi meritiate, né voi ragionando della masserizia potresti parlare se non utilissimo. E arei io caro per altre cagioni avervi udito, e per questa ancora, per riconoscere se l’opinione mia fusse simile al giudicio vostro.

Giannozzo. Potrei io giudicare di cosa alcuna se non ben volgare e aperta? E potrei io, Adovardo, interpormi in causa alcuna ove il tuo sentimento, le tue lettere non ponessoro il giudicio tuo molto di sopra al mio? Io sempre sono stato contento non più sapere che quanto mi bisogna, e a me basta intendere quello che io mi veggo e sento tra le mani. Voi litterati volete sapere quello che fu anni già cento, e quello che sarà di qui doppo a sessanta, e in ogni cosa desiderate ingegni, arte, dottrina ed eloquenza simile alle vostre. Chi mai potesse satisfarvi? Io certo no. Di quelli non sono io. E dicovi tanto, forse mi può essere caro tu, Adovardo, non ci sia stato presente, non perché io stimi da meno il giudicio di Lionardo che il tuo, Adovardo, ma perché così arei avuto a satisfare a due voi litterati; ove forse avessi voluto parervi quello che io non sono, io arei detta qualche sciocchezza, e molto più mi sarei vergognato sentendomi non potervi satisfare.

Lionardo. Siate certo, Giannozzo, che, ragionando voi della masserizia, in qualunque luogo e’ litterati non fastidiosi vi udirebbono volentieri, né so chi desiderasse in voi altro stile né altra copia d’ingegno né altro ordine d’eloquenza.

Adovardo. Certo non che io avessi desideratovi altra copia, ma io mai arei stimato, e dicoti il vero, Lionardo, mai arei creduto la masserizia in sé avesse tanti membri quanti tu dicevi che Giannozzo la distinse.

Lionardo. Non ne dissi a mezzo.

Adovardo. Come?

Lionardo. Molte più cose: in che modo alla famiglia bisogna la casa, la possessione, la bottega, per avere dove tutti insieme si riducano per pascere e vestire e’ suoi, e come di queste si debba esserne massaio.

Adovardo. E della moneta dicesti vo’ come o quale masserizia se n’abbia a fare?

Giannozzo. Che bisogna dirne, se non come dell’altre cose? Spendansi alle necessità, l’avanzo si serbi, se caso venisse servirne all’amico, al parente, alla patria.

Adovardo. E vedete, Giannozzo, diversa opinione quale io stimava, e forse poteva non senza ferma ragione così giudicare, che a uno massaio bisognasse non altro più che fare buona masserizia del danaio. E potea me muovere questo, che pur si vede il danaio essere di tutte le cose o radice, o esca, o nutrimento. Il danaio niuno dubita quanto e’ sia nervo di tutti e’ mestieri, per modo che chi possiede copia del danaio facilmente può fuggire ogni necessità e adempiere molta somma delle voglie sue. Puossi con danari avere e casa e villa; e tutti e’ mestieri, e tutti gli artigiani quasi come servi s’afaticano per colui il quale abbia danari. A chi non ha danari manca quasi ogni cosa, e a tutte le cose bisogna danari; alla villa, alla casa, alla bottega sono necessarii i servi, fattori, strumenti, buoi, e simili altre, le quali cose non si posseggono e ottengono senza spendere danari. Se adunque il danaio supplisce a tutti i bisogni, che fa mestiere occupare l’animo in altra masserizia che in sola questa del danaio? E ponete mente, Giannozzo, in queste nostre fortune acerbissime, in questo nostro essilio ingiustissimo, ponete mente la famiglia nostra Alberta, quelli i quali si truovano avere danari quante sofferino manche necessitati che se fossino stati copiosi di terreni. Quanta ricchezza manca a’ nostri Alberti qui fuori di casa nostra, per avere in casa speso il grande danaio in mura e terreni! Giudicate voi stessi quanto sarebbe maggiore il nostro avere, se noi così avessimo potuto portarne gli edificii e i molti nostri campi drietoci come fatto abbiamo il danaio. Stimerete voi forse a noi non fosse testé più utile qui trovarci in danari anoverati quello che là oltre vagliono quelle nostre molte possessioni?

Giannozzo. Bene a me sogliono questi vostri litterati parere troppo litigiosi. Niuna cosa si truova tanto certa, niuna sì manifesta, niuna sì chiara, la quale voi con vostri argomenti non facciate essere dubia, incerta, e oscurissima. Ma testé meco o piacciavi come tra voi solete disputare, o piacciavi vedere in questo che opinione sia la mia, conosco a me essere debito risponderti più per contentarne te, Adovardo, che per difendere alcuna opinione. Io non ti voglio negare, Adovardo, che per sopplire alle necessità e per satisfare alle nostre voglie il danaio non vaglia assai, ma io non ti confesserò però, benché io avessi danari, che ancora a me non manchino molte e molte cose, le quali non si truovano tutte ora apparecchiate a’ bisogni, o sono non sì buone, o costano superchio. E quando le bene costassino vili, a me sarà più grato pigliarmi fatica piacevole in governare le mie possessioni, la mia casa io stessi, e ricormi quello mi bisogna, che d’avere prima al continuo fatica in contenere e’ danari, poi avere travaglio in trovare le cose di dì in dì, e in quelle spendere molto più che se io me l’avessi stagionate in casa. E se non fusse in queste nostre avversità tu qui senti a te più commodo il danaio che le possessioni altrove, stimo ne giudicaresti quello che io medesimo, e avendo quanto fusse assai per satisfare alle necessità e alle voglie tue e della famiglia tua, tu credo non troppo ti cureresti del danaio. Quanto io, mai seppi a che fusse utile il danaio altro che a satisfare a’ bisogni e volontà nostre.

Ma vedi ora quanto io sia da te più oltre in diversa opinione, se tu più stimi utili i danari ch’e’ terreni: ove tu truovi te manco avere perduto danari che possessioni, ti pare egli però ch’e’ danari si possino meglio serbare che le cose stabili? Parti però più stabile ricchezza quella del danaio che quella della villa? Parti più utile frutto quello del danaio che quello de’ terreni? Quale sarà cosa alcuna più atta a perdersi, più difficile a serbare, più pericolosa a trassinalla, più brigosa a riavella, più facile a dileguarsi, spegnersi, irne in fummo? Quale a tutti quelli perdimenti tanto sarà atta quanto essere si vede il danaio? Niuna cosa manco si truova stabile, con manco fermezza che la moneta. Fatica incredibile serbar e’ danari, fatica sopra tutte l’altre piena di sospetti, piena di pericoli, pienissima di infortunii. Né in modo alcuno si possono tenere rinchiusi e’ danari; e se tu gli tieni serrati e ascosi, sono utili né a te né a’ tuoi: niuna cosa ti si dice essere utile se non quanto tu l’adoperi. E potrei ancora racontarti a quanti pericoli sia sottoposto il danaio: male mani, mala fede, malo consiglio, mala fortuna, e infinite simili altre cose pessime in uno sorso divorano tutte le somme de’ danari, tutto consumano, mai più se ne vede né reliquie né cenere. E in questo, Lionardo e tu Adovardo, parvi forse che io erri?

Lionardo. Quanto io, sono in cotesta medesima sentenza.

Adovardo. In chi diciavate voi, Giannozzo, tanto essere forza d’argomentazioni che ogni ferma sentenza dicendo pervertiva? In noi forse litterati? Quanto io, non però vorrei non sapere quali mi dilettano lettere. Ma se i litterati sono quelli e’ quali sanno quanto voi dite con argomenti rivolgere ogni cosa e monstralla contraria, certo in me si può giudicare niuna lettera, tanto testé mi manca ogni ridutto da confutare e’ vostri argomenti. Ma per non mi arendere così tosto, ché sapete, Giannozzo, sempre fu più lodo vincere chi si difende che vincere chi subito s’abandoni, io, non per concertare ma più tosto per perdere virilmente, dico ch’e’ vostri argomenti non però in tutto mi satisfanno. Non saprei addurvi altra ragione, se non quanto mi pare che ’l corso e impeto della fortuna così se ne porta le possessioni come il danaio, e forse tale ora in luogo rimangono ascose e salve le pecunie, ove le possessioni e gli edificii in palese sono da guerre, da inimici, con fuoco e con ferro disfatte e perdute.

Giannozzo. Ancora mi piace, com’e’ pratichi buoni combattenti adoperano per vincere non meno astuzia che forza, e tale ora monstrano fuggire per condurre il nimico in qualche disavantaggio, così tu meco qui mostri accedermi, e pur ti fortifichi più tosto d’astuzia che di fermezza. Ma voglio di questo lasciarne il giudicio a te. Non temo da voi alcune insidie come forse dovrei. Considera, Adovardo, che né mani di furoni, né rapine, né fuoco, né ferro, né perfidia de’ mortali, né, che ardirò io dire, non le saette, il tuono, non l’ira d’Iddio ti priva della possessione. Se questo anno vi cascò tempesta, se molte piove, se troppo gelo, se venti, o calure, o secco corruppero e riarsero le semente, a te poi seguita uno altro anno migliore fortuna, se non a te, a’ figliuoli tuoi, a’ nipoti tuoi. A quanti pupilli, a quanti cittadini sono più state utili le possessioni ch’e’ denari! Per tutto se ne vede infiniti essempli. E quanti falliti, e quanti corsali, e quanti rapinatori hanno saziati e’ danari de’ nostri Alberti! Somme inestimabili, somme infinite, ricchezze da nolle credere tutte fatte con nostra perdita. E volesse Dio si fussero spesi in praterie, in boschi o grippe più tosto, che almanco pur sarebbono dette nostre, almanco si potrebbe sperare a migliore nostra fortuna di riavelle. Stimate adunque il danaio non essere più che le possessioni utile; stimate alla famiglia essere e utile e necessario la possessione. Né so conoscere io il danaio a che sia trovato se non per spendere, per a quello cambio riceverne cose. Tu, vero, avendo le cose, che ti bisogna il danaio? E hanno le cose questo in sé più, che le truovano e’ danari, suppliscono al bisogno. Ma non ci aviluppiamo in questo ragionamento; favelliamo come pratichi massai; lasciamo le disputazioni da parte. Così giudico: el buono padre di famiglia conosca tutte le fortune sue, né voglia avelle tutte in uno luogo, né tutte in una cosa poste, acciò che se gli inimici, se gli impeti ostili, s’e’ casi avversi premono di qua, tu vaglia e possa di là; se danneggiano di là, tu salvi di qua; se la fortuna non ti giova in quello, né anche ti sia nociva in questo. Così adunque mi piace non tutti danari, né tutte possessioni, ma parte in questo, parte in altre cose poste e in diversi luoghi allogate. E di queste s’adoperi al bisogno, l’avanzo si serbi pell’avenire.

Lionardo. Che pure miri tu, Adovardo, quasi come stupefatto a questi detti di Giannozzo? Se tu avessi udito e’ suoi ragionamenti sopra, tu confesseresti e’ suoi detti alle famiglie quasi oraculi divini essere, tutti necessarii a bene reggere ogni famiglia fuori e dentro in casa. Nulla v’è mancato, tutto v’è detto con suavità, chiaro, netto, puro. Lodarestilo.

Adovardo. Se Lionardo me ne consiglia, io sono contento consentirvi, Giannozzo, e come volete giudicherò che il buono massaio debba non ridursi in danari soli, né in sole possessioni, ma debba partire le fortune sue in più cose e in più luoghi. E sono contento accresce’gli fatica e porgli ad animo la custodia e conservazione più che del danaio, sola una cosa della quale essere massaio stimava io che bastasse.

Lionardo. Crederesti tu potere errare, Adovardo, nella masserizia consentendo al giudicio di Giannozzo?

Adovardo. Anzi sarebbe in grande errore chi credesse il giudicio e sentenze di Giannozzo non essere verissimo, ma in alcuna cosa, Lionardo, benché le siano vere, tale ora non mi pare biasimo dubitarne. E vedete, Giannozzo, in quello che io potrei dubitare. Voi testé mi isvilisti il danaio, Iddio buono, per modo che niuna cosa più sarebbe, sendo come diciavate, vile; solo fatto il danaio per comperare le cose. Parse a me volesti pur troppo rendere il danaio disutile; sotto tante sciagure, sotto tanti pericoli il ponesti, che, se altri vi credesse mai, nonché esserne massaio, ma e’ no’ gli vorrebbe vedere. E benché io vegga ne dite in molta parte el vero, pure stimo nel danaio esservi alcune altre commodità. Pare a me non fate stima in una piccola borsetta trovarvi pane, vino, e tutte le vittoaglie, veste, cavalli, e ogni cosa utile portarsi in seno. Ma chi negasse il danaio non essere ancora utile in prestallo agli amici quanto diciavate, e in traficarlo?

Giannozzo. Non dissi io che tu, Adovardo, tendevi qualche insidie? Ma vinca meco questo costume di voi altri litterati, né sia cosa alcuna sì bene detta quale voi non sappiate monstrare essere male detta; né io sarei sufficiente volella con voi vincere.

Adovardo. Certo non ad altro fine ve ne domando, se non per imparare da voi quanto per maturissima prudenza in questo come nell’altre cose conoscete.

Lionardo. Del trafficare i danari risponderò io quanto compresi da Giannozzo. In ogni compera e vendita siavi simplicità, verità, fede e integrità tanto con lo strano quanto con l’amico, con tutti chiaro e netto.

Adovardo. Ottimo. Ma del prestargli, Giannozzo, se qualche signore, come tutto dì accade, vi richiedesse?

Giannozzo. Dare’gli più tosto in dono venti che in presto cento, e per non fare né l’uno né l’altro, Adovardo mio, ché tutti gli fuggirei.

Adovardo. Che te ne pare, Lionardo?

Lionardo. E io ancora il simile. Eleggerei perdere venti acquistandomi grazia, che arischiarne cento senza essere certo di riaverne grado.

Giannozzo. Taci. Non dire. Non sia chi speri mai da’ signori né grado né grazia. Tanto ama il signore, tanto ti pregia, quanto tu gli se’ utile. Non ama il signore per tua alcuna virtù, né si possono le virtù fare note a’ signori. Sempre più sono e’ viziosi, ostentatori, assentatori e maligni in casa de’ signori ch’e’ buoni. E se tu consideri, quasi la maggiore parte di quelli stanno ivi perdendo tempo oziosi, che non sanno guadagnare in altro modo il propio vivere. Pasconsi del pane altrui, fuggono la propria industria e onesta fatica. E se ivi sono e’ buoni, stansi modesti, stimano più venire in grazia per la virtù che per ostentazione, amano più essere bene voluti per suo merito che con ingiuriare altrui. Ma la virtù non si conosce se non quando sia per opera manifestata, e poi ancora conosciuta pare assai s’ella è lodata; e forse raro si truova virtù bene premiata, e tu virtuoso non potrai la conversazione di quelli scelerati, a’ quali dispiacerà la continenza, severità e religione tua. Né tra i viziosi a te sarà luogo monstrare virtù, né arecherai a lodo contendere qualche premio con alcuno scelerato, lascera’lo vincere e ottenere quello che tu appetivi per non perseverare in questa contenzione, della quale tu vegga esserti apparecchiata molta più ingiuria da quelli audacissimi uomini che lode dagli altri buoni. Quelli adunque arditi e baldanzosi ti lasciano adrieto, e spesso più nuoce uno raportamento di quelli assentatori in tuo biasimo, che non giova molta testimonianza in tua comendazione. Però sempre a me parse da fuggire questi signori. E credete a me, da loro si vuole chiedere e tôrre, dare o prestare non mai. Ciò che tu loro dai, si getta via. Hanno molti donatori, anzi comperatori delle grazie loro, anzi ricomperatori delle ingiurie. Se tu porgi poco, ne ricevi odio, e perdi il dono; se tu assai, non te ne rende premio; se tu troppo, non però satisfai alla grande loro cupidità. Non solo vogliono per loro, ma per tutti ancora e’ suoi. Se tu dai a uno, apri necessità a te stessi di dare a tutti gli altri, e quanto più dai, tanto più in te stessi ricevi danno, tanto più quelli aspettano, tanto più loro pare dovere ricevere: quanto più presti, tanto più te ne arai a pentire. Apresso e’ signori le promesse tue sono obligo, le prestanze sono doni, e’ doni sono uno gittare via. E colui si stimi a felicità a chi non molto costano le conoscenze de’ signori. Raro ti puoi fare grato a uno signore, se non ti costa. Soleva dire messer Antonio Alberti ch’e’ signori si voleano salutare con parole dorate. E proverrai ch’e’ signori debitori, per non renderti premio, adombreranno teco, strazierannoti, per farti rompere in qualche detto o risposta onde e’ piglino loro scusa a nuocerti, e sempre cercheranno male finirti; e dove possano in molti modi nuocerti, ivi ti fanno peggio.

Adovardo. Adunque sarò per vostro consiglio prudente. Fuggirò ogni pratica de’ signori, o, acadendomi con loro qualche traffico, sempre domanderò, o domandato cercarò dar loro quanto manco poterò.

Giannozzo. Così farete, figliuoli miei, e più tosto fuggirete ogni lusinga e fronte d’ogni tiranno, e questo vi troverrete utilissimo.

Adovardo. Agli amici?

Giannozzo. Che domandi tu? Ben sai che con l’amico si vuole essere liberale.

Lionardo. Prestare, donare loro?

Giannozzo. Questo bene sapete. Ove non bisogni, a che fine vorresti voi donare? Non perché e’ t’amino, già che sono amici. Non perché e’ conoscano la liberalità tua, già che non bisogna. Niuna donazione mi pare liberalità, se non quando il bisogno la richiede. E io sono di quelli el quale più tosto voglio amici virtuosi che ricchi. Ma ancora io mi diletto più d’avere amici fortunati che infortunati e poveri.

Lionardo. Ma all’amico che posso io, domandandomi, negarli?

Giannozzo. Sai quanto? Tutto quello quale e’ dimandasse disonesto.

Adovardo. Ne’ bisogni, credo, non sarebbe disonesto domandare allo amico qualunque cosa.

Giannozzo. Se a me fosse troppo sconcio fare quanto chiedesse l’amico, perché devessi io più avere caro l’utile suo che lui il mio? Ben voglio, a te non resultando troppo danno, presti all’amico, in modo però che, rivolendo il tuo, né tu entri in litigio, né lui ti diventi inimico.

Lionardo. Non so quanto voi massari mi loderete, ma io all’amico sarei in ogni cosa largo, fidere’mi di lui, prestere’li, donare’li; nulla sarebbe tra lui e me diviso.

Giannozzo. E se lui non facesse a te il simile?

Lionardo. Farebbelo sendo mio amico. Comunicarebbe così tutte le cose, tutte le voglie, tutti e’ pensieri; e tutte le nostre fortune insieme sarebbono tra noi non più sue che mie.

Giannozzo. Sapra’mi dire quanti tu arai trovati comunicare teco altro che parole e frasche; mostrera’mi a chi tu possa fidare uno minimo tuo secreto. Tutto il mondo si truova pieno di fizioni. E abbiate da me questo: chi con qualunque arte, con qualunque colore, con quale si sia astuzia cercherà tôrvi del vostro, costui non vi sarà vero amico.

Adovardo. Così sta. Salutatori, lodatori, assentatori si truovono assai, amici niuno, conoscenti quanti vuoi, fidati pochissimi. Quali adunque con questi saremo noi?

Giannozzo. Sapete voi quale uno mio amico, uomo in l’altre cose intero e severo, ma ne’ fatti della masserizia forse troppo tegnente, suole porgersi a questi tali leggieri uomini e dimandatori, quando e’ vengono a lui sotto colore d’amicizia racontando parentadi e antiche conoscenze? Se questi a lui donano salute, e lui contra infinite salute. Se questi li ridono in fronte, e lui molto più ride a loro. Se questi lodano, e lui molto più loda loro. In queste simili cose molto lo truovano liberale, sentonsi vincere di larghezza e facilità. A tutte loro parole, a tutte loro moine presta fronte e orecchie, ma come quelli riescono narrandoli e’ suoi bisogni, e lui subito finge e narra molti de’ suoi; quando quelli cominciano a conchiudere pregandolo che presti loro, o che almanco entri fideiussore, e lui subito diventa sordo, frantende, e ad altra cosa risponde, e subito entra in qualche altro lungo ragionamento. Quelli, e’ quali sono in quella arte dello ingannare altrui buoni maestri, subito framettono una novelletta, e dove doppo quello poco ridere di nuovo ripicchiano, e lui pure il simile. Quando alla fine con lunga importunità lo vincono, se domandano piccola somma, per levarsi quella ricadia, mancandoli ogni scusa, presta loro, ma il meno che può. Ove la somma gli pare grande, allora l’amico mio... Ma, tristo me, che fo io? Quando io doverrei insegnarvi essere cortesi e liberali, io v’insegno essere fingardi e troppo tegnenti. Non più. Io non voglio mi riputiate maestro di malizie. Verso gli amici si vuole usare liberalità.

Adovardo. Anzi questo riputatelo virtù, Giannozzo, con malizia vincere uno malizioso.

Lionardo. Sì certo, a me pare spesso necessario usare astuzia co’ troppo astuti.

Giannozzo. Pur vorrete trovare da me via per onde possiate fuggire questi chieditori. S’e’ ditti miei gioveranno a convincere astuzia con astuzia, sono contento. Se vi noceranno aiutandovi essere non liberali e larghi, ma tenaci e stretti, ancora potrò di questo esserne contento, perché almanco arete qualche colore a parere motteggiatori ove siate avari. Ma per mio consiglio piacciavi più acquistandovi onore parere liberali che astuti. La liberalità fatta con ragione sempre fu lodata; l’astuzia spesso si biasima. E non lodo tanto la masserizia che io biasimi tale ora essere liberale, né tanto a me pare dovuta la liberalità fra gli amici che ancora qualche volta non sia utile usarla verso gli strani, o per farti conoscere non avaro, o per acquistarti nuovi amici.

Adovardo. Quanto a noi pare, Giannozzo, testé qui vogliate seguire l’uso di quello vostro amico, ché, per non rispondere a quanto da voi aspettiamo, voi rivolgete il ragionare vostro della molta masserizia e traducetelo proprio in contraria parte dicendo della liberalità. Noi desideriamo udire e imparare da quello vostro amico, per poterci valere contro a questi chieditori, e’ quali tutto il dì ci seccano.

Giannozzo. Così al tutto volete? Dicovelo. Solea l’amico mio a questi trappolatori prima rispondere che per gli amici a lui era debito fare tutto, ma per ora non essere possibile fare come vorrebbe, e quanto era sua usanza fare agli amici non meno che si meritino. Poi si dava con molte parole a mostrare loro non fusse meglio, né per ora bisognasse fare quella spesa. Diceva quello non gli essere utile, meglio essere indugiare, più giovare tenervi quella altra via, e così di parole molto si dava largo e prodigo. Apresso confortava ne chiedessono qualche uno altro, e prometteva di parlarne e adoperarsi in ogni aiuto a trovarli da chi si sia degli altri amici. E se pur questi ripregando lo convinceano, allora l’amico per stracchezza dicea: «Io mi vi penserò, e troverrovvi buono rimedio; torna domani». Poi e’ non era in casa, o egli era troppo infaccendato, e così a colui conveniva già stracco provedersi altronde.

Lionardo. Forse sarebbe il meglio negare aperto e virile.

Giannozzo. Quanto io, prima era di questo animo, e spesso ne ripresi l’amico mio, ma lui mi rispondea e dicea la sua essere migliore via, imperoché a questi infrascatori pare saperci dire in modo che noi non possiamo loro dinegare cosa quale e’ dimandino; però si vogliono contentare di quello che non ci costa. E dicea l’amico mio: «Se io da prima negassi aperto, io monstrerrei non curarli, sarei loro odioso. A questo modo quelli pur sperano ingannarmi, e io monstro stimarli, e così poi elli giudicano me da più che loro ove e’ si veggono avanzare d’astuzia, né a me ancora par poco piacere ove io dileggio chi me voglia ingannare».

Adovardo. Molto a me piace costui, il quale richiesto di fatti dava parole, e a chi domandava danari porgea consiglio.

Lionardo. Ma se uno de’ vostri di casa vi richiedesse, come tutto il dì accade, come li tratterresti voi?

Giannozzo. Ove io potessi senza grandissimo mio sconcio, ove io gliene facessi utile, prestere’gli danari e roba quanto e’ volesse e quanto io potessi, però che a me sta debito aiutare e’ miei con la roba, col sudore, col sangue, con quello che io posso persino a porvi la vita in onore della casa e de’ miei.

Adovardo. O Giannozzo!

Lionardo. Diritto, buono, prudente padre. Simili vogliono essere e’ buoni parenti.

Giannozzo. La roba, e’ danari si vogliono sapere spendere e adoperare. Chi non sa spendere le ricchezze se non in pascere e vestire, chi non sa usarle in utile de’ suoi, in onore della casa, costui certo non le sa adoperare.

Adovardo. Ancora mi occorre qui dimandarvi, Giannozzo. Ecco in me di qui a uno pezzo e’ miei figliuoli cresceranno. Usano e’ padri in Firenze a ciascuno de’ suoi figliuoli dare certa somma d’argento per minute loro spese, e loro pare ch’e’ garzoni manco ne siano sviati, avendo in quello modo da satisfare alle giovinili sue voglie, e dicono che il tenere la gioventù stretta del danaio la pinge in molti vizii e costumi scelerati. Che dite, Giannozzo? Parvi da così allargare la mano?

Giannozzo. Dimmi, Adovardo, se tu vedessi uno tuo fanciullo maneggiare rasoi arrotati, affilati, troppo taglienti, che faresti tu?

Adovardo. Torre’li di mano. Temerei non s’impiagasse.

Giannozzo. E adirerestiti, so, con chi avesse così lasciatoli trassinare. Vero? E quale credi tu essere più suo mestiere a uno fanciullo, trassinare rasoi o moneta?

Adovardo. Né l’uno né l’altro mi pare suo atto mestiere.

Giannozzo. E stimi tu senza pericolo a uno garzonetto trassinare danari? Certo a me, che sono omai vecchio, sono e’ danari fatti così, che non senza pericolo ancora ben so maneggiarli. E credi tu che a uno giovane non pratico sia non pericolosissimo trassinare danari? Lasciamo da parte che gli sarano tolti da’ ghiotti, da’ lacciuoli, da’ quali e’ giovani sanno male schifarsi. Pensa tu, uno giovane che utilità potrà egli sapere trarre de’ danari; che necessità saranno quelle d’uno garzonetto? La mensa gli apparecchia il padre, el quale sendo prudente non patirà che il figliuolo si satolli altrove. Se vorrà vestire, richieggane il padre, el quale, sendo facile e maturo, lo contenterà, ma non lascerà il figliuolo vestire isfoggiato, né con alcuna leggerezza. Quale adunque può in uno garzonetto venire necessità, o quale voglia, se non una sola di gittarli in lussurie, in dadi e in ghiottornie? Io più tosto consiglierei e’ padri che procurassino, Adovardo mio, ch’e’ figliuoli suoi non scorrino in voglie lascive e disoneste. A chi non arà volontà di spendere, a costui non bisogneranno danari. S’e’ tuoi figliuoli aranno voglie oneste, molto sarà loro caro tu le sappia; dirannotele, e tu in quelle abbiati con loro facile e liberale.

Lionardo. Quelli nostri prudenti cittadini, stimo io, Giannozzo, se non conoscessono essere ivi qualche utilità, forse non servarebbono quella larghezza co’ giovani loro.

Giannozzo. Se io vedessi che le volontà e il corso della gioventù in tutto si potesse restringere, io grandemente biasimerei quelli padri e’ quali non cercassino distorre e’ suoi figliuoli dalle voglie prima che darli aiuto a seguirle. E io quanto più penso tanto meno conosco ove surga più vizio nella gioventù, o per essere troppo bisognosi del danaio, o per esserne copiosi.

Lionardo. A me pare comprendere che Giannozzo vorrebbe prima e’ padri stogliessono da’ giovani le voglie quanto e’ potessono, poi mi pare essere certo non gli vorrebbe diventare piggiori per mancamento alcuno di danari.

Giannozzo. Proprio.

Adovardo. O Lionardo, quanto m’è Giannozzo utile stamani!

Lionardo. Molto più fu utile con noi dicendo tutto ciò che della masserizia si possa udire, e più ancora in che modo si sia massaio della roba, e in che modo si regga la famiglia. E pare a me di tutte le cose necessarie al vivere, di tutte Giannozzo ci abbia insegnato essere massaio.

Adovardo. Non riputate voi, Giannozzo, utile al vivere l’amicizia, fama e onore?

Giannozzo. Utilissimo.

Adovardo. E di queste dicesti voi in che modo si debba esserne massaio?

Lionardo. Quello no.

Adovardo. Forse non gli parse da darne precetti.

Giannozzo. Anzi sì, pare.

Adovardo. Che adunque ne dite voi?

Giannozzo. Quanto io, della amistà, che so io? Forse potrebbesi dire che chi è ricco truova più amici che non vuole.

Adovardo. Io pur veggo e’ ricchi essere molto invidiati dagli altri, e dicesi che tutti e’ poveri sono inimici de’ ricchi, e forse dicono il vero. Volete voi vedere perché?

Giannozzo. Voglio. Dì.

Adovardo. Perché ogni povero cerca d’aricchire.

Giannozzo. Vero.

Adovardo. E niuno povero, se già non gli nascessono sotto terra le ricchezze, niuno povero arricchisce se a qualche altro non scemano le sue ricchezze.

Giannozzo. Vero.

Adovardo. E’ poveri sono quasi infiniti.

Giannozzo. Vero. Molto più ch’e’ ricchi.

Adovardo. Tutti s’argomentano d’avere più roba, ciascuno con sua arte, con inganni, fraude, rapine, non meno che con industria.

Giannozzo. Vero.

Adovardo. Le ricchezze adunque assediate da tanti piluccatori v’arrecano elle amistà pure o nimistà?

Giannozzo. E io pur sono uno di quelli el quale vorrei più tosto potere da me con mie ricchezze, mai avere a richiedere alcuno amico. Manco mi nocerebbe negare a chi mi chiedesse che prestare a tutti chi mi domandasse.

Adovardo. Puossi egli questo forse, vivere sanza amici e’ quali vi sostenghino in pacifica fortuna, difendinvi dagli ingiusti, aiutinvi ne’ casi?

Giannozzo. Non ti nego che nella vita degli uomini sono gli amici accommodatissimi. Ma io sono uno di quelli el quale richiederei l’amico quanto rarissimo potessi, e se grandissimo bisogno non mi premesse, mai addurrei allo amico gravezza alcuna.

Adovardo. Dite ora voi a me, Giannozzo, se voi avessi l’arco, non vorresti voi tendello e saettare una e un’altra volta in tempo di pace, per vedere quanto nella battaglia contro e’ nimici e’ valesse?

Giannozzo. Sì.

Adovardo. E se voi avessi la bella vesta, non la vorresti voi provare in casa qualche volta, per vedere come voi ne fossi onorato ne’ dì e ne’ luoghi solenni?

Giannozzo. Sì.

Adovardo. E se voi avessi il cavallo, non lo vorresti voi avere fatto correre e saltare, per sapere come bisognando e’ vi potesse cavare della via difficile e portarvi in luogo salvo?

Giannozzo. Sì. Ma che intendi tu dire?

Adovardo. Voglio dire pertanto, così credo si conviene fare degli amici: provarli in cose pacifiche e quiete, per sapere quant’e’ possino alle turbate, provarli in cose private e piccole in casa, per sapere com’e’ valessino nelle publice e grandi, provarli quanto corrano a fare l’utile e l’onore tuo, quanto siano atti a portarti e sofferirti nelle fortune, e cavarti delle avversità.

Giannozzo. Non biasimo queste tue ragioni. Meglio è avere gli amici provati che averli a provare. Ma quanto io pruovo in me, che mai offesi alcuno, che sempre cercai piacere a tutti, dispiacere a niuno, che sempre curai e’ fatti miei io stessi attesomi alla mia masserizia, per questo mi truovo delle conoscenze assai, non mi bisogna richiedere, né afaticare gli amici, truovomi oneste ricchezze, e tra gli altri, grazia d’Iddio, sono posto non adrieto; così voglio confortare voi. Seguite come fate, vivete onesti, e in ditti e in fatti mai vi piaccia nuocere ad alcuno. Se voi non vorrete l’altrui, se saprete del vostro esserne massai, a voi molto raro, molto poco bisognerà provare gli amici.

Io sarei qui con voi quanto vi piacesse, ma io veggo l’amico mio per cui bisogna m’adoperi in palagio; così ordinammo stamane per tempo; testé sarà ora di comparire; non voglio abandonare l’amico mio: sempre a me piacque più tosto servire altri che richiedere, più tosto farmi altri obligato che obligarmi; e piacemi questa opera di pietà, sollevarlo e aiutarlo con fatti e con parole quanto io posso, e questo non tanto perché conosco lui ama me, quanto perché conosco lui essere buono e giusto. E voglionsi e’ buoni tutti riputare amici, e benché a te non siano conoscenti, e’ buoni e virtuosi voglionsi sempre amare e aiutare. Voi adunque vi rimarrete. Altre volte saremo insieme, e una cosa qui non voglio dimenticarmi. Terrete questo a mente, figliuoli miei: siano le spese vostre più che l’entrate non mai maggiori; anzi, ove tu puoi tenere tre cavalli, piacciati vederti più tosto due ben grassi e ben in punto che quattro affamati e male forniti, imperoché, come voi litterati solete dire l’occhio del signore ingrassa el cavallo, questo intendo io, che non manco si nutrisce la famiglia con diligenza che con ispesa. Pare a voi così da interpetrar quel detto antico?

Adovardo. Parci.

Giannozzo. Se adunque così vi pare, a chi di voi, sendo quanto sete prudenti, non più piacerà produrre in publico due lodatori della diligenza vostra che quattro testimonii, e’ quali a tutti gli occhi a chi gli miri accusino la vostra negligenza? Vero? Adunque così fate: sian le spese pari o minori che la intrata, e in tutte le cose, atti, parole, pensieri e fatti vostri siate giusti, veritieri e massai. Così sarete fortunati, amati e onorati.

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