< I ragazzi grandi
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Parte prima
I ragazzi grandi Parte seconda

- Bettina, accendi subito il caminetto - disse Clarenza, entrando in salotto e volgendo la sua parola a una donna sulla cinquantina, che stava spolverando con una spazzola di penne i mille ninnoli, di varia maniera, posati per ornamento sopra la mensola di un caminetto, sormontato da un grande specchio.

- Nel momento - rispose la Bettina, e chinandosi per accomodare la legna, disse alla sua giovane padrona:

- Indovini un po’, signora Clarenza, chi ho veduto or ora, per la strada, mentre tornavo a casa.

- Sarà un po’ difficile.

- Glie lo do a indovinare in mille.

- Figurati, se voglio stare a lambiccarmi il cervello. Spicciamoci: chi hai veduto?

- Il signor conte!...

- Come! Mario è qui?.. Mi pare quasi impossibile. A quest’ora sarebbe venuto a trovarci.

- Eppure era lui!

- Bada, Bettina, avrai sbagliato!...

- Era lui in persona... e si mantiene sempre un bell’uomo!...

- Lo credo. Sempre elegante?..

- Sempre lo stesso. Mi ricordo di quando, da giovinotto, veniva per casa e che tutti si credeva che fra lui e lei - (nel dir così la Bettina, accennò cogli occhi la sua padrona) - ci fosse veramente qualche cosa... eppoi...

- Eppoi, sul più bello tutte le speranze andarono in fumo, non è vero Bettina?.. - Nel profferir queste ultime parole, la Clarenza fece una di quelle risate artificiali, che non fanno ridere nessuno, nemmeno la persona che ride.

Dopo dieci minuti di silenzio, la Bettina, scrollando il capo, continuò:

- Peccato! che bella coppia sarebbe stata!...

- Non lo credere: Mario non era l’uomo per me! Troppo leggero di carattere: troppo volubile! troppo farfallone!... Mario, per tua regola, non sarà mai un uomo serio!...

- Ma un gran bell’uomo!

- Speriamo che l’Emilia gli avrà fatto metter giudizio!...

- Speriamolo davvero.

- In ogni modo, val più Federigo in un solo dito...

- Dicerto - replicò la Bettina, con accento di sincera convinzione. - Dicerto, il signor Federigo è una gran degna persona... ma ecco... secondo me, non ha la malizia di esser bello come il signor Mario!...

In questo mentre, Francesco si presentò sulla porta, annunziando: - Il signor conte Mario.

La Clarenza, colla rapidità del baleno, si dié un’ultima guardata allo specchio: quindi, preso il primo libro che gli capitò fra le mani, andò a sedersi dinanzi al caminetto.

- È permesso?

- Ma questo è un miracolo! una vera apparizione!... - disse Clarenza, voltandosi sorridendo verso la porta, e stendendo la mano al conte.

- Mia buona Clarenza! Anche a me mi pare di sognare! - replicò Mario, con un accento di mal dissimulata afflizione.

Clarenza, meravigliata, lo guardò fisso negli occhi: quindi, pigliando un tuono di voce carezzevole:

- Vi è accaduto forse qualchecosa?..

- Perché?..

- Dio mio! Avete addosso una cert’aria di mal umore, che fate proprio pietà... voi, una volta così allegro... così scapato...

- Non vi occupate di me, Clarenza, parliamo piuttosto di voi. Gli anni passano e non vi toccano. Sempre bella e fresca, come una camelia sulla pianta.

- Diavol mai! - replicò vivacemente Clarenza, un tantino impermalita del complimento - una donna, a venticinqu’anni, ha quasi il dovere di non esser brutta. Anche voi, sapete, Mario: se non aveste codest’aria di salcio piangente, si potrebbe dire che vi siete conservato come un ermellino nella canfora.

- No, amica mia - soggiunse il conte, abbassando di nuovo il tuono della voce - ormai io sono vecchio, un decrepito di trenta anni!...

- Ecco le solite frasi! A proposito: come sta l’Emilia? non mi avete detto nulla..

- Vi prego!... non tocchiamo questo tasto.

- Mi fate paura? È forse malata? - domandò Clarenza con vivissima ansietà.

- Peggio!...

- Mio Dio!... Morta?

- Peggio!...

- Peggio?.. - Clarenza rimase perplessa, stuonata, come fuori di sé: quindi illuminata quasi improvvisamente da un baleno, che traversò la sua mente, soggiunse piano e con voce compassionevole:

- Povero Mario! in questo caso comprendo benissimo il vostro dolore e lo rispetto...

Il conte si lasciò cascare sopra una poltrona, dove per alcuni minuti secondi rimase immobile e cogli occhi fissi a terra. Quando si risentì, il suo primo movimento fu quello di portarsi la mano sopra la testa, per assicurarsi colla punta delle dita se la scrinatura dei capelli avesse sofferta qualche perturbazione, in quella violenta scossa di tutta la persona.

- Mario!... e lui chi era? - domandò Clarenza esitando e abbassando gli occhi.

- Un mio compagno di collegio! l’amico del cuore.

- Infami! tutti così gli amici del cuore!

- Venne quest’estate a Genova. I medici gli avevano ordinato i bagni di mare. Il giorno stesso che arrivò lo incontrai alla posta. Era pallidissimo e mal’andato di salute. Sei solo? gli domandai. - Sì. - e dove abiti? M’immagino che non sarai sulla locanda. - Anzi sono appunto sulla locanda. - In codesto stato di salute? Tu hai bisogno di qualcuno che ti assista. - Ubbie, mi rispose sorridendo melanconicamente; all’occorrenza, so morire anche da me solo; e senza bisogno di aiuto. - Sciocchezza! tu verrai a casa mia, gli risposi in tuono imperativo. Io abito a venti passi di distanza dal mare. Ho un quartiere assai grande e assai comodo, perché ci sia sempre una camera e un salottino per gli amici. - Impossibile. - Ti ripeto che t’aspetto, e non facciamo complimenti inutili. Sì. - no, no - sì - il fatto sta che lo costrinsi ad accettare. Lo presentai a mia moglie, e dopo pochi giorni diventò di famiglia. La sera mi accompagnava al Club, e alle due dopo la mezzanotte veniva a riprendermi per tornare a casa insieme. Passarono così due mesi: le bagnature erano finite; l’amico si era completamente ristabilito... ma non parlava d’andarsene...

- E in tutto questo tempo non vedeste nulla? Non vi accorgeste di nulla?

- Clarenza mia - continuò Mario fremendo e lisciandosi con compiacenza le sue lunghe fedine - i mariti somigliano a quei disgraziati di cui parla il Vangelo: hanno gli occhi, e non vedono; hanno gli orecchi, e non intendono nulla. Una bella mattina, Giorgio... (così si chiamava quel miserabile) riceve un dispaccio da casa. Bisognava che partisse subito. Difatti partì, promettendo che sarebbe tornato dopo pochi giorni per riprendere la sua roba e per ringraziarci della cortese ospitalità che gli si era data.

A questo punto, ci furono due minuti di pausa e di raccoglimento, quindi il conte seguitò:

- Non starò a dirvi per quale strana combinazione, durante quella breve assenza, una lettera di Giorgio, che era destinata per l’Emilia, capitasse disgraziatamente nelle mie mani. Si vede proprio che gli innamorati colpevoli son come i ladri: i quali, dopo tanto ingegno e dopo tante cautele, finiscono prima o poi col fare qualche grande sciocchezza, che serve a scuoprirli e a metterli nelle mani della giustizia.

- E quella lettera?.. - domandò Clarenza con una curiosità impaziente.

- Da quella lettera potei comprendere che il falso amico... che il Giuda insidiava al mio onore!... Voi conoscete il mio carattere impetuoso, violento, subitaneo. Senza metter tempo in mezzo, mi presentai a mia moglie, come una tigre ferita. L’Emilia protestò della sua innocenza: pianse: pregò - e siccome una parola ne tira un’altra, così accadde una scena dolorosissima, al seguito della quale mia moglie ritornò presso sua madre, gridando e spergiurando che non avrebbe più rimesso il piede in casa mia... Partita l’Emilia, mi trovai solo! - solo come un cane. Risoluto, d’altra parte, per la mia dignità, a non fare nessun atto di scusa e di sottomissione, feci allestire la mia valigia, e fino da ieri sera eccomi qua, in un paese dove ho passato gli anni più belli della mia prima giovinezza; dove si può dire che sono conosciuto da tutti, e dove tutti mi vogliono bene.

- Povero Mario! E di lui?..

- Non ne ho saputo più nulla, e non voglio saperne nulla. Ma ditemi voi, Clarenza, se si può trovare un uomo più scellerato di quello?!... tradire così vilmente l’ospitalità dell’amico. Giorgio è un mostro.

- Giorgio è un uomo, come tutti gli altri. Io non scuso davvero la sua condotta! Dio me ne guardi! Ma Giorgio non è un’eccezione alla regola. Amico mio - continuò Clarenza, battendo leggermente e con grazia la sua bella manina sul braccio del conte - tenetelo bene a mente: ammesse certe date circostanze, tutti gli uomini si somigliano fra di loro.

- No, Clarenza, no - replicò Mario, quasi sdegnato e con accento vibrato. - Io, per esempio, sono stato un grande scapato: io, per dir come diceva mio padre, ne ho fatte di tutti i colori!... ma, vivaddio, sento che non sarei capace di un’azione indegna come questa!... Però la colpa è mia, tutta mia... e ora tocca a me a farne la penitenza.

- È vero la colpa è vostra; ma permettetemi, che ve lo dica: un po’ di colpa ce l’ha anche l’Emilia.

- Sono io, io, che ho condotto Giorgio in casa! Dunque tutta l’imprudenza è mia.

- Ma una moglie prudente - soggiunse Clarenza, assottigliando la voce con moltissimo garbo e staccando le parole, le une dalle altre - ma una moglie prudente avrebbe dovuto rimediare all’imprudenza del marito. Toccava all’Emilia, scusate se parlo così, a farvi notare la poca convenienza di mettervi un giovinotto per casa... se non foss’altro per riguardo al mondo!

- Non ne parliamo più, - interruppe Mario alzandosi e dandosi un’occhiata complessiva nello specchio, appeso al disopra del caminetto. Quindi continuò con un accento d’amarezza infinita.

- Se io vi dicessi che questa sciagura domestica ha spento per sempre il sorriso della mia vita.

- Fortunatamente non è stata una sciagura irreparabile! Meno male, che ve ne siete avveduto in tempo.

- Se io vi dicessi che la condotta abbominevole di Giorgio m’ha nauseato del mondo... mi ha messo in diffidenza con tutta la società!... Se io vi dicessi - (e qui la voce di Mario cominciò a tremare) - che tutte le volte che io mi trovo solo... mi assalgono tristissimi pensieri...e finisco... mi vergogno a dirlo... col vagheggiare il suicidio.

- Mario! - gridò Clarenza, impaurita - guardate bene che io non senta più sulla vostra bocca questa brutta parola!... Quanto tempo avete intenzione di trattenervi qui?..

- Non lo so neppur io: giro il mondo come un pazzo.

- Volete dar retta a me?

- Volentieri.

- Promettetelo.

- Lo prometto.

- In casa nostra, abbiamo un piccolo quartiere che dà sul giardino. È il quartiere destinato per il mio fratello Carlo, quando ritornerà da Berlino, dov’è a finire i suoi studi...

- Vi ringrazio - disse Mario, interrompendola - ma è impossibile, assolutamente impossibile.

- Voi avete bisogno di svago, di distrazione…

- Pur troppo!

- Voi, soprattutto, avete bisogno di non restar mai - solo!... La solitudine è sempre consigliera di tristi pensieri... e segnatamente per voi, per voi che avete un carattere così sensibile, così nervoso! -

- Non abbiate paura, Clarenza - disse Mario, sorridendo a fìor di labbra, e pigliando per la mano la sua graziosa interlocutrice.

- Non ho paura, io: ma se accadesse qualche sciocchezza, v’immaginate il rimorso, che sarebbe per tutti noi?...

- Parlatene almeno prima con Federigo.

- Non c’è Federigo che tenga; per vostra regola, in questa casa ci sono il marito e la moglie. Contenta io, contenti tutti.

- Donna veramente rara!... E dire che tanto tesoro di grazia e di spirito poteva esser mio!... Vi rammentate, Clarenza, di quei tempi famosi?...

- Io non mi rammento di nulla! - replicò l’altra con disinvoltura.

- Davvero?... Come non vi rammentate nemmeno di quella famosa festa da ballo, in casa di mia zia?...

- Vi ripeto che io non mi rammento di nulla: di nulla affatto. Mi rammento soltanto d’un proverbio, che dice: «Acqua passata non macina più».

- Ah! Clarenza! I proverbi qualche volta sono crudeli!...

- Saranno crudeli - soggiunse Clarenza ridendo, - ma sono molto comodi per troncare i discorsi uggiosi e inconcludenti.

Mario, che in quel momento si era dimenticato della sua sciagura coniugale (non è concesso a tutti di avere un’eccellente memoria!), si morse leggermente il labbro inferiore; poi, riattaccando la conversazione, continuò:

- E Federigo sta bene?

- Come un pesce nell’acqua - rispose Clarenza, per fargli capire che aveva letto i Masnadieri di Schiller.

- E il vostro commercio delle pelli prospera sempre?

- Vi avverto, Mario - osservò Clarenza con l’accento freddo di una persona mortificata nella parte più viva del suo amor proprio - che oramai è più d’un anno che Federigo si è ritirato affatto dal commercio. Abbandonò la mercatura per dedicarsi interamente alla vita politica!

- Come! - soggiunse il conte, dando in una gran risata. - Avete lasciato le pelli per la politica? Un brutto baratto, cara mia; ve ne avvedrete al bilancio!

- Pazienza! D’altra parte, noi abbiamo tanto, e forse qualche cosa più, per poter vivere agiatamente. Prova ne sia che Federigo, non avendo figli, ha fondato a tutte sue spese un educatorio per le fanciulle povere del comune.

- È una cosa che gli fa onore.

- Questo lo dite voi, e lo dicono tutti: ma il Ministero seguita a far l’indiano. Credete voi che quei signori si siano voluti ricordare una sola volta di mio marito?...

- Per altro - soggiunse Mario, studiandosi di dare alla sua voce il colore di un dolce rimprovero - se le voci sono vere, sento dire che Federigo è uno dei caporioni del partito dei malcontenti...

- Siamo giusti, amico mio - replicò Clarenza vivace mente - come volete che mio marito sia governativo, se non è nemmeno cavaliere?

Mario aprì la bocca a mezzo sbadiglio, tanto per nascondere il balenìo d’un risolino impertinente, che gli era spuntato, senza avvedersene, a fior di labbra; quindi riprese:

- Ditemi un’altra cosa: e Federigo conserva sempre le stesse abitudini?

- Quali abitudini?

- Voglio dire - continuò l’altro scherzando - porta sempre il solito cappello alla calabrese, la solita camicia quasi sempre sbottonata da collo, la solita cravatta di seta in colori?...

- Dico la verità - rispose Clarenza, indispettita e mortificata - sono tutte cose alle quali non ho fatto mai attenzione. Del resto - continuò con voce ironica e alzandosi in piedi - non tutti gli uomini hanno avuto dalla natura il dono di esser belli ed eleganti, come il signor conte Mario!...

- Domando scusa: non ho inteso punto di offendere, né di far confronti!...

- E allora, perché vi occupate tanto della toilette di mio marito?..

- Perché?.. Ah!... mi domandate perché?.. Perché, Clarenza mia, più ci guardo e più mi persuado che avreste dovuto nascere ai fortunati tempi ai Luigi XIV! La vostra mano era degna dei cavalieri più brillanti della corte del gran monarca.

- Badate, Mario! se cominciate a canzonarmi, vi lascio qui su due piedi e me ne vado - disse Clarenza, rimettendosi a sedere.

- Un’altra curiosità. E vostra sorella? non mi avete ancora detto nulla di quel caro diavoletto della Norina.

- Sta in casa con noi.

- Si è rimaritata?

- No.

- Pare impossibile: Così giovine e così graziosa!

- Vi dirò: mia sorella è la più buona figliuola di questo mondo: ma sta male un poco qui.

La Clarenza, profferendo quest’avverbio di luogo, si toccò coll’indice della mano in mezzo alla fronte. Poi continuò:

- Se il giudizio facesse da fedi di nascita, la Norina avrebbe appena dieci anni. Figuratevi, per dirvene una, che in questi giorni ha mandato indietro un magnifico partito. Conoscete, per caso, il signor Valerio?

- Se lo conosco! Siamo vecchi amici. Un bravissimo giovine e che sa fare molto bene i propri affari.

- Valerio è appunto la persona, alla quale Federigo ha ceduto tutto il suo traffico commerciale.

- E la Norina lo ha rifiutato?

- Rifiutato veramente, no; ma già è lo stesso: lo ha disgustato... stancato.

- E il perché si sa?

- Io lo so pur troppo. È un perché da ragazzi. A voi, antico amico di casa, posso anche farvene la confidenza.

Nel dir quest’ultime parole, Clarenza si alzò: e con passo leggerissimo andò a metter l’occhio allo spiraglio di una porta semichiusa, che rimaneva dalla parete opposta, in faccia al caminetto.

- Scusate la mia curiosità - disse il conte, che non capiva nulla in questo brano di pantomima - e tutta questa circospezione, perché?.. Ma sarebbe per caso un segreto di Stato?…

- Ho le mie buone ragioni - rispose Clarenza, tornando verso il caminetto; - bisogna sapere che la Norina spesso e volentieri si diverte a stare a sentire dietro agli usci.

- Nossignora, nossignora! - gridò una voce limpida e squillante come un campanello - la Norina non si è divertita mai a stare a sentire dietro agli usci. Ecco qui perché, mi è accaduto una volta... una sola volta... la mia signora sorella non l’ha fatta più finita!

La Norina, che era già entrata in sala improvvisamente, guardò la sorella in un certo modo tragico-comico, quasi volesse dire: carina! ci rivedremmo a quattr’occhi.

Quindi, cambiata fisonomia e fattasi tutta sorridente, si volse al conte e stendendogli la mano:

- Buon giorno - gli disse - signor Mario. Buon giorno e bene arrivato!

- Si parlava appunto di voi.

- Me l’ero figurato.

- Raccontavo, giusto, a Mario, lo sproposito che hai fatto - soggiunse Clarenza.

- Sproposito?.. quale sproposito?

- Quello di esserti disgustato il signor Valerio.

- Per carità… - fece la Norina, con l’accento piagnucoloso della persona annoiata - per carità…: non parliamo più di lui. Oramai è un motivo vecchio. Mi è venuto a noia come la pira del Trovatore.

- Hai torto!

- Pazienza! tanto peggio per me: se non foss’altro il nome di Valerio! Mi è parso sempre un nome da commedia.

- Mettiamo da parte le giuccherie: Valerio è un negoziante intelligente, che fra qualche anno sarà un bel signore...

- Ma sempre uggioso, sempre antipatico, sempre molesto. Insomma, io sento benissimo, che se lo sposassi, farei due disgraziati!... - disse la Norina, facendo colla bocca una smorfia curiosa, come se avesse parlato d’olio di fegato di merluzzo non depurato.

Clarenza guardò in viso la sua sorella; quindi aggiunse con accento ironico e stentato:

- Sì!... Sposerai quell’altro!...

- Ah! dunque c’è un altro? - domandò il conte, ficcandosi tutte e due le mani nelle tasche della sottoveste e mettendosi fra mezzo alle due giovani donne.

- Io non so nulla! - replicò Clarenza.

- Eccovi la spiegazione della favola - soggiunse francamente la Norina. - Bisogna sapere che la signora Clarenza si è messa in capo che io abbia ancora qualche speranza sul marchesino di Santa Teodora.

- Questa è la favola: io racconterò la morale - replicò Clarenza. - Bisogna sapere che il marchesino di Santa Teodora, dopo esser venuto per qualche tempo in casa nostra con molta frequenza, cominciò un bel giorno a diradare le sue visite... e finì poi come doveva finire.. cioè, col non venirci più!

- A buon conto, se n’è andato senza dire addio: dunque potrebbe ritornare.

- Sì, aspettalo.

- Non lo conosco punto questo Santa Teodora: è un bel giovine? - domandò il conte.

- È marchese! ecco tutta la sua bellezza!... - disse Clarenza: e avvicinatasi a Mario, gli sussurrò sottovoce:

- Per la smania di un titolo, la Norina sarebbe capace di commettere qualunque sciocchezza.

- Volete conoscerlo, Mario? - disse la Norina, tirando fuori da un piccolo portafoglio un ritratto in fotografia.

- Vediamolo - rispose il conte: e prese in mano il ritratto, per osservarlo. In quel mentre, la Norina gli bisbigliò velocemente negli orecchi:

- Vedete! Se domani, per disgrazia, diventassi marchesa, la Clarenza sarebbe capace di cavarmi gli occhi. Come son curiose certe debolezze! perché è toccato a lei un pellicciaio, così pretenderebbe che tutte le donne dovessero sposare dei negozianti di pelli!...

- Dunque, Mario?.. - interruppe Clarenza, che aveva indovinato l’argomento di quel cicaleccio, mormorato a fior di labbra.

- Avete ragione - disse il conte, andando a prendere il suo cappello, che aveva posato sopra una sedia. - Poiché volete così, vado subito a prendere la mia valigia.

- A proposito, Norina; ho da darti una notizia gradita: questo signore - (e Clarenza accennò Mario) diventa per qualche giorno ospite in casa nostra.

- Lo so! - rispose la Norina sbadatamente.

- Chi te l’ha detto? - domandò Clarenza vivacemente.

- È stato un caso - replicò la Norina, mendicando una scusa. - Traversava appunto il salotto verde, quand’ho sentito che tu dicevi...

- Capisco, capisco: il solito caso!... Del resto, il povero Mario è malatissimo di nervi... ed ha bisogno di svagarsi. Tocca dunque a noi a cercar tutti i mezzi per non dargli tempo di ricordarsi del suo malumore. La sera faremo un po’ di musica: qualche volta un po’ di ballo: e appena il tempo si rimetterà, anderemo a passare una bella giornata alla nostra villa di Belmonte...

- Cara Norina! - disse Mario dandosi alla sfuggita un’occhiata di compiacenza nello specchio - mi è cascata addosso una di quelle disgrazie!...

- Pur troppo!... - soggiunse sbadatamente la Norina.

- E come l’avete saputa?

- Sarà stata la solita combinazione, il solito caso!... - interruppe Clarenza, ridendo e guardando la sorella.

- Le forze mi hanno talmente abbandonato! - seguitò il conte, alzandosi con fatica dalla poltrona dov’era più sdraiato che seduto, - le forze mi hanno talmente abbandonato, che io sento benissimo che vado incontro a una gran malattia.

- Ubbie! esagerazioni! - disse la Norina. - Se tutti i dispiaceri coniugali portassero necessariamente seco una malattia, a quest’ora tutto il mondo sarebbe uno spedale...

- Che disinganno atroce! un amico, capite?.. un amico, che tradisce...

- Andate, Mario, andate a prendere la vostra roba.

- Avete ragione, Clarenza!... Compatitemi se mi ripeto troppo spesso... e rammentatevi che è un’opera di misericordia quella di sopportare le persone moleste! A fra poco.

E il conte se ne andò.

- Povero diavolo! eppure mi fa male! - disse Clarenza con accento di vera compassione.

- Io dico, invece, che gli sta bene!... Quando un uomo ha per moglie una donna giovane e graziosa, come è l’Emilia, prima di mettersi in casa un amico pericoloso, dovrebbe pensarci venti volte, eppoi non farne nulla.

- Bada veh! In questo caso, secondo me, la più colpevole è l’Emilia. Toccava a lei a protestare.

- Povera figliola! Chi lo sa! forse non prevedeva nulla di male... forse si credeva sicura di qualunque pericolo...

- Eh! cara mia - replicò Clarenza scrollando leggermente il capo - tutte ci crediamo sicure!... E il mondo? non lo conti per nulla? il mondo che è così chiacchierino, così pettegolo, così mettibocca?..

La Norina guardò in viso la sorella: e dette improvvisamente in una grandissima risata, mostrando trentadue denti di sfavillante bianchezza...

- E ora, di che ridi? - domandò Clarenza impermalita.

- Rido di te!

- Imbeci...!

Clarenza si riprese a tempo, e non finì la scortese parola.

- Tu che critichi tanto il poco giudizio dell’Emilia - continuò la Norina - mi sapresti dire, allora, perché hai ceduto a Mario il quartierino di nostro fratello?

- Che discorso è codesto?.. vorresti forse paragonare me coll’Emilia? L’Emilia sarà una buona donna... e una bravissima donna... ma in fondo in fondo, è una donna come ce ne sono tante. Quanto poi a me! (e qui alzò la voce) - posso dirle, cara la mia signora, che io mi sento sicura e sicura davvero...

- Tutte ci sentiamo sicure!... - soggiunse l’altra, con finissima canzonatura! ma poi, non c’è forse il mondo? quel mondaccio che è così lesto di lingua?…

- Il mondo sa con chi deve pigliarsela, e chi deve rispettare; il mondo sa che vi sono delle mogli che non ammettono nemmeno il sospetto. Per tua regola io sono come la moglie di Cesare.

- Di che Cesare?..

- Di Cesare, romano.

- Huh!... - fece la Norina, che era debolissima nella storia romana! forse l’avrò conosciuto questo Cesare, ma ora non ne lo ricordo!...

In questo mentre entrò nella sala il marito di Clarenza. Federigo era uomo sulla quarantina: non elegante, ma pulito: vegeto, liscio e colorito, come una melarosa: una di quelle fisonomie comunissime che, quando si vedono la prima volta, pare di averle incontrate le molte volte e conosciute sempre.

- Finalmente!... - disse entrando in sala e andandosi a buttare tutto di un pezzo sulla poltrona, che era dinanzi al caminetto.

- Che cos’hai fatto?.. - domandò Clarenza, senz’ombra di curiosità, quasiché conoscesse a memoria la risposta.

- Non ne posso più... sono stanco, sfinito. Da stamani in poi non ho avuto un momento di respiro. Cara mia - continuò, passandosi e ripassandosi il fazzoletto bianco dal principio della fronte fino a quattro dita dietro la nuca, sopra una strisciata di cranio lucido e pulito, quasi fosse d’avorio - cara mia! la popolarità, non lo nego, ha le sue dolcezze e le sue grandi soddisfazioni, ma pur troppo è seminata anche di noie e di dispiaceri. Se io avessi un figliuolo, gli direi contentati della modesta oscurità, e non far come tuo padre! Quando un uomo ha fatto tanto di diventar necessario al suo paese, addio pace, addio tranquillità, addio benessere. Per lui non c’è più bene, né giorno, né notte.

- E ora di dove vieni? - domandò Clarenza.

- Esco in questo momento dal Comitato elettorale. Finalmente, se Dio vuole, abbiamo trovato il nostro candidato.

- E sarebbe?

- Il marchese Sorbelli..

- Credevo qualche cosa di meglio - fece la Norina, torcendo un po’ la bocca - il marchese non è passato mai per un’aquila.

- Non sarà un’aquila - riprese Federigo - ma però è un uomo di carattere: tutto d’un pezzo. Non l’ho mai sentito dir bene di nessun Ministero!

- Parla bene? - chiese Clarenza.

- No - rispose il marito con la serietà dell’uomo che se ne intende - no: parla piuttosto male: ma legge benissimo: e questo è un gran requisito per un oratore. Voglio fargli un partito...

- Saprai che fra qualche giorno avremo qui Sua Eccellenza!... - disse Clarenza, appoggiando la voce con ironia su quest’ultime parole.

- Lo so, lo so! L’ho visto dai giornali.

- M’immagino che verrà qua per le elezioni?

- Si capisce bene. Un po’ per l’elezione e un po’ per albagia. Fa tanto piacere di ritornar ministri, nel paese dove siamo nati, e dove per tanti anni siamo stati uomini, come tutti gli altri.

- A proposito dei ministri - interruppe la moglie, con disinvoltura - sai chi abbiamo per ospite in questo momento?

- Chi?

- Il nipote di Sua Eccellenza.

- Mario?

- Lui in persona.

- Sapevo che Mario era qui - continuò Federigo - ma non sapevo che fosse alloggiato in casa nostra.

- Gli ho ceduto il quartiere di Carlo: ho fatto male?

- Hai fatto benissimo; sono avversario politico del ministro: ma voglio bene a quest’altro. Povero Mario!... in questi giorni ha avuto per casa una bella burrasca.

- Come lo sai?

- Ho ricevuto una lunghissima lettera dalla madre dell’Emilia.

- A quanto pare, è stata una cosa seria - disse Clarenza.

- Seria no!... - rispose Federigo - ma poteva diventar serissima. Risulta dai documenti che per ora si trattava semplicemente d’una chiassata... d’un amor platonico...

- Allora è un’inezia! - soggiunse la Norina, facendo colla bocca un certo garbo, come se volesse dire: «non c’è sugo!».

- Un’inezia? - replicò vivacemente Federigo - adagio un poco con quell’inezia!... Bisogna persuadersi, cara mia, che fra l’amor platonico e l’amare... senza Platone, c’è appena la distanza che divide il sigaro dalla cenere.

- Pare impossibile - osservò Clarenza, tenendo gli occhi incantati e fissi verso terra. - Non l’avrei mai creduto!... E la madre dell’Emilia che cosa scrive?

- Mi scrive un monte di cose... Mi scrive, che questa giuccheria avrebbe potuto benissimo restare abbuiata fra le pareti domestiche... ma quel benedetto figliuolo di Mario, credendo di tutelare il proprio onore, ne volle fare per forza una scena da teatro diurno... Mi scrive che l’Emilia è disperata, che non fa altro che piangere giorno e notte... e finisce in fondo col raccomandarsi a me perché veda di trovare il verso di rimettere d’accordo questi due sciagurati.

- Pensaci bene, prima! - disse Clarenza, appoggiando la voce su quest’avvertimento.

- A che cosa?

- Non ti caricare di legna verde. Se fossi in te me ne laverei le mani.

- No davvero: mi ci voglio provare. Se non riesco, pazienza; mi terranno conto della buona volontà. Si è veduto Valerio?

- Valerio? Che deve venir qui? - domandò Norina

- Così mi ha promesso! Ho da consegnargli queste carte... - e Federigo si levò di tasca un involto di fogli e andò a posarli sulla mensola del caminetto: poi, voltandosi verso la giovine cognata, che lo guardava fisso, seguitò sorridendo:

- Sai, Norina, che or ora, tornando a casa, m’è venuta per il capo una curiosa idea?..

- Un’idea? Sentiamola.

- Se io tentassi...

- Male! male... - interruppe l’altra.

- Lasciami finire, che Iddio ti benedica; se io tentassi - si capisce bene a tutto mio rischio e pericolo - di...riattivare le buone relazioni, come diciamo noi altri uomini politici.

- Tempo perso, Federigo! Te l’ho detto mille volte; e oggi te lo ripeto: non mi voglio rimaritare.

- Ne sei sicura?

- Sicurissima.

- Norina! tu fai uno sproposito.

- Pazienza! Maritandomi, ne farei due: uno per conto mio, e un altro per conto di quell’infelice...

- Ma la ragione di questa tua ostinazione?.. - domandò Federigo, quasi riscaldandosi.

- Te la dirò io - soggiunse Clarenza, collocandosi fra il marito e la sorella.

- Sentiamo un poco la celebre indovinatrice! - gridò con bizzosa ironia la Norina. - Peccato che tu non faccia anche i lunari e che tu non venda i numeri per il lotto!...

Clarenza, ridendo della bizza della sorella, si piegò verso l’orecchio di Federigo, sussurrandogli abbastanza forte, per essere intesa:

- Tutto fiato buttato via: la tua signora cognatina ha sempre qualche speranza!...

- Speranza di che?.. Ah! ora capisco! - disse Federigo, in atto di rammentarsi qualche cosa - ma, se non sbaglio, quella oramai è una speranza fallita.

- Un momento - interruppe la Norina, facendosi seria: - dichiaro che io non ho nessuna speranza: ma casomai l’avessi, non vedo perché si dovrebbe chiamare una speranza fallita.

- Dunque non sai nulla?..

- C’è forse qualche cosa di nuovo?

- Mi dispiace doverti dire che il marchesino di Santa Teodora, fino da ieri, è officialmente fidanzato della figlia del console americano.

- Lo sai di certo?

- Di certissimo. Me l’ha detto un’ora fa, alla Borsa, il segretario stesso del Consolato.

Ci furono due minuti di profondissimo silenzio. Poi la Norina, alzando il capo, domandò:

- È bella la sposa?

- Bella no - replicò Federigo - ma un modello di virtù e di dote. Cinquantamila franchi di rendita.

La Clarenza che, vedendo la sorella mortificata e confusa non poteva dissimulare un risolino di consolazione, diffuso per tutta la faccia, disse interrompendo:

- Io vado a prendere la chiave del quartierino di Carlo. Voglio vedere da me stessa se ogni cosa è all’ordine.

E uscì dalla sala.

Rimasti soli - la Norina e Federigo - quest’ultimo domandò alla sua giovane cognata, che era rimasta quasi interdetta:.

- A che cosa pensi?

- Penso a quella povera disgraziata.

- A chi?

- Alla figlia del console... Secondo me non poteva capitar peggio. Il marchese di Santa Teodora passa per un giovane di spirito, ma in fondo non è altro che un imbecille. Figurati se io lo conosco bene!...

- Sono tutte cose, che io l’ho dette prima di te. Eppure... scommetto che l’avresti preferito a Valerio...

- Domando scusa: fra carattere e carattere non c’è confronto. Valerio è un uomo: e quell’altro è un ragazzo.

- Questo si chiama ragionare! Ah! Norina! Peccato che tu non abbia intenzione di rimaritarti!...

- Chi l’ha detto?

- Io no.

- Nemmen’io.

- Si vede, che non avrò capito bene! - disse Federigo, con accento di falsa mortificazione.

- O forse sono io, che mi sarò spiegata male. Insomma, ho voluto dire che io non intendo di rimaritarmi fino a tanto che non trovo una persona che mi vada a genio.

- Dico la verità: vorrei un po’ sapere perché quel povero Valerio ti è tanto antipatico?

- Ho non ho mai detto che mi sia antipatico... dico soltanto, che non mi piace. È troppo serio, troppo sostenuto...

- Ma un’eccellente persona.

- Non c’è che dire: ma suscettibile, permaloso, delicato peggio d’una donna!...

- Eppure - continuò Federigo, accostandosi e insistendo con un certo interesse - eppure, vedi, quantunque tu l’abbia trattato piuttosto male, sono convintissimo che basterebbe una tua mezza parola, perché... si potessero ripigliare le trattative, come diciamo noi altri uomini politici.

- Con un superbiosaccio di quella fatta?... Mi pare un po’ difficile.

- A buon conto, Valerio è stato innamorato morto di te... e l’amore, quando è stato di quello buono, è come le malattie di petto, ha la convalescenza lunga. Aggiungi poi che Valerio ha per me della gratitudine... della deferenza… Insomma, per farla finita, io scommetto che avrei accomodato ogni cosa.

- Bada, Federigo. Io, invece, ho una gran paura che ti saresti fatto canzonare.

- Sei contenta che mi ci provi?

- Padrone! Provati pure.

- Ma se, per caso, arrivo a convertirlo, spero che non mi farai fare la figura del Pulcinella.

- Diavol mai! Non son mica una bambina!

In questo mentre, Francesco si presentò sulla porta ed annunziò: - Il signor Valerio.

- A tempo! - disse Federigo.

- Io scappo! - soggiunse l’altra, sottovoce.

- Sarà una vittoria, o un fiasco? Che cosa ti dice il cuore?

- Come c’entra il cuore in queste ragazzate?.. - replicò vivacemente la Norina, e sparì.

Valerio entrò in sala. Era un giovine fra i trenta e i trentacinque anni: di statura mezzana: né bello, né brutto. Parlava adagio, rideva poco, camminava sempre dello stesso passo, e vestiva da un anno all’altro di nero. Queste quattro grandi qualità gli avevano procurato la reputazione di negoziante onesto, il posto di consigliere municipale e il grado di capitano nella guardia cittadina.

- Ecco, Valerio, il nostro piccolo contratto bell’e firmato - disse Federigo, porgendogli il quaderno che aveva posato, un quarto d’ora prima, sul caminetto.

- Andava bene? - domandò l’altro.

- Egregiamente.

- Ora, signor Federigo, non mi resta altro che ringraziarvi del vero favore che mi avete fatto.

- Di quale?

- Di avere acconsentito a rimanere per una piccolissima parte interessato nella mia casa commerciale.

- Si capisce bene, che è un segreto fra noi due. Io non voglio comparire in nulla, né impicciarmi di nulla.

- A me, mi basta di sapere che siete mio socio. Ecco la gran parola, la quale, se non foss’altro, mi pare che debba portarmi la buona fortuna.

- Oggi non siamo che soci di commercio! - soggiunse Federigo, pigliando a braccetto l’amico. - E dire che avremmo potuto essere qualche cosa di più!... fors’anche parenti!...

- La colpa non è stata mia.

- Non ci confondiamo. c’è stata un po’ di colpa da tutte e due le parti. Ma nulla di serio: il gran nulla. Tant’è vero che io ho creduto sempre - e lo credo anch’oggi - che con un po’ di buona volontà si potrebbe ristabilire l’entente cordiale, come diciamo noi altri uomini politici.

- Impossibile! Assolutamente impossibile!...

- E perché?

- Facciamoci a parlar chiari, signor Federigo. Io non sono più un ragazzo. Sono un uomo. La mia dignità personale non mi permette di far simili figure. No, no: quando abbiamo presa una risoluzione - bisogna che sia quella. Caso diverso, che cosa dovrebbe dire il mondo di me?

- Benedetto questo mondo! Lasciatelo dire: eppoi finirà col seccarsi la gola.

- Non posso!

- Ma perché?..

- Perché?.. Ci sono certe cose che si sentono, e che non si possono ridire colle parole. Questi pentimenti, questi ritornelli sono perdonabili nelle persone leggere, negli uomini di poca conseguenza. Quanto a me, vi confesso il vero, mi parrebbe di diventar ridicolo; mi parrebbe di far la parte di Don Fulgenzio negl’Innammorati di Goldoni.

- Che ostinato!

- Avete ragione: mille ragioni. Disgraziatamente il mio carattere è di quelli che si spezzano, ma non si piegano. Piuttosto soffro: mi rodo dentro di me; ma una debolezza, una ragazzata, mai!

- Mi dispiace. Proprio mi dispiace!

- Dispiace anche a me: ma, ve lo ripeto, la colpa non è mia: la colpa è tutta della signora Norina...

- E con qual diritto il signor Valerio si permette di giudicare le mie azioni? - domandò la Norina, entrando improvvisamente nella sala.

- Domando scusa: io dicevo... - balbettò Valerio, voltandosi tutto confuso.

- È forse lei il mio fidanzato?

- No davvero.

- Il mio tutore?

- Nemmeno per sogno.

- Il mio direttore spirituale?

- Dio me ne guardi!

- Dunque vorrei un po’ sapere con qual diritto il signor Valerio si occupa tanto di me?

- Ecco... le dirò... Prima di tutto bisogna sapere che il signor Federigo in questo momento, stava insistendo per persuadermi...

- So tutto.

- Tutto - replicò Valerio, maravigliato. - Com’è possibile?.

- Ripeto, che so tutto...

- Ma si tratta di una conversazione confidenzialissima, fatta ora, qui, fra noi due, a quattr’occhi...

- Non importa: per una certa combinazione ho inteso tutto.

- La solita combinazione... di stare a sentire - borbottò fra i denti Federigo, ammiccando comicamente la sua giovane cognata.

- Prima d’ogni altra cosa - seguitò a dire la Norina collo stesso tuono di voce e colla stessa velocità di parola - debbo osservare che Federigo non ha diritto d’impicciarsi degli affari miei; e che ha fatto male, anzi malissimo...

- Mi basta la sinfonia: il resto dell’opera me lo figuro! - interruppe Federigo; e colto il pretesto, se la svignò.

- Non c’è dubbio. Mio cognato ha fatto malissimo a insistere con tanto calore su questa... scioccheria. Dio sa che cosa vi sarete figurato!...

- Io?..

- Che cosa vi sarete messo per la testa! Forse nella vostra infinita vanità, avrete creduto che io mi struggessi proprio dalla passione!...

E la Norina accompagnò queste ultime parole con una risata quasi impertinente.

- Vi pare! - replicò modestamente Valerio.

- Forse vi sarete immaginato che io non potessi vivere senza di voi.

- Prego, signora Norina...

- Che, perduto voi, per me non ci fosse più speranza di trovar marito.

- Tutt’altro, tutt’altro.

- Ebbene, ricredetevi. Vi siete ingannato all’ingrosso. Voi - (e qui la Norina cambiò accento e abbassò leggermente la voce) - voi, ne convengo pienamente, siete una persona rispettabilissima: negoziante onorato...

- Troppo buona.

- Consigliere municipale...

- Grazie.

- Capitano della guardia nazionale. Insomma siete un giovine pregevole per mille titoli: ma credete forse di essere il solo?

- Non l’ho mai pensato.

- Voi valete molto, non c’è dubbio: ma credete forse che non ci sieno molti altri che valgono quanto voi?..

- Chi ne dubita?

- Siamo schietti, una volta! - disse Norina, mettendosi a sedere, e accennando a Valerio di accomodarsi. - Raccontiamo la cosa, come sta; voi siete venuto in casa mia: mi avete fatto un po’ di corte, come fanno tutti: finché un bel giorno, non so il perché, avete finito col chiedere la mia mano.

- Ed ebbi il vostro pieno consenso - soggiunse subito Valerio.

- Non corriamo troppo - replicò la Norina. - In quanto a questo pieno consenso, adagio. Non vi dissi veramente né sì, né no. Se ve lo ricordate bene, pigliammo tempo a riflettere e a studiare reciprocamente i nostri caratteri.

- Non mi pare che andasse precisamente così.

- Vi dico che andò così.

- Sarà come dite - soggiunse Valerio, piegando il capo in atto di sommissione forzata - mi dispiace, che disgraziatamente in certi casi, non si può consultare nemmeno il processo verbale.

- In quel frattempo - continuò la Norina, accavallando una gamba sull’altra, e facendo uscire di fondo al vestito la punta di un elegantissimo stivaletto di marrocchino dorato. - In quel frattempo, venne presentato in casa nostra il marchese di Santa Teodora... un giovine educato... distinto...

- Anzi, distintissimo.

- Era mio dovere mostrarmi gentile con lui, come con tutti gli altri.

- Forse...

- Forse che cosa?

- Forse un po’ troppo gentile!...

- Troppo?.. Non me ne accorsi mai.

- Me ne accorsi io!

- Difatti, ne pigliaste ombra... e cominciaste subito a fare l’adirato... il fiero, il cattivo...

- Cara Norina, era una questione di sentimento.

- Ma che sentimento? era una questione di vanità, tutta di vanità. Vi sono degli uomini che a lasciarli fare, pretenderebbero dalle donne l’adorazione perpetua.

- Io non sono di questi uomini! - disse Valerio con fierezza.

- Né io di quelle donne! - replicò l’altra. - Il fatto sta che il vostro contegno, sostenuto e quasi disprezzante, cominciò a impormi una certa freddezza...

- Norina! chiamiamola freddezza.

- Amico mio, se voi andate in cerca di amori a grande effetto, di passioni teatrali, di sentimentalismi al chiaro di luna, io non sono la donna per voi. Io amo il ritegno e la compostezza, in tutto, anche nell’amore!

- Mi sarò ingannato.

- Il fatto, mi pare, parla chiaro da sé: dopo poche settimane, il marchese di Santa Teodora, forse in grazia della mia troppa cortesia, a suo riguardo! cominciò a diradare le visite e finì coll’allontanarsi del tutto. Oggi poi, come forse sapete, è promesso sposo della figlia del console americano.

- Ma perché, Norina, non vi degnaste allora di togliermi dal mio inganno? di farmi vedere il mio errore? l’insussistenza de’ miei sospetti? la stranezza della mia fissazione?

- Io? Dio me ne guardi. Piuttosto la morte, che scendere all’umiliazione di giustificare la mia condotta. Non ve lo nascondo, Valerio: i vostri dubbi... i vostri sospetti, mi hanno offeso... mi hanno fatto male! molto male. Ma non importa. Non sentirete mai sulle mie labbra un lamento, né una parola di rimprovero. Oggi che fra noi due tutto è finito - tutto! - posso parlare liberamente... e ne ringrazio Iddio. Questo sfogo, vedete, mi toglie dal cuore un’oppressione dolorosa!...

- Norina, e perché avete detto che fra noi tutto è finito?

- Curiosa domanda!

- E non potrei ridomandare il vostro affetto e la vostra mano?

- Valerio! non vi consiglio a farlo. A un uomo, come voi, a un uomo del vostro carattere, certi sentimenti non convengono. Sono cose scusabili appena a diciott’anni.

- Non capisco - insisté Valerio, mortificato. - Non sarò dunque padrone di riconoscere che mi sono ingannato? che ho avuto torto?

- Padronissimo! Ma il mondo!... che cosa dirà il mondo?...

- Il mondo dirà quel che vuole. Alla fin dei conti, io non sono schiavo delle ciarle dei pettegoli e degli oziosi.

- Pensateci bene, Valerio. C’è il caso che i begli spiriti vi paragonino al Don Fulgenzio di Goldoni.

- Mi faranno ridere di compassione.

- Come! voi, così misurato, così pauroso dei cicaleggi e delle cronache dei maldicenti, oggi mi venite fuori a fare l’indipendente?.. l’uomo che se la ride?.. Ditemi Valerio: non volete per caso prendervi giuoco di me?

- Norina! - disse Valerio in atto supplichevole, pigliando la mano della sua graziosa interlocutrice, e stringendola con passione.

- Non vi credo. Lasciatemi.

- Ascoltate!...

- Non voglio sentir nulla.

- Norina! una parola... una sola parola... vi supplico...vi scongiuro... - e nel dir così accadde a Valerio quel che per il solito accade agli innamorati sulla scena: si trovò, senza avvedersene, quasi in ginocchio dinanzi alla sua bella.

In questo punto entrò nella stanza Clarenza. Valerio si rizzò in piedi colla velocità d’una molla d’acciaio.

- Scusate, amico - disse Clarenza, ridendo - mi dispiace di avervi scomodato. Restate pure in ginocchio: non fate complimenti. Buone nuove, a quel che pare?

- Sì - rispose la Norina. - La pace è firmata: ma non gli ho ancora perdonato il grandissimo torto che mi ha fatto...

- Non ne parliamo più - interruppe Valerio. - Sarà mia cura di farmelo perdonare.

- E così?.. - domandò Federigo, soffermandosi sulla porta.

- Vieni avanti. Tutto è accomodato. Bisogna pensare daccapo a questo regalo di nozze - disse Clarenza, mostrandosi molto più allegra della sorella.

- Bravi! così mi piace! - soggiunse Federigo, mettendosi in mezzo ai due fidanzati. - Già io l’avevo detto sempre: fra quei due ragazzi ci dev’essere un equivoco, un malinteso...

- E difatti era un malinteso - disse Valerio. - A proposito - ripigliò il marito di Clarenza - scusa se salto di palo in frasca: ma qui non c’è tempo da perdere. bisogna cominciare a occuparsi di queste elezioni.

- Quanto a me, son pronto. Ma...

- Ma che?

- Debbo dirlo con tutta franchezza? mi pare che il nostro candidato abbia pochissime simpatie, qui in paese.

- Gliele procureremo.

- Il marchese Sorbelli è un galantuomo: ma bisogna convenire che ha addosso una gran tara.

- Quale?

- La moglie. La marchesa è antipatica a tutti.

- Sta un po’ a vedere, da qui in avanti, bisognerà che un candidato abbia anche la moglie simpatica, se vuole essere eletto!...

- Non dico questo.

- La marchesa, ne convengo anch’io, è un po’ superba, un po’ cattedratica, ma del resto è una donna di molto merito... e vale molto più di suo marito. Anzi, fra pochi minuti l’aspetto qui.

- Che cosa vuole da te? - domandò Clarenza.

- Vuol farmi sentire il manifesto elettorale di suo marito... vuol sapere se ci trovo nulla da ridire. Una bella garbatezza, non è vero? Lo spettacolo di questa aristocrazia, che viene a bussare alle porte della borghesia, in cerca di consigli, mi fa sperare bene dell’avvenire del paese.

- Sento dire che il deputato governativo ha fatto molti proseliti. Fra qualche giorno avrà anche il rinforzo del ministro in persona - disse Clarenza.

- Che venga questo signor ministro - replicò Federigo - io lo attendo a piè fermo. Non vedo l’ora di misurarmi con lui.

- Davvero - soggiunse Clarenza, - che quei signori del Ministero non hanno diritto di averti per amico! Ti hanno trattato, come il bidello del municipio.

- Come c’entra l’avermi trattato in un modo piuttosto che in un altro? Qui non è questione di persona; è questione di principii, cara mia: i principii passano, e le persone...

- Ovvero - soggiunse Clarenza - i principii restano, e le persone...

- Domando scusa! - gridò Federigo. - Sono le persone che restano...

- Non voglio contraddirti - osservò modestamente la moglie - ma ho sentito dir sempre: le persone passano, e i principii restano.

- Hai sentito dir male; moltissimo male perché io, invece, ho veduto sempre che i principii passano e le persone restano. In ogni modo, che venga il signor ministro e ci riparleremo.

- Il signor Mario - disse Bettina, affacciandosi sulla porta di mezzo.

- Caro Federigo; io sono tuo ospite - disse Mario, stendendogli la mano.

- È un regalo che Clarenza mi ha improvvisato - replicò l’altro, abbracciandolo e baciandolo.

Mario, avendo veduto Valerio e la Norina che parlavano fra loro, in strettissimo colloquio, si voltò sorridendo a Clarenza, domandandole sottovoce:

- Sbaglio, o mi era stato detto che fra quei due signori?...

- Verissimo - rispose Clarenza - ma oggi è cambiato improvvisamente il vento...

- Compatisco la Norina! - aggiunse Mario; - è una donna, e la donna è sinonimo di debolezza; ma mi fa meraviglia di lui! - (e accennò Valerio).

- Caro mio - replicò la moglie di Federigo - se sapeste alle volte come sono buffi gli uomini seri!

- Ho avuto in questo momento una lettera dalla tua suocera - sussurrò Federigo, avvicinandosi piano piano all’orecchio del conte.

- M’immagino che cosa ti avrà scritto! Che ne dici eh? Una donna che adoravo e per la quale avrei messo tutte e due le mani nel fuoco.

- Cose di questo mondo, amico mio! Il proverbio lo dice: chi non vuole infarinarsi, non vada al mulino.

- E quello scellerato?..

- Tieni a mente, Mario! sono appunto gli amici, dai quali bisogna guardarsi... Ma siamo giusti: come mai un uomo di spirito, che ha per moglie una graziosa donnina, può pensare a mettersi per casa?..

- Lo so! Lo so!

- Mario, è stata grossa. A me, dico la verità, non mi sarebbe accaduto dicerto. Ci vuole occhio, capisci, occhio! Debbo per altro dirti che mi son preso l’incarico di aggiustare ogni cosa e di riconciliarvi.

- Per carità, non parliamo di riconciliazione. Sento il sangue che mi va alla testa.

- Basta così, ne discorreremo a tempo opportuno.

- Voltati in qua - disse a un tratto Clarenza, pigliando suo marito per un braccio, e dandogli un’occhiata da capo ai piedi.

- Che cosa c’è di nuovo? - domandò Federigo.

- Nulla di nuovo - rispose l’altra. - Anzi, le solite cose: la solita camicia sbottonata, la solita cravatta, messa senza garbo né grazia!... Pare impossibile che tu non abbia da avere un po’ di amor proprio... Dice bene una certa persona, - (e Clarenza guardò alla sfuggita Mario) -a non sapere chi sei, ci sarebbe da scambiarti per un fattor di campagna, o per un negoziante d’olio.

- Guarda quanti casi, stamani! Eppure sono stato sempre così.

- Hai fatto sempre male!

- Bisognava dirmelo prima.

- Te lo dico oggi e basta. Se non vuoi avere nessun riguardo per te, potresti averne almeno un poco per tua moglie... mi pare!...

- Io non ci capisco più nulla - disse Federigo sottovoce al conte. - È la prima volta che Clarenza fa una scenata simile.

- Donne, caro mio, donne: vale a dire sciarade ritte sopra due graziosi piedini (quando son graziosi): rebus difficili a spiegarsi, e che una volta spiegati, si vede bene che non son altro che una formula di vanità, o un’operazione di calcolo infinitesimale!

- Clarenza - soggiunse Federigo - è un’ottima donna: ma, pur troppo, la vanità è stata sempre il suo lato debole. Ella avrebbe avuto bisogno di nascere regina e di avere sposato il re dell’universo. All’opposto di me. Io, invece, posso avere tutti i difetti del mondo; ma la vanità non l’ho mai conosciuta.

- Davvero?..

- Mai! e te lo provo col fatto. Vorrei vedere un altro che fosse stato trattato come sono stato trattato io! Tu sai quel che mi costa l’Italia; ebbene, credi tu che lassù al Ministero abbiano dato segno di accorgersi che io sono nel mondo dei vivi?..

- Lo so, è un’ingiustizia; e voglio che ci sia rimediato. Ho scritto apposta al mio zio... riserbandomi poi a parlargliene a voce, quando sarà qui.

- Intendiamoci bene - disse Federigo, cambiando tuono di voce - se ti ho fatto questa confidenza inconcludente, non vorrei che tu potessi credere...

- Ti pare.

- Non ho chiesto mai nulla! e non voglio nulla! Lo sai di che panni ho vestito sempre: non ho dato mai nessun peso e nessuna importanza ai ciondoli. Mi son parsi sempre balocchi per i ragazzi...

- Eppure, se te ne mandassero uno... - disse Mario, sorridendo.

- Lo rimanderei. Oh! lo rimanderei, senza dubbio: è una questione di principio.

- Quand’è così, è inutile affatto che io spedisca la lettera..

- L’avevi di già scritta?

- Eccola qui: leggila e strappala.

- To’! mi meraviglio. Non ho mai strappato le lettere degli altri. Ecco una lettera, che entrerà probabilmente nel limbo delle lettere destinate a non aver mai nessuna risposta.

- Pazienza. E ora dimmi una cosa. A che ora passa di qui il treno postale?

- Alle tre precise.

- Sono le due e mezzo - disse Mario, guardando l’orologio. - Per oggi, non c’è più il tempo d’impostarla. La imposterò domani.

- Sì, sì, - replicò Federigo - puoi impostarla domani, doman l’altro, quell’altro, fra una settimana, fra un mese... Tanto è una lettera di nessuna urgenza.

- Di nessunissima.

- Per altro... ti faccio osservare che se la lettera premesse davvero...

- Ma se ti dico che non preme!

- Voglio dire, che se la lettera premesse davvero, si sarebbe in tempo a impostarla anche oggi.

- Come?

- Basterebbe mandarla alla stazione. Vuoi che la mandiamo?..

- Non mette conto.

- Perché vuoi fare dei complimenti con me?

- Non faccio complimenti. È una lettera di quelle che non aspettano risposta. La posso impostare domani, o quando me ne ricorderò - disse Mario, facendo lo svogliato.

- Dammi qua la lettera - insisté Federigo. - Così non foss’altro, ti levo un pensiero.

- Lascia correre: non c’è premura.

- Dammi qua la lettera. Ehi! Francesco! - E il servitore comparve sulla porta.

- Porta subito quella lettera all’ufficio postale della stazione.

- E il francobollo? - disse Francesco.

- Non vedi che è indirizzata al ministro? Prendi una vettura e spicciati.

- E se non facessi in tempo?

- Dammi qua, imbecille - disse Federigo, strappandogli la lettera di mano - a lasciarti fare, saresti capace anche di perderla.

E il marito di Clarenza prese in fretta e furia il suo cappello e il suo paletot.

- Dove vai? - domandò Mario.

- Lascia fare a me. A quest’ora, ero bell’e tornato. Se per caso arrivasse in questo frattempo la marchesa Sorbelli, che mi aspetti, fra due minuti son qui.

- Dov’è andato Federigo? - chiese Clarenza a Mario.

- Alla stazione. Ha voluto portar da sé la mia lettera per il ministro.

- Vi ringrazio Mario delle vostre premure... non tanto per me... quanto per mio marito. Quell’uomo oramai se n’è fatta una fissazione.

- Buon uomo, quel Federigo - disse Mario, incominciando un colloquio confidenziale e a mezza voce con Clarenza, mentre la Norina e Valerio ragionavano fra loro nell’angolo opposto della stanza - gran buon uomo quel Federigo!

- Una perla d’uomo! Per la nostra famiglia è stato qualche cosa di più d’un padre. Insomma, è lui che pensa a tutto, è lui che ha fatto una dote alla Norina, è lui che mantiene Carlo agli studi.

- Eccellente cuore!... Peccato che abbia la figura un po’ volgare... un po’ ordinarietta... Quanto stacco, Clarenza mia, fra voi e lui. Voi la foglia fine e delicata della camelia, lui, il gambo inelegante di qualche pianta grassa.

- Oramai è così - disse Clarenza, sospirando.

- Pare impossibile - continuò il conte - che una mano delicata ed aristocratica, come la vostra, abbia voluto fare una scelta così... curiosa.

- Vi avverto, Mario, che non ho nulla da pentirmi! - replicò l’altra, assumendo una certa aria di dignità.

- Ecco una nobile protesta! una protesta, che fa moltissimo onore al vostro carattere e al vostro bel cuore. Ma ditemi un po’, Clarenza, parliamoci qua a quattr’occhi e in tutta confidenza: se certe cose si potessero rifare due volte?..

- Se... se... se... Dando retta ai se, ci sarebbe da perdere la bussola e da dire un sacco di scioccherie.

- Creatura divina! E pensare che la Provvidenza mi aveva messo dinanzi agli occhi l’unica fanciulla, che avrebbe potuto essere l’amore e la felicità di tutta la mia vita... e io, imbecille!... sono passati due anni, e ancora non so darmene pace. Vi rammentate Clarenza, di quei tempi famosi?...

- Me ne rammento pur troppo.

- E di quella famosa festa da ballo?..

- Anche di quella.

- Cattiva! eppoi avete il cuore di venirmi a dire che «acqua passata non macina più».

- Non son io che lo dico, è il proverbio.

- Quante volte ho pensato a voi!... quante volte vi ho veduta ne’ miei sogni!...

- E l’Emilia? - domandò Clarenza, per dare un altro giro alla conversazione.

- Per carità, non me ne parlate - disse Mario.

- Sento dire che si sta già trattando per una riconciliazione.

- Mai, e poi mai! Fra me e quella donna c’è una barriera insormontabile.

- Lo credete davvero?

- Ne sono sicuro.

- Povera donna! Più imprudente, che colpevole. Credetelo, Mario, se fossi stata io nei piedi dell’Emilia, il vostro signor Giorgio non avrebbe dicerto trovato un quartiere disponibile in casa mia. Con me, no, mille volte no! A proposito di quartiere - continuò Clarenza, alzandosi in piedi - che cosa vi pare del quartierino che vi ho destinato?

- Un’oasi, un nido incantato.

- La vostra finestra, sul giardino, è appena due finestre distante dalla mia; tantoché alzandomi, la mattina, potrò darvi il buongiorno.

- Così potessi io sperare, la sera... mentre tutti dormono tranquillamente, augurarvi la buona notte - disse Mario, abbassando la voce, e stringendo la mano di Clarenza, con intenzione, come dicono i comici nel loro dialetto di palcoscenico.

- Ecco fatto, - disse Federigo, rientrando nella sala, tutto scalmanato - due minuti di più, e la lettera ci restava in tasca.

- Poco male - soggiunse Mario, continuando a fare l’indifferente.

- Pochissimo! - replicò il marito di Clarenza. - E la marchesa si è veduta?

- Ancora no.

- Sarebbe bella che mi mancasse. Dico la verità, questa poi me la legherei a dito.

- La signora marchesa Ortensia, - disse la Bettina, affacciandosi sulla porta.

- Ah! giusto, volevo dire - replicò Federigo, soddisfatto. - E dove l’hai fatta passare?

- Nel salotto verde.

- È sola?

- No, è col signor Leonetto.

- Mi pareva impossibile - osservò maliziosamente la Norina. - Vi pare che la marchesa possa uscir di casa una sola volta senza portarsi dietro il paggio?

- Con permesso - disse Federigo, aggiustandosi i capelli e il vestito, e uscendo fuori dalla sala.

- Bell’originale quel Leonetto - soggiunse il conte - sempre il medesimo sfatato.

- Dove l’avete veduto? - domandò Clarenza.

- L’ho incontrato ieri sera al Club.

- Sapete che è diventato direttore della «Gazzetta della Provincia»?

- Me l’ha detto lui. Leonetto non è un’arca di scienza: ma mantiene sempre giovane lo spirito.

- A me, mi è parso sempre una bella caricatura - soggiunse Valerio, - ha la smania di fare il cattivo, lo spirito forte, il nemico giurato del matrimonio.

- Nemico del matrimonio - domandò la Norina, ridendo, - io, invece, credo che se Iddio non gli tiene le sue sante mani in capo, corre in questo momento un gran pericolo di diventar marito.

- Davvero? - esclamarono tutti a una voce.

- Ci sono dei sintomi seri, molto seri! - continuò a dire la sorella di Clarenza. - Io so per esempio, che tutte le ore che gli restano libere, le passa in casa di quelle due signore (per un momento, le chiamerò così) che sono venute a stabilirsi qui da un mese, circa, e che furono raccomandate a lui.

- Non le conosco punto - disse Clarenza. - Sono belle?

- La figlia non c’è male: di sera, specialmente, non fa cattiva figura. Bionda, occhi celesti, un bel carnato: una ragazza, insomma, che può piacere. Se Leonetto capita un momento di qua, vi prometto di farlo cantare.

- È permesso! - disse Leonetto, con giuoco comico e confidenziale, entrando in sala.

- Venite avanti, scapato - rispose la Norina - ne abbiamo sapute delle belle sul conto vostro. Come vanno gli amori?

- Quali amori?

- Animo, non fate il forestiero, non mi venite a fare il turco in Italia...

- In verità, non capisco...

- Come vanno gli amori con quella biondissima persona?...

- Gli amori? Ah! capisco bene, signora Norina, che voi mi calunniate.

- Tutt’altro.

- E potreste supporre che un uomo, come me, possa pigliare una passione per quella povera figliuola?..

- Io la conosco soltanto di vista, ma mi pare una bella ragazza.

- Un occhio di sole - replicò scherzando Leonetto.

- Figuratevi che fra le tante bellezze, ha anche quella di scambiare un occhio.

- Non è vero! Gli occhi mi son parsi bellissimi.

- Mi spiego! l’occhio sinistro della signora Armanda...

- Ah! si chiama Armanda?..

- Provvisoriamente!...

- Che lingua d’inferno!...

- Dicevo dunque che l’occhio della signora Armanda è intermittente: scambia soltanto quando il tempo sta per mutarsi.

- Proprio? - chiesero tutti dando in una gran risata.

- Figuratevi che io senza guardare il termometro, conosco subito da quell’occhio, se il giorno dopo, uscendo di casa, avrò bisogno di prendere l’ombrello.

Un’altra risata generale.

- Tant’è vero, che io la chiamo l’occhio-Réaumur!

Terza risata prolungatissima.

- Siete un gran canzonatore - disse la Norina. - Ma badate, amico, che ne ho veduti cascare de’ più forti di voi.

- Può darsi benissimo - replicò il giornalista, dondolandosi sulla persona - ma in quanto a me credetelo pure che non ci sono pericoli: il diavolo tentatore con me perde il ranno e il sapone. Vi dirò poi un’altra cosa: la signora Armanda, fisicamente parlando, non risponde punto al mio sogno, al mio tipo della donna ideale. Io amo la donna svelta come il palmizio: l’occhio nero; la fisonomia pallida e sofferente, i capelli neri; e soprattutto, moltissimi capelli.

- Non ha molti capelli, la signora Armanda?

- Povera figliuola! Ne ha trentatré e mezzo: a quaranta non ci arriva!

Altra risata, in coro.

- Peraltro - soggiunse la Norina - bisogna convenire che ha un bel carnato.

- Questo è vero! Si dipinge con gusto.

- Lo sapete di certo che si dipinge?

- Mi par di sì.

- Eppure - insisté la graziosa vedovella - duro fatica a crederlo. In ogni modo, bisogna convenire che è dipinta molto bene.

- Come un quadro del Tiziano - replicò Leonetto, con comica serietà. - Del rimanente poi, è una bravissima e buonissima fgliuola.

- Bravissimo. Ora che l’avete demolita pezzo per pezzo, cominciate a dirne bene.

- La verità, sempre la verità!

- Mi fate una rabbia!...

- Ma il panegirico non è ancora finito. Armanda è istruita, di belle maniere, di un’educazione connpitissima. Parla l’inglese e il francese perfettamente. Quando sta al pianoforte, ha la grazia di Chopin, la mano di Fumagalli, il sentimento di Dohler. Canta le cose di Schubert e di Gordigiani con un garbo inarrivabile. Sa tutto Byron a memoria. Disegna, ricama, monta a cavallo... insomma vi dico che nel complesso è una di quelle care donnine che io darei volentieri per moglie a mio fratello minore - se avessi un fratello.

- E la vedete spesso?

- Quasi tutti i giorni. La sua casa è per me un piede-a-terra, un simpatico rifugio dalle noie della politica...

- E dalla seccatura della marchesa Sorbelli.

- Per carità, dite piano, che non vi senta. Ha l’orecchio disgraziatamente così squisito!

- Avete paura, eh? - disse la Norina, ridendo. - Per altro, vi compatisco: la marchesa non è una donna... è un uomo!

- Non è nemmeno un uomo... - replicò Leonetto sottovoce - è un dragone. Quando la natura le dette i baffi, sapeva quello che faceva.

- Se vi sentisse, sarebbe capace di mangiarvi!...

- Povero amico - interruppe Mario in tuono scherzoso - non ci mancherebb’altro che tu ti dovessi trovare nel brutto caso d’essere inghiottito vivo!

- Non ti nascondo - rispose l’altro - che mi dispiacerebbe moltissimo a far da Giona in corpo a quella balena.

- A proposito - disse Clarenza - prima che mi passi di mente vi avverto, signor Leonetto, che oggi siete a pranzo da noi. Accettate?

- Con tutto il piacere.

- È un regalo che faccio al signor conte Mario.

- Sempre il tipo della cortesia, quella amabilissima Clarenza - replicò il conte, inchinandosi con galanteria.

- Domani sera, poi, faremo un po’ di musica. Badate, Leonetto, di non mancare, sapete bene che siete necessario, indispensabile. Vi presento il primo tenore assoluto della nostra piccola Filarmonica di famiglia - disse la moglie di Federigo, volgendosi a Mario, e indicando il giornalista.

In questo punto, si udì la voce grave e sonora.

- Eccola - disse Leonetto, ricomponendosi, come fa l’alunno quando sente l’avvicinarsi del pedagogo. - Mi raccomando! fatemi il piacere di non scherzare...

- Vi pare. State tranquillo.

- La signora marchesa Ortensia - disse Federigo, presentando in sala una matrona sui quarant’anni, vegeta, forte, colorita, come un ufficiale di cavalleria di ritorno da una manovra a cavallo in piazza d’arme.

- Accomodatevi, marchesa - disse Clarenza, accennandole una poltrona in vicinanza del caminetto.

- Mi dispiace, ma non posso trattenermi - rispose la Sorbelli. - Vi saluto e scappo subito. Ho da fare mille bricciche: e prima di tornare a casa, voglio anche passare dalla mia amica la marchesa di Santa Teodora. Mi struggo di sapere con precisione le vere cause di questo piccolo scandalo.

- Di quale scandalo? - domandò la Norina.

- Come! non sapete nulla?

- Nulla.

- Allora, ve lo dirò io. È andato all’aria il matrimonio, già combinato, fra Rodolfo e la figlia del console americano.

- Proprio? - chiese la Norina, con interesse sempre crescente.

- Ve la do per sicura.

- E la ragione?..

- Non la conosco bene, ma suppergiù, me la figuro. Quel ragazzo di Rodolfo deve avere qualche amoretto clandestino... qualche’impegno... qualche passioncella misteriosa...

- Dico la verità, me l’aspettavo..

- Che cosa?

- Che questo matrimonio non dovesse andare a finir bene. Abbiamo alle volte certi presentimenti curiosi!... - osservò la Norina, dissimulando a stento una vivissima compiacenza.

- Del resto marchesa - disse Federigo, facendosi in mezzo - in compenso di un matrimonio andato a monte, sono lieto di notificarvene uno, combinato appena un’ora fa! - e il marito di Clarenza accennò la Norina e Valerio.

- Scusa, veh, Federigo - soggiunse subito la giovane cognata, quasi fosse rimasta offesa - mi pare che tu abbia corso un po’ troppo. Vorrei sapere come si fa a chiamarlo un matrimonio di già combinato?

- E non lo è forse? - chiese Valerio, a cui tremava quasi la voce.

- Domando scusa - replicò Norina tranquillamente: - è un matrimonio, che probabilmente si combinerà, ma che per ora non è combinato. Vi prego, marchesa, a notare questa piccola differenza. Ne convenite, Valerio?

- Convengo di tutto! - rispose l’altro; poi borbottò fra i denti: - Convengo anche che sono il primo imbecille dell’universo.

- E voi, signor Leonetto? - domandò Clarenza, tanto per divagare la conversazione. - Quando ci farete mangiare i confetti di nozze?

- Io marito? - replicò il giornalista, arricciandosi i baffi e dando in una gran risata. - Io marito? Credo che la cosa sarà un po’ difficile. Per vostra regola, in questo mondo vi sono due istituzioni, che mi hanno fatto sempre paura: il matrimonio e il sistema cellulare! Tutte le volte che io penso ai poveri mariti mi vien fatto naturalmente di spargere una furtiva lacrima sulla loro sorte infelicissima. E dire che in America si è fatta una guerra ciclopica per l’abolizione della schiavitù dei neri, condannati alla coltivazione delle canne da zucchero e del cotone, mentre poi sul vecchio continente abbiamo anche oggi tanti milioni di schiavi bianchi, destinati a coltivare la moglie, una coltivazione, credetelo a me, non meno faticosa di quella delle canne da zucchero e del cotone.

Tutti risero per complimento.

- Le vostre solite esagerazioni - disse la Norina.

- Non sono esagerazioni; è una professione di fede schietta e leale. Io ho amato sempre la mia libertà, la mia indipendenza completa.

- Questo è verissimo - affermò la marchesa Ortensia.

- È una gran bella cosa - continuò Leonetto, infiammandosi sempre più - quella di sentirsi liberi, come la rondine nell’aria: padroni di sé, della propria volontà, senza dipendere da nessuno, senza nessuno che ci possa comandare!...

- Dunque, Leonetto, venite o restate? - domandò la marchesa, interrompendolo. - Io me ne vado.

- Se non avete bisogno di me, mi tratterrei per un cert’affare!... - rispose il giornalista con un po’ d’esitazione.

- Fate pure! - replicò la Sorbelli, alzandosi e dandogli un’occhiataccia...

Leonetto, che capì l’antifona soggiunse subito:

- Cioè, marchesa, se mi permettete, vi accompagnerò fino dalla vostra cugina.

- Per me, ve lo ripeto, fate pure il vostro comodo - replicò l’altra con un tuono di voce ugualissimo e tranquillo. - Io sono affatto indifferente.

- Allora, Leonetto - disse Clarenza, - rammentatevi che alle cinque precise andiamo a tavola.

- Sarò puntuale, come il fato.

- Siete a pranzo qui, Leonetto? - domandò la marchesa, con flemma studiata, e guardando negli occhi il giornalista.

- Ho avuto il gentile invito pochi momenti fa... - rispose l’altro, dandosi l’aria della persona franca e disinvolta.

- Ma oggi non potete! - insisté la Sorbelli colla stessa flemma e col solito tuono di voce.

- Non posso?.. - e Leonetto, imbarazzato, soffiava sulla felpa del cappello, per dissimulare la propria confusione.

- Di certo, che non potete!... seppure non siete disposto a pranzare in due case, nello stesso giorno. Pensateci un po’ meglio e forse vi ricorderete che mio marito, fino da due giorni fa, vi ha invitato per oggi a casa sua...

Leonetto stava per rispondere che non ne sapeva nulla: ma un’occhiata della marchesa bastò per richiamarlo al proprio dovere. Difatti balbettò, imbrogliandosi...

- Sì, è vero!... cioè, sarà benissimo: ma si vede che me l’ero dimenticato... Che volete che ci faccia? Sono così astratto, che i pranzi mi passano dalla mente, da un momento all’altro.

- Pazienza! - soggiunse la moglie di Federigo, che aveva capito ogni cosa. - Io non voglio privare la marchesa di un commensale così gradito. Sarà per un’altra volta. Fatemi peraltro il favore di non dimenticarvi la chiassata di domani sera. Vi aspettiamo immancabilmente, per cantare insieme il nostro famoso duetto dell’Italiana in Algeri.

- Non dubitate, eccovi la mano.

- Scusate se metto bocca nei vostri discorsi - osservò la marchesa, stentando la parola, e volgendosi al giornalista, - ma mi pare che domani sera non sarete libero che tardissimo. Rammentatevi che avete preso l’impegno di accompagnarmi al ballo degli Asili infantili.

- Io?..

- Voi, voi! - ripeté l’altra, dandogli una occhiata d’intelligenza, che tradotta in lingua parlata, avrebbe dovuto dire: imbecille, rispondete a tono.

- Non mi pareva...

- Povero Leonetto! Si vede proprio che la politica vi ha fatto perdere affatto la bussola. Quasi quasi comincio a pentirmi di avervi procurata la direzione della «Gazzetta della Provincia».

- Sarà... come voi dite... - rispose Leonetto, stringendosi nelle spalle -...ma vi giuro sull’onor mio che non ne sapevo nulla... cioè, che me l’ero affatto dimenticato!...

- Dunque? - domandò Clarenza, annoiata di tutta quella commedia.

- Sono dispiacentissimo - rispose il giornalista, che per la vergogna era diventato quasi rosso, - ma domani sera non posso... La marchesa mi assicura che le ho promesso di accompagnarla... al ballo degli Asili infantili...e la colpa è tutta mia, se me lo sono dimenticato...

- Signore e signori! - disse la Sorbelli, congedandosi, quindi uscì dalla sala, accompagnata da Federigo e da Leonetto.

Mentre il giornalista stese la mano alla Norina, in atto di dire addio, questa gli bisbigliò, sorridente - È una gran fortuna, amico mio, quella di essere liberi e indipendenti, come siete voi! almeno, non siamo mai padroni di far nulla a modo nostro.

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