< I libri della famiglia
Questo testo è completo.
Libro terzo


LIBRO QUARTO


Liber quartus familie: de amicitia


Era già quasi da riporre gli argenti e ridurre in mensa l’ultima collazione al convito, quando Buto, antico domestico della famiglia nostra Alberta, udendo che per vedere nostro padre, quale ne’ libri di sopra dicemmo iacea infermo e grave, fussero que’ nostri vecchi venuti: Giannozzo, Ricciardo, Piero, e gli altri a lui persino dai primi suoi anni molto familiari; sopragiunse a visitarli e presentò loro poche ma fuori di stagione scelte e rare, e di sapore e odore suavissime frutte. Onde, doppo a’ primi saluti, fu commendata la fede e constanza di Buto, che così ne’ nostri casi avesse conservata la ottima persino dallo avolo suo co’ nostri Alberti nata e ben nutrita amicizia: essere adunque vero amico costui a chi qual sia commutazion di fortuna può mai distorre o minuire la impresa benevolenza, e sopra gli altri meritar lode chi come Buto di sua affezione e animo nelle cose avverse ancora non resti dare di dì in dì aperti e grati di sé stessi indizii e beneficio. Seguirono questi ragionamenti oltre sino che gli affermorono così, in vita de’ mortali più quasi trovarsi nulla sopra alla amicizia da tanto essere pregiata e osservata.

Buto, uomo di natura lieto, e uomo quale forse ancora la sua perpetua povertà e insieme el convenirli assentando e ridendo piacere apresso chi e’ discorreva per pascersi in varie e diverse altrui case, così l’avea fatto ridicolo e buono artefice di mottegiare: — E che? Tanto lodate voi questa amicizia, — disse, — e tanto ponete in alto grado di prudenza chi sappia darsi e servarsi a ferma benivolenza e molta grazia? Non sia chi stimi in vita potersi trovare uomo qual vero possa dirsi bene amato. Più volte intesi messer Benedetto, messer Niccolaio, messer Cipriano, cavalieri Alberti, uomini quanto ciascuno dicea litteratissimi, in queste simili disputazioni molto e alto fra loro contrastare, che non mi duole essere com’io sono ignorante, se a chi sa lettera conviene come a loro sempre bisticciare e insieme gridare; né pare possano sanza gittare le dita e le mani, e le ciglia e il viso, e il capo e tutta la persona, farsi bene intendere, tanto non basta a questi litterati colla lingua e con molta voce tutti in un sieme garrire. Molte diceano dell’amicizia cose belle a udirle, ma cose quale a chi poi le pruova favole. Diceano che a ben fermare l’amicizia convenia che due in uno si congiungessero, e bisognarvi non so io che moggio di sale. Giurovi, me la donna mia più molto amava prima vergine che poi sposata e coniunta; e in ora non buona per noi coniunti che noi fummo, persino che ella fu meco in vita, mai m’occorse una sola mezza ora in quale mi fosse lecito sederli presso sanza udirla gridarmi e accanirmi garrendo. Forse que’ vostri savii, quali scrissero quelle belle cose dell’amicizia, poco si curavano in quella parte amicarsi femmine, o forse così a tutti stimorono essere noto che con femmina si può non mai contrarre certa amicizia. E quanto io, oggidì più che allora savio, non ne gli biasimerei, ché certo quel fastidio loro, hau! pur troppo è grande, che mai si possano atutare. E non che un moggio di sale, ma e venti, così m’aiuti Dio, ivi non punto sarebbero assai. So io, la donna mia quanto più mangiava sale più era da ogni parte sciocca. Pertanto vi consiglio, credete meno a questi vostri che sanno dire bello, ma cose inutili. Credete a me, e proverrete così essere verissimo: cosa niuna tanto nuoce a farsi amare quanto trovarsi povero; porgetevi ricchi, e ivi più arete amici che voi non vorrete.

A Ricciardo, Adovardo e Lionardo, uomini litteratissimi, questi e molti altri ridiculi, quali con assai risi di tutti e con gesti accommodatissimi Buto avea dolce recitati, furono grati. — Né mi par questo, — disse Lionardo, — dissimile da quelli conviti filosofici, quali Platone, Senofonte, Plutarco descrissero, pieni di giuoco e riso, e non vacui di prudenza e sapienza, con molta grazia e dignità.

— Quanto, — allora disse Piero Alberti, — io lodo l’ingegno di Buto! E confermo il detto suo essere verissimo, quanto provai, che ad acquistare amicizia con molte iniurie vi si oppone la povertà e interrompe ogni nostro instituto e impresa. Come sapete, ogni mio sussidio e fortuna familiare era, quando sedavamo in la patria nostra, quasi tutta in possessioni e ville. In questo poi nostro grave essilio, a difendermi dagli odii e nimicizia quali noi spogliorono de’ publici ornamenti e troppo ci persequitavano, a me parse utile agiugnermi a qualche principe, apresso di chi io vivessi con più autorità che escluso, e con men sospetto che nudo, e con più riguardo della salute mia. Così feci adunque; con molta industria e sollecitudine a me acquistai la grazia di tre, come sapesti, in Italia ottimi, e in tutte le genti famosissimi principi. Questi furono Gian Galeazzo duca di Melano, Ladislao re di Napoli, e Giovanni summo pontefice, a quale ciascuna impresa provai quanto il non essere più ch’io mi fussi ricco a me noceva e disturbava.

Qui disse Lionardo: — Credo, Piero, le ricchezze assai giovino a più facile farsi grato, come agli altri, così massime a’ principi, quali quasi, non so se natura sua o consuetudine, tutti solo pregiano chi a sue voglie e bisogni loro in tempo essere possa accomodato. E in principe (perché sono i principi quanto vogliono d’ogni onesto essercizio vacui, oziosi, e in tempo non poco dati alle voluttà, e acerchiati non da amici ma da simulatori e assentatori) raro nascon voglie se non lascive e brutte, e spesso loro bisogna adoperare le ricchezze de’ suoi cittadini e di ciascuno a lui amico pecunioso e ricco. E perché prima certi segni delle ricchezze più si veggono palese che della virtù, però apresso de’ principi, dove per poca qual di sé fanno copia meno possono conoscere le virtù che la fortuna, sono i ricchi più forse che i buoni in prima accetti. E perché non dubitano che chi sia buono poco li seconderebbe alle sue non lodate volontà e appetiti, però pregiano quanto loro acade i viziosi, e preferiscono la amicizia di chi a’ suoi errori in proposito cauto e con astuta malizia sovenga. Benché in voi però comprenda la vostra virtù, Piero, tanto sempre valse apresso di ciascuno ch’ella per merito suo era non poco scorta, grata e amata da tutti; e poi la probità e integrità vostra sempre giovò più che non fu impedimento el non essere quanto meritavate ricchissimo e fortunatissimo.

— Come? Concederott’io qui forse, — disse Adovardo, — che a giugnerti a benivolenza ad un principe, non molto più vaglia la virtù che le ricchezze? Puoe forse in sì oscuro luogo giacere la virtù, ch’ella da chi stia in alta fortuna poco sia scorta e al tutto non conosciuta? E tanto più si porge la virtù maravigliosa a’ principi, quanto più vede numero di ricchi un principe che di virtuosi. E sempre fu la virtù in sé da tutti tenuta tale, ch’ella merita in qualunque ben povero essere amata; e assai forse troverrai copia di ricchi malvoluti perché non sono ornati di virtù e onestà, che poveri virtuosi e onesti non da molti accetti e pregiati. E tanto in qualsisia animo non in tutto bestiale e perduto può certo la onestà, che prencipe per intemperante e poco modesto che sia, mai alcuno userà ogni sua licenza in seguire ciascuna sua volontà, che ’l santissimo nome della onestà nollo rafreni e contenghi. E parmi talora miracolo, che chi quanto e’ vuole puote, costui pur per non essere tenuto e detto vizioso, vinca e moderi sé stessi. Così intendiamo che da natura niuno quasi non giudica cosa brutta l’essere e parere non virtuoso, e fugge per questo sé male essere per suo vizio accetto. Adunque e’ degna la virtù in altrui, quale egli stima in sé. E forse questi segni e applaudimenti d’amicizia, co’ quali i principi allettano e ablandiscono e’ suoi ricchi e fortunati, sono solo per adoperarli, come scrive Suetonio di Vespasiano Cesare, quale disponea in luogo d’amici, a’ suoi credo porti e doane e in simili magistrati, uomini rapaci e industriosi al guadagno, e nati quasi solo per congregare pecunia; ché dove questi poi erano come la spongia bene inzuppata e pregna, ben gravi di rapina, lui eccitatoli contra, e uditone più e più accuse e doglienze delli offesi, gli premea, e rendeali arridi e poveri con tôrli e’ beni loro paterni e questi così sopra accumulati. E solea per questo adunque Vespasiano chiamarli sue per spungie. Così ultimo sentiano sé essere non amici, dove rimanevano vacui e arridi d’ogni copia e sugo di sue fortune, pieni d’odio e malivolenza. E stimo Piero così trovò in uso più esserli assai la virtù stata in aiuto, che cosa qual altra potesse la fortuna averli donato e agiunto. E questa fie sua, credo, sentenza: cosa niuna trovarsi a farsi amare quanto la virtù commoda e utilissima.


Piero. Non sapre’ io qui certo averarvi qual più sia, o la virtù, o pure le ricchezze, utile a farsi amare. Voi litterati fra voi meglio el discernerete, che solete d’ogni difficile e oscurissima cosa con vostre suttilissime disputazioni trovare ed esporne el certo. Ma in me el non essere più che allora mi fussi abiente e fortunato a potere suplire alle molte che forse bisognavano spese e liberalità, certo m’era pure incommodo: e non vi nego però che la industria e diligenza mia a me giovò non poco ad acquistarmi la grazia e benivolenza, quale io desiderava, di que’ principi, ché credo, se la fortuna mia fusse stata più copiosa e abundante, a me gran parte bisognava meno usare quanta usai arte e sollecitudine.

RICCIARDO
Chi credesse potere arrivare e giugnere a buona grazia e nome sanza splendore di qualche virtù e via di simplice gentilezza e interi costumi, o credessi ch’e’ doni della fortuna soli assai per sé valessero a farsi amare, stimo io costui certo errarebbe. Raro ch’e’ viziosi siano se non odiati. E a chi la fortuna poco seconda, non a costui sarà facile acquistar buon nome e fama di sue virtù. La povertà, quanto chi che sia pruova, non affermo io al tutto impedisca, ma ottenebra e sottotiene in miseria ascosa e sconosciuta spesso la virtù; come pure veggiamo in panni, quanto dicono, sordidi e abietti, qualch’ora latitare la virtù. Conviensi adunque sì, ch’e’ beni della fortuna sieno giunti alla virtù, e che la virtù prenda que’ suoi decenti ornamenti, quali difficile possono asseguirsi sanza copia e affluenza di que’ beni, quali altri chiamano fragili e caduchi, altri gli apella commodi e utili a virtù. Ma guardate non in prima forse sia necessaria non tanto virtù e ricchezza, quanto certa non so come la nominare cosa, quale alletta e vince ad amare più questo che quello, posta non so dove, nel fronte, occhi e modi e presenza, con una certa leggiadria e venustà piena di modestia. Nollo posso con parole esprimere; ché vedrete saranno due pari virtuosi, pari studiosi, pari in ogni altra fortuna, nobili e pecuniosi, e di loro questo verrà iocondo e amato, quello ritarderà quasi odiato. E forse chi persuadeva le amicizie avere occulti e quasi divini principii e radici era da udirlo. Sono in le cose produtte dalla natura maravigliose e occultissime forze d’inimicizia e di amore, delle quali ancora non seppi comprendere causa o aperta ragione alcuna. Scrive Columella tanta essere inimicizia tra l’olivo e il quercio, che ancora tagliata la quercia, le sole sue sotto terra radici estingueno qualunque ivi presso fusse piantato olivo. Pomponio Mela racconta alle fini di Egitto presso quella gente detta Esfoge, come da innata e naturale inimicizia convenirvi numero d’uccegli chiamati ibides ad inimicare e combattere contra la moltitudine de’ serpenti quale ivi inabita. El cavallo, dice Erodoto, naturale sua inimicizia, tanto teme il cammello, che non tanto vederlo fugge, ma odorarlo el perturba. E così contrario racconta Plinio troppo la ruta essere amicissima al fico, poiché insieme curano el veneno, e sotto el fico piantata escresce lietissima, e più che in qual sia altrove luogo si fa ampla e verzosa. E Cicerone scrisse trovarsi animali, quali insieme vivono amicissimi, come fra l’ostree quello chiamato pinea, pesce amplo, quale apre e quasi come pareti tende que’ due suoi scorzi, dove convenuta copia di pisciculi, la squilla, piccino animale, la eccita ch’ella inchiuda la congregata preda, onde così ambedue si pascano. Noto animale è ’l coccodrillo, altrove feroce, quale pasciuto iace facile e trattabile, e porge sue fauce a certi uccegli, quali accorrono a svègliargli e mundarli ciò che superfluo era fra’ denti suoi rimaso. E quanto non so a voi se così forse intervenga, dirovvi cosa che non più mi ramenta altrove averla detta, e holla in me molto osservata: raro el primo aspetto di chi si sia ignotissimo a me dispiacque e turbommi, da cui io non in tempo abbi poi ricevuta onta alcuna e sconcio da odiarlo; quasi come la natura, in quel primo offendermi la effigie di colui, mi presagisse e indicasse essere tra lui e me naturale, come da’ cieli data, malivolenza. E alcuni, celeste beneficio e divino dono, a qualunque li miri prestano di sé buono aspetto e grazia.

Piero. O bisognivi virtù, o sianvi necessarie le ricchezze, o convengali in prima quel dono celeste tuo, Ricciardo, quale se in persona a’ dì nostri fu, certo in messer Benedetto Alberto vostro padre troppo fu maraviglioso e singolare, — niuno potea vedendolo fare che nollo amasse, e di lui in sé pigliasse affezione a desiderarli seconda fortuna, tanta era in lui modestia, facilità e gentilezza insieme, e non potrei dire che altro non so che in lui splendea, quale si monstrava in lui dolce gravità e infinita prudenza, piena d’uno animo virilissimo e mansuetissimo, — pur lo studio però nostro e modo troverete ad aplicarvi a benivolenza non meno che qualsisia altra cosa molto giovarvi.

Lionardo. E quale trovasti voi studio e modo, Piero in farvi familiare e domestico a que’ prestantissimi principi, per uso ed esperienza a voi essere in prima accommodatissimo?

Piero. Costì arei io da recitarvi una mia istoria e quasi progresso della mia vita e costumi, qual sarebbe lungo e forse non in tutto adattato a questi vostri ragionamenti. Ma in più parte a questi giovani qui, Battista e Carlo, accaderebbono in uso così avere quasi come domestico essemplo me a sapere simile trarsi persino entro alla secreta camera e non reietto da qual forse così bisognasse loro o atagliasse avere a sé principe benivolo e amico.

Giannozzo. Anzi e a noi tutti fie grato, e a me in prima, che tu qui testé, come io stamane, prenda a te questa fatica, Piero, e certo onesta e degna opera in referire come io della masserizia, così tu ogni tuo argomento e pensiero per fare noi altri, quali ancora in questa età di dì in dì cerchiamo essere, in farci amare più dotti, onde alla famiglia nostra quanto in noi sia accresciamo da ogni parte presidio e molto favore. E sarà certo utilissimo e a questo ragionamento accommodatissimo udire ogni tuo gesto, per quale aremo in pronto da imitare la tua prudenza e diligenza.

Piero. In qualunque modo mi convinciate ch’io non possa, quello che né debbo né voglio, non ubidirvi, a me basta vedere che così volete udirmi favellare. Racconterovvi adunque che artificio fu il mio in adurmi familiare e domestico prima a Gian Galeazzo duca di Milano: appresso racconterò quale studio tenni in farmi benvoluto da Ladislao re di Napoli: poi ultimo reciteremo con che maniere osservai la grazia e benivolenza di Giovanni summo pontefice. E credo vi diletterà udire mie varie e diverse vie, mie caute e poco usate forse e raro udite astuzie, molto utilissime a conversare con buona grazia in mezzo el numero de’ cittadini. Uditemi.

A me, per conscendere all’amicizia del principe Duca, compresi era necessario adattarmi de’ suoi antichi e presso di lui pratichi amici qualche uno, quasi come grado e mezzo per cui in atto modo e tempo potessi presentarmi, quando qualche ora fusse el Duca meno che l’usato occupatissimo alle pubblice sue certo grandissime faccende, ché vedesti quanta copia e forza d’arme esso contenea, infestando qualunque impedisse el suo corso a immortal gloria con suoi triunfi, fra’ quali la nostra repubblica fiorentina sentì quanto fusson grandissime sue forze a fermo imperio. Ed era suo essercizio in amministrare a’ popoli suoi quanto in lui fusse iustizia interissima, e mantenere a’ suoi domestica pace; ed era studio suo contraere publica società e amicizia con tutti e’ suoi finittimi, né era ozioso in iungere benivolenza con qualunque degna fusse e nobile republica e principe in Italia e fuori di Italia. Ancora di dì in dì si estendea con ogni arte e industria fare a tutti noto e ’l nome e la magnificenza sua. E quello che in lui non ultimo a me parea di pregiare, era cupidissimo de’ virtuosi e amantissimo de’ buoni, e padre della nobilità. Presi adunque di tutti e’ suoi chi più che gli altri a me parea e così da molti udiva col principe era assiduo in secreti spesso e solo, e di quale io quanto si convenia sanza esserli tedioso, potessi avere copia a farmeli ben familiare, e quale di sua natura fusse servente, e a cui el nome della famiglia nostra Alberta fusse non molesto, e quale fusse posto in grado dalla fortuna che, per serbare sé a sé stessi, sperando qualche utile occasione non mi si desse tardo e rattenuto ad interporsi per farmi nota e utile la liberalità di chi lo amava; ché sapete, alcuni porgono sì caro la presenza e parole del principe in cui e’ possono, che apena ti danno addito a vederlo sanza gravi premii, e alcuni fuggono spendere la grazia del prencipe in utilità d’altri che di sé stessi. Questo uno adunque, chiamato Francesco Barbavara, uomo d’ingegno e di costumi nobillissimo, assiduo col prencipe, facile, liberale e nulla contumace a concedermisi ad amicizia, fu quello al quale me assiduo diedi con visitarlo e salutarlo. E perché lo dilettavano e’ poeti, però in tempo li recitava quanto avea io mandatomi a memoria più altri e in prima poemi del nostro messer Antonio Alberti. A costui omo studiosissimo molto piaceano, ché certo, quanto e’ dicea sono pieni di soave maturità e aspersi di molta gentilezza e leggiadria, e, a pari degli altri nostri toscani poeti, degni d’essere letti e molto lodati. E così a me el feci domestico di giorno in giorno, tanto ch’e’ desiderava in qualche mia laude e felice fortuna essermi in aiuto e utile. Quinci adunque seco apersi el mio animo e consiglio, e quanto el pregai, per lui ebbi addito e lieta fronte e umanissimo ricetto e non poca audienza apresso del prencipe Duca, quale, inteso el nome della famiglia e patria mia, più cose con molta gravità e signorile modestia disse con più parole a questa sentenza: sé essere a’ Fiorentini non d’animo in quella parte infesto che non preponga la amicizia loro a ogni contenzione: né parerli però che ’l contendere suo sia meno onesto che virile, dove con laude bellica e forza delle armi, quali cose sempre furono proprii essercizi de’ principi, così cercava essere non inferiore a chi esso sempre desiderò esser pari di autorità e degnità: ben dispiacerli che di tanta virtù, quanta è conosciuta ne’ nostri cittadini, per altri a questo che per sua opera avenisse, che la fortuna avesse quasi ad iudicarne: solere per indiligenza e temerità degli inesperti prefetti in arme facile avvenire contendendo con mano e col ferro, ch’e’ superiori altrove e prepotenti cadeno e succumbeno; ma diligenza niuna e prudenza niuna, a finire con salute e vittoria la guerra mai quasi tanto valere quanto la fortuna: sé essere adunque così animato e dare opera, che per sé non manchi che come gli strani abbiano più da lodare la sua virtù che la fortuna, così chi disturbasse el corso della sua espettata gloria el pruovi da più amarlo in pace che da temerlo armato: ben però desiderare alla famiglia nostra da’ nostri cittadini altra umanità. Così disse el Duca.

Io quel che mi parse per allora rispuosi: i cittadini nostri quanto meno che gli altri liberi popoli temerarii e inconsulti, tanto, loro natura, più essere che gli altri molto cupidi d’ozio più che di contenzione: né in chi gusti libertà meno dirsi onesto difenderla, che virile in altri oppriemerla e perturballa: pertanto me essere di questa sentenza, che nulla dubitava tutte le genti o loderàno l’amore e officio si rende alla patria, s’e’ nostri cittadini per sua virtù col Duca otterranno onesta e ferma pace, o non biasimeranno il nostro instituto, se la fortuna forse più verso di noi sarà iniqua che non meriti a chi molto, quanto debbia, ami la sua libertà: del resto essere officio mio, come degli altri cittadini, consigliare la patria mia con fede, amore e diligenza, quando mi voglia udire: non a me, né a privato cittadino alcuno mai essere licito iudicare quanto sia iusto o iniusto fatto cosa che la republica sua constituisca, e convenirli non con ostentare la prudenza sua preferirsi, ma ubidendo e satisfacendo alle leggi sue colla osservanza sua, e con ogni virtù e lodato costume, nulla patire sé a degli altri cittadini suoi essere inferiore; ché se per imprudenza o vizio forse di chi amministra le cose publice questa a noi Alberti calamità avviene, dovermi più tosto condolere dello loro errore e dello incommodo porta la republica per male essere amministrata, che per odio di pochi tentare, né mai pensare cosa alcuna in danno e detrimento della patria mia, se così affermano sia in pari grado impietà iniuriarla, quanto fare violenza al proprio padre.

Al Duca questa mia risposta piacque, e parsegli degna del nome e fama della famiglia nostra, quali sempre preponemmo la salute e tranquillità della patria a ogni nostro commodo e volontà. Partimmi con grazia tale, ch’e’ da quel dì provide che a me nulla mancasse quanto bastasse per onesto mio vivere e vestirmi; e non raro me accettò a’ suoi simili ragionamenti magnanimi certo e degni di tal prencipe, onde sempre mi riducea in casa con più grazia sua e con più autorità e buona oppinione de’ miei costumi apresso di tutti e’ suoi. Vidi così potere, però me interpuosi che gli altri miei, quali sé ivi trovorono Alberti, sentissero quale io in sé pari dal Duca liberalità e munificenza. Ché ben sapete a noi sta debito in qualunque possiamo cose essere utili l’uno allo onore e fortuna dell’altro. E le amicizie de’ principi massime si voglion acquistare e aoperare per accrescere e amplificare a’ suoi e alla famiglia sua nome e buona fama e degna autorità e laude.

Lionardo. Prudente consiglio, Piero, fu el vostro e da lodarlo. Sentenza de’ dotti, quanto afermano che a coniungere e contenere insieme due, bisogna ivi mezzo sia qualche terzo. Così voi interponesti quasi interpretre e, come dicono, personeta dell’amicizia colui, quale uomo al prencipe Duca fusse assiduo domestico, e non però continuo ivi sì occupato che non potessi di sé prestarvi onesta copia, insieme e fusse facile, liberale e proclive ad amarvi. Ma se non questo uno a voi conseguiva quanto lo sperasti amico, sarestivi credo con simile ragione e arte che al primo, dato ossequente ad altri alcuno.

Piero. Non però a me sarebbe paruto utile, molto spendere tempo provando ciascuno quanto e’ li piacesse per suo beneficio obligarmisi. Anzi, vero, forse mi sarei, quanto feci, dato ostinato ad acquistarmi grazia con questo uno al mio proposito accommodatissimo, più che a tentare instabile or questa or quest’altra fortuna. E così istimo ragionevole instituto quasi niuno trovarsi, quale con fermezza e modo perseguito non quando che sia a nostra voglia succeda e assecondi; e l’essere instabile a perseguitare sempre fu nimico a finire la espettazione. E già ivi col nostro Barbavaro, non meno e col principe Duca, a me molto bisognò pazienza e fermezza incredibile. Dicovi, non rarissimo mi trovai intero il dì ieiuno, dissimulando altre faccende mie, solo aspettare di mostrarmi loro e salutarli, tanto volea non per mia indiligenza perdere qualunque apparesse occasione utile a trarmi più oltre accetto, e più d’ora in ora per uso ben familiare. E per non apportarli di me mai tedio alcuno, da loro partendomi sempre di me lasciava qualche espettazione; sempre a loro con cose nuove me li rendea lieto, con ogni reverenza e modestia grato. Questi nostri Alberti d’Inghilterra, di Fiandra, di Spagna, di Francia, di Catalogna, da Rodi, di Soria, di Barberia, e di que’ tutti luoghi ove oggidì ancora reggono e adirizzano mercantia, quanto i’ gli avea per mie lettere pregati, così o tumulti, armate, esserciti o legge nuove, affinità fra prencipi, publice amicizie, armi o incendii, naufragii, o qualunque cosa acadesse per le province nuova e degna di memoria, subito me ne faceano certo.

Erano in que’ tempi gli animi de’ dotti astronomi solliciti e pieni di varia espettazione, quanto el cielo porgea loro manifesti indizii di permutazioni ed eversioni di republiche, stati e summi magistrati; e quasi comune sentenza, statuivano non poter lungi essere che quella stella crinita, quale a mezzo il cielo splendidissima e diurna continuati i dì appariva in que’ mesi, per sua notata consuetudine predicesse fine e morte di qualche simile al Duca famosissimo e supremo principe. E già era chi di questa promulgata opinione forse fatto avea el Duca certo; a cui, magnifica risposta, dicono, e degna di principe, rispose el Duca: sé non acerbo cadere dai mortali, ove così resti persuaso sé essere stato al cielo tanto a cura, e parerli morte gloriosa questa, ove doppo a sé poi viva diuturna fama; ché quelle intelligenze celeste così per sé esposero raro e maraviglioso segno e indizio, onde manifesto ciascuno compreenda che que’ lasuso divini animi immortali di sua vita e morte stati erano curiosi. Ma pur credo per questo tenea qualche ad altri poco manifesta, ma dentro in sé non piccola agitazion d’animo, quale io bello gli stolsi, come accadde che i nostri di Rodi prestissimo me avisorono in que’ dì Temir Scita, principe vittoriosissimo, duttore d’uomini in arme numero più che trecento mila, conditore di quella amplissima città ivi chiamata Ezitercani, era uscito di vita. Onde el Duca, come io m’avidi, facile stimò indi fusse al pronostico del cielo pel caso di tanto principe satisfatto. Con simili adunque novelle raro ch’io non avessi ottimo e quanto domandava prestissimo introito al prencipe, qual cosa m’acrescea buona grazia e manteneami benivolenza.

Morto el Duca, mi trasferetti a Ladislao re de’ Napolitani, omo ch’era di natura, più alquanto che aperto di costumi, vita ed eloquenza, più atto all’imperio d’arme che alla gravità e maturità de’ consigli. E costui giuns’io a farmegli noto e amico senza altro alcuno che me solo interpetre. Così avea fra me deliberato, così mi fu luogo e occasione troppo atta concessa. Era Ladislao in quel dì uscito a caccia, quando il trovai disceso seguendo le fiere arditissimo, solo, in luogo ond’e’ né facile fuggire, né senza pericolo sostenere potea l’impeto di quello orso grandissimo quale verso di lui irato ivi sé stessi concitava. Ond’e’, poiché solo avea non altro che dardi due sardi in mano, improviso assalito, stupido che in un tratto poco gli era luogo coll’animo vacare a consigliarsi e discernere qual meglio in quell’ora fusse o cedere alla bestia o contrastare, timido stette; ché ben volendo, non in quel loco assai valea fidarsi di sue armi e virtù, e per questo in qual parte si volgesse non avea. Io con due quali presso meco avea ottimi e ubidentissimi cani acorsi, e con parole eccitai il Re a men temere. Era de’ cani uno leggiere, destro, animoso a perturbare ogni impeto della fiera, e da ogni parte nulla cessava infestarla. Era l’altro fermo, robustissimo, fortissimo a contenere e a rompere ogni averso impeto. Questi a me cani nobilissimi avea el nostro Aliso, omo fortissimo tuo fratello, Adovardo, mandati in dono; e a lui stati erano dal re di Granata, apresso di cui forse e’ mercatava, in premio donati alle sue virtù, segno della benivolenza e amore quale quel re ad Aliso puose, perché ivi a fortissimo uomo nullo in certa loro celebrità e publica festa, né a lanciare, né a saltare, né lottare, né cavalcare, né simile alcuna destrezza e prodezza di membra e animo era stato licito superarlo. Chiamavasi quel più veloce Tigri, ed era nome all’altro più robusto cane Megastomo. Tigri adunque cauto e ardito svolse la rabbia della fiera in contraria parte tutta verso di sé. Megastomo, quell’altro d’ogni forza e fermezza armatissimo cane, in tempo ove la fera invano ardea, e in aria perdea suoi ferimenti, ivi con gravissimo e tenacissimo morso la prese su proprio alla cervice, e atterrolla sì subito che certo vidi verissimo quello dicono, animale quasi niuno più che l’orso trovarsi, a cui sia quella parte debole e fragile; tale che orso tommando, dicono, si trovò rompersi el collo; benché simile affermino dell’oca, che per troppa ingluvie e gullosità si vide non raro ch’ella stirpando un caule a sé stessi disnodò il collo. Adunque subito il Re co’ dardi trafisse e spacciò quel così atterrato orso, e verso me ridendo disse, latino loro vocabolo: «Te am’io, commiliton mio, che della salute nostra nelle voluttà non meno avesti che in arme cura». «Hovvi», diss’io, «grazia che quanto desiderava, così me ascrivete fra i vostri, e godone non alla virtù mia, ma tanto alla fortuna, quale oggi me fece essere vostro, come dite, commilitone, ché assai sempre fu pari riputata questa milizia delle cacce simile alla milizia delle armi contra a’ nimici». E a questo proposito già recitava io più cose, quando intanto sopragiunse el volgo de’ cacciatori, a’ quali io molto lodai la virtù del Re, che con sue mani e solo avesse aterrata sì grandissima e ferocissima bestia. Piacque adunque al Re io poi la sera seco fussi in cena, dove molto proseguimmo ragionando come alla caccia, e a quella delli uccegli, e a quella delle fere, e quella de’ pesci era necessario avere chi le fiere trovasse per non ivi indarno affaticarsi; e bisognavavi chi interpellasse e arrestasse la fera, se forse o timida fuggisse, o troppo ferocissima insultasse; e convenirvi chi la ritenga e prosterna e sottenga, e simile cose assai, per qual si dimostrava essere le cacce non solo simili allo essercizio delle armi, ma necessario e lodato essercizio a’ principi, non meno e a’ privati nobili cittadini.

Giannozzo. E che lode fie questa, darsi o intendersi di cacce? Seguendo bestie, atorniato da bestie, comandare e gridare a bestie, sedere sulla bestia? E chi così troppo si diletta, ancor lui bestia! E sono spese quelle grandi e inutilissime; poi tutto l’anno la casa mal netta, tutto l’anno pascer bestie per solo dì quindici trastullarsi e, trastullo certo da discioperati e da putti, vedere correre e volare; ché se questo vi diletta, un gattuccio in casa farà seguendo un parpaglione tarpato, o volgendo uno uovo infiniti mille più bellissimi e strani attucci; e fuori un nibbio vederete e con maggiore astuzia volteggiare la preda, e con animo non raro più che lo sparbiere, con l’altro nibbiaccio combattere suso alto a mezzo il cielo. E se forse la preda vi diletta, con molte e molte minor spese e minor fatica, e più salvezza della sanità vostra, altrove arete da saziarvi. Non a’ caldi mezza alla estate, non a’ freddi e neve, non alla polvere, non a’ venti aspri vi sarà opera agitarvi e tanta sofferir stracchezza per poi averne sì piccolo e brieve piacere e inutile sollazzo. In cose più degne e più alla famiglia nostra accommodate vorrò vedere la nostra gioventù essercitarsi.

Piero. E la preda non dispiace, e il giuoco di vederli volare a predare agrada. Ma in prima lo essercizio troppo contenta; el pigliar aria e lassar l’animo dalle cure publice assidue e grave ci diletta. Agiugni che le cacce sono preludii e quasi scuola a bene essercitare in arme. Ivi s’impara meglio usare la saetta, il dardo, lo spedo, e imparasi giugnere correndo, e aspettare fermo l’inimico. Non dico quanto l’ imperio in arme e lo essercizio qui alla caccia sia conforme e simile; sarebbe lungo e fuori del mio proposito.

Lionardo. Anzi, assai credo caderebbe in proposito, ché se veggiamo l’uso dell’arme quanto necessario a difendere e servare l’autorità e dignità della patria, e conosciamo la vittoria suole fermare tranquillità e pace e dolce amicizia, chi negasse che qualunque così noi renda più dotti a repellere e gastigare chi disturbi tanto frutto dell’ozio e tanto emolumento, costui insegna bene in questa parte e onesto vivere?

Piero. Siano, come tu di’, l’arti da superare e vincere l’inimico atte a’ ragionamenti nostri della amicizia, e sieno le cacce, come dissi, utile a’ principi tanto quanto di queste cose altrove si racconterà, qui a me ora pare da preterirle. In quella cena adunque piacque a Ladislao re dipoi avermi assiduo fra’ suoi domestici familiari in casa; e piacqueli ch’io apresso di lui tanto potessi, quanto i’ volea. Non però mai commissi che persona suspicasse me usar la grazia e favore di Ladislao in cosa non tutta iustissima e lodatissima. E delle cose ben giuste però non sempre quanto m’era licito volsi, e prima con studio fuggii adoperare la benivolenza del Re in cosa alcuna donde per chi si fusse errore o vizio a me potessi essere impinto alcuno mal grado. E per questo ricusava che per me alcun pigliasse magistrato a quale e’ non fusse e per uso e per costumi molto attissimo. E al tutto mai assentiva che, per amicissimo che mi fusse, alcuno isse in custodia alcuna, per fortissima e munitissima ch’ella fusse e lungi da ogni suspizione; ché non era io ignorante quanto in quelle simili pericolosissime amministrazioni la fede e diligenza sia raro e poco premiata, e la imprudenza, inerzia e ogni caso sparge troppo danno e vulgatissima infamia, non di chi erra solo, ma di tutti e’ suoi. E come in questo così adunque ancora altrove fuggiva io ogni odio e ogni invidia, escludendo a me tutte le ostentazioni e fastidiose pompe, quali nei pochi prudenti subito sogliono insieme colla prospera fortuna escrescere. Io così, contra, me declinava: davami facile, affabile, umano a qualunque a me in casa e fuor di casa si presentava, e così studiava essere grato e iocundo agli occhi e oricchi persino de’ plebei e infimi uomini. E perché così al Re dilettava vedere e’ suoi mottegiosi, festivi, desti, nulla pigri, nulla desidiosi, io non raro in sua presenza me essercitava, e con dolcezza eccitava gli altri a pari far prova di sua virtù, a cavallo in giostra, a piè schermendo, saltando, lanciando, e dava opera a tutti essere di costume e gentilezza non meno che in queste simili prodezze superiore; e bastavami non essere inferiore di forza quando potea superarli di cortesia e lode d’animo, benché a quelle destrezze e gagliardie, se a voi ramenta, vedesti me giovane non debole, e fra gli altri non disadatto. Ma come era apresso el Duca a me prima suto incommodo molestissimo el convenirmi con infinito studio di diligenza osservare e accorrere, ch’io non tardassi o perdessi quella e quell’altra ora utile a presentarmi, così con Ladislao qui m’era molestia gravissima né ozio, né certo spazio d’ora a mia privata alcuna volontà o faccenda quasi mai restarmi; tanto mi convenia così non altrove essere che pressoli, ché bene intendea io quanto chi disse la benivolenza de’ signori essere simile alla dimestichezza dello sparviere, disse el vero. Una volata el rende soro e foresto; uno minimo errore, una parola, come voi litterati di ciò avete infiniti scritti essempli, anzi e un sol guardo s’è trovato stato cagione che ’l signore prese odio capitale contro chi e’ molto prima amava.

Lionardo. E abbiànne essempli non pochi, né vulgari. Scrive Cicerone che Dionisio re di Siragusa studioso di giucare a palla, giucando avea dato a serbare la vesta sua a uno garzonetto da sé amato, e de’ suoi amici uno giucando disse: «E sì, Dionisio, a costui che racomandasti? La vita tua?» Vide Dionisio a quelle parole el fanciullo surridere, e per questo comandò ambo que’ due fussero uccisi, quali l’uno, quanto e’ giudicava, diede via a poterlo venenare, e l’altro ridendo parse assentirli.

Piero. Però io con molta vigilanza, assiduità e osservanza, con onestissimi e iocundissimi essercizii, con ogni riguardo in favellare e degna moderazion d’ogni mio gesto, curava, mantenermi la grazia e benivolenza di Ladislao re. Quale morto, Ioanni papa in Bologna, instigato da’ nostri inimici, chiese che fra dì non più che otto, e’ nostri Alberti ivi in corte a lui facessero presti per danari depositi a’ nostri in Londra, quella somma grandissima, quale tu Ricciardo, prima che né egli chiedea, né uomo altro stimava si potessi, subito in gran parte da Vinegia rimessati per Lorenzo tuo fratello, gli anoverasti; somma incredibile e non prima a’ dì nostri in uno solo monte apresso di privato alcuno cittadino veduta, ché furono più che mille volte ottanta monete d’oro. Io quale el quarto dì doppo che furono chiesti, era con molta larghezza ito a profererli e sollecitarlo se le prendesse, l’altro dì poi doppo che furono a chi e’ comandò consegnati, tornai a visitarlo, e raccontai più e più beneficii dalla famiglia nostra a lui e a più altri pontefici stati contribuiti: che mai quasi niuno entrò a’ dì de’ nostri in ponteficato, quale non abbia da lodarsi della liberalità e sussidio nostro: creder bene che qualche bisogno e occulta cagione l’avea indutto a darci quello sconcio, quale a’ mercatanti si truova pericoloso, trarli tanta e sì presta somma di danari, che vero si dice sono come sangue di chi se dia alla mercatantia: ma meno esserci stato il nostro incommodo grave, se lui per tanto si contentava quanto desideravamo; onde el pregava conoscesse l’animo nostro non meno esserli affezionato, che qualunque altro forse desiderava noi da lui meno essere amati. Furono l’ultime mie parole con fronte, in ogni mio dire, aperto, e con gesti quanto questi prelati ricercano, quasi adorandolo, ch’io gli profferia la famiglia nostra Alberta, in quale e’ volesse parte, ubidientissima e fidelissima. Guardommi fiso, e poi, fermato el guardo a terra, raccolse insieme le mani, e per allora disse non acadea darmi lunga risposta: amarci assai, e che io a lui tornassi. Fecilo.

Erano in lui alcuni vizii, e in prima quello uno quasi in tutti e’ preti commune e notissimo: era cupidissimo del danaio tanto, che ogni cosa apresso di lui era da vendere; molti discorreano infami simoniaci, barattieri e artefici d’ogni falsità e fraude. Cominciommi ad amare, credo per tanta ricchezza quanta e’ vedea in la famiglia nostra, ond’e’ a sé stessi persuadea fussi omo, quanto io me gli mostrai, largo e aperto potere valersene utile e molto emolumento. Era ancora fra tutti e’ suoi domestici una incredibile, continua dissensione e d’ora in ora volubilità di tutti gli animi della sua famiglia. Oggi questo potea el tutto; domani era costui da tutti escluso; e così d’ora in ora ciascuno procurava rendere odiato e dismesso chi sopra sé apresso del Papa fusse acetto. E per questo molti, vedendo quanto mi fusse dal pontefice prestato orecchie e mostrata fronte, per prepormi a’ suoi aversari, studiavano ch’io stessi primo a tutti in grazia apresso del maggiore. E come sapete, non la diligenza e virtù nostra solo noi fa grandi, ma la cupidità e opinioni di chi ci si sottomette a noi acresce autorità, degnità e possanza. Costoro così, o per altrui invidia preponendo me agli altri, o per concetta in sé opinione di mia alcuna virtù, facile me aveano collocato in suprema licenza e grado. Io a cui que’ vizii e suoi e di tutta la famiglia dispiaceano, e non poco intendea el Papa non amarmi se non per quanto egli aspettava da noi qualche utilità, e per non coinquinarmi e ricevere qualche nuota d’infamia conversando con quelli scelerati e da tutti e’ buoni odiati e vituperati, volentieri sì mi stava da loro segregato e lontano; ché sapete l’uso co’ viziosi sempre diede infamia e danno. Ma per usare la benivolenza sua, come si dice convenirsi fruttare l’amicizia de’ preti, sempre e per me e per miei gli domandava cose quale era suo debito dare, se non a me ad altri: officii, beneficii, grazie; e avute più repulse, non però me tirava adrieto, anzi di nuovo entrava a ripregarlo. Voglionsi vincere di stracchezza e importunità, insieme e vincere e’ competitori, non come molti fanno raportando e traendoli in invidia e malagrazia, — però che così aviene, a’ principi e’ raportatori tacendo sono sospetti, e referendo odiosi, — ma di virtù e merito vorremo essere primi; ché a chi chiede, solo basta fra molte una volta trovarlo facile e prono a darti, e le cose de’ principi negate non però sono a voi sì vietate che in tempo non si possino conseguire. Rendettilo adunque meco in questo liberale, molto pregandolo, molto ringraziandolo, molto lodandolo presso de’ suoi. E quello che tutto vincea, io d’ogni ricevuta beneficenza el premiava con doni, sicché mai de’ suoi niuno si partisse da me senza mia liberalità, quale parte tenesse a sé, parte presentasse al Papa.

Giannozzo. O questa una ultima, Piero mio, di quante usasti buone astuzie, sempre a me la trovai ottima! E quale oggi sarà che in miglior fortuna non sé stessi contenga, e quasi fugga qualunque amicizia di chi meno si sia fortunato, e da cui e’ s’aspetti no’ altro essere per averne che gravezza e spesa? E chi non tutto sé dia a felici e abundanti uomini, sperando da loro aiuto e favore alle sue necessità e desiderii? Tanto siamo quasi da natura tutti proclivi e inclinati all’utile, che per trarre da altrui e per conservare a noi, dotti credo dalla natura, sappiamo e simulare benivolenza, e fuggire amicizia quanto ci attaglia. Né mi maraviglio se, come tu dicevi, e’ preti ancora sono cupidissimi, quali insieme l’uno coll’altro gareggiano, non chi più abbia quale e’ debbia virtù e lettera, — pochi sono preti litterati e meno onesti, — ma vogliono tutti soprastare agli altri di pompa e ostentazione; vogliono molto numero di grassissime e ornatissime cavalcature; vogliono uscire in publico con molto essercito di mangiatori; e insieme hanno di dì in dì voglie per troppo ozio e per poca virtù lascivissime, temerarie, inconsulte. A’ quali, perché pur gli soppedita e soministra la fortuna, sono incontinentissimi, e, senza risparmio o masserizia, solo curano satisfare a’ suoi incitati apetiti. Onde avviene che loro conviene eleggere non e’ buoni, quali non sarebbono pronti ad essequire le cose brutte, ma solo volere chi sia testé atto a questa sua libidine e vizio, quale adempiuto segue in lui altra scelerata volontà; e per asseguirla si sottomette e come servo prega; e così di dì in dì muta nuovi mezzani e interpetri a’ nuovi suoi sporcissimi appetiti, onde fra chi fuori si vede escluso da quella ieri tanto intrinseca domestichezza e consuetudine, e costui quale ora possiede l’animo e guida le cose, nasce e arde maravigliosa malivolenza, e sempiterne gare e sètte arrabbiate in casa. E ciascuno, per essere in grazia, trama qualche nutrimento al vizio di colui così assuefatto a questa oscenissima e inonestissima vita, assediato da perditissimi e sceleratissimi assentatori, e quasi al continuo inceso e infiammato a nuova libidine e vizio, al quale sempre l’entrata manca e più sono le spese che l’ordinarie sue ricchezze. Così loro conviene altronde essere rapaci; e alle onestissime spese, ad aitare e’ suoi, a sovvenire agli amici, a levare la famiglia sua in onorato stato e degno grado, sono inumani, tenacissimi, tardi, miserrimi.

Qui Buto, quel ridiculo del quale sopra feci menzione: — Tutte queste vostre ragioni s’affanno, — disse, — alla mia brevissima, ma certo verissima e chiarissima. E troverrete così essere el vero: la natura ce ’l dimostra, che di cucuzzolo raso non bene si cava pelo. E sono questi preti fatti come la lucerna, quale posta in terra a tutti fa lume, e in alto elevata, quanto più sale, tanto di sé più rende inutile ombra.

Adunque sorrisono e levoronsi da tavola. Io indi e Carlo mio fratello entrammo a salutare nostro padre. Partitosi gli altri da Lorenzo nostro padre, sopragiunse Ricciardo. Piacqueli rimanere fra più scritture ivi solo in camera con Lorenzo, credo a determinare e constituire fra loro qualche utile cosa alla nostra famiglia Alberta. Tornammo adunque in sala dove così trovai Adovardo rispondea a Lionardo:

Adovardo. Parmi certo sì, quanto dicevi, Lionardo, tutto el ragionare di Piero stato maturo, grave, e pieno di prudenza; e bene vi scorsi la sua astuzia e arte non poca; e non ti nego, comprese quelle tre oneste, voluttuose e utile amicizie. Ma parmi in questa materia già fra me non so che più desiderarvi altro filo e testura, in quale né degli antichi ancora scrittori alcuno apieno mi satisfece.

Lionardo. Sarebbeti forse Piero piaciuto più, s’egli non in modo d’istoria, ma come sogliono e’ litterati, avesse prima diffinita che cosa sia l’amicizia, poi diviso le sue spezie, e con quello ordine proseguito sue argumentazioni e sentenze, scegliendo di tutte quale e’ più approvasse.

Adovardo. Anzi a me piace la sentenza di Cornelio Celso, quale più loda quel medico per cui opera si restituisca la buona sanità, e restituita si conservi, che di colui per cui sapienza sia noto se ’l cibo, come dicea Ippocrate, nello stomaco si consumi da innato alcuno in noi quasi ardore naturale, o se, come Plistonico discipulo di Parassagora affermava, si putrefà, o se, come ad Asclepiade parea, così si traduce indigesto e crudo. Così qui, se come el medico cerca sanità, così el filosofo e chi disputa di queste cose cerca felicità, e la felicità non si può avere senza virtù; e se la virtù consiste in operarla, e se l’amicizia si dice officio di virtù, costoro udirò io più molto attento e loderolli, se m’insegneranno quanto m’è certo necessario prima acquistarmi numero d’amici, già che niuno come di roba, così nasce ricco d’amici. Ma chi non se gli acquista, certo non si truova quanta li conviene copia d’amici. Poi quando nulla può in vita da mortali a noi in una ora essere e principiata e perfetta, costoro vorre’io a me dessono via a condurre la principiata amicizia in quello stato, quale egli stimano essere buono e onesto e da ogni parte perfetto: e se in questa opera qualche non prima a me noto e nocivo vizio in cu’ io amava si scoprisse, rendano me dotto qual sia utile arte a quanto e’ vogliono ch’io discucia la amicizia e non la stracci. E se tempo acadessi che io potessi revocarlo emendato ad onesto amarmi, vorrei non essere ignorante e poco saputo a ritrarlo e raggiugnermelo di vera amicizia, quale, poiché vediamo quanta sia ne’ mortali instabilità e volubilità d’ogni pensiero e instituto, ancora non meno desidero sapermelo in perpetua benivolenza e fede molto conservare. Nam e che utile porge in vita sapere disputando persuadere che la sola qual sia amicizia onesta persevera durabile e perpetua più che l’utile o la voluttuosa? che ancora troverrò io forse più numero d’amici, quando Pitagora filosafo m’arà persuaso che degli amici tutte le cose debbano fra chi insieme s’ama essere comuni? che credo quelli me ameranno con più fede e più constanza, quando Zenone, quell’altro, o Arestotele filosofo m’arà persuaso che l’amico, come domandato Zenone rispuose, sia quasi un altro sé stessi, o sia, come rispuose Aristotele, l’amicizia ha due corpi, una anima? Né Platone ancora mi satisfa dicendo che alcune amicizie sono da essa natura quasi constituite, alcune unite con semplice e aperta coniunzione ed equalità d’animo, alcune con minor vinculo collegate e solo con domestichezza, conversazione e convivere, uso d’amicizia, contenute; quali tre e’ nomina la prima naturale, l’altra equale, l’ultima ditta da quella antica consuetudine ch’e’ cittadini di qui divertivano a casa quelli là, e’ quali si riducono simili qui ospiti apresso di costoro, e per questo s’appella ospitale.

Queste adunque simili scolastice e diffinizioni e descrizioni in ozio e in ombra fra’ litterati non nego sono pure ioconde, e quasi preludio come all’uso dell’arme lo schermire: ma a travagliarsi in publico fra l’uso e costume degli uomini, se null’altro aducessero che sapere se la madre più che ’l padre ama e’ nati suoi, o se l’amor del padre verso e’ figliuoli sia maggior che quello de’ figliuoli verso el padre, e qual cagion faccia e’ fratelli insieme amarsi, temo loro interverrebbe come a quel Formio peripatetico filosofo, al quale Annibal, udita la sua lunghissima orazione dove e’ disputava de re militari, rispose avere veduti assai, ma non alcuno pazzo maggior che costui, el quale dicendo forse stimasse potere in campo e contro all’inimici quanto in scuola ozioso disputando. E ben sai, in tanta diversità di ingegni, in tanta dissimilitudine d’oppinioni, in tanta incertitudine di volontà, in tanta perversità di costumi, in tanta ambiguità, varietà, oscurità di sentenze, in tanta copia di fraudolenti, fallaci, perfidi, temerarii, audaci e rapaci uomini, in tanta instabilità di tutte le cose, chi mai si credesse colla sola simplicità e bontà potersi agiugnere amicizia, o pur conoscenze alcune non dannose e alfine tediose? Conviensi contro alla fraude, fallacie e perfidia essere preveduto, desto, cauto; contro alla temerità, audacia e rapina de’ viziosi, opporvi constanza, modo e virtù d’animo; a qual cose i’ desidero pratico alcuno uomo, da cui io sia più in fabricarmi e usufruttarmi l’amicizie, che in descriverne e quasi disegnarle fatto ben dotto. Così adunque vorrei dell’amicizia m’insegnassero acquistarla, accrescerla, descinderla, recuperarla, e perpetuo conservalla.

Lionardo. Questo ordine tuo apresso e’ dotti credo, Adovardo, non poco sarebbe approvato, ché così la natura el conduce. Né quelli scrittori antiqui però stimo a te meno per questo satisfacciano, se per altri loro principii e processi dimostrano prima la vera amicizia nulla essere altro che coniunzione di tutte nostre divine cose e umane, consentendosi insieme e amandosi con aperta e somma benivolenza e carità. Né se non solo tra e’ buoni consisterà questa vera amicizia, poich’e’ viziosi sempre a sé stessi sono odiosi e gravi, pieni sempre o di tedio o di sfrenata libidine, adunque e meno atti con altri ad amicizia. Onde quinci descrissero le differenze di varie amicizie, e di quelle qual sia stabile e vera, e in quella ottima quali sieno ottime e santissime regole a ben fruttarla: ché sai loro essere precetto, che prima si giudichi quanto quello sia atto ad amicizia, né cominci ad amare chi tu non bene conosca fido e diritto; e siamo ad amarlo non troppo da principio inclinati e quasi ruinosi, ma sostegniamo l’impeto della benivolenza; e ogni così nostro affetto, dicono, con prudenza e modestia si fermi e temperi; e poi ivi datosi ad amare, sia fra noi nulla fitto, nulla simulato, nulla non onesto, sempre vero e volontario officio e pronto beneficio retto e contenuto non da ambizione o cupidità, ma da vera, constante e ferma virtù. E se pur forse quello ordine tuo te più dilettasse, troverai credo apresso e’ scrittori antiqui da copioso in qual vogli parte satisfarti.

Adovardo. Né io a te negherei, Lionardo, e’ precetti antiqui assai essere utilissimi, né però ti concederò che in questo artificio siano quanto vi desidero scrittori molto copiosi; già che oggi, come tu sai, troviamo in questa materia de’ nostri scrittori non molti più che solo Cicerone, e in qualche epistola Seneca; e de’ Greci hanno Aristotele, Luciano. E questi non li biasimo, ma né molto in questa parte credo altri che io gli lodassi, a cui sempre qualunque scrittore fu in reverenza e ammirazione. E dicono che la virtù è vinculo e ottima conciliatrice della amicizia, e che l’amicizia fiorisce a buon frutto, poiché fra loro el beneficio sia ricevuto, lo studio conosciuto, adiuntovi consuetudine. E dicono starvi la virtù ad onestà, la consuetudine a iocondità, ed esservi una quasi necessitudine creata dai benefici, quale induca ad amare. Simile né molto suttili, né assai al vivere utilissimi detti sì certo sapevi tu non inesperto prima che mai gli leggessi altrove scritti. E quale sì sciocco in tutto e nulla intendente non conosce che e’ beneficii, l’essere studioso e assiduo in cose quale sieno grate, fanno averci cari e amati? Ma non ciascuno dotto in lettere saprà porgere la sua virtù con modo e dignità a farsi valere a benivolenza e amicizia, né saprà quello scolastico dove e quanto l’asiduità, lo studio, el beneficio, in questo più che in quello ingegno, luogo e tempo giovi e bene s’asetti; quale cognizione dico, e tu non credo neghi, essere necessaria. Né puossi bene averne dottrina solo dai libri muti e oziosi. Conviensi in mezzo alle piazze, entro a’ teatri e fra e’ privati ridutti averne altra essercitazione e manifesta esperienza. Non truovo io sì facile conoscere que’ buoni a chi solo piaccia la virtù, né a tutti con mio officio e beneficio, quanto desidero, tanto m’è licito far noto l’animo mio verso di lui; né per nostra assiduità e frequente uso a noi sempre fie luogo a ricevere frutto della amicizia. Quanto si truova raro che quella parità ed equalità d’animo fra gli amici risponda a quel antico detto del nostro poeta latino Ennio: l’amico certo si possa conoscere ne’ casi incerti! Dicoti, Lionardo, non fia forse come gl’indotti si stimano facile, no, acquistarsi gli amici; che industria non vi bisogni altra che pur solo sapere se la amicizia fu trovata per sovenire alle necessità, o se doviamo essere di quel medesimo animo verso gli amici di quale e’ sono verso di noi, o se la amicizia si debba ad altro alcun fine che solo a frutto di vero e onesto amore.

Lionardo. Quasi, Adovardo, come se tu poco avessi in questa parte apresso ciascuno scrittore veduto più e più ammonimenti ed essempli utilissimi; ché non solo e’ filosofi, ma e ancora ciascuno istorico a me pare pieno di documenti perfettissimi a ogni uso di qual si sia amicizia, quali credo non posponi ad alcuno essemplo tratto di mezzo il volgo e moltitudine. Né credo truovi posta apresso della istoria meno che apresso di qualunque espertissimo plebeo, prudenza e ragione del vivere. Se la età lunga presta conoscimento di varie cose, la istoria vedi comprende più d’una non solo età, ma seculi. Se l’avere udito, veduto, provato molte cose porge cognizione e cauta astuzia, la istoria e vide e conobbe e cagioni ed effetti, e più a numero e più maravigliosi, con maggiore autorità e dignità, che qual si sia mai diligente padre di famiglia in vita. Della istoria adunque e degli altri ancora litterati potremo facile trovare e coadunare questa industria e artificio tuo, quando da’ filosofi arai compreso che ogni tuo studio e opera sarà con piccolo profitto, se non osserverai loro precetti e amonimenti in eleggere virtuosi e studiosi amici; quali precetti se poco valessero ad amicizia, nulla ti nocerebbono no’ gli osservando, dove ti noceranno poco osservati.

Adovardo. Maravigliomi che tu della istoria, quale solo sempre recita perturbazioni di stati, eversioni di republiche, inconstanza e volubilità della fortuna, preponga dedurmi precetti a conseguire quanto voglio amicizia. Son certo della dissensione quale venne fra’ Cartaginesi e’ Latini per ottenere ciascuno l’isola di Cicilia, tu estrarrai e’ vincoli della amicizia, e dalle insidie e prede fra loro seguite, tu comporrai arte da condurmi in tranquilla e dolce coniunzione e unione d’animo. Riderei se tu meco facessi professione monstrarmi con quelle occisioni e ruine delle terre in che modo io potessi godere con felice amicizia.

Lionardo. E’ sono apresso gli storici e apresso e’ filosofi essempli e detti infiniti ad acquistarsi amici accomodatissimi, dolcissimi a leggerli, degnissimi a mandarseli a memoria, pieni d’autorità, e da nulla parte da poco udirli e stimarli. Olimpia, madre d’Allessandro macedone, solea scriverli fusse studioso d’acquistarsi amicizia con doni, beneficio, e con quelle cose donde egli ampliasse e di sé promulgasse laude e gloria. Ed era in prima sentenza di tutti gli stoici filosofi, nulla più trovarsi attissima a farsi amare che la virtù e la onestà. Così Teseo, quello che superò el tauro maratonio, fu dalla fama e lode di Ercule mosso ad amarlo. Temistocle, dice Plutarco, acquistò fra’ suoi gran benivolenza, perché in magistrato rendendo ragione era iustissimo e severissimo. Aulo Vitellio, quello quale doppo la morte di Silvio otenne il principato in Roma, scrive Suetonio, perché era in augurii perito, fu a Gaio imperadore amicissimo; e non meno a Claudio fu costui medesimo accettissimo, perché e’ bello giucava a tavole. A Ottaviano piacque Mecenas, perché lo provava taciturno; piacqueli Agrippa, quale vedea pazientissimo in ogni fatica. A Catone, vedendo Valerio Flacco suo vicino in villa molto assiduo dare opera alla agricultura, di quale Catone troppo si dilettava, el prese in amicizia. In questi adunque valse la virtù e similitudine di studio alle cose oneste e lodate. L’utilità, e’ benefici, e’ doni, quanto e’ giovino chi nollo sa? Tito Quinzio Flamminio, dicono, perché co’ suoi decreti rendette libera la provincia Asia dalle molte false iscritte usure in quali ella iacea oppressa, acquistò apresso di tutti que’ provinciali maravigliosa benivolenza, e tanta gli fu in teatro renduta festa e gratulazione, che per le grandissime in alto voce messe dal popolo lieto, uccegli non pochi storditi e stupefatti cadderon in mezzo della moltitudine. E che non possono e’ doni? Non solo conciliarsi nuovi amici, ma e reconciliare a grazia e’ già incesi animi di grave malivolenza e indurato odio. La famiglia de’ Fabii in Roma, non in quel tempo assai grata al popolo, quando ricevette in casa e governò a sanità gran moltitudine di feriti in quella battaglia in que’ dì fatta contro gli Etruschi popoli, ove Fabio consule fu morto, per questo recuperò l’antica e buona grazia. E prima sendo el Senato in grande odio e dissension col popolo, fece decreto che si distribuisse stipendio a’ cittadini romani quali ivi erano in essercito; e a questo uso si coniorono e’ primi in Italia danari. Così quelli prima alienati, ora per questo dono ritornorono in grazia e pacifica amicizia.

Né solo si domestica co’ doni l’uomo, ma e le bestie. Scrive Aulo Gellio che Androdoro servo d’un romano uomo nobile e consulare in Africa, fuggitosi dal suo padrone in luogo deserto, curò in quella spelonca ove e’ latitava, uno lione ferito da un stecco nel piè, e per questo beneficio fra loro tanta nacque coniunzione che poi insieme vissero anni tre in summa concordia. E in merito del ricevuto beneficio el leone qualunque dì all’uomo portava parte delle prede sue, quale Androdoro a mezzo dì alla vampa del sole incocea, e così sé pascea e sostentava. Acadde che preso el lione e tradutto a Roma, all’uomo convenne altronde procacciarsi; e uscito della spelonca fu ripreso dallo essercito di colui a cui egli era fuggitivo servo; e dipoi, per punire la sua contumacia, fu adiudicato alle bestie, a qual morte gli sceleratissimi ivano condennati. Cosa miracolosa! ché subito veduto dal suo amico lione Androdoro, da lui fu quasi in grembo ricevuto e dall’altre fere salvato. Per quale spettaculo mosso gli animi della moltitudine, fu el servo e il lione donati a libertà, e usciti in publico, dicono, tanta era consuetudine fra la fera e l’uomo, che con sottilissimo freno Androdoro servo menava quasi al lascio el suo leone per tutti gli artefici di Roma, e diceasi: «Ecco l’uomo amico del lione, e il lione hospes dell’uomo». E Seneca simile scrive avere veduto tale spettaculo maraviglioso certo e incredibile. E ancora e’ buoni scrittori e Plinio mandorono a memoria come quella serpe in Egitto, usa pascersi alla tavola di quello uomo a cui uno de’ suoi serpentelli morse e uccise el figliuolo, conosciuto che per colpa del suo era viziata l’amicizia, in vendicarli la ingiuria lo uccise, e sé stessi così privò del caro suo figliuolo. Né contenta a questo, poi più ebbe audacia di ritornare sotto que’ tetti, dove tanto era vivuta familiare, e dove tanta per e’ suoi fusse stata commessa ingratitudine. Adunque ben conoscea divo Tito, quanto Suetonio e anche Eutropio affermano, se molto valessero e’ doni ad amicizia, poiché la sera ridutto solo, si dolea quando in quel dì nulla avea o promesso o donato a chi che sia. E simile vedrai nascere grande benivolenza fra coloro quali insieme aranno ioconda e voluttuosa conversazione. E dicea Platone gl’uomini quasi com’e’ pesci con l’amo, così colla voluttà pigliarsi. Scriveno che a Perseo tanto dilettò el generoso aspetto di Teseo, e a Teseo tanto fu gratissimo la presenza e bellezza di Peritou, che sola quasi questa fu prima cagione a insieme coniungergli d’amicizia. Fu Pisistrato a Solone e a Socrate, dicono alcuni, fu el suo Alcibiade amicissimo, perché erano di forma bellissimi. Marco Antonio acquistò amicizia non pochissima protraendo colla gioventù ragionamenti amatorii, e servendo alle passioni degli innamorati. Silla, referisce Sallustio, fu meglio voluto dal suo essercito, poiché lo lasciava in Asia oltr’al severo costume antiquo romano essere lascivo. E potrei simile infinite istorie e detti raccontarti, per e’ quali arai ottime imitazioni a estraere precetti utilissimi ad acquistarti amici; qual cosa chi sappia e chi certo sa rendersi per simili occasioni e ragion di vivere amato, costui con quello artificio saprà e in tempo rinnovare, e quanto basti in loro accrescere molta benivolenza e ferma grazia; quale, a mantenerla, nulla stimo più ivi ben sia accommodato che l’uso frequente, lieto, onesto e nutrito non senza qualche utile. E contro, a discinderla chi negasse che ’l disuso più che cosa altra alcuna molto giova? Cosa niuna tanto cancella dell’animo qualunque ferma inscritta si sia memoria, quanto fa la dissuetudine.

Adovardo. Eh! quanti precetti qui necessari mancherebbono, Lionardo, a chi volesse lato e diffuso disputarne! come se chi forse avesse dagli astronomi udito che Marte disponga impeto di esserciti e furore d’arme, Mercurio instituisca varie scienze e suttilità d’ingegno e maravigliose arte, Iove moderi le cerimonie e animi religiosi, el Sole conceda degnità e principati, la Luna conciti viaggi e movimenti feminili e plebei, Saturno aggravi e ritardi nostri pensieri e incetti; e tenesse di tutti così loro natura e forza, dove nolli fusse noto in qual parte del cielo e in quanta elevazione ciascuno per sé molto o meno vaglia, e con che razzi l’uno all’altro porga amicizia o inimicizia, e quanto coniunti possano in buona o mala fortuna, certo sarebbe non costui astrologo. Ma quella semplice cognizione di que’ nudi principii, a volere bene in quella arte venire erudito, sarà tale che senza esse nulla potrà; con esse non però arà che introito ad aprendere l’altre quasi infinite ragioni a prevedere e discernere le cose, a quale el cielo tende per produrle. Così qui ora que’ tutti essempli e sentenze, quali affermo sono apresso gli ottimi scrittori utilissimi e copiosissimi, non però prestano quanto aiuto ci bisogna.

E ramentami in questo pensiero e investigazione qualche volta meco iscorsi non le cagioni solo onde nascessero le amicizie, ma e ancora el modo e quasi legge d’intrarvi. E vidi nascere l’amicizia, o per nostra industria, o per opera di chi noi quasi invitati coniugniamo a darceli benivoli e cupidi dello onore e utile suo. Intesi quanto conferia a così farsi chiedere, el sapere porgersi onesto, modesto, facile, affabile, iocondo, astinente, officioso, mansueto, e animoso ancora e constante, e chiaro di buona fama e nome. Vidi quanto allettava darci a qualunque lodati e buoni, quasi come refuggio e porto, dove truovino fedel consiglio, pronta opera, presto aiuto, e in ogni loro cosa diligente cura, molto e assiduo officio. Conobbi la liberalità, osservanza, munificenza, gratitudine, fede, religione, e in tutti buona speranza di noi e buona espettazione, queste essere ottimi interpetri della amicizia. E meco compresi bisognarci varie arti, vario ingegno, e non poca prudenza, e molto uso a legarsi gli animi degli uomini, quali sono, quanto nulla più, volubili, leggieri, facili a ogni impeto a quale e’ sieno incitati; minima favilla in loro incende grandissimo odio, minimo lustro di virtù gli abbaglia ad amarci. E come chi prima piglia la somma foglia del ramo, poi prende la vetta più ferma, appresso abbranca el tronco e piegalo, e carpisce el frutto, così conviensi a trattare le menti e ingegni umani, non in un tempo volerli avere irretati, ma prima tendere e con maturità procedere: ieri salutarli, e bastò darli di te buona presenza e dolce aria, per quale e’ ti giudicasse non incivile né imperito; oggi inseminarli qualche espettazione, qualche desiderio d’essere teco domani. E quasi sarà niuno a cui non paia lungo aspettare quel dì quale arai predettoli, nonché di dirli o darli cosa gli piaccia, ma e di chiederli e aoperarlo in tuo alcuno non ancora dettoli bisogno, tanto, non so come, siamo da natura cupidi e frettolosi a conoscere ogni cosa. E sarà quasi niuno quale non desideri trovarsi spesso con chi gli renda onore e prestili iocondità e onesto riso.

Ma constituiva io meco non però sempre da condursi a quel certame con qualunque in mezzo si presentasse. E sono io però, sì, non nego, di quelli che vorrei da’ buoni e da’ non buoni essere amato, già che qualunque odio può nuocermi, e l’amore di chi si sia conduce in tempo a’ nostri bisogni; né si biasima chi col pericolo de’ non ottimi cittadini propulsa e vendica l’iniurie ricevute da’ viziosi e perduti uomini. Pur sempre, quanto in me fusse, fuggirei la consuetudine e familiarità de’ mali e scellerati, de’ quali assentisco a que’ filosofi che affermano mai potere se non tra’ buoni essere amicizia. A chi può essere caro altri più ch’a sé stessi? Non amano sé stessi e’ mali. Sempre sono seco gravi e molesti, ora ricordandosi de’ suoi passati delitti, ora pendendo coll’animo a qualche nuova scellerata impresa, e ora essaminando e giudicando quanto e’ siano vacui di virtù. Compiuti di vizio, in odio agli uomini, mal grati a Dio viveno miserrimi. Agiugni che l’amicizia de’ viziosi sta piena d’incommodi, danni, difficultà e gravissima sollecitudine; alla fine convienti o insieme col vizioso amico cadere in infamia, o partirti inimico. Adunque fuggo e’ non buoni, e contro, apparecchio me a prendere tutto el numero di chi a me paian buoni.

Discerno e’ buoni da’ non buoni per molti segni, fra’ quali el nome e fama vulgata assai mi testifica e persuade quanto ciascuno sia degno d’essere amato. E sempre conobbi ottimo segno di vera probità in colui, quale vidi astenersi dalle voluttà, darsi con studio e opera e diligenza alle cose in prima lodate e non poco faticose. E per meglio potere conoscere e agiugnersi molti buoni, chi dubita bisogna non tenersi in solitudine, ma conversare in mezzo alla moltitudine? Dove non lodo chi a tutti sé dia pur a un modo facile, e biasimo chi, non servata ogni dignità, usa o gravità o umanità dove e come e quanto non bene sia assettata. Alcuni dispiaceno perché poco degnano; alcuni men piacceno quando quasi publici abracciatori salutano questo, baciano quell’altro, arrideno a un altro, e con troppa blandizia, assentatori e servili, se gettano a gratificare a qualunque se gli presenti. Ameremo adunque in ogni cosa accomodarvi modestia. Né per allettarci grazia faremo che noi perdiamo dignità e autorità, quali due cose sempre ad amicizia utilissime, non sanza fatica s’acquistano, e facile si perdono. Uno atto di levità, una parola inconsiderata cancella di noi spesso buona oppinione. Adunque in ogni nostro processo serviremo agli occhi della moltitudine, poiché nostro officio fie piacerli quando indi instituimo sceglier copia d’amici a noi.

Ma chi può dire qual sia varietà maggiore ne’ visi degli uomini, o pur ne’ loro animi? Vedrai alcuni gravi d’aspetto, moderati nelle parole, duri a rispondere, severi al giudicare, iracundi al disputare, superbi al contendere, quali vizii sono comuni alle ricchezze e prosperità della fortuna; alcuni motteggiosi, festivi, lieti, ridiculi; alcuni pacifici, remissi, taciturni, umili, vergognosi; alcuni petulanti, audaci, inconsiderati, iattabundi, subiti, volenterosi; e alcuni, come Callicles dicea presso a Plauto poeta, staranno doppi e moltiplici, non d’ingegno solo e animo, ma in ogni risposta e atti e parole, che mal potrai conoscere a qual parte e’ pervengano ad amicizia o ad inimicizia. Così, tanto si truova diversità e corrotta natura in fra e’ mortali! Né iniuria, Teofrasto, quello antiquo filosofo, in età sino anni novanta, si maravigliava che cagion così facesse e’ Greci, tutti nati sotto un cielo e con ordine d’una equale disciplina e costume educati e instrutti, tanto fra loro l’uno essere all’altro dissimile. E onde questo, che alcuni, quando molto mostrano lodarti, v’agiugnono cose che più siano a biasimo e vituperazione che a lode, in modo sì escusato che tu non hai aperto da dirti offeso. Altri in ogni vita ambiguo; altri ostinato, arrogante; altri perfidi, fallaci, quali aperto lodando e applaudendo e cedendo studiano locar sé superiori, e da te molto essere ubiditi e beneficati. E così quasi vederai trovarsi niuno in cui non sia qualche segnato mancamento in suoi costumi, e certo in la ragione del vivere, rari che sappino in sue oppinion e voglie, instituti e opere tenere quella mediocrità qual tanto piace a’ peripatetici filosofi, che nulla da noi sia superchio, né si pecchi verso el troppo, né verso el poco.

Ma, né io a te negherò che la virtù molto vale darci a qual si sia uomo benivoli e accetti, poiché sì da natura tutti siamo affetti a’ virtuosi, e tanto ci muovono le loro lodi a pregiarli e reverirli. E niuno sarà che neghi ciascuno dato a virtù molto meritar lode, e pertanto grazia e buona affezione verso di sé. E appresso confesserotti che ogni dissimilitudine di vita, di costumi, d’uso, d’età, di studii disturba e non permette quello qual dicea Empedocles, che simile a quello che aquaglia el latte, così con amore si concreino insieme gli animi e couniscono; e qualunque similitudine sia, dico, molto alletta e invita gli animi a comunicare amore. Quello famoso in istorie Timone ateniense, uomo acerbissimo e duro, volle in familiare amico, quale e’ dicea piacerli, Alcibiade, giovine ardito e concitato, perché a lui parea costui, quando che sia, sarebbe a molti cittadini pestifero e calamitoso. Amò ancora Apemanto, uomo bizzarro e simile a sé. E leggesi che, per acquistarsi la benivolenza de’ popoli barbari, Alessandro vestì stola e abito barbaro. E Marco Catone mi ramenta che, per molto darsi caro a’ suoi uomini d’arme, volle in cosa niuna da loro aversi dissimile. Per quali tutte cose ben conosco quello testé che giovanetto e in queste lettere non tanto erudito, ma dotto dalla natura discerneva, ogni ancora forse dislodata similitudine conciliare fra’ mortali pari amicizia. E provai ne’ miei primi anni in Genova molto a me giovò questa astuzia, che giunto ivi e solo di conoscenze, finsi amare una quale fra l’altre stava in bellezza e gentilezza celebratissima fanciulla; e con questa licenza me tragittai fra gli altri nobili giovani dati in quella età all’ozio amatorio, appresso de’ quali principai notizia e familiarità a me e a’ miei fino in questa età utilissime.

Ma tanto t’afermo essere alcuni sì da natura proni e proclivi ad amicizia, che piccola ombra di virtù e qualunque segno di simili studii li eccita e conduce a benivolenza. Alcuni, contro, sono ad amare tardi e rattenuti, in qual numero e’ vecchi, benché d’animo e studii a te simili, pur costoro più sono che i giovani tardi e pesati a contraere nuove amicizie. Né forse gli biasimerei, poiché provorono in molta età alcuni tanto tramare quasi pattuita amicizia per solo valersene, e collo altrui sudore e fortune pascersi. E quasi niuno correrà a congiunger nuova teco benivolenza senza suo qualche utile proposito e sperata commodità. I giovani quasi tutti godono acumularsi nuove grazie, né pochi sono que’ poveri e in le sue fortune male constanti, quali, suo artificio, sottomettono sé, e con industria profferendosi e quasi adescando rendono sé amati. Quali cose poiché così sono, varie adunque arte, vario ingegno ci bisogna. Né pur solo, come dicea Zenone filosofo, sono ottima presa gli orecchi, quale interpreto io con eloquenza, o forse in prima con buona fama di noi e commendazion, molto ad acappiarsi gli animi umani: ma sono lacci ancora non pochissimo atti in noi l’indole e la presenza e ’l modo del vivere civile, e’ gesti degni e aspersi di umanità e parati a grazia. Né sarà che tu possi se non piacere, se in ogni tuo atto, detto, fatto, abito e portamento te presenterai modesto, costumato, ornato di virtù. E raro acaderà che di dì in dì non succedano nuove coppie a iniziar teco nuova conoscenza e assiduità, se, come dicea Cicerone al fratello suo, el volto e fronte, quali sono quasi porte dell’animo nostro e addito, mai saranno a persona non aperte, e quasi publice e liberali. Verranno gli studiosi di lettere e dati a cognizione delle suttilissime cose e difficillime arti; costoro desiderano te testimone e promulgatore della fama e lode sue. Quelli operosi a’ traffichi e a mercantia ancora teco proccurranno e adatteranno qualche utile. A’ fortunati possenti giovani e splendidi manca in prima al loro appetito tradursi a sera con qualche voluttà; e questi non saranno ultimi a usufruttare quella sì loro grata quale in te vedranno umanità e gentilezza. Tu con ciascuno di questi ramenterei immitassi Alcibiade, quale in Sparta, terra data alla parsimonia, essercitata in fatiche, cupidissima di gloria, era massaro, ruvido, inculto; in Ionia era delicato, vezzoso; in Tracia con quelli s’adattava a bevazzare ed empiersi di diletto; e tanto sapea sé stessi fingere a quello acadea in taglio, che sendo in Persia, altrui patria, pomposa, curiosa d’ostentazioni, vinse el re Tisaferne de elazione d’animo e di magnificenza.

Ma per in tempo accommodarsi e accrescere amicizia, fia luogo comprendere ne’ gesti, parole, uso e conversazioni altrui, di che ciascuno si diletti, di che s’atristi, qual cosa el muova a cruccio, ad ilarità, a favellare, a tacere. E per più certificarsi quali in loro siano affetti e proclinazioni d’animo e volontà, non manca certa ottima astuzia da non molti conosciuta: due e più volte recitare vera o fitta alcuna istoria, con che arte e modo quello amatore condusse e’ suoi amori, con che diligenza, callidità e solerzia quello conseguisse el guadagno, con quanto studio, assiduità e ardore quell’altro sé tutto desse alla dottrina e cognizione delle lettere, allo essercizio militare, o a qual altra opera e cosa teco facci coniettura secondi chi t’ascolta; e in quella narrazione, nulla con ostentare tuo o ingegno o esquisita eloquenza, ma con puro e semplice modo di ragionare, notare ogni suo movimento di volto, di gesti, e in ogni risposta quanto appruovi e quanto biasimi. Bruto e Cassio, coniurati a vendicare la libertà della patria sua, quale Gaio Cesare avea con arme occupata, proponendo in mezzo forse simili disputazioni, se per beneficare el popolo sia lodato porre in pericolo el senato, o se la discordia civile fusse a’ cittadini meno che ’l tiranno grave, argomentando compresero quanto a Statilio epicurro e con Favonio imitatore di Catone potessero poco communicare, o commettersi a loro constanza e fede.

Né meno fu prudenza in messer Benedetto Alberto vostro avolo, Battista, uomo civilissimo, quale in Ponente alle compagnie e a que’ grandissimi loro traffichi mandava uno in vista modesto, alle faccende assiduo, ne’ costumi assai moderato giovane, in cui non conoscevi scoperto biasimo alcuno. Qual cosa fece che messer Benedetto dubitava in costui essere pur qualche vizio, ma sì grande e sì bruttissimo che però molto s’afaticasse occultarlo. Né dubitava in qualunque uomo, per ottimo che sia e santissimo, poiché siamo terreni e quasi sforzati con più stimolo seguire la volontà e appetito che con vero iudicio e integrità ubidire alla ragione, però sempre in noi sedere qualche menda e difetto. Adunque con molta diligenza molto notando e pesandolo, solo una prima volta a tavola el vide, cenato, maneggiare que’ minuzzoli rimasi del pane, quale chi getta e’ dadi. Subito per questo poi a messer Andrea suo primo figliuolo, cavaliere giovane, quale, se ora fusse in questa età in vita, non dissimile allora di costumi e di studii, oggi sarebbe d’autorità e fama al padre non inferiore, commisseli tentasse el giovane prima a scacchi, tavole, e simili non inonesti, onde poi seguisse tentando quale esso sé avesse agli altri più dislodati e brutti giuochi. Così el trovò non utile a chi e’ fidasse suoi danari e traffichi. Simile adunque astuzie non poco aitano a discernere la vita e costumi in altri, benché occulti.

Onde poi conosciuta la natura e modi di quelli quali tu proponi accoglierti e accrescerti ad amicizia, sta luogo usare la industria di Catelina, uomo in questo certo prudentissimo e ottimo artefice, quale a questo donava lo sparviere, a quello l’arme, a quest’altro el ragazzo, e a tutti quello di che in prima si dilettasse. E vidi io inseminare e farsi molto maggiore la benivolenza, non raro ancora fra chi te mai non vide, quando fummo lodatori e quasi promulgatori delle virtù sue; quando difendemmo la dignità, autorità e nome suo appresso de’ maledici e detrattori; quando fummo a’ suoi amici e procuratori con nostra opera, consiglio e suffragio utili, e in aiuto a conservarli e accrescerli utilità e pregio; quando sovvenimmo alle loro espettazioni e desiderii. E seguirò io pur qui teco essere inetto, Lionardo, quasi come instituendo te in amicizia, omo quale più che altro alcuno sempre conobbi da tutti molto amato. Né so come entrai, e forse temerario seguitai questi ragionamenti, degni, quanto ora m’aveggio, di più premeditata e più erudita ragione di dire, che confesso non è in me. E che dirai, Lionardo? che siano ampli questi luoghi, e dove per adempier a ciascuno, bisogni copia di precetti maggiore assai, che tu non dicevi bastare a tutta la materia? Tu solo affermavi, quel che né io nego, l’utile, la onestà, la voluttà dare principio ed essordio alle amicizie; e chi fusse artefice buono di creare nuove a sé benivolenze, costui assai era dotto a innovarle e raccenderle già spente, e farle maggiori.

Lionardo. Non te con questi sotterfugii, Adovardo, sottrarrai, che tu oggi non dia questa intera e ottima opera qui a Battista e Carlo, quali desiderano molto essere a te simili bene amati, el quale in questo tuo ragionare fusti nonché non inetto, ma in prima non poco facundo e copioso; e adducestimi in questa sentenza, che io affermo così trovarsi artificio ad amicizia in mezzo l’uso e conversazione degli uomini più molto, che ne’ nostri, quali io troppo approvava, libri e discipline scolastiche. Onde tu, el quale sempre studiasti in acquistarti grazia e benivolenza, se contro a’ tuoi precetti forse, qual non credo, vorrai darti a noi difficile e duro a satisfare a’ desideri, alle petizioni, alla utilità nostra, sia certo nulla ti crederemo sia quanto recitasti. Se già non giudicassi forse, o poco essere a noi grati e utili e’ tuoi ricordi in questa materia, o forse più cureresti altrove essere dagli strani per tuo beneficio che da’ tuoi amato, dorremoci se verso di noi, qual usasti verso di tutti gli altri, non userai la tua natura e costumi facili, umani e liberalissimi.

Adovardo. E appresso degli altri m’è grato locarmi con benivolenza, e sempre mi fu a cuore quello che mi sarebbe vituperio se appresso de’ miei ricusassi ogni dì più essere carissimo. Ma ritiemmi ch’io vorrei avervi premeditato, che pur sino a qui dicendo da me stessi desiderava ordine più di cosa in cosa dedutto e meglio composto.

Lionardo. E a chi sì delicatissimo sarebbe quello ordine tuo, Adovardo, stato ingrato? dove prima ponesti l’amicizia e per nostra e per altrui opera principiarsi; subiungesti qual noi cose facciano chiedere, e quali rendano accetto a grazia e benivolenza; recitasti el modo a principiare familiarità; discernesti con chi fusse facile o difficile adattarsi e aggiugnersi a consuetudine e domestichezza, e ivi desti segni in prima patenti e noti; poi ci rendesti sagaci a investigare le occulte latebre degli animi umani; ultimo cominciasti fabricare e crescere su’ primi congittati fondamenti maggiore e più ferma amicizia: ordine nobilissimo. Tu tanto adunque seguita, e fa sì che per tua dottrina, quale dico utilissima e ne’ nostri libri da me non prima intesa, noi e del tuo insegnarci multiplicare amicizia, e del nostro avere imparato, a te rendiamo, quanto ci fie debito renderti, premio se perseveri; e se non perseveri, non sapendo adattarci a questo officio di amarti, non potremo. Niuna scusa ammettiamo cupidissimi udir te, qual dicesti come si principii amicizia; ora udiremo quella in che modo si faccia maggiore e rendasi perfetta. Séguita.

Adovardo. In non pochissimi de’ nostri e più altrove cittadini studiosi d’avere molti benivoli, col cui favore e suffragio salgano in amplitudine e fra’ suoi stiano temuti conobbi io questa fraude, che chi e’ non poterono a sé forse quanto voleano allettarli e farseli domestichi, curavano per altri fussero tratti in qualche litigio, o indutti in qualche nimicizia grave e capitale, o alfine intriggati in qualche aspera difficultà; onde ivi subito apparecchiati e’ sollecitatori e promettitori, quasi vinti dalla necessità e proposita occasione, dove prima ricusorono chiamati darsi liberi amici, testé per uscire d’incommodo non restano pregare e obligare sua fede e opera a molto meritare da chi poi e’ confessano sé essere servi. Non farò io così; né sarò di quelli che, per rendere più caro el beneficio, sostenga voi in alcuno desiderio di cose ch’io possa; ché sarebbe contro a’ primi vulgatissimi precetti d’amicizia, se così recusando ubbidirvi diservissi a fine di più essere amato. Ché pur stimo tanto l’ordine mio non vi dispiace, che non qui a me bisogna così fare come chi preserva pregio alle gemme con essere avaro e duro a dimostrarle. Ma divolgarete voi in publico ch’io uomo ingegnosissimo trovai nuove e non prima scritte amicizie? Chi potrà tenersi che di voi non rida, quali sì attenti me ascoltasti? Niuno sarà ancora tinto di lettere, che me non riprenda arrogante e non contento della dottrina e scritti de’ maggiori, tanta età da tutti approvati.

Lionardo. Riderebbe certo Battista qui e Carlo, se, dove a te qui protestai volerti udire e accettare da te scusa niuna, tu qui ora con questa insinuazione fuggissi satisfare al desiderio ed espettazion nostra. E in questi nostri ragionamenti familiari assai sarà averci, quanto chiediamo, giovatoci. Quando altrove acaderà, satisfarai al volgo e a’ litterati. Ora sappi a te s’appartiene dar qui opera che noi conosciamo te, quanto affermi, nulla volere che noi lungo desideriamo la tua facilità.

Adovardo. Vincetemi. Uditemi. Seguita vedere qual cosa, e in che modo accresca e rendasi perfetta la amicizia; poi seguita, se cosa disturbasse el corso dello amore, quali io ivi stimi ricordi necessarii. Diremo poi del ricuperare, e ultimo narrerò cose non vulgari né poche necessarie a conversare fra’ vostri cittadini e fra gli strani; e vedretele accommodatissime a lungo conservare la inviata e cresciuta grazia e benivolenza. Udirete adunque del conducere gli animi accesi di benivolenza a perfetto e ardentissimo amore, degnissimi e sapientissimi detti, se prima, di que’ tutti, quali dicemmo trovarsi varii e multiplici ingegni, quanto resta esplicheremo chi di loro più sia degnissimo in cui pogniamo ogni nostro studio, arte e opera per molto iungercelo a noi benivolo e amicissimo. Sarebbe chi forse in questo luogo sé estenderebbe, e ostentarebbe l’ingegno suo multiplicando a questa materia questioni: se forse ad amicizia più siano atti i ricchi uomini che i poco fortunati; e quali sia più in amore constante, o chi da te bisognoso domanda, o tu che libero el ricevi; e se i prudenti più sono ch’e’ non prudenti tardi a farsi familiari e domestici; e s’e’ virtuosi più altri amano, che da altri siano amati. E simili potre’ io ancora qui addur non pochi, ma non forse molto qui accomodati dubii, quali altrove fra chi si diletta in scuole gloriarsi disputando più saranno grati. Ma basti qui a noi tanto asseguire quanto Valerio Marziale antiquo poeta ne ammonisce, suo epigramma:

S’ancora forse dai te a farti amare,
poich’io te vedo atorniato d’amici,
cedimi, Ruffo, se t’avanza, un luogo;
e non mi recusar perch’io sia nuovo,
ché sì fur tutti i tuoi antiqui amici.
Tu tanto guarda chi ti s’apparecchia,
se potrà farsi a te buon vecchio amico.

Adunque per brevissimo assolvere questo luogo, così statuisco: e’ fortunati e ben possenti uomini sono ad averli amici utilissimi; non tanto che possano beneficarti con sue ricchezze e amplitudine, ma ancora, quanto io provai per uso, che sempre diedi opera avermi familiare a’ primarii cittadini in qualunque terra soprastetti, questi molto apreno via al concorso poi de’ minori e plebei abitatori, quali tutti studiano con benivolenza e osservanza onorare e applaudere a chi el suo maggiore monstri fronte lieta, e presti non dure orecchie. E sono gli studiosi di lettere come cupidi di acquistare fama e nome, così certo prontissimi porgersi a qualunque degno, facile e liberale ad amicizia; ché iudicano la molta e con molti benivolenza essere non aliena da quale e’ desiderano onore, e iudicano el promulgarsi noto fra le genti cosa essere molto coniunta a quale e’ cercano fama e nome. Ma sopra tutti a vera amicizia e semplice amore attissimi sono quelli e’ quali bene sino a qui ressero le già più tempo principiate amicizie, e’ quali per l’amico non ricusorono fatica, sé stessi profferirono a ricevere incommodi, spese e grave danno, e mai in pericolo e caso alcuno si dimenticaron la fede e officio della amicizia, e furono diligenti, cupidi e curiosi, servando e accrescendo utilità, laude, dignità, autorità e fama a chi e’ già presono ad amarlo. Sono questi certo non molti, e rari. Ma chi non più tosto diletti due o pure un solo vero, che molti fitti e lievi volgari amici? E forse come nell’altre communicazioni di essercizii, roba, officii e studii, el troppo numero de’ collegati sempre fu grave all’onesto e senza sconcio sostenerlo, così forse in questo colligare gli animi non si loderà coniugarsi a molti. E quelli antiqui populi di Scizia in quelle loro col sangue suo iurate amicizie, che, come ti ramenta, uomini bellicosissimi per più essere in battaglia forti contra a’ nemici quasi necessitati a fermarsi ottima amicizia, a sé intaccavano el dito; e que’ due o tre al più, quali in quel sangue intinta la punta della spada e insieme beùtone, prometteano mai l’uno in pericolo o fortuna alcuna all’altro venir meno, sai appresso delli antiqui scrittori s’appruovano, dove e’ biasimavano e riputavano simile alle publice meretrici chi con più coppie di simili coniurati sé patteggiassi. E ancora piace Aristotele e sua sentenza: come non atto la nostra casa riceverebbe mille e mille uomini, e altrove dieci o venti uomini non adempirebbono populo a una città, così in amicizia dicono bisognarvi certo e determinato numero d’amici. Parvi da investigare qual numero sia non grave né debole?

Lionardo. E chi ricusasse non da tutti essere amato? Chi non molto dilettasse trovarsi amici numero quasi infinito? Sempre a me piacque quella nostra appresso de’ nostri sacerdoti sacra e divina sentenza, quale comanda tanto ami el prossimo quanto te stessi: processo di carità con quale puoi avere a te commendatissimi tutti gli uomini.

Adovardo. Lodo la sentenza tua, per quale me induci a non preterire cose qui degnissime. Adunque, non per monstrarmi qui teco erudito, Lionardo, ma per esplicare me stessi solo quanto mi vedo essere necessario, breve repeterò questa materia da’ suoi principii; onde insieme apriremo via e adito a quanto proposi dire dello escrescere e rendere perfetta l’amicizia, quale se così si chiama perché in lei solo in prima vi si pregia quella affezione d’animo chiamata amore, per cui forza ti diletta ogni onestà, utilità, contentamento e laude di chi tu ami, conviensi investigare donde e come esso amore nasca, e quale e’ sia. A me non raro intervenne ch’io desiderai lieta fortuna e felice vita a chi io mai vidi, ma sentiva era dotto, buono e studioso di virtù. Questa affezione in me tu, credo, chiami non amicizia, ma benivolenza. E tu simile non raro t’abattesti a chi familiare e domestico teco sì usava assiduo e con tanta verso te osservanza, che facile potevi iudicarlo amico, quando in lui fusse stata fede e intera benivolenza. Ma come non si dirà tempio né basilica perfetta quella struttura a quale tetto, che cuopra chi entro al sacrificio fusse dal sole e dalle piove, e sponde mancasse, quali parte difendano da’ venti, parte la tengano segregata dagli altri siti publici e profani, e forse ancora mancandoli e’ dovuti a sé ornamenti sarebbe edificio non perfetto né assoluto, così la amicizia mai si dirà perfetta e compiuta, a quale manchi delle sue parti alcuna. Né sarà vera amicizia se fra gli amici non sarà una comune fede e ferma e semplice affezione d’animo sì fatta, ch’ella escluda e fuori tenga ogni suspizione e odio, quale da parte alcuna potesse disturbare la dolce fra loro pace e unione. Né io reputerò perfetta amicizia quella quale non sia piena d’ornamenti di virtù e costume; a qual certo cose chi dubita la sola per sé benivolenza non valervi, se non quanto sia e conosciuta e ricambiata? Questo perché? Perché, bench’io sia, come i’ sono, cupido di benificarti, e tu studiosissimo d’essermi ad utile e onore, non però fra noi sarebbe ch’io potessi riputarti amico, né tu di me potessi, come di chi vero te ami, confidarti, se non prima a te fusse noto quanto insieme possiamo l’uno dall’altro e sperare e aspettare; qual cognizione si tiene non altronde se non dall’uso e conversazione e quasi esperimento della benivolenza. E questo uso familiare e domestico, ha egli in sé vera forza e nervi d’amicizia? Certo no. Perché? Perché, come puoi vedere tutto il dì, molti ci salutano, proferiscono, non rari ci sono in aiuto, alcuni ancora donano e usano officii di amicizia, pur conosciamo in loro meno essere benivolenza che non fingono. Adunque non la benivolenza per sé, né per sé stesso ancora l’uso familiare constituisce la intera amicizia, ma inseminasi l’amicizia da benivolenza. E come el pavoncino per essere covato esce in vita fuori donde era nell’uovo inchiuso, così l’amore già nell’animo conceputo piglia spirito ed esce in luce e comune notizia fra chi ama, quando per uso e domestichezza sie bene osservato; e dove la assiduità mancasse, li segue che quello già forse impreso caldo e fervore vitale perisce o esce abortivo, così in amicizia la benivolenza non con assiduo officio servata perisce. E se alla loro conversazione e insieme in amicizia fedele comunicazione manca l’ardore della benivolenza, come se covasse corrotte uova o vacue, così qui ogni opera e studio sarà non utile consumato.

Che diremo? Adunque così? — che la benivolenza adiunta alla familiarità constituisce vera e perfetta amicizia? Diremo no. Perché? O non sai tu che non ogni uso domestico, né ogni così accesa affezion d’animo però dona perfetto essere alla amicizia? Aspetto più aperto intendere qual sia questa perfetta amicizia, e qual uso e qual benivolenza la produca. Ponete qui animo, Battista e tu Carlo: a voi, non a Lionardo, uomo dottissimo, repeto questi principii di mezzo le fonti de’ filosofi. Dico che degli uomini quali vediamo a noi monstrano benivolenza e prestano fedele e pronta opera, alcuni così fanno perché forse iudicano in noi essere virtù, prudenza e sapienza, tale che sia merito a noi, e a loro dovuto renderci reverenza e desiderarci seconda fortuna e intera prosperità. Alcuni a noi così sé danno, perché ricevono, aspettano e sperano per nostra benignità e grazia a’ suoi casi e bisogni sussidio, aìto e favore. Alcuni così in noi sono affezionati, perché non poco gli muove per nostra presenza, facundia e festività molto poter escludere dell’animo ogni tristezza, e sedare le gravi cure e i duri pensieri con dolce facezie e iocunde cose nostre e ridiculi detti. Né truovasi vinculi, credo, quali tengano gli animi a noi adiunti e dedicati se non solo questi tre, quali vedesti sono o iocundi e voluttuosi, o utili e con emolumento, o lodati, onesti e pieni di virtù. Questi a noi tutti desiderano e parte cercano prospera e affluente fortuna. Ma in loro tutti non però sarà uno medesimo fine e cagion del suo desiderarti felice però che i voluttuosi amanti non per benificare altri, ma per satisfare a sé sumministrano e porgeno di sé ogni opera e cosa, per quale chi egli amano se gli presenti lieto molto e iocundo. E quelli che tratti dai doni e utilità ricevute ed espettate amano, simile in prima a te desiderano buona e abundante fortuna per avere onde beneficare a sé, non per solo vederti felice. Ma sarà amore niuno maggiore che di colui, non el quale per gratissima e accettissima da te cosa ricevuta e desiderata, né per beneficio, quale per tua liberalità egli da te ottenga o aspetti, te osserverà e onorerà, ma quale solo pregiarà e diletteralli la tua virtù e i tuoi lodati costumi. Né questi ancora saranno teco beni uniti di ferma e stabile amicizia, se grandissima fra voi benivolenza non prima fia quasi nutrita e allevata con molta, assidua, lieta e onestissima familiarità. Amici sì troveremo iocundi e voluttuosi numero molti, e amici quali pendano a qualche loro commodo non pochi ti si offeriranno. Amici vero così in noi affetti, che d’ogni nostra buona fortuna e felicità non ivi solo sieno studiosi e cupidi, ove a sé cerchino frutto e premio del suo verso di te servigio e officio, ma quali solo del nostro bene molto in prima che del suo contentamento godano, saranno certo non molti, ma ben molto sopra gli altri constantissimi in benivolenza e ottimi.

Né riputare amico chi già quanto in lui sia, per uso teco non sia coniuntissimo e quasi unito. Co’ voluttuosi e co’ cupidi amici né benivolenza si truova intera, né uso diuturno, però che ricchezze, bellezze, potenze, prosperità e simili ornamenti e copie della fortuna, quanto ciascuno tuttora pruova e in luce vede, sono caduche e fragili; onde segue che la benivolenza colligata da simili deboli e poco durevoli vincoli, serba constanza in sé e fermezza niuna. E come chi susterne alle radici profondo e fresco letto all’uliveto, e con diligenza alle viti giugne suo marito l’olmo, non costui cura essere amato, ma procura di sue opere e spese trarre utile quanto possa maggiore, così in uso e vita de’ mortali, colpa de’ costumi corrotti e viziati, questa arte divulgatissima quanto sé essercita, che con parole, fronte e opera dotti fingere benivolenza, seguiamo commutando insieme officio, utile, diletto, quasi come premio a opera e servigio a doni! E raro che mensa lauta e bene apparecchiata stia vacua di questi, non amici, ma fitti e simulati domestichi e familiari assentatori, quali vi consiglio da voi gli vogliate quanto in voi sia molto essere lungi. E quelli quali vedrete, a quanto la virtù e costumi vostri gli alletti, rispondano più con benivolenza che con parole, e più con aumentarvi onore, virtù e lodo che con porgervi riso e giuoco, questi accetterete, questi darete opera continuo sieno con voi molto assidui familiari e sempre domestichi. E non dubitate che la virtù, cosa divina e santissima quale perpetuo sta illustre con molto lume e splendore di lode e fama in chi la sia, certo adornerà quella ottima vostra amicizia, qual per sé nata e con constanza affermata, tra voi sarà poi eterna e molto iocundissima. Direte voi: questi veri virtuosi, ai quali la nostra virtù diletti, sono rari; e a chi non sia virtuoso la virtù non molto gusta. Vero. Pertanto così a voi resti persuaso che certo e non molto numero d’amici sono quelli, a’ quali noi dobbiamo adirizzare ogni nostro animo, consiglio e industria, ed esporre ogni nostra opera, studio e diligenza, per molto averli a noi benivoli; poiché non se non pochi quali sieno virtuosi, a noi ben possono veri essere e perpetui durare amici.

Dicemmo adunque quali sieno attissimi ad amarli, e qual sia numero ad amicizia condegno. Resta adunque quanto proponemmo esplicare, in che modo fra questi scelti e noi molto cresca amicizia. Ma non qui vorre’ io, Lionardo, più essere stato che tu me aspettassi prolisso quanto alla materia s’apartenea. Parsemi da esplicare quel luogo a questi non come tu dottissimi. Sarò pertanto di qui oltre breve. Ma che qui te preme testé all’animo, Lionardo, onde sospiri, quasi come a te fosse in mente occorso qualche tristezza?

Lionardo. Anzi, Adovardo mio, quanto da te qui ora eccitato mi pare prevedere, tanto mi duole che de’ nostri Alberti alcuno sia forse a chi queste quali molto a proposito recitasti ottime sentenze, poco stiano note e poco stimate: quali uomini se fussono meno inconsiderati, meno creduli, e meno in ogni sua voglia precipitosi e ostinati, forse non qualunque gli faccia ridere sarebbe in numero di quelli quali li inducono a più pregiare gli strani prosuntuosi che i suoi modestissimi e onestissimi, da chi essi troppo si vedeno amati e reveriti. Né dubito chi te udirà, costui meno con chi non meriti sarà profuso e prodigo. E quanto mi pare, quanto Adovardo, costui el quale anovera gli amici suoi a turme, vederlo ancora vivere solo, vecchio, abandonato da quelli e’ quali esso con inumanità sua e impietà sempre da sé gli volle essere luntani, e perseverando in questi costumi, iniuriando a’ suoi, amando e’ lascivi, aspetto ancora sé vederà come accusato da’ buoni, così insieme e da questi tutti applauditori spregiato e troppo avuto a vile! E certo qual altri che costui stoltissimo non conosce quanto in ogni fortuna gli amici non vertuosi né onesti siano gravi e dannosi? Essi avari, lascivi, temerarii, in aversità nulla ti sovengono; e tu in alto grado posto dalla fortuna molto soffri da loro infamia e odio. Ma seguita, Adovardo. Dio proibisca alla famiglia nostra tanto infortunio e calamità!

Adovardo. Aimè! Felice chi nella copia e affluenza della fortuna sappia preporre in benivolenza la fede, constanza e onestà alla lieve assentazione e fitta subiezione degl’importuni e impuri ciarlatori. Ma speriamo qui ora meglio alla famiglia nostra, quanto a Lorenzo e a noi sarà licito essere in vita. Sarà, dico adunque, amicizia quella grandissima, a quale tu più nulla vi desideri; ché non si direbbe perfetta, se cose ivi necessarie potessi agiungerli. E sono quanto discorremmo cose all’amicizia necessarie, intera simplice e aperta benivolenza, dolce uso e conversazione con oneste comunicazioni di studii, opinioni e fortune, e con ogni officio insieme colligata e nutrita. Così resta che chi vorrà dare augmento alla amicizia, a costui sarà sua opera dirizzarla a essere perfetta. Sarà perfetta dove non utilità, non voluttà in prima, ma solo onestà la contenga. Parti?

Lionardo. Parmi.

Adovardo. Fia pertanto prima officio mio volere che chi io proposi ad amarlo molto in me conosca essere animo e volontà iunto a sola onestà. Poi apresso a me sarà debito non soffrire che chi mi sia dato ad amicizia, non al tutto sia ben vacuo d’ogni vizio e biasimo, e quanto io possa, volerlo ornato d’ogni virtù e costumi, accioché fra noi la benivolenza di dì in dì eccitata dalla virtù cresca, e l’uso mantenuto da’ buoni costumi la renda robustissima, e contro ogni suspizione e oblivione fermissima.

Lionardo. E quale si truova sì modesto e facile, a cui diletti essere da chi si sia altri fatto migliore? Né so quanto fusse grato allo amico suo chi gli palesassi quanto e’ forse lo conosca non buono; tanto a ciascuno poco dispiace el vizio proprio.

Adovardo. Tu confessi un vizioso nulla potersi vero riputare amico?

Lionardo. Che poi?

Adovardo. Diroloti, quando m’arai risposto qual tu più lodi, o rescindere l’amicizia, o fare chi tu ami migliore.

Lionardo. Non mi sendo luogo senza eccitar odio renderlo men vizioso, a me più graderebbe serbarmi quanto da lui potessi benivolenza, quando sia, come si dice, che ’l servire acquista amici, e la verità genera odio.

Adovardo. Quasi come pochissime ti si avengano in ogni ragionamento attissime vie con parole emendarli. Chi in te prima conosca intera fede essere e vera affezione, niuno tanto stimo sarà intemperato e pieno di licenza in sé stessi e petulante, quale vedendo a te, omo grave e constante, i lascivi tutti essere odiosi molto, ed e’ bestiali starti a stomaco, non medesimo curi parerti dissimile da quelli quali tu con severità e fronte molto biasimi e riprenda. E se pur così accade correggerli, qual mai buono schifasse con maturità e modo, sanza acerbità, quanto in sé sia, che chi gli è caro costui alla patria sia per sé fatto migliore cittadino? Ma non dubito io che chi con prudenza e carità sé in tempo darà a vendicare l’amico suo da biasimo e mala voce, molto per questo più da lui sarà che per tacere amato. E quando al tutto così dubitassi di suo duro ingegno, non però nulla, quanto dissi, gioverà renderlo in qualunque possi altra virtù più da te degno d’essere amato, unde poi tra voi seguirà, quanto io dicea, ben cresciuta e interissima amicizia. E se, né con tuo studio rendendo chi tu ami di lode ornato, né con tua diligenza traendolo di turpitudine, sarà tale che meriti da te essere amato, tu prudente credo più tosto vorrai discindere seco ogni amicizia, che averlo alla fama e nome tuo infesto e quasi inimico. Ché se chi a noi perturba e diminuisce le fortune nostre sarà forse da nollo volere amico, certo chi a noi torrà le cose preziosissime, el nome, fama e autorità, qual cosa fanno e’ viziosi a noi amici e familiari più forse ancora sarà da odiarlo che chi a te porgesse altrove aperta inimicizia. E quanto la amicizia e uso teco de’ viziosi sia dannosa altrove più sarà luogo ampio a referirne.

Seguita vedere in che modo con simili immodesti abbiamo a disiungere l’amicizia. E perché raro si discinderà con loro familiarità che non si incenda in loro odio, per questo investigheremo che ragione sia da reggersi contro all’odio; qual cosa era sopra da me a dirne luogo terzo proposto. Tale che, ora detto come s’acquisti amicizia, detto in che modo e qual cagioni, e con quali attissimi e ad amicizia utilissimi uomini ben s’acresca vera e perfetta amicizia, ora diremo del dividere l’amicizia, e del sostenere la inimicizia. Così a voi pare che io faccia?

Lionardo. Parci.

Adovardo. Ascoltatemi. Apresso di me chi ora monstri odio a chi e’ prima amava sarà mai non da nollo vituperare. Inconstanza troppo grandissima e costume certo feminile, e levità odiosa, non sapere perseverare amando chi tu riputasti degno da te essere amato. Adunque, e chi non biasimasse costui el quale o prima troppo fu imprudente e molto inconsiderato eleggendo e dandosi ad amar persona indegna, o poi fu volubile e poco fermo in serbare con virile officio la ben principiata amicizia? Quale stolto non fra’ primi suoi beni reputa l’amico supprema e a sé carissima cosa? E qual cagione picciola e lieve tanto potrà apresso di noi, che a noi in qualunque modo non dolga perdere uno amico? Per questo che diremo? Non convenirsi che molto sia maggiore cagione quella quale induca te a privarne te stessi, che quella per quale altri te inciti a perdere la principiata amicizia? E voglio sia appresso di noi qui persuaso che in chi sia perfetta sapienza, costui mai resterà di perseverare amando chi già egli principiò riputarlo amico. Confesserò qui però pure tutti e’ mortali non meritare essere ascritti nel numero de’ perfetti savii, e tutti quasi da natura desiderare amici, ed essere proni ad amicizia. E affermerotti quanto dirai, che non rarissimo possono avvenire più cose, per le quali chi sia buono e onestissimo, chi pregi fama e lode, chi sia affezionato alla virtù e alla patria, s’indurrà a preeleggere che chi egli ama ora meno a sé sia che l’usato coniuntissimo. Se così acadesse, non sarà biasimo con modo e ragione dividere l’amicizia.

Vuolsi adunque investigare per qual cagioni sia licito avere in luogo di strano chi sino a testé a noi fu coniuntissimo. E qui accade ridurre a memoria quanto di sopra dicemmo, l’amicizia surgere da benivolenza, quale nata da cose oneste accende gli animi a desiderar bene a chi gli par che ’l meriti; e quasi niuno in cui sia ragion può non odiare uno disonesto e vizioso; né chi desidera bene ad altri per fine e cagione non onesta ama, ma desiderando vederlo più lieto e più fortunato appetisce utile a sé più che ad altri. Per quali tutte brevissime raconte cagioni possiamo averare la vera benivolenza esser pur cosa certo onesta e mai disiunta dalla onestà. Onde varii igniculi e faville d’amore così inserti ne’ nostri animi, ben desiderando a chi ben meriti, di dì in dì tanto s’accendono in maggior fiamme, quanto l’uso e familiarità gli nutrisce con assiduo e pronto officio e aperta commutazione di amorevolezza. E qui ancora, se la onestà, cosa quanto niuno debba dubitare santississima e religiosissima, fu onde s’apprese la benivolenza, non mi dispiace crediamo la benivolenza una essere simile alla onestà religiosa e sacra. Mai sarà che la religione sia non onestissima, né mai fu religioso quale in prima non amasse la onestà, né troverrai onesto quale non molto sia religioso. Così, non iniuria, statuiremo la iusta benivolenza fra le cose religiose e sante. Poi a me qui parrà similitudine attissima, quanto si scrive appresso de’ pontefici, che ’l matrimonio sta legato di due in prima notissimi vinculi: l’uno fu primo vinculo di que’ due animi, quali in uno così insieme volersi con onestà convenirono, e questa unione aperto monstrano essere cosa divina, qual disputazione qui sarebbe lungo e non molto a proposito raccontarla; onde negano a noi mortali essere licito dividerla. Ma quell’altra coadiunzione insieme ad una opera per procreare figliuoli, in questa se cosa vi sopra fusse grave sì che qualunque prudente ben consigliandosi la fugisse, sarà licito separarsi. Così in amicizia niuno stimi essere non quasi religione servare in sé la benivolenza quanto si può etterna. Officio di umanità richiesto da essa incorrutta e ben servata natura, che tu ami qualunque teco sia uomo in vita. Confessoti che in cui siano vizii e costumi di bestia, costui sarà quasi non uomo ma monstro piuttosto. Restaci adunque necessità non odiare chi a te più era che per esser uomo in vita, coniunto di religioso quale dicemmo vincolo di benivolenza. Ma per l’uso familiare se cosa alcuna a te starà gravissima, e quale uomo niuno prudente e buono non a forza soffrisse, a te qui non leverò io licenza, quanto la ragione ti consigli, tanto in quella parte interlassi quanto, disiunta l’assiduità e conversazione, per te sempre la benivolenza sia con onestà e religione osservata. E dirò sia contro alla religione e oltra che allo officio per qualunque offesa mai rompere in ira o vendetta alcuna, per la quale la fede tra voi antiqua e ciascuno secreto quasi deposto appresso di te dalla santissima benivolenza, in tempo alcuno sia non molto per te osservato e occulto; però che quella fede e que’ secreti furono di quella a te cara amicizia, la quale testé più non è tra voi. Puossi sperare ritornerà; e darvi opera sarà utile e lodo; e mai non tornando, tanto simile biasimerò chi sia qui perfido nocendo allo antico amico, quanto chi altrove, per noiare a uno inimico, fusse inimico a chi l’amasse. Gobria assirio presso Senofonte, narrando a Ciro re de’ Persi che cagion sé tenesse fuori della sua patria, espose non potere soffrire in regno chi gli avea ucciso el suo carissimo figliuolo; poter sì, ma non volere esserli in altro grave, sendo amicissimo stato del padre. Cicerone molto accusava in senatu M. Antonio che contro ogni officio di civilità, ora inimico avesse monstro lettere familiari a sé da Cicerone scritte, né convenirsi, ricevuto alcuna offensione, divulgare e’ passati colloquii di chi t’era amico. Pertanto que’ che dicono molte cose doversi alla antica amicizia, a me può parere vogliano affermare siano quelle alla onestà e alla dolce passata benivolenza dovute. Qual cose, da me forse troppo breve e pertanto forse dette oscure, se così vi si persuadono, Lionardo, aremo a vedere quale a noi e donde resti licenza a privare, o diminuire alla sino testé lieta amicizia e dolce e gratissimo uso amatorio.

Lionardo. E chi desiderasse qui persuasione maggiore a quanto uomo niuno civile dubita, che la benivolenza iunta alla onestà sia da riputarla fra le cose ottime e religiose? E chi non, come tu di’, alla antica e quasi spenta ora amicizia renderà suo officio, se ancora verso e’ medesimi inimici dicono essere debito a noi serbare fede e ogni officio di onestà? E chi negasse che rompere la fede tanto più nuoce a chi così iace in vizio, che a chi per altrui perfidia cadesse in calamità, quanto e’ provano che ’l vizio più sia dannoso in chi e’ viva, che la povertà e qual vuoi dolore? Ma forse era quivi luogo non inetto ad esplicare quali incommodi e qual gravezze appresso de’ buoni fussero quelle, onde a noi fusse prestata licenza a così discindere l’amicizia; che, se così approvassi comune oppinione, che ’l danaio nelle cose umane tra e’ mortali sia quasi primo commodissimo e da pregiarlo, onde non pochi astuti, subito che veggiono de’ suoi amici alcuno addutto in necessità, sospettando, per non essere richiesti, preoccupano e interrumpono ogni addito a chi sperava in lui, e accusano e’ tempi, narrano sé essere oppressi da molte difficultà insperate, fingono debiti. E che più biasimerai, ancora vidi chi per più espedito liberarsi diede opera con qualche offesa render da sé alienato e indegnato el suo antiquo amico.

Adovardo. Odiosi! e quanto vero! Nulla tanto stimerò alieno da chi sia omo iusto e buono, quanto non odiar molto simile astuzie, certo villane e brutte, e al tutto contrarie a chi meriti e cerchi amici. E quella antiqua notissima oppinion di que’ filosofi, quali affermavano l’amicizia solo essere nata per sovenire l’uno all’altro ne’ nostri quasi assidui d’ora in ora varii bisogni e necessità, potrà ella nulla a persuaderci che a’ bisogni dello amico sia officio dell’amicizia sovvenirli? E se, come tutto el dì presso de’ ben costumati e gentili animi, si loda chi non aspettò essere pregato né prima richiesto, ma liberale, volentieri e pronto offerse e donò allo amico quanto e più ancora non bisognava; e se niuno umano e moderato uomo si troverrà a cui non dispiaccia quello discortese, el quale per servarsi intero un gruzzolo di pecunia s’accrebbe vizio e biasimo; e se chi fia vero virtuoso e in prima liberale, riputerà in parte di buona fortuna avere dove e’ ben collochi el dono suo, dove stimeremo noi con più lode e pari voluttà altrove che appresso de’ nostri amici esser liberali? E dove sarà più da biasimare l’avarizia, che verso di coloro, a’ quali dicono ogni tua cosa debba essere comune? Adunque, come ascrivere’ io qui fra’ gravi incommodi questo vero e lodatissimo uso di liberalità, sovvenendo alla necessità di chi in me sperava e me amava? E lodansi alcuni quali esposero persino la propria vita per serbare integro officio alla amicizia, e affermano che chi vero sia amico, costui perdonerà né a roba, né a fatica, né a sé stessi per benificare chi egli ami.

Lionardo. Que’ gravi adunque incommodi da deporli, quali seranno?

Adovardo. Parrà grave perder la roba per benificare l’amico?

Lionardo. A molti.

Adovardo. Parrà grave el dolore, la miseria per mantenere l’amico lieto e contento?

Lionardo. Certo, e a molti.

Adovardo. Parrà grave travagliarsi in ultimo pericolo della vita sua per salvare l’amico?

Lionardo. E quanto gravissimo!

Adovardo. E quanti si troverranno molto travagliarsi in mare in mezzo alle tempestati, e in terra fra l’arme ad ultimi pericoli per accumularsi roba?

Lionardo. Assai.

Adovardo. Non so degli altri, ma io certo per acquistar lode esporrei molte ricchezze.

Lionardo. E noi, stima, siamo nel numero de’ simili a te cupidissimi di meritar lode.

Adovardo. Che credi tu degli altri?

Lionardo. Credo quasi si troverrà niuno non in tutto incivile, el quale per aversi onorato e lodato non molto fusse prodigo.

Adovardo. Se così stimiamo, diremo che per conservare lode e fama di noi, ancora non molto cureremo le ricchezze.

Lionardo. Certo sì.

Adovardo. E riputaremo ogn’altra cosa minor che la infamia.

Lionardo. Persuadesi.

Adovardo. Grave adunque stimeremo l’infamia.

Lionardo. Siamo in cotesta sentenza.

Adovardo. E per non cadere in infamia, faremo simile a quello testé narravi. Preoccuperemo ogni addito, statuendo ivi come alla guardia, prudenza e onestà.

Lionardo. Lodoti. E parmi così vuoi: se dallo amico per suo vizio a te impendesse infamia, conosciutola gravissima, per deporre ogni sinistro nome sarà permesso segregarselo e da sé volerlo lungi.

Adovardo. Così voglio m’intendiate. Ma non però ogni vizio mi par meriti in amicizia discidio. Antico proverbio: «el vizio dello amico chi nol soffre el rende suo».

Lionardo. E a me può parer detto prudente: «chi soffra el vizio durar nell’amico, quasi tacendo fa quel vizio suo».

Adovardo. Vedi quanto m’industrio, dicendo, essere breve, e argumentando, forse troppo stretto in questa materia; però non mi stenderò approvando o essaminando qual sia de’ due me’ detto. Ma così mi par qui modo e regola, ch’e’ vizii in quali facile ciascuno pecca, e quali a più altri non nuoceno che a chi in sé gli riceva, bere, amare e simili voluttà, se per tua ammonizione non sentissi giovarli a rendelo più moderatissimo, dicono apo el volgo, «amico tuo col vizio suo»; ma que’ vizii gravi onde a te ne venisse infamia, accettare un ladro, favoreggiare a un proditore della patria, sostenere un pirrata e simili cose gravi, vorremmo da noi essere luntani. Parvi?

Lionardo. Massime.

Adovardo. Adunque vedute le cagioni per quali abbiamo e non abbiamo da discindere l’amicizia, e veduto ancora che solo l’uso, serbata la benivolenza, era dove avàmo licenza a separarla, séguita vedere el modo a discinderla. Assai el nome dimonstra che vi si appruovi, quanto e’ dicono, non stracciarla, ma discucire la amicizia e a punto a punto dislegarla. E certo in questo separare l’assidua conversazione insieme e familiarità, loderò chi imiterà el buon padre di famiglia aggravato dalle spese, el quale non in un dì rende la famiglia e le spese minori, per non dare di sé ammirazione alla moltitudine, ma ne’ dì passati ne mandò el maestro de’ cavagli e serbossi una sola necessaria cavalcatura, oggi licenzia quelli senza cui opera la famiglia ben si può governare, e di tempo in tempo ne manderà persino de’ suoi a quello essercizio e a quell’altro altrove. Molti in essercito di Gaio Marzio Rutiliano, scrive Livio, aveano consigliatosi insieme surripere Capua, terra fruttifera e abundantissima. Adunque con modo Rutilio dissimulando nulla di ciò esserli sospizione, scelto or uno ora doppo un altro de’ principi di tanta turbazione, in diverse parti a varii simulati bisogni gli trasse da sé e transmisse altrove, quali non, dubito, in un sieme senza grave discidio e pericolo arebbe esterminatoli. Né chi volesse spegnere in sala in molte legne acceso el fuoco a me parrà pigli el miglior modo, non, in un tratto su versandovi un fiume d’acqua per amorzarlo; anzi, levando l’uno doppo l’altro e’ tizzi e tuffandoli in acqua, con meno fatica, con meno acqua e con men fummo e più presto le spegnerà, e senza lordare el pavimento. Agiugni che quanto vorrà tanto vi rimarrà fiamma e braci. Così in amicizia, se ieri alienasti da te quelli strumenti e cavalli e uccegli e cani e simili, per e’ quali costui era teco assiduo, e oggi in quella e quell’altra cosa comincerai a nollo secondare e men servirlo che l’usato, e di dì in dì addirizzerai tuoi essercizii in altre parti, quasi da sé stessi piglierà teco disuso non molesto. Ché puoi comprendere una accesa amorevolezza non senza nebule di perturbazioni d’animo e macula d’odio subito si potrebbe per disuso ben spegnere. E loderò chi spegnendola saprà serbarsi fiamma e brace, dove entro viva la benivolenza, la quale non so come non mantenuta con qualche uso, ben per sé lungo durasse. Adunque così di cosa in cosa dismettendola, procederemo con quelle ragioni quali fanno gli architetti edificando la torre: prima lasciorono assodare e’ fondamenti, ora soprastanno che questi sino a qui levati muri piglino, come e’ dicono, dente, poi sicuro sopra edificheranno e renderannola finita, dove, se tutto in un continuato tempo e ininterrutta opera avessero proseguito, non dubito e’ primi a terra muramenti fra sé poco insieme tenaci, pel soprapeso si scommetteano, e tutto el lavoro in un tratto avallava. Così noi lasceremo radurarlo in quel primo disuso; poi simile negli altri con questa moderazione intermettendo, asseguiremo che non ruinerà a noi in inimicizia e in premerci di maggiore alcuno incommodo. E vidi io chi così repente e subito escluso, tanto si riputò offeso, che nulla gli parse non licito a vendicarsi.

Lionardo. Ragione vòle che non senza grande vizio sì subito odio nasca, ch’io serri l’uscio testé a chi poco fa era libero addito a me perfino ai più segreti luoghi. Ma e alcuni ancora tanto sono di natura lievi a indegnarsi, e maligni in serbare l’onte, che per ogni minima offesa ti si oppongono capitali inimici, de’ quali merito si dice che picciola onta volge un leggier fronte.

Adovardo. Vero, e adunque, quanto così gli conosceremo importuni, tanto con più modo e prudenza gli tratteremo, e quando pur ci volessero inimici. Non però vitupero chi con animo virile più tosto voglia lungi da sé tenere uno insolente, che presso di sé soffrirlo vizioso e quasi nutrire a sé stessi infamia.

Lionardo. Non posso non approvar ogni tua ragione, benché forse troverrei non pochi quali più tosto vorranno soffrire un temulento, dicace ottrettatore, perfido, fallace, che volerlo altrove publico suo diffamatore. E dicono non meno essere da non tenere una fera legata e pasciuta in casa, che lasciarla ire affamata per teatri; in qual sentenza scrivono fu Filippo macedon padre d’Allessandro, el quale da’ suoi amici confortato mandasse da sé un de’ suoi sparlatore e maledico, negò esser el meglio così darli cagione di scorrer maldicendo dove e’ non fusse conosciuto.

Adovardo. Non credo uomo alcuno integro di costumi e d’animo erto, tanto stimi la vanità di chi si sia ch’e’ vogli monstrarsi o troppo timido o non più cupido d’essere che di parere buono, ché sai chi sia d’animo generoso, prima vorrà essere che ostentarsi virtuoso. E chi sarà virtuoso dubiterà, credo, nulla che le sue lode sieno sì oscure e sì deboli che le parole d’uno iniquo le ottenebri o rompa. Solo e’ viziosi temono, quanto tu di’, la lingua di chi e’ credono sappi e ardisca palesare e’ vizii suoi.

Lionardo. Non potrà egli accadere che le false diffamazioni si credano?

Adovardo. Certo sì. E dicesi, chi ode non disode. Non cerca chi ode qual sia el vero, ma quanto sia verisimile, e questa ragion deducono dalla vita e da’ costumi altrove conosciuti.

Lionardo. Chi sia virtuoso uomo e civile, che farà ivi? Nulla forse curerà chi così gli sia infesto e grave? O pur come molti usano, darà opera nocendoli retundere e raggroppare quella dicace e troppo disciolta lingua?

Adovardo. Tu m’induci ch’io entri in materia qual volentieri qui in pruova fuggiva trattarne, per quanto m’ingegnava, breve e succinto, transcorrendo presto, qui finire questa quale m’imponesti opera di recitarvi quello sento della amicizia; e tirimi in nuovo favellare della inimicizia, ché sai allo inimico sta avere modo e ragione in sostenere e vendicarsi delle iniurie. E delle iniurie, alcune sono alla persona nostra fatte, alcune sentiamo a noi con danno essere gravi in nostre cose; e fra le nostre cose s’ascrive e annumera la fama, la dignità, l’autorità e nome, e simili carissimi e ottimi amminiculi per confermarsi a felicità e gloria fra’ mortali. Ma qui alcuni non bene interpretano, e reputando molesto e dannoso a sé chi era da nulla stimarlo, pigliano ad animo inimicizia non lodata. Qual prudente orando in conzione causa alcuna molto gravissima, e in mezzo monstrando suo ingegno ed eloquenza, riputasse inimico quell’asino, e preponesse vendicarsi, quale raghiando el disturbasse? O quale non stolto in quel giuoco lupercal antico, in quale, dice Plutarco, nobili giovani e posti in magistrato, nudi correndo faceano con ferze aprirsi via dalla moltitudine, restasse di certare correndo per acquietar quel cane quale el perseguita abbaiando? Così in vita chi con virtù e degne opere promulgando sue laudi molto stimasse le voce d’un bestiale uomo, o chi con ottimi studii e con tutto l’animo incitato a gloria interrompesse el principiato corso suo occupando sé stessi ad asentare uno abbaiatore e vilissimo detrattore? Mai sì nostro officio con opere lodatissime palesarli mendaci e fitti. Pirro, re Epirotarum, domandò alcuni giovani se così fusse che bevendo insieme avessero detrattoli molto e biasimatolo, com’egli udiva. Risposero: «E quanto assai; e se più avessimo beuto, molto più saremmo stati intemperanti». Credo rise. Filippo, padre d’Alessandro macedone, disse agli oratori ateniensi: «Arovvi grazia che per vostro dire male di me, rendete me di dì in dì migliore, però ch’io mi sforzerò con vita e con parole farvi bugiardi». E Alessandro suo figliuolo rispuose a chi gli acusava un maledico: «Questo è proprio a un re, che faccendo bene egli oda male». Se adunque i re, quali poteano vendicarsi e grave punire la insolenza di quelli suoi e impuri uomini, si lodano perché poco gli stimorono, credo io sarà da non biasimare qualunque buono simile non molto curerà coloro, quali senza sua molestia male potrà vendicandosi gastigarli.

Lionardo. Così adunque qui teco potremo constituire: non da’ levissimi uomini riceveremo loro cianciamenti e sparlamenti in luogo di tale iniuria, che da noi stimiamo meritino inimistà e vendetta. Scriveno che di que’ due, e’ quali aveano sparlato di lui, condennò quel severo e grave di natura, e quell’altro leggiere e uso a non contenere la lingua e temperare le parole, lasciò impunito. Così adunque se grave alcuno e maturo per minuirci fama e laude così di noi promulgasse qualche calunnia e mala fama, non forse sarebbe da nollo pesare ad inimicizia.

Adovardo. E qual grave uomo non arà in odio fingere cose non vere? Cosa al tutto contraria alla gravità e maturità civile niuna tanto si truova quanto questa una levità troppo brutta e indegna all’uomo virile. Stultizia da molto fuggirla! E qual sarà pari pazzia quanto promulgar sé stessi iniquo, pusillanimo e vilissimo? Nequizia troppo odiosa di costui, el quale senza utilitate alcuna e con molto suo danno nuoce a chi nollo meriti! Qual altro sia vizio simile abominevole? Furto, latrocinio, rapina, presta qualche utilità e pertanto qualche scusa; solo el maledico riceve odio da tutti e biasimo, fùggollo come uomo pestifero e venenoso. E certo viltà d’animo troppo da vituperarla, non che con false diffamazioni, ma in modo alcuno con parole, benché grave offeso, vendicarsi; officio di feminelle in ogni forza d’animo deboli, solo darsi in cinguettare audaci. Ciro re de’ Persi el giovane ferì a morte con un dardo Menete suo condutto milite, perché molte parole brutte dicea in Alessandro contro cui erano armati: «Io te», disse, «nutrisco perché tu combatta col ferro contro Alessandro, non co’ maleditti». E qual sarà a chi non dolga la turpitudine sua vedendo contro a’ suoi detti palese e chiara la virtù di chi e’ biasima?

Lionardo. E quanti troviamo qualunque dì molti, detti prudenti, quali fra le prime gravi iniurie ascriveno qualunque parola sia di sé detta non onoratissima e piena di lode, e in luogo di capitale inimico statuiscono chi così gli offende, e nulla lasciano a vendicarsi. E dicono, qual sentenza e tu testé approvavi, nulla essere da tanto pregiare quanto la fama, e in luogo volar le parole e tanto portare contro la fama peste, che né saetta di Iove alcuna ivi tanto nocerebbe. E adducono quella antiqua sentenza di Zenone filosofo: «S’io non curo e’ mal’detti di me, né io ancora sentirò le lode». E muoveli Chilone antiquo filosofo, quello el quale per letizia, ché vide el suo figliuolo in Olimpide vittore e coronato, finì sua vita; domandato, rispuose essere difficilissimo tenere e’ secreti, ben usare l’ozio e potere tolerare le iniurie. Onde non biasimano Coriolano, el quale affermava la austerità e pertinacia, soprastare a tutti, sottomettersi a niuno, proprio essere d’animo grande e officio di fortitudine. E Alcibiade non riprendeno, el quale dannato capitale dalla patria, e per quello fuggendo ai Lacedemoni, disse fare, quanto poi con armi fece, sentirli sé essere in vita. E confermono la sentenza di Publio poeta: «Soffrendo l’antica iniuria s’invita a nuova iniuria». E certo iudicano doversi contra l’iniurie fortitudine, e piacegli a suo proposito addurre Eraclito, ove disse: «L’iniurie si debbano spegnere». E approvano chi dica: «Se soffri l’iniuria, favoreggi l’iniusto». E lodano Agatocle, el quale, vinta con arme e soggiogata a sé la terra di que’ cittadini, vendé molti vendicandosi delle villane parole aveano combattendo dettoli. E domandatolo: «O orciolaio, (fu el padre d’Agatocle, come sai, maestro di vasi: si chiamavano figuli), onde satisfara’ tu a que’ tuoi soldati?», rispuose: «vintovi». E così adunque vendendoli disse: «Se voi non sarete per l’avenire modesti, io v’acuserò a’ vostri padroni». Isocrate, scrivendo a Demonico, affermava doversi né all’amico ceder di benivolenza, né al nemico d’odio. E così molti potrei addurre, quali pongono el vendicarsi fra le prime lode d’uno animo virile e grande, e aggiungono che una famiglia mai sarà molto pregiata, s’ella vendicandosi dalle iniurie non saprà farsi temere.

Adovardo. Se costoro non superbi e troppo subiti ben discernessero che cosa sia inimicizia, e quanto apresso de’ buoni sia licito perseguir vendetta, conoscerebbono, credo, la inimicizia in prima essere cosa grave e da molto fuggirla. Diceano gli antiqui quella affezione amatoria chiamata amore essere tale, che chi lo voglia in sé lo pigli, ma non chi vuole el lascia. Così qui certo potremo dire la inimicizia facile si cominci, ma non senza grande difficultà e danno si finisce. Diffiniscono la inimicizia essere odio indurato e grave. L’odio forse diremo nasca da invidia, qual vizio, detto che gli pesi veder bene a chi poco gli par lo meriti, comune sorge per nostra ambizione e per nostro essere poco modesti; dove pur soprafaccendo a quello ci s’apartiene, e presentandoci altieri, e pertanto ingrati a chi ci mira, vogliamo in vista soprastare a chi poi doppo l’invidia in sé verso di noi prende grave odio. Così quasi concludeno per nostro difetto venire in inimicizia. Ma io pur veggo e’ buoni essere odiati non raro. A Socrate, uomo ottimo e santissimo, fu inimico Aristofon poeta, el quale scrisse in lui sua commedia. Platone filosofo e Senofonte oratore, Eschines amico di Socrate e Aristippo molto insieme si inimicorono. Catone, ottimo cittadino e religiosissimo custode della Repubblica, fu da’ suoi inimici non meno che in cinquanta iudiici capitali accusato: del quale si legge che in età d’anni ottanta in iudizio difendendosi disse cosa esser difficile a lui, ch’era vivuto fra altri, ora con nuovi cittadini convenirli disputare della vita sua. E non pochi appresso di Aulo Gellio e degli altri scrittori si raccontano subito tornati da inimicizia in non sperata amicizia; qual cose fanno che forse alcuni dubitano queste veementissime affezioni nascere non da nostra alcuna opera, ma quasi da qualche fato e forza de’ cieli. Raccontono che da prima puerizia Aristide, quasi instigato da natura, prese odio capitale contro a Temistocle figliuolo di Nicocle. E Arato sicionio da natura con grande opera e studio inimicava ciascun tiranno, e quasi indutto da’ fati, come el sacerdote, trovato in la vittima due insieme in una rete ravolti fieli, gli predisse ancora sarebbe con un suo capitale inimico molto coniunto in benivolenza, così poi fu ad Antigone tiranno tanto amico che, riduttosi a mente el pronostico del sacerdote, quando poi sotto un panno erano pel freddo lui e Antigono coperti sorridendo gli raccontò la istoria, e fulli gratissimo così piacesse agli dii. E legesi che sanza altri mezzano, quasi destinato, e ordine da’ cieli, Affricano e Gracco, Lepido e Flacco inimicissimi tornorono in grazia.

Pertanto non disputiàn qui quale sieno le prime cause e, come appellano, e’ primi elementi della inimicizia. Nasca l’inimicizia o per nostro difetto, o per altrui malignità, o per condizion de’ cieli, tanto veggo che chi a me sia inimico, costui in tutte le cose farà el contrario che chi a me sarà amico. Desidererà chi me ami a me sia bene, e del male mio arà dolore, e studierà e goderà beneficarmi. L’inimico desiderarà sia a me miseria e calamità, arà festa d’ogni mio infortunio, proccurerà e glorierassi noiarmi e perturbarmi ogni onesto incetto e laude. All’amico ancora piacerà vedermi e assiduo e lieto, saralli voluttà ragionarsi meco di cose a me utile, a noi iocunde, e donde a me ogni mio desiderio e onore s’acquisti e cresca. L’inimico, contra, quando me vederà, tutto si turberà, curerà e studierà solo dirmi e farmi cose con onta, piene di sdegno, donde a me resulti all’animo grave perturbazione e molestia, e vivane in tristezza e lutto. L’amico meco ogni suo secreto aprirà, miei terrà secretissimi, presente e assente arà in animo beneficarmi, e molto e molto servire alla salute mia. L’inimico e presente e assente arderà ad iniuriarmi, e saralli grave la salute e la vita mia, tale che, se così descriverremo l’amicizia essere una coniunzione d’animi, fra’ quali ogni loro cosa e divina e umana sia comune, contrario diremo della inimicizia che sia contrarietà disiunta d’animi e voleri in qualunque cosa. Adunque contro a chi così fusse inimico, non biasimere’ io chi più tosto con ragione e modo occurra alle iniurie onde se senta offeso, che chi per negligenza e pusillanimità servile le soffra. Non però sarà ch’io non vituperi in vendicarsi ogni subitezza e acerbità di consiglio. E riputerò indegna d’animo virile e grande, ogni iracundia e contenzione sì fatta, che poi ne renda grave danno o biasimo: però che questo sarebbe non vendicarsi, ma gratificare e seguire a’ desiderii ed espettazioni dello inimico cupido d’ogni nostro male. Alcuni dissono l’iracundia essere come quasi dove la fortezza s’aruota. Pitagora e gli altri assai filosofi però pur negavan prudente alcuno dover mai incendersi ad ira, né contro a libero, né contro a qual si sia servo. Potrei adur qui Archita tarentino, Platone e gli altri notissimi e nelle istorie lodati, che nulla volsero con ira perseguire. Solo qui tanto affermo essere non officio di uomo constante e grave, né segno di maturo e ben disputato consiglio per iracundia incorrere in subitezza alcuna. «Da ogni parte s’apre luogo a vendicarsi», disse Quinto Catulo a Gaio Pisone, «purché tu aspetti el tempo». E proverbio nostro in la nostra Etruria: «ogni arme passa un fuscel di paglia saettato in tempo». Onde non posso non biasimare coloro, e’ quali benché iusto proseguitino sua vendetta, sono in parole minacciando concitati, e in fatti precipitosi e troppo inconsiderati, simili a quel proverbio antiquo de’ Battriani, quale scriveno Corabes medo in convito a Dario disse: «El can timido più che ’l mordace abaia», e dicono l’acqua in alto corso del fiume fa strepito meno che la bassa. Così gli animi erti e gravi di profondo consiglio più a’ suoi inimici tacendo che minacciando sono pericolosi. E veggo lo sdegno de’ virili simile all’arco: quanto più duro a gonfiarsi d’ira, e quanto per più forza d’offesa piegano, tanto più percuote vendicandosi.

E benché non pochi sieno d’oppinion lungi da me contraria, e riputino animosità, preso la gara, persino col sangue e ultimo spirito mantenerla, e dicano fortezza tenersi ultimi a deporre le ’niurie; e dicano come Coriolano, el quale ferito combattendo, e pregato dagli amici curasse la sua salute e tornasse al sicuro, rispuose: «chi vince non s’afatica»; e più ancora piaccia la risposta de’ Romani fatta agl’imbasciadori de’ Volsci: «voi primi corresti in arme, noi pertanto staremo ultimi a deporle»; non però a me in uomo prudente non dispiacerà ogni contenzione, quando ella sia a chi così contenda dannosa. Pirrus, perduto in vittoria molti suoi amici, disse: «Se un’altra volta vinceremo e’ Romani, certo tutti periremo». Grave adunque e da non volere quella vittoria qual sia con nostro danno. Onde e chi sarà che non biasimi quel Buten prefetto assediato da Cimone in Tracia, quale per mantenere sua durezza d’animo infiammò la terra, e fra le fiamme con molti nobilissimi prìncipi di Persia perì? Non racconto que’ Talani, quali, dice Sallustio, oppressi da Metello, sé e sue cose perderono ardendo. Simile e’ Numantini da Scipione, e appresso le radici dell’Alpi que’ famosi Galli da Mario superati; e altrove quelle femmine delli Ambroniti, quale percossero e’ figliuoli suoi su’ sassi, e sopra loro sé dierono a morte; e que’ compagni di Iosuo Ierosolimitani rinchiusi in quella spilunca, quali assortiti l’uno uccise l’altro; e que’ Litii vinti da Bruto, ancora contumaci perseguiti e ossessi apresso Sanzio, quali, poiché essi ebbero incese le macchine atorno de’ Romani e videro le fiamme portate dal vento scorrer ardendo più e più tetti sino in mezzo alla terra loro, quasi lieti di tanta sua calamità, grandi e piccoli, maschi e femmine e ogni età, accorsero furiosi a repellere e’ Romani, quali piatosi sé porgeano a spegnere tanto e sì diffuso incendio. E tanta fu, dicono, in que’ Litii ostinazione e pervicacità, che con sue mani per tutto altrove trasferirono el fuoco, e piacque a tutti insieme colla patria sua cadere perdendo in cenere. E simili ostinati e immanissimi animi, quali prima volsero perder la vita che la gara, tutti qui sarebbe lungo perseguirli biasimando; quali sempre negarò io siano d’animo stati virili, se per paura che ’l suo no’ gli fusse rapito, così acerbi e pervicaci deliberoron perderlo sanza frutto alcuno. E quanto e’ dicessero per non servire voler non essere in vita, tanto affermerei non sapessono che cosa sia fortitudine e nolli udirei se volessero persuadermi la vera virtù d’un animo fortissimo stare in non sapere soffrire ogni dolore e ogni sinistra fortuna.

Ma questa disputazion né qui molto, né alla nostra quale vi tesso brevità s’apartiene; così altanto voglio esservi esplicato: niuna contenzion piacermi dove presertim più sia per vincer danno, che utilità vincendo; né mai riputerò non stolto chi pur voglia contrastare a chi di forza a lui sia superiore. Né in uomo ben consigliato mai sarà la speranza del vincere seiunta dalla cupidità del concertare. E stimo el toro, il cavallo e simili raro poter ferire sanza sentire in sé qual e’ dia colpo. E sempre lodarò chi certando vorrà in prima essere sua fama e nome da ogni repreensione e biasimo libera e soluta. Né sempre, né con tutti statuisco esser licito essercitare suo odio grave e acerbo. Alessandro, figliuolo di Filippo re di Macedonia, quando el padre el confortava certasse in que’ giuochi chiamati Olimpi, negò ubidirlo, però che non avea pari a sé con chi essercitarsi e contendere. Lodasi Catone, come in tutta la sua vita e gesti, così in questo prudente e virile, quale verso di Scipione a lui per età minore, da chi esso era non ben voluto, si portò non più difficile che quanto si dovea verso un giovane e men maturo. E certo così a me pare, quanto dicea Cicerone, proprio officio del magnanimo esser placabile, e nulla duro né ostinato. E voglio che voi sappiate che ’l non sapere depor l’odio suol venire o da paura o da troppa intrattabile e villana natura. E interviene che alcuni ivi diventano tuoi capitali e crudeli inimici, dove stimano te non sapere deporre né dimenticarti la inimicizia. E chi troppo sia sollicito e arda d’odio vendicandosi, quasi da tutti sarà come rabbioso monstro odiato. E come dice Cicerone, quasi da natura tutti siamo proclivi a occurrere e propulsare e’ pericoli. E se saremo non aperti inimici, non so come ancora agli alienissimi in gravi pericoli loro siamo in luogo e con officio e studio d’amico. E chi non odiasse quelle gente crudelissime di là da’ Nomadi, quali beono el sangue del suo ferito inimico, e que’ ditti Zeloni, quali ne’ teschi de’ suoi morti inimici si pasceano, e quelli Scite, de’ quali scrive Erodoto che de’ dieci presi inimici immolavano uno in luogo di pecore, e solo chi portava el capo dell’inimico era participe della preda, faceano della pelle degl’inimici faretre da saette e simili? Veggio vi sono ragionandone odiosi. Pertanto ogni crudelità da voi sia sempre luntana. E se forse acade severo vendicarci co’ fatti, chi sia prudente, sempre in sue parole sarà modestissimo, e monstrerà in ogni suo gesto non da voglia del vendicarsi, ma da iniuria dell’inimico sé esser stato a così fare sforzato. Marco Tullio, uccisi que’ coniuratori di Catelina, rinunziandolo al popolo disse: «vissero». Fotion non volse per la morte di Filippo suo inimico dimonstrarsi lieto; e agli amici quali el confortavano così ne facesse agli dii sacrificio, rispuose nulla doversi a un re allegrarsi delle calamità de’ mortali.

Non preterirò tre precetti, quali sempre desidero siano in mente a chi contende. Primo: ricordisi quanto e’ nulla più sia che mortale uomo sopposto a’ casi della fortuna; l’altro: consideri che chi lo inimica, per vil che sia, pure è uomo. E non solo el toro e il leone, l’orso e il porco, quali tutti un infimo uomo può con sua industria aterrare, tengono corni, denti e artigli da noiarti, ma e, come disse Brassidas morso nel dito, ancora el topo e qualunque benché minimo sia animale sé difende. Terzo qui precetto: a noi sia sempre persuaso gli animi umani essere volubili; facile poter seguire che di loro inimici ciascuno si pentirà vivere in quelle cure, in quelle sollecitudine continue e troppo, quanto e’ provano, gravi. E come solea dire quello Bias, uno de’ sette antiqui detti Savi Filosofi (quale ancora dicono fu sentenza di Publio poeta), così ameremo come se quando che sia aremo essere non amici, così qui noi reggeremo le inimicizie, come se in tempo aremo da essere insieme non odiosi e infesti. Questo a me par della inimicizia, se già qui altro voi non richiedessi.

Lionardo. Certo e ottimi precetti. E dilettommi in tanta copia di sentenze e di istorie la risecata orazion tua, né vi desiderai stile troppo più dilatato e amplo. E abbiànti grazia, Adovardo, che c’insegnasti senza biasimo sostenere le inimicizie, qual cosa forse ben pochi seppono fare. E se come imparammo concertare, così ora fussimo dotti a vincere chi c’inimica, nulla più sarebbe in questa materia da desiderarvi, se già chi che sia non racontasse quanti incommodi sogliono venire per non discoprire palese a sé inimico chi occulto l’offenda, dove conosciuto non amico, sarebbe men dato fede a sua ottrettazioni e infamazioni e simili coperti modi di nuocere e iniuriare, e pertanto inducesse costui essere meglio tanto perseguire le inimicizie, che da qual si sia sollicito, industrioso e animosissimo certatore nulla più ivi si potesse agiugnere. Qual cosa chi così facesse, non costui reggerebbe forse qual tu dicevi le inimicizie, come se in tempo pensasse essere non infesto a chi l’odia. Ma io così interpetro el detto tuo: inimicando commetta mai cosa per quale, se in tempo cessino poi fra loro le vendette, rimanga odio verso l’usata nequizia e scellerata crudeltà.

Adovardo. Così era mia sentenza, Lionardo. E dico, chi sé dia a concertare vindicando, arà opera fare che l’inimico meno possa offenderlo, o che non voglia. Che non possa sarà in due modi: l’uno armar sé con vigilanza, con precauzione, con ottimo riguardo, molto più che con ira, sdegno e ferro; ma né ancora manchi qualunque cosa bisogni a ottima difesa, poiché si dice nulla contro la forza può se non la forza. L’altro adunque sarà levarli ogni arme e forza da inimicarti. Queste come e quali siano, in sul fatto ti consiglierai. Sono armi dello inimico non solo el ferro e le saette, ma e’ fautori e coadiutori, le occasioni, le astuzie, fraude e simile cose, per quale e’ possano noiarci. Sarà adunque nostra opera tôrli, quanto in noi sia, queste armi di mano; e in questa opera chi sarà non perfido, non proditore, ma aperte e iusto concertatore, mai costui sarà chi del difendersi virile e animoso el biasimi, né sarà chi non assai lo scusi se renderà pari a pari, non odio per odio, ma forza per forza, e sdegno contro alle iniurie. Così adunque faremo: leveremo l’armi a lui, e noi prepararemo che né in la persona né in le nostre cose possa esserci dannoso. E in prima cureremo servare la fama nostra integrissima, qual cosa sempre appresso e’ prudenti fu sopratutto carissima e preziosissima.

Lionardo. Piacemi. Ma forse fia più difficile fare che e’ non voglia molestarci. Pertanto, se aremo fatto che non possa nuocere a noi, che resta altro se non cercare di superarlo?

Adovardo. Non sa’ tu che due furono sempre ottime e gloriosissime vittorie contro ogni inimicizia, l’una quanto Diogenes, domandato in che patto molto potesse essere grave al suo inimico, rispuose: «vivendo onestissimo e adoperandoti in cose lodatissime». Né dubitare che a chi dispiace vedere el campo tuo ben cultivato e molto seminato, e a chi duole vederti in leggiadri e splendidi ornamenti vestito, e frequentato da molti amici, sano e robusto, costui adolorerà vedendo te ben culto di costumi, molto ornato di virtù, celebrato con buona fama e molte laudi e in parte niuna vizioso. L’altro modo sarà se sapremo, quanto i’ dicea, far che men voglia esserti non amico. E chi dubita questa sarà vittoria molto grandissima e di tutte nobilissima in una onesta, lieta e lodata opera uccidere l’odio e tutta la inimicizia insieme, e acquistarti nuovo amico?

Lionardo. E chi stimi tu tanto sarà dotto e perito in queste arti che ben sappia quanto tu proponi? Credi tu forse, come i’ dicea, così qui qualunque studioso arà mandato a memoria le cose sino a qui recitasti, e vorrà seguire e’ buoni quali esponesti ammonimenti, costui sarà non imperito a farsi non odiare? Vedi, Adovardo, che a ridurti benivolo l’animo di chi già verso te sia inceso di grave odio, non bisogni altro maggiore studio che questo qual dimonstrasti bisognava ad allettarci nuovo alcuno benivolo? Dura cosa stimano sia, senza prima satisfarsi vendicando, deponere l’ira; e qualunque irato sia, costui iudica sé non iniusto difendere sua contesa; pertanto statuisce in lode contendere per la iustizia.

Adovardo. Non voglio dubiti, Lionardo, che la facilità, benignità, liberalità e simili virtù, come a iungere nova amicizia, così ancora molto muoveno gli animi, benché acerbi e duri, a repacificarsi in antiqua benivolenza con chi e’ le senta essere né fitte né simulate. Già che, se ’l benificio ricevuto da chi nulla a noi poteva né doveva nuocere tanto ci fu grato, chi negherà non te dovere rendere a costui grazia, quale potendo e forse dovendo esserti grave e infesto, fu umano e teco benificientissimo? Credo prudente niuno iudicherà non essere questo doppio dono a te, e benificio di colui al quale stava noiarti, e propose teco non solo non essere difficile e grave, ma umanissimo e accomodatissimo. Né fu se non benificio e liberalità propria d’animo degno d’imperio e generoso, prima quanto a te nulla fu dannoso, poi quanto a te accrebbe utilità ed emolumento. E chi potrebbe non amare un tale simile nato a gloria e a meritare immortalità? In cui sarebbe sì prepostera e perfida natura ch’e’ non commendasse a perpetua memoria costui, da cui benificenza e’ sia uscito d’ogni suspizione e sollecitudine, quali sono gravissime in la inimicizia, e sia con dignissima liberalità revocato a dolce e lieta amicizia? E qual inetto, cupido d’ozio e tranquillità, quale ciascuno ama in sé e loda, con odio e contumelia pur studii vendicando essere sicuro? Quale stolto non conosce quanto le iniurie nulla lievino le inimicizie, ma molto acrescano odio? Dara’mi tu savio qual dica per altro vendicarsi che per rendere a sé l’inimicizia men molesta? E sia quanto vogliono prudente sentenza quella di Tales milesio, quale, domandato qual cosa facesse essere lieve la gravezza delle cose in vita moleste, rispose: «se vedremo l’inimico peggio afflitto che noi»; sarà e’ che uomo ben consigliato, dispiacendoli quanto debba a ciascuno non stolto dispiacere el vivere sollicito in inimicizia, non costui procurri levare la malivolenza più tosto che accrescere gli odii, quali chi qui con più ozio investigasse, troverebbe non poche ottime ragioni e modi a mitigare ogni crudo e aspro animo?

Dicono che de’ malfatti sono medicina le buone parole. Scrivesi poi che pel tedio del navicare furono incese le navi de’ profughi Troiani da quella femina chiamata Roma; onde la terra poi, dicono alcuni, fu da loro ivi non lungi edificata, detta Roma. Le donne con domandar perdonanza e con umili parole pacificorono e’ loro mariti verso sé troppo di iusta ira accesi, e apparecchiati a gastigarle. Ciro, dice Senofonte, chiamato da parte Ciassare, e avuto colloquio, e discusso e purgato le cagioni dell’odio, indi uscirono amicissimi. Marco Marcello con facilità e benignità seppe reconciliarsi e’ suoi accusatori e farseli fedeli amici. Alcibiades con lusinghe e blandizie aumiliò e rapacificò Tisaferne, quale per troppa avutoli invidia era partito da’ Lacedemonesi inimico del nome de’ Greci. E quanto racconta Iustino, bene intesero quelli Eracliensi, quali con benificio e doni seppero d’inimico a sé rendere amico Lammaco e suo essercito; estimorono ottimo satisfare a’ ricevuti danni in guerra, se chi gli era grave, ora gli sia fatto amico. E affermo io certo, quando né per nostro vizio fu principiato l’odio, né con nostra alcuna durezza e acerbità villana perseguite furono le ’niurie, a noi fie facile, declinandoci e cedendo alla iracundia, mitigare qualunque in noi commosso inimico. E per uscire di sollecitudine e perdere ogni odio, e per acquistarti uno amico, mi sarà sanza dignità inclinarti ad umanità e a facilità. E voler pur perseverare in contenzione e rissa potendo finirla, sarà non superbia solo e caparbità, ma stultizia incomportabile. Dicea Zenone e’ lupini essere durissimi e amarissimi, ma per stare in acqua si mollificano e adolciscono. Così gli animi umani, benché per fiamme d’iracundia e per sdegno sieno induriti e pregni d’amaritudine, non forse in un dì, ma certo con maturità secondandoli e aprendoli l’animo nostro cupido d’amicizia, e dimonstrandoli ragioni accomodate, el renderà molle e trattabile. E gioveratti essere primo quale te stessi purghi presso a chi ti sia familiare, però che te, quale con più modo narrerai el fatto e onestera’lo di scuse, udirà egli con modestia più che un delatore e rapportatore; e tu più facile impetrerai perdonanza se forse errasti, sendo la indignazione fresca, che sendo invecchiata.

Lionardo. Piacemi. Ma ramentami quanto scrive Plutarco: Dionisio simulò essere tornato in grazia con Dione, e così allettò Dione solo in la rocca, e monstrolli quella epistola sua scritta agli Ateniesi, e comandò a’ nocchieri esponessero Dione in Italia. Onde non forse male dicono: «di inimico riconciliato non ti fidare»; quasi come affermino, chi sia una volta inimico più possa mai vero essere amico. Ma parmi intenderti non rimanga per loro quanto possono lungi uscire dell’odio e molestie della nimistà, e tradursi a benivolenza.

Adovardo. Certo, però che l’odio si dice essere veneno della amicizia e sangue della inimicizia. E in essa inimicizia tanto si truova nulla molesto quanto l’odio, cosa pestilente e da ogni prudente molto da temerlo, quale in chi e’ sia, mai resta morderli l’animo, e come preso veneno continuo persequita corrodendo e viziando ogni intimo suo ragionevol pensiero e iusto consiglio. In altrui vero, chi non conosce l’odio quanto e’ sia rabbioso e infesto verso chi e’ si dirizzi? Agiugni che l’odio concita e’ tuoi necessarii e coniunti a nimicarti, e incende gli animi alieni da te a molto iniuriarti e a perseguitarti con ogni arte di nuocerti e dannegiarti. Per l’odio le rapine, le occisioni, le eversioni delle patrie e tradimenti, le coniurazioni e ogni male. E come ne’ templi antiqui el caprifico fra le coniunture de’ marmi tenero era da reciderlo con l’unghie, poi cresciuto e preso durezza, in tempo scommuove pietre grandissime, e dà in ruina lo edificio, così l’odio ne’ primi suoi nascimenti facile era da stirparlo, poi per lunghi dì fatto maggiore e raddurato, scommuove ogni ordine a beato vivere e ogni composta ragion dell’animo, e dàllo sì in ruina che qualunque innumanità e crudelità gli par licita per vendicarsi e satisfarsi. Adunque molto saremo curiosi e solliciti e in noi e in altri schifare tanto veneno e peste, presertim volendo essere buoni artefici e conservatori delle amicizie. E chi dicesse a conservare l’amicizia doversi solerzia simile a’ medici, quali descrivendo ragioni e arti da conservare la sanità, prima investigoron onde sogliono l’infermitate varie acadere, e conosciutole forse venire o da crudenza e indigestione, o da troppo freddo, o da lassitudine, o da dolore e simili contrarie cagioni, quali ammoniscono che evitando perpetueremo in sanità, così in amicizia credo non errarebbe chi per conservalla investigasse onde surga inimicizia, e ivi sé opponesse diligentissimo a non lasciarla intervenire. Che dite? Così vi pare?

Lionardo. Affermiamo sarà utile investigarne; se già non seguissi, quanto poco fa sopra recitasti quasi per gradi dedurre che dalla invidia nasca l’odio, e dall’odio l’inimicizia.

Adovardo. Piacemi. Ma indi sarà nostro ordine a conservar l’amicizia, qual fu luogo quinto da noi proposto a dirne. Poiché vedemmo nascere, crescere, rescindere e recuperare l’amicizia, e trovammo la inimicizia essere contraria alla amicizia, e conoscemmo e’ primi principii ed elementi della amicizia essere in prima benivolenza scoperta e fatta maggiore con uso domestico e familiare pieno d’officio e benificio, forse adunque e malivolenza scoperta e fatta maggiore per uso pieno d’iniurie e onte saranno principii della inimicizia contrarii. Qual cosa se così m’asentite, racconterovvi a proibir la ’nvidia, donde poi nasce l’odio contrario alla benivolenza, cosa utilissima e forse non altrove udita.

Lionardo. Né a ragione possiamo, né vogliamo non assentirti. Seguita.

Adovardo. Ubbidirotti, e sarò pur dicendo non prolisso. Veggo alcuni fortunati e abienti, quali più che gli altri ostentano sue ricchezze e con superbia si gloriano de’ doni della fortuna; e in vestire splendido e suntuoso, in copia di servi, in moltitudine di salutatori e simile pompe quanto sono immoderati, tanto molti desiderano vederli in fortuna meno prospera e men seconda. Alcuni veggo, perché vivono scellerati e libidinosi, nulla curando legge o iudizio de’ buoni, e meno pregiando la grazia e benivolenza de’ cittadini, per questo la presenza loro sta grave a tutti e’ suoi cittadini. Alcuni non rarissimo ancora si troverano, a’ quali o per cupidità d’essere e’ primi onorati, o per qual sia cagione, loro sarà ingrato costui forse industrioso, studioso di buone arti, dato a cose difficili e lodatissime, per quale facea pregiarsi. E quasi sempre comune principio di malivolenza vidi sorgere da qualunque sia contenzione, ove ciascuno studia asseguire quanto e’ desidera, e da chi lo disturba sé dice gravato.

Sì adunque trovammo tre quasi incitamenti a malivolenza: contro e’ pomposi, contro e’ scellerati, e contro coloro a cui desideriamo essere o superiori o pari. Non ti nego sono alcuni sì maligni e di natura sì acerbi, che ogni nostra buona fortuna gli è grave. Quale di queste sia da non biasimare, qui non abbiamo da disputarne; e forse a conservare amicizia tutte sono non lodevoli. Veggo apresso non sempre vizio d’altrui, quanto e da noi stare quello onde poi cresca odio e nimistà. Più stimo facile bene instituire noi stessi che altrui. Adunque così noi appareremo che agli occhi e orecchie di niuno vorremo essere gravi in pompa alcuna, né in alterezza di nostri gesti o parole. Lodava Virgilio el suo Mecenate: «Te che sì grande ogni cosa puoi...»; mai uomo s’avide nuocere li potessi. Antiquo detto approbatissimo presso tutti e’ filosofi: «Quanto più puoi, tanto men vorrai»; quale chi bene in sé lo osservi, conoscerà per moderare sue voluntà nulla scemarsi fortuna, insieme e acrescersi laude e buona grazia, cose molto più gloriose che le ricchezze. Platone filosofo scrive a Dione siracusano: «E siati in mente adunque, o Dione, che molto la benivolenza alle cose arai da fare giova; superbia vero induce solitudine d’amici». E certo chi sia superbo, costui sarà non iocundo a’ suoi con chi e’ viva, e meno agli strani. E per questo quanto dicea Aristotele: «Poiché noi raro amiamo chi a noi non è iocundo, sarà el superbo come iniocundo, così meno amato». E per piccolo atto di superbia proviamo quanto non raro in chi e’ ci dispiace, da noi sia mal volentieri veduto. Così se in noi fussero atti alcuni immodesti, dobbiamo iudicare potrà sorgerne grave odio di noi a chi così impettorati ed elati ci appresenteremo. Sallustio scrive che Iensalo prese a sdegno gravissimo che ’l fratello suo Aterbal li si pose superbo in sedere a sé di sopra. Gracco, tornato da Cartagine, nuova tolse casa presso al mercato tra’ poveri artigiani, per monstrarsi volere essere non superiore agli altri, né sé stessi estorsi in fasto e superbia. Così adunque noi conterremo e moderremo, e niuno indizio di superbia vorremo in noi essere palese. E molto più ogni oscenità e incivilità di vita e di parole vorremo da noi molto essere lontana. E sarà nostro officio biasimare niuno, lodare chi ’l meriti, e darci quasi precones e promulgatori delle virtù de’ nostri amici, proprio come quasi diamo opera che molti siano testimonii delle lode sue e della benivolenza nostra. Scrivea Isocrate a Demonico che l’inizio della benivolenza era lodare, della malivolenza biasimare. Fuggiremo adunque mai con atti né con parole biasimare alcuno, e daremo opera, servata la dignità, che persino a’ minimi conoscano da noi essere lungi ogni fasto e vana pompa, e sentano nostra umanità e cortesia sempre essere pronta a farci amare. E quanto Lelio apresso di Cicerone dicea sé in cosa alcuna mai essere stato grave a Scipione, mai da lui avere ricevuto cosa ingrata, così noi molto fuggiremo essere non iocundissimi e accettissimi a chi vorremo esserci affetti di benivolenza. E dove in quelli quali riputiamo benivoli, quasi da natura forse saranno elevazioni d’animo inette, e arderanno d’immodesta e non molto comportabile cupidità d’essere più ch’e’ non meritano onorati e pregiati; e dove alcuni forse saranno di natura dura e solitaria, ivi esclusa ogni assentazione, qual sempre fu servile e indegna d’animo onesto, provederemo con dolcezza e iocundi ragionamenti contenerli a noi molto benivoli. E come diceano sapea Alcibiade, così noi imitaremo el cameleonte, animale quale dicono a ogni prossimo colore sé varia ad assimigliarlo. Così noi co’ tristi saremo severi, co’ iocundi festivi, co’ liberali magnifici; e quanto dicea Cicerone al fratello, la fronte, el viso, le parole e tutti e’ costumi acomodaremo a’ loro appetiti. E troveremo quasi niuno, per severo e solitario che sia, a cui e’ poemi e ogni musica e ogni istoria presertim ridicula non diletti. E dicea Laberio poeta che in via dove pel tedio del caminare quasi ciascun sta tristo e grave, un iocundo compagno era come veiculo e sollevamento del tedio. Catone solea dire la mensa e convito, dove più s’apregiava e’ ragionamenti e festività tra gli amici che le vivande, essere procreatrice della amicizia. E dicea Paulo Emilio el convito bene aparecchiato essere opera d’animo grande, non dissimile a chi bene ordini lo essercito, ma venirne frutto dissimile, però che indi stai temuto, qui t’acresci e conservi benivolenza. E niuna cosa tanto par propria agli amici, dice Aristotele, quanto insieme vivere.

Ma vuolsi con tempo e modo darsi a qualunque sia cosa, e in prima a trattare gli animi degli uomini, quali di natura sono ignei, facili ad incendersi di sdegno e ira, e leggieri a levarsi da benivolenza. Gioverà pensare che come in noi non sempre l’animo sta lieto, né continuo persevera in una benché lodata volontà, così in altri sono varie mutazioni d’affezioni, e nuovi d’ora in ora instituti. In tutte le coniunzioni, dicea Tullio a Decio Bruto, molto fa quali siano e’ primi additi, e per cui comendazioni quasi le porti della amicizia furono aperte. Come chi a noi viene non a tempo ci è grave e molesto, così le epistole e salutazioni offendono non in luogo porte. Ciro, quanto scrive Senofonte, solea per Sacca suo domestico sempre prima certificarsi se Astiage suo avolo forse fosse lieto o tristo, per sceglier tempo d’andarlo a salutare. Isocrate scrivendo a Demonico lo amoniva quanto d’ogni cosa era sazietà, e pertanto raro convenisse gli amici. Adunque non lodaremo questi quali ogni dì viveno in conviti e suntuosità disregolata; né sempre apruovo la parsimonia e tenacità. Scrive Suetonio che Cesar, invitato dall’amico, partendosi con troppa masserizia trattato in cena, disse: «Non mi credea tanto esserti amico». Non rarissimo ancora in chi a te sia coniunto di familiarità, per mutazion di fortuna o per altra qual sia cagion sorgono costumi e volontà nuove e varie e nocive alla benivolenza. E forse in loro saliti in grado elevato e pieno d’autorità, crescerà insolenza e fastidio verso e’ meno possenti amici; o forse caduti in avversità, rotti da miseria iaceno abbandonando sé stessi e troppo diffidandosi, e per questo sé dànno ad essercizii sozzi, nulla lodati e vili. Qui credo sarà prudente niuno quale non confessi doversi reverenza a quello amico, quale se a te non fusse noto, onorresti e cederesti alla degnità. E niuno stimo uomo umano e civile vorrebbe non molto essere utile alle espettazioni e necessità di chi egli ami. E piatoso sarà, credo, niuno, quale non goda con suo fedel consiglio, con deditissimo studio, con lodata diligenza, con dovuta assiduità e con pronta opera sollevare l’animo di colui a sé benivolo, e trarlo d’ogni tristezza, renderlo lieto, quanto e più ancora che sé stessi contento. Già che non si nega officio dell’amicizia servire a’ comuni commodi, ove così sia che degli amici qualunque cosa debba essere comune, e appruovasi la sentenza dello Epicuro filosofo, l’amicizia essere lodato consorzio di volontà. Chi adunque non curerà levar della amicizia come parte de’ suoi mali ogni tristezza? Né ci dimenticherà la sentenza di Demetrio figliuolo di Fanostrate, quale dicea: «El vero amico sarà quello che alla prospera tua fortuna non verrà se non chiamato, ma correrà sé stessi proferendo a ogni tua avversità». E così Chilon filosofo volea l’amico più pronto a comportare teco l’onte della fortuna, che a godere in tua felicità. E se pure acade che da te chi tu ami chieggia cosa non onestissima, e dica quanto dicea Blosio amico a Gracco, per servire a’ desiderii dello amico doversi in cosa niuna non ottemperarli, dicea Aristotele, confutando certe oppinioni di Platone suo maestro, sé amare l’amico, ma prima la verità. Così noi serviremo a chi ci ami, ma prima riputeremo amica l’onestà. Né io ben comprendo come chi voglia vedermi non onesto a me sia amico. All’amico che domandò dicesse falso testimonio, rispuose Pericle: «Ubidirotti persino alla ara», luogo ove era da prestare el giuramento. E Chilone filosofo, quale per salute dello amico suo avea dato non giusto consiglio, persino all’ultimo suo dì condolendosi, dubitò quanto fusse da lodare o biasimare. Antigono, per sogno apparsoli vedere Mitridato mietere biave d’oro, per questo con Demetrio suo figliuolo, datogli giuramento comunicò volerlo uccidere. Demetrio chiamò Mitridato e ragionando d’altre cose, con una bacchetta scrisse in sul lito dove passeggiavano, «fuggi». Inteselo e consigliossi.

Adunque assai da voi potete comprendere quanto io iudichi in cosa utile e onesta mai doversi con nostro ancora pericolo aspettare siamo pregati, ma essere merito alla benivolenza presentarci non richiesti, e con prudenza e degna cauzione insieme provedere al nostro e allo altrui pericolo. E cose brutte, credo non dubitate essere nostro officio schifarle. Acaggiono ancora fra noi e chi dice amarci, che stimano quella e quell’altra dignità più troppo che la nostra benivolenza, quali se così meritano, faremo come Pedareto lacedemoniese, quale, avuta repulsa domandando el magistrato, nulla atristito tornava, e disse troppo essere lieto poiché in la patria sua vedea essere tanto sopra sé numero di virtuosi cittadini a’ quali si fidi la repubblica. E assentiremo a Crasso, quale dicea con animo non turbato soffrire altri a sé essere in quelle cose superiore quale la fortuna possa tôrli, ma in quelle quali per nostra industria s’acquistono, qual son virtù e cognizion di cose ottime, non poter non dolersi se fusse ad altri inferiore. E in queste competizioni delle cose, quale el favore e grazia del popolo a chi si sia attribuisce, credo sarà poco licito, sendo parte, volere la nostra sentenza di noi stessi più sia che ’l iudizio d’altrui da nollo biasimare; e riputare che chi conferisce la degnità sia non indotto e con ragione e consiglio mosso, sarà lode d’animo ben costumato; e se forse lo reputi indotto, arai da incolparne te, che sì te sottomettesti al giudicio e sentenza di persone imperite.

E non raro interviene che degli amici tuoi insieme alcuni saranno non concordi, tale che favoreggiando a questo t’aduci inimico quell’altro, e talvolta ti segue che dall’una e dalla altra parte resti meno amato. Scrive Livio istorico che sendo la plebe romana, per molti debiti e usure gravata, discorde da’ patrizii, implorò la fede e aussilio del consule Servilio, e molto el pregò avesse cara la salute loro, e da tanti e sì gravi incommodi li levasse. El consule contenendo sé mezzo e protraendo, nulla acquistò grazia dal Senato, molto da quella causa alieno, né sé tenne ben voluto dalla plebe, quale instava ne referisse al Senato. Ma seguìgli che da’ patrizii fu iudicato troppo molle e ambizioso populare, e dalla plebe fu stimato fallace e doppio; onde breve poi e da questi e da quelli ne fu odiato. Ma pure qui mi piacque Cesare, quale vedendo Crasso e Pompeio insieme non amici, per agiugnerli a sé ambodui e per lor grazia farsi maggiore, diede sé a compor fra loro unione e concordia. Così gli fu licito quivi e qui essere familiare e veduto assiduo. E Platone scrivendo a Dione: «Debbo io sì», disse, «fra voi essere mezzano, se forse cadesse discidio, e riconciliarvi e pacificarvi; ma se concertarete d’odio grave, qualunque di voi voglio cerchi a sé altro adiutore». Aristotele filosofo morendo in età d’anni sessanta e due, domandato da’ discepoli pronunziasse qual de’ suoi discepoli lasciasse in luogo suo come erede precettore degli altri (erano fra loro due Teofrasto lesbio e Menedemo rodio), tacque Aristotele alquanto; pur a questi che così instavano, ridomandato, comandò trovassero qualche più atto vino alla sanità sua. Portorongli vini ottimi di Rodi e di Lesbo. Gustò l’uno e monstrò gli piacesse; gustato l’altro, «e questo», disse, «ancora mi piace». Onde intesero Teofrasto lesbio e Menedemo rodio gli piaceano. Così laudorono la sua sentenza come per altro, così ancora che tanto servasse modestia, e tanto volse ancora morto non essere da tutti non molto amato. Scriveno di Pomponio Attico, poiché vide la terra non poco per que’ tumulti di Cinna essere perturbata, e non gli restare facultà vivere in dignità sua sanza darsi a qualche di quelle parti quali insieme contendeano, si segregò, e asettossi in Atene dando opera agli studii; e ivi con liberalità fe’ grato sé al popolo ateniense, e accrebbela vivendo sì che volse parere comune agl’infimi e pari a’ prìncipi ivi cittadini. Fece ancora a grazia che favellava sì netta la lingua greca, come se fusse nato e allevato proprio in Atene, per qual cosa forse fu detto Attico. Silla, uno de’ principi della contenzione, molto lo amava e pregiava le sue virtù, e richiedevalo fusse in suoi esserciti. Rispuose Attico: «Pregoti non volere avermi avversario a coloro co’ quali non volendo io esserti contro, abandonai Italia». Lodollo Silla. E simile poi nelle contenzioni di Cesare e Pompeo sé escusò vecchio e inutile alla milizia e a’ campi; e per questo, benché aitasse gli amici di Pompeo con danari, non però fu da Cesare vittore male accetto. E scrisse Tiro litteratissimo servo di Cicerone che, edificando Pompeo el tempio della Dea Vittoria in Roma, e volendovi porre suoi onorati tituli, era dissensione fra’ litterati se dovea scriversi TERTIUM CONSUL o TERTIO C. Fu delata la disputazione e iudizio a Marco Tullio, quale prudentissimo comandò, per satisfare a tutti, solo s’inscrivessero tre le prime lettere, TER. E Chilone filosofo, scrive Laerzio Diogenes, chiamato arbitro fra due amici, per non offendere di loro alcuno, persuase provocassero da sé el litigio. E Camillo dittatore, poiché e’ sì ebbe condutta la ossidione che potea subito, per quella quale egli avea sotto terra fatto via, irrumpere in la rocca de’ Vei e prendere la loro terra molto ricchissima, avendo in mano tanta vittoria volse né intrare in invidia del Senato se forse donava tanta preda a’ suoi esserciti, né venire in disgrazia del popolo e moltitudine se forse tanta preda riponea in publico erario. Adonque scrisse al Senato comandassero quello iudicassero da seguirne. Così costoro evitorono offendere gli animi de’ suoi.

Vedesti quanto m’ingegnai esser brevissimo. Più cose potea addurre non superflue, ma in quali troppo mi sarei steso. Uno ricordo non preterirò: cosa niuna voglio stimiate tanto valere a ogni stato e progresso d’amicizia quanto e’ beneficii, de’ quali, perché molto acaggiono a questa materia, poiché nulla più, ch’io stimi, resta a dire della amicizia, racontarò qui a Battista e Carlo succinte alcune sentenze, quali in questa loro età studioso mandai a memoria.

Lionardo. Non interruppi questa tua brevità pregna di maravigliose sentenze e ottimi essempli, donde a qualunque parola più e più cose sentiva degne d’essere notate e lodate. Troppo a me, Adovardo, troppo mi satisfacesti; ma non ti concedo essere a pieno fatto assai a quanto acadea dire della amicizia.

Adovardo. Dicemmo con che arte s’acquisti, come s’accresca, in che modi si rescinda, che cagion sia da racquistarla; e ora discurremmo qual industria s’apruovi a conservarla. Che più avevi tu da desiderarvi?

Lionardo. Nulla, se coteste tutte a pieno fossero come furono esplicate. Ma vedi quanto da te aspetti. Piero a noi insegnò acquistar benivolenza apresso de’ signori; da te siamo fatti dotti in ogni altra ragione amatoria. Chi da te ottimo maestro delle amicizie, sendo in principato, chiedesse divenire erudito in quello quale quasi principe niuno par che sappia, dico ben farsi amare, stimo sarebbe da tua umanità troppo alieno negarli tanta utilità.

Adovardo. Oh! felicissimo quel principe quale così vorrà acquistarsi benivolenza, e meno essere temuto che amato, quanto con una sola facile e piena di voluttà cosa possono tutti, ma non curano in questa parte insieme acquistarsi benivolenza e lode immortali.

Lionardo. Aspetto udire quale essa sia.

Adovardo. Che dice Carlo?

Lionardo. Dice messere Antonio Alberti esser qui giunto per salutar Lorenzo.

Adovardo. Adunque, e domani vi satisfarò.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.