< I ragazzi grandi
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Parte seconda
Parte prima

È passato un mese, dal giorno in cui Mario venne accolto in casa di Federigo.

- Stasera si è fatto notte più presto del solito. Che ore sono? - domandò Clarenza alla Bettina che aveva acceso un gran lume a moderatore, in mezzo alla tavola.

- Le cinque suonate ora - rispose la vecchia.

- La Norina dov’è?

- Credo, in camera sua.

- Ne sei sicura?

- Mi par di sì.

- Senti, Bettina, fammi un piacere - soggiunse la giovine padrona, abbassando la voce e con tuono carezzevole. - Vai di là, e con qualche scusa accertati se la Norina è proprio in camera.

Appena Clarenza fu sola, cominciò fra sé e sé questo monologo:

- Quand’è uscito di casa, or ora, mi ha fatto il solito segno... dunque dietro la cornice ci dev’essere una lettera - (e dicendo così, voltò gli occhi verso un quadretto, chiuso in una cornice e attaccato nella parete di mezzo) -...Già, di queste lettere non ne voglio più... è tanto tempo che lo dico... Questa è l’ultima di certo. Tutte le volte che devo montare sul canapè per frugare dietro a quella maladettissima cornice, m’entra la febbre addosso... Se non foss’altro, la paura! Con un frugolo per casa come la Norina, c’è da essere scoperti, senza neanche avvedersene! Almeno si levasse presto di fra i piedi, quella benedetta figliuola!...

- È in camera - disse la Bettina, sottovoce, rientrando nella stanza in punta di piedi.

- Mi basta così... voglio farle una celia. Puoi andartene.

E la Bettina uscì.

- Eppure, neppur’ora mi par d’essere sicura per bene - diceva Clarenza, guardando di qua e di là con so spetto, - un poco, sarà paura della Norina: ma un poco bisogna dire che è anche la coscienza... il rimorso di sapere che faccio una cosa... che non è bella. Dico la verità, io mi credeva più forte... Se credessi alle streghe, dubiterei che mi avessero stregata! Meno male che si tratta di ragazzate, di cose senza conseguenza... Eppoi non lo faccio per me... lo faccio per un altro, per dare a suo tempo una bella lezione a quel donnaiolo di Mario.

Intanto Clarenza, dopo aver dato un’ultima occhiata a tutti gli usci, che mettevano in sala, aveva abbassato il lume fino al punto di lasciare un fiochissimo barlume, ed era salita sul canapè.

Colla rapidità del baleno, ficcò una mano dietro al quadro, e prese un foglio che vi era nascosto: ma, quando fu per discendere, si spalancò improvvisamente la porta di faccia.

- Scommetto che sei stata tu, che mi hai mandata la Bettina in camera?.. - gridò la Norina, con una voce squillante, che pareva un campanello.

- To’?.. - rispose la sorella, rimasta zitta sul canapè e colle spalle voltate al muro.

- Prima di tutto, che cosa fai costassù per aria? -

- Nulla... - soggiunse l’altra, che non trovava le parole per rispondere. - voleva vedere da vicino questa Niobe.

- Brava! E per vederla meglio hai abbassato il lume.

- Che cosa dicevi della Bettina?…

- Dicevo che scommetterei che sei stata tu che me l’hai mandata in camera.

- Ebbene, sono stata io…, io in persona: e per questo?.. - disse Clarenza, scendendo dal canapè e andando a rialzare il lume.

- Allora vorrei sapere perché quell’imbecille si mette a far la diplomatica, la furba, la misteriosa...

- Non capisco.

- Figurati, che è venuta a picchiarmi nell’uscio. Che cosa vuoi?, le domando. Niente, mi risponde, voleva sapere se stava bene. Allora ho mangiato la foglia, e ho detto subito: qui c’è sotto qualche cosa...

- E, com’è naturale, sei corsa subito in punta di piedi... per vedere... per bracare... Chi lo sa che cosa ti sarai immaginato!

- Che cosa vuoi tu che m’immaginassi? Nonostante - seguitò la Norina, con un risolino impertinentissimo - mi ha fatto davvero una gran consolazione di vedere che tu ami la pittura, e che per goderla meglio, sei anche capace di montare sulle sedie e sui canapè, come fanno i ragazzi.

- Ah! se io fossi una gran signora - replicò Clarenza, facendo finta di non capire l’ironia maliziosetta di quelle parole. - Ah! se io fossi una gran signora, tappezzerei tutte le mie stanze di quadri.

- Io no: le tappezzerei di stoffa e di raso. È più pulito, e costa meno. I quadri mi piacevano da ragazza. Ti rammenti di quel Mosè sul Sinai, che nostro padre teneva nello studio? Anch’io, tutte le mattine, prima che lo studio si aprisse, avevo preso il vizio di montare sopra una seggiola per vedere il Mosè più da vicino. Ma sai perchè? perché dietro la cornice del quadro ci trovavo per il solito qualche lettera dimenticata.

- Adagio un poco cogli scherzi, Norina - disse Clarenza, facendosi seria, - ti prego a credere che dietro la Niobe non c’era nessuna lettera.

- Lo credo bene, e quand’anche ci fosse stata, tu avresti avuto abbastanza giudizio per non lasciarla lì col pericolo che andasse nelle mani degli altri!

Le due sorelle si guardarono in faccia: e dopo essersi squadrate ben bene da capo ai piedi, finirono tutte e due col dare in una grandissima risata.

- A proposito dei propositi. E Valerio ha risposto? - domandò Clarenza, per mutar discorso.

- Volevo vedere anche questa che non rispondesse.

Alle otto precise sarà qui, per accompagnarci al teatro.

- Povero Valerio: è il più buon diavolo di questo mondo.

- Fa il suo dovere, e nulla più.

- E tu non hai ancora deciso nulla?..

- Per ora no. Non ho nessuna fretta di rimaritarmi.

- Dimmi: spereresti per caso che il matrimonio di quella persona - (e Clarenza accompagnò la parola con un curioso balenìo degli occhi) - andasse a monte una seconda volta?...

- Io non ho bisogno di confessarmi. Dico soltanto che i casi sono più delle leggi... e che finché c’è fiato c’è speranza. Lo vedesti l’altra sera? Era in un palco quasi di faccia al nostro, con tutti i suoi futuri parenti... Non mi levò mai i cannocchiali d’addosso. E anche stasera la famiglia del console c’è di certo in teatro: il martedì e il giovedì non manca mai.

- E tu lo inviti per farti accompagnare?.. Ah? permettimi che te lo dica; è una cosa che non sta bene e ti fa grandissimo torto. Perché lusingarlo? Perché metterlo in mezzo? perché fargli fare, a sua insaputa una meschina figura? O non sarebbe meglio parlargli francamente e rendergli la sua libertà?..

- Sei curiosa! Sono forse io che lo tengo?

- Parliamoci francamente; tu non gli vuoi bene.

- Non è vero neanche codesto. Per voler bene, gli voglio bene...

- Sì, sì; ma non è di quel bene, come mi intendo

- Hai ragione: è un altro bene... per esempio, sul genere di quello che tu vuoi a Federigo.

- Norina! - disse Clarenza, facendo il cipiglio - Intendiamoci una volta per tutte; su questo non accetto scherzi.

- Calmati, Clarenza, calmati.

- C’è poco da calmarsi. Un altro discorso simile, e ci guastiamo per sempre; o fuori di casa tu, o fuori io.

- Vieni qua da me e sii buonina - replicò l’altra, passando affettuosamente il braccio intorno alla sorella. - Perché ci dobbiamo guastare? Perché s’ha da far la commedia, quando siamo a quattr’occhi? Pensaci un poco sopra e rispondimi; credi tu che per due donne come noi, colle idee e col carattere che abbiamo e con l’educazione che ci hanno dato in casa, credi tu davvero che Federigo e Valerio fossero gli uomini più adatti per essere i nostri mariti?

- Non ti occupare di me; parla piuttosto per conto tuo.

- Ebbene, parlerò per conto mio e ti confesserò francamente che può darsi benissimo che io finisca collo sposare Valerio: ma, Valerio non è il mio ideale.

- Dicevi lo stesso del tuo povero Ernesto. Me lo ricordo come se fosse ora.

- Ernesto era un angiolo: ma bisogna convenire che aveva un gran difetto: un difetto insoffribile. Impiegato fin da ragazzo ai telegrafi, gli si era attaccato il vizio del proprio impiego. Parlava pochissimo, e quando diceva qualche cosa pareva di sentire un dispaccio telegrafico. Mi rammento sempre di quella famosa sera di quando mi fece la sua prima dichiarazione. «Signora Norina» mi disse «io vi amo; sono onesto: telegrafista; risoluto accasarmi. Desidero conoscere vostre intenzioni». Che burla! mi aspettavo sempre che dicesse «risposta pagata!».

- Povero Ernesto! Come morì giovane!...

- Pur troppo! ma era tanto infelice! Del resto, sì: se io fossi padrona di scegliere, non mi vergogno a dirlo, sceglierei sempre per marito un uomo del genere del marchese di Santa Teodora. Un po’ scapato, un po’ leggero, un po’ rompicollo!... ma tanto simpatico. Non ti pare che abbia molta somiglianza coll’Artagnan dei Tre Moschettieri?

- Gua’; tutti i gusti son gusti!... - disse Clarenza, stringendosi nelle spalle.

- E questo - soggiunse l’altra - sia detto per conto mio; ora poi per conto tuo ti dirò...

- Non voglio saper nulla!...

- Federigo, non c’è che dire, è la più brava persona...

- Basta.

- Ma per te, per il tuo carattere ci sarebbe voluto...

- Basta, ti dico.

- Ci sarebbe voluto un uomo del genere...

- Basta! basta! basta. Mi sono spiegata, sì o no?

- Eh! quanto chiasso. Non aver paura, non ti dico altro! - e andandosene, borbottò fra i denti «Son venuta qui con un mezzo dubbio, e me ne vado con una mezza certezza. Meno male che ho pensato a rimediarci per tempo!...».

- Che la Norina si sia accorta di qualche cosa? - domandò a se stessa la Clarenza, quando rimase sola. - Non ci mancherebbe altro... Ho addosso una smania... una inquietudine, che mi fa battere il cuore e le tempie! Ma perché non piglio una buona risoluzione per tempo? Tant’è: oramai ne son convinta... lui è più forte di me… quel diavolo tentatore esercita sul mio spirito una malìa irresistibile. Non sono più padrona di dirgli una parola o di guardarlo in faccia, senza sentirmi il viso che mi prende fuoco. Quando è in casa, non vedo il momento che vada fuori... Quando è fuori sono agitata, pensierosa, di malumore... fino a tanto che non è tornato a casa…Infame d’un uomo!... eppoi ha il coraggio di lagnarsi di Giorgio, perché tradì l’ospitalità dell’amico! E lui non farebbe anche peggio?.. Ma... ma c’è un caso, signorino bello; io non sono l’Emilia! oh! si persuada pure che io non sono l’Emilia. Animo, animo. Qui ci vuole una gran risoluzione: una risoluzione eroica, e senza mettere tempo in mezzo. Intanto cominceremo dal bruciare questa lettera, senza leggerla. Ho fatto male a leggere le altre... ma questa deve andare sul fuoco.

E a Clarenza si voltò risolutamente verso il caminetto, e fece l’atto di gettar la lettera: ma poi si trattenne, pensando:

- E se sentissero l’odore del foglio bruciato? La Norina è così sospettosa! Dio, che cosa penserebbe. È meglio strapparla, sì: è meglio strapparla... Ecco fatto: così non ci si pensa più!

E la lettera, divisa in due pezzi, rimase fra le dita della Clarenza.

- Mi dispiace di non aver guardato la data. Voleva almeno sapere se la lettera era scritta d’oggi o d’ieri. Guardiamo se fosse possibile di raccapezzare il giorno.

E così dicendo, riunì alla meglio insieme i due pezzi lacerati della lettera.

Mentre Clarenza cercava cogli occhi la data, le venne fatto di posar gli occhi su queste parole:

- «Adorata Clarenza!».

- «Adorata»!... sfacciato che non è altro. È la prima volta che si prende con me una simile confidenza. E quaggiù che cosa dice?

- «Sono stanco di vedermi trattato con tanta crudeltà».

- Se è stanco, tanto meglio: sono stanca anch’io, e così ci troviamo perfettamente d’accordo. Ma la data? È un’ora che cerco la data e non mi riesce di trovarla. Vediamo un poco -. E Clarenza seguitò a scorrere coll’occhio la lettera, e, con visibile agitazione, lesse fra i denti:

- «Sono stanco di vedermi trattato con tanta crudeltà. Vi ho supplicato mille volte per ottenere da voi dieci minuti... dieci minuti soli di libertà, per un colloquio intimo...».

- Cucù! - fece Clarenza, interrompendosi - io non sono mica l’Emilia! Caro signor conte, per questa volta avete sbagliato - poi continuò a leggere.

- «Clarenza! se è vero che non sapete il modo di procurarvi questi dieci minuti di libertà, permettetemi che ve lo suggerisca io. Stasera avete fissato di andare al teatro. Non potreste lasciarvi andare vostra sorella e trovare una scusa per rimanere in casa? dubitereste forse di me? Io credo di meritarmi la vostra fiducia, ed è appunto un atto di fiducia quello che vi domando. Se voi me lo negate, io non son degno di rimanere un’ora di più in questa casa, e faccio giuro a Dio (che vede il candore della mia intenzione) di andarmene questa sera medesima».

- Dio volesse - disse Clarenza, gettando i pezzi della lettera nel fuoco. - Almeno così sarò fuori d’ogni pericolo! Così potrò riacquistare la pace e la tranquillità, che ho perduta. Ma se ne anderà davvero? Dovrò starmene alla sua promessa, al suo giuramento? No, no: a scanso di pentimenti, è meglio che ci provveda da me e subito.

E suonò il campanello.

- Dov’è il padrone?

- È nel suo studio col marchese Sorbelli - rispose la Bettina.

- Che cosa fanno?

- Urlano e strillano come due calandre.

- Ebbene: quando avranno finito d’urlare, dirai a Federigo che passi da me: ho bisogno assolutamente di vederlo: hai capito?..

- Buona notte, Clarenza - disse Federigo, entrando in sala col cappello in capo e il paletot infilato addosso, in atto di uscir di casa.

- Giusto te! Dove scappi con tanta fretta?

- C’è giù, in carrozza, il marchese Sorbelli, che mi aspetta. Ho promesso di presentarlo stasera al nostro piccolo Comitato elettorale. E tu e la Norina che cosa fate? Andate dunque al teatro?

- Credo di sì: Valerio almeno ha promesso di venirci a prendere.

- Oh! se ha promesso non vi manca di certo.

- Volevo dirti una cosa.

- Dopo il teatro, se non ti dispiace. Oramai c’è il marchese che mi aspetta, e non voglio fare aspettare. È una cosa d’urgenza.

- Ti sbrigo in due parole. È indispensabile, assolutamente indispensabile che Mario domani se ne vada di casa nostra.

- Clarenza! ci sarebbe forse qualche cosa? - domandò Federigo, turbandosi e guardando in viso sua moglie.

- Il signor marchese lo attende - disse la Bettina, affacciandosi sull’uscio di sala.

- Vengo subito. Clarenza raccontami tutto francamente.

- E perché ti allarmi così.

- Ma dunque che cosa è stato?

- Nulla, nulla, il gran nulla.

- Voglio saper tutto.

- E io ti dirò tutto. In questa casa ci sono due donne...che non sono né vecchie né brutte... Il paese è pettegolo: e io non voglio ciarle intorno casa.

- Dimmi... forse la Norina?..

- Io ti ripeto che non voglio ciarle: e Mario, al più tardi domattina deve uscire di casa nostra.

- Bisognerà dirglielo con buona maniera.

- Con buonissima.

- O non potresti dirglielo tu? - domandò Federigo a sua moglie.

- Io no!

- Ma chi è che ha messo Mario in casa nostra?

- Io.

- E tu, allora, licenzialo.

- Nossignore: è una parte che tocca a te.

- Ma perché tocca a me?

- Oh! bella!... parla... perché tu sei il marito.

- Clarenza!

- Oh! insomma, quando ti dico che non c’è e nulla, mi par quasi un’indiscretezza quella d’insistere!...

- Pazienza! la parte da doversi fare è un po’ dura, e l’avrei ceduta volentieri a te: ma se la ho da far’io, la farò io. È urgente di molto?

- Se si potesse, meglio stasera: se no, domattina di certo.

- Il signor marchese!... - disse la Bettina affacciandosi di nuovo sulla porta.

- Ha ragione: eccomi subito; dimmi Bettina: il signor Mario è in casa? - domandò Federigo, con quella fretta agitata d’un uomo, che vuol levarsi un pensiero, prima di uscir di casa.

- Il signor Mario è andato via alle due - rispose Bettina - e non è più tornato. Son venuti ad avvertirlo che era arrivato suo zio, e che era alloggiato alla Locanda Maggiore.

- Suo zio? - replicò Federigo; - dunque il ministro è in paese?

- Par di sì - rispose Clarenza.

- Sai tu se Mario ricevesse mai risposta a quella famosa lettera?

- Credo di no.

- L’ho caro! proprio caro! - gridò Federigo, ridendo coi denti. - Io glielo dissi: bada Mario: non la mandare codesta lettera: ti farai canzonare. Nossignore: la volle mandare per forza. Ti rammenterai che si raccomandò a me, perché gliela facessi portare all’uffizio postale della stazione. D’altra parte, meglio così: se per disgrazia lo zio ministro, avesse contentato il nipote, oggi mi troverei in un curioso imbarazzo.

- In quale?

- Capirai bene, che bisognerebbe, che io rimandassi indietro la Croce!

- Uhm!... forse no!

- Forse, sì.

- Forse, no.

- Non c’è forse che tenga, cara mia: o siamo uomini, o siamo ragazzi...

- Basta, basta; il resto lo so a memoria - disse Clarenza, annoiata.

- È una questione di principii...

- Se ti dico che il resto lo so.

- Padroni, padronissimi, que’ signori del Ministero di averla con me...

- Se seguiti un altro poco, me ne vado.

- Del resto, - disse Federigo, saltando di palo in frasca, - mi dispiace che questo licenziamento di Mario, sia di tanta urgenza: caso diverso...

- Caso diverso, cioè?

- Caso diverso era una questione che fra due o tre giorni, tutt’al più, si sarebbe sciolta da se stessa.

- Sarebbe a dire?

- Mario fra due o tre giorni se ne va di certo.

- E dove va?

- Probabilmente partirà per un lungo viaggio attraverso la Germania.

- Solo?

- No, con sua moglie.

- Come! coll’Emilia?.. animo via; ma questo è uno scherzo - disse Clarenza, ridendo.

- Non è uno scherzo: è storia.

- O non si era parlato di separazione?..

- Ma che separazione! se ti dico che tutto quel chiasso non fu altro che una ragazzata di Mario!

- Cosicché marito e moglie sono in via d’intendersi, di accomodarsi?

- Tutto merito mio! In questi venticinque o trenta giorni, ho avuto un carteggio attivissimo coll’Emilia e con sua madre.

- Bravo davvero? e non mi hai detto nulla? - disse Clarenza, nascondendo a mala pena la bizza, che aveva nel sangue.

- Avevo il sigillo di confessione, Mario mi aveva fatto giurare che le trattative della riconciliazione sarebbero rimaste un segreto fra noi due!

- Senti! senti! - replicò Clarenza, con un certo risolino di canzonatura, - dunque il signor Mario voleva che la cosa fosse un segreto per tutti?

Poi, mutando intonazione, continuò:

- Quanto a te, lascia che te lo dica: hai fatto malissimo a entrar di mezzo in questo pasticcio.

- Perché?

- Perché un uomo prudente non mette mai bocca nei pettegolezzi fra marito e moglie... se si erano guastati, tanto peggio per loro: dovevano pensare a sbrigarsela.

- Non ti credevo così cattiva.

- Io non son cattiva: credo piuttosto d’avere un po’ di giudizio anche per chi non ne ha! Già, vedo bene che sarà una riconciliazione posticcia... Fra un mese, tutt’al più, saranno daccapo: e te la voglio dar lunga.

- Io poi, spero di no. Nell’esser di mezzo a questa faccenda, mi son dovuto persuadere che quei ragazzi, in fin dei conti, si vogliono moltissimo bene.

- Povero Federigo! come sei ingenuo alla tua età!...

- Padrona di darmi dell’ingenuo quanto ti pare. Io, però, ho veduto tutte le lettere che si sono scambiate fra marito e moglie, in questi ultimi giorni, e ti assicuro che mi paiono innamorati, peggio di prima!

- Davvero? E tu ci credi sul serio? Gua’; può darsi benissimo che l’Emilia sia innamorata ancora! Non dico di no; povera figliuola, ha un carattere così leggero!... ma in quanto a Mario, ne dubito assai... oh! ne dubito assai.

- Anche Mario è innamorato, credilo!

- Mario, no.

- No? e com’è che lo sai?

- Lo so... perché lo so...

- Cioè?

- Me l’ha detto lui.

- Lui? e perché te l’ha detto?

- Oh bella! perché gliel’ho domandato.

- A dirti la verità, mi pare una domanda un po’ indiscreta.

- A me, invece, mi pare naturalissima.

- Ebbene, se vuoi saperla tutta, Mario ti ha detto una bugia.

- Ci riparleremo a suo tempo.

- Ne vuoi una riprova di più? Figurati che la Bettina mi ha raccontato che ieri mattina, essendo entrata improvvisamente in camera di Mario, lo ha trovato col ritratto di sua moglie in mano, che lo copriva di baci.

- Imbecille!... lezioso... - fece la Clarenza con un garbo ineffabile di nausea e di dispetto. - Certe svenevolezze in un uomo non le posso soffrire... E poi... resta da vedersi se quel ritratto era veramente quello di sua moglie.

- Per codesto, lo era di certo. Tant’è vero che la Bettina mi disse: «Com’è bella la moglie del signor Mario! Somiglia tutta alla signora Clarenza!...».

( - Era il mio ritratto! grande imprudente!... - pensò la moglie di Federigo dentro di sé, facendosi rossa in viso; quindi seguitò a dire). - E questa riconciliazione quando avrà luogo?

- Fra due o tre giorni. L’Emilia ha scritto che ci farà sapere, per mezzo del telegrafo, il giorno preciso e il treno col quale arriverà alla stazione.

- Voglio sperare che anderanno alla locanda...

- È probabile.

- Non c’è probabile, né improbabile. Intendiamoci bene che in casa non ce li voglio... Hai capito?.. E i patti di questa conciliazione?

- Semplicissimi. Non una parola, nemmeno una sola parola sull’accaduto. I due sposi, incontrandosi alla stazione, si abbraccieranno, si bacieranno...

- Cari!... cari!... veramente cari!... Vuoi che te lo dica? Certe giuccherie mi fanno quasi schifo!...

- Quando poi avranno finite tutte le formalità di rigore, si tratterranno una mezza giornata, tanto per avere il tempo di fare i bauli e prendere il volo verso le regioni del Nord. È stabilito e concordato reciprocamente che il pellegrinaggio, all’estero, non debba durare meno d’un anno.

- Un anno?..

- Un anno: così è fissato, per la gran ragione che il mondo, che è di lingua lunga e di memoria breve, abbia tutto il tempo necessario per poter dimenticare ogni cosa.

- E se Mario non volesse partire?.. - domandò Clarenza, che rideva come una matta; per non far vedere le lagrime, che aveva negli occhi.

- Codesta è un’idea - disse Federigo.

- Un’idea! Si fa presto a dire un’idea... Chi lo sa: alle volte gli uomini sono così capricciosi:...

- Scusa veh, Clarenza: ma se è lui, Mario stesso in persona, che ha messa questa condizione del viaggio d’un anno!

(- Infame:... - mormorò fra i denti Clarenza - e vorrebbe che stasera lo aspettassi in casa... Guai a lui, se mi capita dinanzi!).

- Il signor marchese Sorbelli... - disse la Bettina, quasi mortificata di dover ripetere la stessa cosa.

- Povero marchese! ha mille, duemila ragioni. Ora poi vengo subito... - e Federigo così dicendo, andò a riprendere con grandissima fretta il cappello e il paletot, che, durante la conversazione, aveva posati sulla tavola di mezzo.

- Senti vieni un momento qua! - soggiunse la moglie, trattenendolo per un braccio.

- Lasciami andare.

- Ho pensato a una cosa.

- A che cosa?

- Trattandosi di aver pazienza per tre o quattro giorni ancora, credo che sarebbe meglio di aspettare e non dirgli nulla.

- Ebbene, aspettiamo... Io faccio a modo tuo... Zitta! se non sbaglio, questo è Mario: è la sua voce di certo.

- Animo, Federigo - disse Clarenza, che voleva restar sola, - non far più aspettare quel povero marchese.

- Vado subito. Dico una parola a Mario, e scappo.

- Al solito. Permettimi che te lo dica: mi pare una bella mancanza d’educazione quella di costringere una persona rispettabile, come il marchese Sorbelli, a farti quasi il servitore.

- Non te ne dar pensiero - replicò Federigo sorridendo. - Il marchese per ora è candidato; tocca dunque a lui a fare il comodo mio; quando poi sarà deputato, non dubitare, che toccherà pur troppo a me a fargli l’anticamera.

- Sei un grand’ostinato. Ebbene, se non vuoi andartene tu, me ne anderò io - e la Clarenza uscì dalla sala, che aveva un diavolo per capello.

- Che c’è di nuovo? - domandò Federigo a Mario, con una curiosità infantile.

- C’è qualche cosa - rispose Mario, sorridendo - e avevo quasi paura di non trovarti in casa.

- Qualche cosa di premura? Ha scritto l’Emilia?

- No. Dall’Emilia oramai non aspettiamo altro che il telegramma dell’arrivo: c’è un’altra notizia... la sai?

- Quale?

- È arrivato mio zio.

- Ah! è arrivato?.. - soggiunse Federigo, con indifferenza.

- Non ne sapevi nulla?

- Nulla. D’altra parte, che interesse vuoi tu che abbia per me l’arrivo d’un ministro? fra me e gli uomini del Governo, c’è un oceano di mezzo.

- Per carità - disse Mario, scherzando - non parliamo d’oceani! Ho conosciuto certi oceani, in politica, che si sono rasciugati da un momento all’altro, e son diventati tanti rigagnoli da potersi passare a piedi asciutti. Come ti sarai figurato, mio zio non rispose mai a quella lettera...

- Era facile indovinarlo.

- Peraltro ha risposto col fatto.

- Col fatto? cioè? come sarebbe a dire?..

- Il signor marchese Sorbelli... - bisbigliò la Bettina, sottovoce, avvicinandosi al suo padrone.

- Gran seccatore! Due minuti e scendo subito.

- Dice così che non vuole più aspettare - soggiunse pianissimo la vecchia cameriera.

- Che se ne vada, allora! - replicò Federigo; quindi rivolgendosi a Mario:

- Dunque, mi dicevi?..

- Dicevo che il ministro mi ha consegnato un plico per te.

- Un plico per me?.. io non so di dover ricevere alcun plico dal Ministero.

- Caro mio; ambasciatore non porta pena - e così dicendo, Mario trasse di tasca un plico, e lo consegnò al marito di Clarenza, il quale, passandoci sopra gli occhi, vi lesse con voce quasi tremante: - «Al cavaliere Federigo Fabiani». Ah! finalmente!... - esclamò Federigo.

- Cioè?

- Voglio dire - rispose l’altro, frenando a stento la propria emozione. - Voglio dire che finalmente doveva capitarmi addosso anche questo malanno. Mario? abbi pazienza se te lo dico. ma mi hai fatto un brutto scherzo.

- Caro mio: io non ci ho colpa.

- Vedi un po’ in quale imbarazzo mi hai messo. Tu sai benissimo che io sono un uomo logico, un uomo conseguente...

- Ebbene.

- Ebbene, io non accetterei una distinzione, che mi viene da un Ministero, che ho sempre combattuto.

- Se non la vuoi; e tu rimandala.

- Rimandarla! è presto detto. E tuo zio?.. è un affronto bello e buono, che farei a lui.

- Se fossi in te, non avrei tanti riguardi; rimanderei la croce, e felicissima notte.

Federigo rimase muto e soprappensiero, per due minuti: poi, voltandosi all’amico, gli domandò tranquillamente:

- Dimmi un poco: come si costuma in queste circostanze disgraziate? Usa scrivere una lettera di ringraziamento?..

- Per il solito, sì.

- Ma io, resta inteso che non rispondo nulla - disse Federigo, ingrossando la voce.

- Padronissimo - rispose Mario, che aveva capito il debole dell’amico. - Nessuno ti può costringere a fare una cosa contro coscienza.

- Tutt’al più potrei rispondere due versi... due soli versi di formalità... tanto per far sapere che ho ricevuto il plico.

- Basta, e ce n’è d’avanzo.

Federigo andò al tavolino di mezzo, e preso un foglio da lettere, e postoselo davanti, disse a Mario:

- Fammi il piacere: tu che hai pratica in certe cose... dettami queste poche parole. Intendiamoci bene: parole liberalissime e senza ombra di cortigianeria.

- Vai pur là, e scrivi - replicò Mario, avvicinandosi al caminetto; e a voce alta, cominciò a dettare: - «Signor ministro».

- «Signor...» dimmi un poco - domandò l’altro, alzando il capo e smettendo di scrivere - non sarebbe meglio di dargli un po’ d’Eccellenza.

- Fai tu: ma la frase «Signor ministro» è molto più franca e più disinvolta.

- È vero; ma i ministri, credilo a me, ci tengono all’Eccellenza: le so certe cose. Vuoi fare a modo mio? Diamogli dell’Eccellenza.

- Diamogli dell’Eccellenza - soggiunse Mario, ridendo: poi seguitò a dettare: - «Sono sensibile all’onore...».

- Quel «sensibile» mi pare un po’ corto - osservò Federigo. - Se mettessimo invece «sensibilissimo?».

- Hai ragione. «Sensibilissimo» è più lungo. Dunque comincia così: «Sono sensibilissimo all’onore...».

- Onore... onore! - borbottò fra i denti Federigo. - E non credi che sarebbe meglio detto «all’alto onore?».

- Alto? in questo caso mi pare un vocabolo un po’ troppo ampolloso.

- Ampolloso, no. Anzi mi pare un vocabolo comunissimo e che si adopera continuamente. Diffatti si dice «alta stima» e alta considerazione... anche quando si scrive per non dir nulla.

- Vedo, amico mio - disse Mario, annoiato - che ne sai più di me: dunque scriviti da te la tua lettera: eppoi, se credi, gliela posso portar io.

- Mi farai un vero regalo - rispose Federigo. Quindi scrisse la lettera in pochi minuti, la chiuse in una busta, e, consegnandola al conte, gli disse con un tuono di voce cupo e malinconico: - Ora ho bisogno che tu mi dia una prova di vera amicizia.

- Parla.

- Tu sai il peso, che io ho sempre dato a questi gingilli, a questi giuocattoli da fanciulli...

- Lo so! lo so... - interruppe l’altro, ridendosela sotto i baffi.

- Orbene: vorrei che questa cosa restasse un segreto fra noi due: che non la sapesse nemmeno l’aria. Che vuoi che ti dica? Sento qualche cosa qui che mi ripugna - (e si toccava lo stomaco dalla parte del cuore). - Capisco che l’uomo è un animale di abitudine, e che in questo mondo ci si avvezza a tutto: ma, ora come ora, dico la verità, sento che non saprei rassegnarmi a sentirmi chiamare cavaliere.

- Intendo benissimo la tua ripugnanza... ed eccoti la mano. Giuro solennemente di non parlarne a nessuno.

- Siamo intesi: a nessuno!

- A nessuno!

Clarenza entrò in sala: forse credeva di trovarvi Mario solo: ma visto che c’era anche Federigo, rimase piuttosto male; e voltasi con garbo dispettoso verso il marito, gli disse:

- Come? sei sempre qui?

- Sempre qui! - rispose l’altro, senza alzare il capo, e accompagnando la risposta con una specie di sospiro.

- Che cos’hai? che cosa ti è accaduto?

- Nulla, nulla.

- Ditelo voi, Mario; che cosa c’è stato? - domandò Clarenza, un poco impensierita.

- Ti ripeto, che non c’è stato nulla - gridò Federigo, arrabbiandosi. - Una delle mie solite fortune. Guarda! - e, nel dir così, si cavò di tasca il plico del Ministero, e lo passò in mano alla moglie.

Clarenza posò gli occhi sull’indirizzo: e dopo aver vista la provenienza, e dopo aver letto sulla sopraccarta «Al cavalier Federigo Fabiani» restituì la lettera al marito, esclamando con vera consolazione:

- Oh! sia ringraziato il cielo! Finalmente sarai contento!

- Contento io? io? Vai pur là, che l’hai indovinata.

- Quanto a me, lo dico francamente, sono contentissima.

- Tutte uguali le donne! - disse Federigo, ingrossando la voce. - Avete una vanità che passa qualunque misura. Per altro, Clarenza, intendiamoci bene. Ti avverto una volta per tutte. Sappi che questa cosa deve restare un segreto fra noi tre - (accennando anche a Mario). - Dunque bada bene di non lo dire a nessuno! A nessuno, e specialmente a quella ciarliera della Norina.

- Signor cavaliere, i miei rispetti - disse la Norina, saltando in sala, e inchinandosi comicamente dinanzi cognato.

- Ah! Norina! - replicò Federigo, facendo l’impermalito - questa tua indiscretezza... questa tua smania di ficcare il naso dappertutto mi comincia a seccare. Con una donna, come te, fra i piedi. è inutile che in una casa ci sieno gli usci e le porte.

- Inutile?

- Inutilissimo. Perché almeno ho sentito dir sempre che gli usci erano fatti apposta per impedire agli altri che sappiano ciò che vogliamo che non si sappia.

- È un’idea anche codesta - soggiunse la Norina, ridendo. - Non tutti si pensa allo stesso modo. Io, per esempio, ho creduto sempre che gli usci fossero fatti unicamente per poter stare a sentire ciò che dicono gli altri. È un’opinione come la tua, e va rispettata.

- Non ne discorriamo più per oggi. Ti avverto di serbare il segreto: e non ne facciamo parola con nessuno! con nessuno. A proposito: ma che il marchese Sorbelli sia sempre giù ad aspettarmi? Sentiamo un poco.

E Federigo suonò il campanello.

- Ha suonato lei, signor Federigo?. - disse la Bettina, entrando in sala.

- Brava, Bettina! Così mi piace: chiamami sempre Federigo.

- O come vuol che lo chiami?

- Guai a te, se una volta, una volta sola, ti scappa detto cavaliere.

- Come! come! - gridò la vecchia cameriera, tutta allegra - che è stato fatto cavaliere, lei? l’ho caro davvero! era tanto, povero padrone, che se ne struggeva!...

- Mi struggevo, un corno! Non discorrer tanto, e guarda piuttosto a quel che ti dico: ti ripeto dunque che io mi chiamo Federigo, che voglio esser chiamato Federigo, e in casa mia non ci debbono essere né cavalieri, né commendatori. Dillo subito anche a Francesco e al cuoco.

- Non dubiti, signor cavaliere.

- Basta così. Volevo ora domandarti una cosa; il marchese è partito?

- Sarà quasi una mezz’ora - disse la Bettina. - Soffiava come un istrice. Se sapesse quante cosacce ha detto!...

- Contro me?

- Contro lei!

- Bravo signor marchese: faremo i conti a suo tempo. Lo aspetto, all’urna, non dubiti, lo aspetto all’urna! Curiosi questi nobilucci di vecchia data. Perché hanno un po’ di titolo, trovato fra i ragnateli di casa, gli par d’essere Dio sa che!... Quant’a me, per esempio, non baratterei la mia modestissima croce di cavaliere con tutti i loro stemmi gentilizi: dico bene?..

- Santamente! - soggiunse Mario; - dimmi una cosa: e ora, verso qual parte sei indirizzato?

- Che si domanda? - rispose Federigo, guardando l’orologio. - È la mia ora: io, secondo il mio solito (un’abitudine oramai di dieci anni), vado in casa Appiani a far la mia partita a scacchi.

- Non puoi lasciarla per una sera? - chiese il conte.

- Impossibile: son sicuro che questa notte non potrei dormire.

- Non ti dissimulo, che mi dispiace.

- Ti dispiace? e perché?

- Perché il ministro avrebbe desiderato di vederti.

- Me?.. - domandò Federigo, a cui la troppa e improvvisa contentezza fece mandar fuori una nota di falsetto.

- Te in persona. E aggiungi che io gli avevo promesso di accompagnarti stasera da lui!

- Hai fatto male... cioè, non dico che tu abbia fatto male... ma, insomma, che cosa vuole il signor ministro da me?

- Non lo so!

- Il conte non lo sa - interruppe Clarenza - ma è facile supporlo. Il ministro sa che tu sei un brav’uomo, un uomo onesto, una persona moltissimo influente... ed è naturale che desideri di conoscerti personalmente e di stringerti la mano.

- Troppo buono, il signor ministro: ma non ci vado! - disse Federigo, atteggiandosi a uomo inflessibile e resoluto.

- Pazienza! - replicò Mario, facendo l’atto di non voler più insistere.

- Ti prego, peraltro, di fargli le mie scuse.

- Non c’è bisogno di scuse. Hai le tue buone ragioni per non volerci venire, e basta così!

- E perché non ci vai? - domandò Clarenza, alla quale dispiaceva questa strana cocciutaggine del marito.

- Oh! bella! non ci vado, perché non mi conviene. È una questione di fierezza di carattere e di sentimento della propria dignità, e le donne non possono intendere certe cose.

- Io ti comprendo benissimo! - disse Mario, soffiandosi il naso, per tappare una risata insolentissima.

- E tu, quando ritorni da tuo zio?

- Ci ritorno subito: appena che esco di qui. Intanto gli porterò la tua lettera e gli farò le tue scuse.

- Se mi aspetti due minuti, possiamo fare un pezzo di strada insieme.

- Ho fretta.

- Due minuti soli.

- Ti prego dunque di far presto.

- Il tempo che ci vuole, per cambiarmi questo soprabito, che comincia a essere un po’ troppo grave per la stagione.

E Federigo uscì dalla sala.

- Ditemi, Mario, e vostro zio si trattiene molto? - domandò Clarenza, tanto per dir qualche cosa, e per dissimular la sua stizza per la Norina, che si ostinava a non volersene andare.

- Mio zio parte stasera col treno delle otto e mezzo per San Giusto.

- Senti!

- E, probabilmente, io gli terrò compagnia.

- Partite anche voi?.. - chiese Clarenza, strascicando la voce con un po’ di canzonatura.

- Non è punto difficile.

- E quando sarete di ritorno?

- Chi lo sa. Non lo so nemmeno io. Dipende tutto da una risposta, che aspetto... - disse, guardando negli occhi la graziosa moglie di Federigo, quindi soggiunse subito, per non dar tempo alla Norina di fantasticare:

- E queste due belle signore vanno poi stasera al teatro?

- Sì - rispose la Norina. - Aspettiamo giusto il signor Valerio, il quale ha promesso di accompagnarci.

- C’è una bella commedia?

- Non lo so davvero: io vado al teatro, per andare al teatro.

- E io vado al teatro per non restare in casa - soggiunse Clarenza, accentando leggermente le ultime parole.

- Scommetto che avete un po’ di paura a restar sola in casa? - domandò il conte, sorridendo con intenzione.

- L’avete indovinata! Ho paura della noia. Tre ore di solitudine sono troppo lunghe. Che ora avete, Mario?

- Le otto vicine.

- Se indugiate un altro poco, perderete il treno, e non potrete più accompagnare vostro zio.

- Aspetto quel benedetto uomo di Federigo... Oh! Ma c’è tutto il tempo necessario: il treno dovrebbe passare alle otto e mezzo, e ritarda sempre nove o dieci minuti...Scusate, signora Clarenza: e perché ridete?

- Rido a vedervi dire le bugie con tanta serietà.

- Cioè?

- Per vostra regola, voi stasera non partite!

- Vi giuro che parto. L’ho promesso a mio zio. E perché, scusatemi, dovrei dirvi una cosa per un’altra?..

- O San Giusto! - continuò a dire Clarenza, ridendo sguaiatamente di un riso forzato. - Guarda, per l’appunto!... E che cosa andate a fare a San Giusto?..

- Ho là qualche piccolo affaretto.

- Non è vero.

- Scusate Clarenza: ma perché mi date una mentita?

- Io non vi do nessuna mentita: vi dico semplicemente che non è vero! - replicò Clarenza, che, senza avvedersene, era diventata seria e quasi dispettosa.

- Il signor Leonetto! - disse il giornalista, affacciandosi in sala, e annunziando se medesimo.

- Oh! che miracolo è questo? - domandò la Norina, facendogli segno di venire innanzi.

- Scusatemi, mie belle signore, se vi disturbo: Federigo è uscito?

- Federigo sarà qui fra minuti - rispose Clarenza.

- Ho bisogno di vederlo per una certa cosa... d’urgenza... Intanto profitterò dell’occasione per stringergli la mano e per dargli il mi-rallegro.

- Come l’avete saputo?

- La Bettina mi ha detto tutto. Anzi, se vi contentate, vorrei fargli una specie di sorpresa... Vorrei annunziare la sua nomina nel giornale di domani.

E nel dir così trasse di tasca una matita e un pezzetto di carta; e, dopo avere scritto pochi versi, si voltò alla padrona di casa, dicendole:

- Scusate, signora Clarenza: vi dispiacerebbe di mandare il vostro Francesco alla stamperia del giornale con questo piccolo avviso? -

- Figuratevi!...

E Clarenza chiamò la Bettina, e le dié il biglietto, con ordine premuroso di farlo portar subito da Francesco alla stamperia del «Giornale della Provincia».

- Son pronto! - disse Federigo, entrando in sala, tutto vestito, in abito nero, cravatta bianca, guanti perlati e paletot chiaro sul braccio.

- Bene! bene! - gridò Mario ridendo - dunque ti sei pentito? vieni anche tu dal ministro?

- E perché?..

- Me lo figuro! ti vedo in abito di visita officiale!...

- Officiale?.. tutt’altro che officiale! Mi son cambiato vestito, perché con quell’altro scoppiavo dal caldo.

- Dunque, vieni o non vieni?

- Impossibile, credilo, impossibile! Chiedimi piuttosto un bicchier del mio sangue, e non ti dico di no... ma dal ministro...

- Ebbene, non se ne parli più: dunque io posso andarmene?

- Se mi aspetti, si fa la strada insieme e ti accompagno fin là.

- Fino a dove?

- Fino alla Locanda Maggiore. Per me, è tutta strada.

- Siamo giusti! Quando hai fatto tanto di arrivar lì, puoi anche salire le scale - disse Clarenza.

- Non salgo! quando ho detto che non salgo, non salgo. Tutt’al più, posso aspettarti giù abbasso, nella stanza del burò.

- E se il ministro, per caso, viene a sapere che sei giù ad aspettarmi...

- Oh! insomma: non salgo. Ti accompagno, ti aspetto, ma... ma non salirò mai le scale del potere.

Federigo, credendo di aver detto una bella cosa, si accarezzò il mento, con visibile compiacenza.

- Dunque, Federigo, ti si può stringere la mano? - domandò Leonetto, facendosi avanti.

- Caro mio. è un tegolo che mi è cascato all’improvviso sulla testa. Io ti giuro che non ne sapevo nulla! proprio il gran nulla!...

- Vedrai annunziata la tua nomina nel giornale di domani! - soggiunse il giornalista, per dirgli subito una cosa gradita.

- Hai fatto malissimo.

- Davvero?

- Avrei desiderato che di questa cosa se ne facesse un segreto! Non ti nascondo che mi hai dato un vero dispiacere!...

- Quand’è così, si fa presto a rimediarci... - disse Leonetto, avviandosi in fretta, per uscir dalla sala.

- E ora dove scappi? - gli domandò Federigo, trattenendolo per un braccio.

- Corro alla stamperia, a far sospendere l’annunzio. Siamo sempre in tempo.

- Oramai lascia andare - soggiunse il marito di Clarenza. - Poco bene e poco male: tanto si tratta del giornale della provincia. È un giornale che non lo legge nessuno.

- Il biglietto è già alla stamperia - disse Francesco, presentandosi sulla porta, con una sacca da viaggio in mano. - Dica signor Mario, questa sacca dove la devo portare?

- Alla stazione: e lasciala in consegna al signor Pietrino.

- È deciso davvero! - bisbigliò sottovoce Clarenza, mordendosi per la bizza il labbro di sotto.

- Dunque, mie belle signore, avete comandi da darmi per San Giusto? - disse il conte, con grazia e con moltissima indifferenza.

- Grazie, Mario - rispose la Norina.

- Allora buona notte e buon divertimento...

- E a rivederci a quando? - domandò Clarenza, ingegnandosi di far la disinvolta.

- Chi lo sa!... forse domani e forse fra una settimana.

Clarenza, che si era alzata in piedi, si avvicinò al conte, e cogliendo un momento che tutti gli altri parlavano fra loro, gli domandò pianissimo, ma con accento vibrato:

- Partite davvero?..

- Andate proprio al teatro? - sussurrò Mario, dando alla moglie di Federigo un’occhiata significantissima.

- Sbrighiamoci Mario - gridò Federigo, voltandosi a un tratto. - Ho fatto tardi; e gli scacchi mi aspettano.

E il conte e Federigo si congedarono in fretta e se ne andarono.

Norina si affacciò sulla porta, per accertarsi se Mario era proprio uscito; quindi uscì anche lei, dicendo alla sorella:

- Io vado, intanto, di là a prendere la mantiglia e il cappuccio: e tu?

- La mia toelette è bell’e fatta - disse Clarenza, guardandosi nello specchio. - Per quel teatro lì, è anche troppo lusso!...

Appena Leonetto rimase solo con la moglie di Federigo, prese una certa aria di collegiale vergognoso: e, quasi avesse avuto bisogno di cercare le parole adatte, per incominciare, balbettò confusamente...

- Ditemi... signora Clarenza, vorreste mettere una buona parola per me con vostro marito?

- Figuratevi; - rispose l’altra. - Con tutto il piacere. E di che si tratta?..

- Ecco di che si tratta… voi sapete dicerto... o anche se per caso non lo sapete, ve lo dico io, che c’è vacante il posto di direttrice nell’Istituto Azeglio... Vostro marito, come uno dei principali sovventori di quell’Istituto, ha molta voce in capitolo... Vorreste raccomandargli per quel posto una persona di mia conoscenza?..

- Di Vostra conoscenza? - replicò Clarenza, guardando il giornalista con una specie di curiosità maligna.

- Di mia conoscenza - soggiunse Leonetto seriamente - e che... m’interessa moltissimo!...

- Forse una vostra parente?

- Qualche cosa di più!

- Di più?.. e questa persona sarebbe?..

- La signorina Armanda, quella stessa della quale abbiamo parlato insieme qualche tempo fa.

- Ah! signor Leonetto! - disse Clarenza, alzandosi in piedi e coll’accento della persona offesa. - Dico la verità: mi fa meraviglia che possiate raccomandarmi per un impiego tanto delicato una persona... di quel genere!

- Domando scusa! - riprese il giornalista, che era diventato rosso come una ciliegia (bel fatto per un giornalista!). - Vi giuro, sull’onor mio, che quella giovine...

- E perché volete sciupare il tempo a giurare? Non vi rammentate che mi avete detto voi stesso, capite bene, voi stesso, che quella signorina girava per il mondo, facendosi chiamare provvisoriamente Armanda. Tocca forse a me a dirvi a qual famiglia appartengono le donne...senza domicilio fisso, e che cambiano di nome come di pettinatura?

- Signora Clarenza, avete ragione: - disse Leonetto confuso e mortificato. - Ma se io vi rispondessi che quel giorno, parlando con tanta leggerezza di Armanda, credevo di essere un giovane di spirito, mentre dopo mi son dovuto persuadere che non ero altro che un imbecille e un volgarissimo calunniatore?

- Non c’è dubbio - osservò Clarenza con grazia: - è una ritrattazione spontanea e fatta lealmente... ma ha un piccolo difetto...

- Quale?

- Giunge un pochino tardi.

- Non ho altro da aggiungere! - disse il giornalista, alzandosi in atto di volersi congedare.

- Sentite, Leonetto: non fuggite; ho anche io bisogno di chiedervi un favore.

- Son qua.

- Parlatene direttamente con mio marito di questa...persona... che v’interessa tanto; ma dispensatemi me dal metterci bocca.

- Ebbene, signora Clarenza - disse Leonetto con accento franco e risoluto - la mia delicatezza non mi permette di lasciarvi sotto la triste impressione che io abbia voluto abusare della vostra buona fede e della vostra squisita cortesia.

- Abusare?.. no davvero.

- A giustificazione della raccomandazione che vi ho fatto, sento il bisogno assoluto di confidarvi una cosa, che finora è un segreto per tutti. Fra qualche giorno Armanda porterà il mio nome!

- Come?.. voi?..

- È così, signora Clarenza...

- In questo caso, amor mio, sono mortificatissima di aver detto qualche parola forse un po’... acerba, ma spero vorrete convenir meco che la colpa, in fin dei conti, non è tutta mia.

- Ve lo ripeto: avete mille ragioni. Io sono stato un gran ragazzo: e oggi pago il fio della mia leggerezza...

- Consolatevi, Leonetto! - disse Clarenza sorridendo e stendendogli la mano - non siete il solo! Ne ho conosciuti degli altri, che hanno finito collo sposare la donna, della quale si erano lavati la bocca.

- E questo signor Valerio non si è veduto ancora? - domandò la Norina, entrando in sala, colla mantiglia sul braccio.

- Eccomi qua - disse Valerio presentandosi sulla porta di fondo. - Vi ho fatto forse aspettare?

- No davvero. Anzi possiamo trattenerci un altro poco. Quanto a me, non mi è piaciuto mai di arrivare in teatro, all’alzata del sipario. Sì, par di quella gentuccia, che va al teatro, proprio per lo spettacolo, non è vero?... E tu, Clarenza, che cosa fai che non mandi a prendere intanto la tua roba?

- Oramai non vengo più - rispose la moglie di Federigo, facendo l’annoiata, e appoggiandosi con stanchezza il capo alla spalliera della sedia. - Per questa sera, rimango in casa.

- Rimani in casa? - replicò vivacemente la sorella.

- Mi par fatica a uscire!... eppoi a dirti la verità, io sono come Valerio: mi diverto moltissimo alla musica: ma la prosa... oh! Dio!... la prosa!...

- Per me, - disse Valerio, - la prosa è sempre prosa.

- Anche quand’è in poesia! - soggiunse ridendo la moglie di Federigo.

La Norina era rimasta incantata: pensava a qualche cosa con una fissazione insolita in lei. Quando si riscosse, mormorò fra i denti: L’affare si fa serio... e di molto!...Speriamo che la mia lettera sia giunta in tempo! E se no, pazienza! Sono cose di questo mondo.

Quindi, data una scrollatina di spalle, riprese la sua solita spensieratezza e il suo solito buon umore, e rivoltasi verso il giornalista, gli domandò ridendo:

- E così, Leonetto, come funziona quel famoso vecchio termometro?..

Il giornalista voleva fare l’astratto, l’uomo assorto in gravi pensieri, ma la Norina, con una sbadataggine infantile e petulante, insisté:

- E quei poveri capelli? Sono rimasti sempre a trentanove e mezzo, oppure in questo tempo han figliato? La sapete, Valerio, la storia dei trentanove capelli e del vecchio termometro? - (e qui una grandissima risata).

- Basta, basta, Norina - disse Clarenza, impietosita dalle ineffabili torture, che pativa il povero Leonetto. - Come sei prolissa! quando cominci, non la finisci più!

In questo mentre, la Bettina entrò tutta frettolosa in sala, annunziando:

- La signora contessa Emilia.

Quadro di stupore e di sorpresa universale!

Dopo tutti i baci e tutti gli abbracci, che si scambiano in simili circostanze, tutte le donne che si vogliono bene e quelle che non si possono soffrire fra loro, Clarenza, per la prima, gridò, tenendo l’amica per tutte e due le mani.

- Ma questa è una carissima improvvisata!

- E Mario dov’è? - domandò l’Emilia.

- Mario per questa sera non lo potrai vedere! - soggiunse la Norina, tutta contenta che la sua lettera fosse arrivata in tempo.

- E perché non lo posso vedere?

- Perché partiva col treno delle otto e mezzo per San Giusto. Accompagnava il ministro.

- Lo zio dunque è stato qui?

- Si è trattenuto poche ore.

- L’avrei veduto tanto volentieri. E Federigo?.. Quella perla d’uomo di tuo marito? - disse volgendosi a Clarenza.

- Sta benissimo: ma anche lui è fuori. A quest’ora sarà in casa Appiani a fare la sua solita partita a scacchi fino a mezzanotte.

- Scommetto, Clarenza, che tu non mi aspettavi... stasera?...

- Io no!... - rispose l’altra, un po’ sconcertata dalle occhiate indagatrici e penetranti, colle quali la saettava la moglie di Mario. - Stasera non ti aspettavo... ma però sapevo che saresti stata qui fra due o tre giorni al più lungo.

- È vero!... ho voluto anticipare la mia gita di qualche ora... e ti dirò perché. È stato un capriccio... m’ero messa nell’idea di arrivare qui all’improvviso, senza che nessuno ne sapesse nulla... e specialmente Mario...

- Una sorpresa?

- Precisamente.

Così dicendo, l’Emilia prese per la mano le due amiche, e dopo averle condotte con molta disinvoltura verso il pianoforte, situato in un angolo della sala, disse loro pianissimo, e con un certo garbo comico della fisonomia:

- Con voi non ho misteri, e posso anche dirvi il motivo di questa bizzarra risoluzione. Pochi giorni addietro ho ricevuto per la posta una lettera, che veniva di qui...una lettera anonima e curiosissima...

- La mia lettera! - bisbigliò dentro di sé la Norina.. Ero certissima che avrebbe fatto il suo effetto.

- Comincerò dal dirvi che la lettera era firmata Folletto. -. e che, fra le altre cose, era piena di spropositi d’ortografia!...

- Sguaiata! - mormorò la sorella di Clarenza: poi aggiunse forte: - Bada veh! che forse saranno stati spropositi fatti apposta... per nascondere la mano della persona che scriveva.

- No, no - replicò vivacemente la contessa - ti assicuro che erano spropositi spontanei, legittimi, cascati giù dalla penna con tutta naturalezza. Ma questo importa poco. Io so benissimo il conto che si dovrebbe fare delle lettere anonime: ma bisognerebbe aver la forza di poterle strappare prima di leggerle. Una volta lette, è finita: ti paiono più vere delle lettere vere. Il fatto sta che Folletto si diverte a darmi dei ragguagli curiosi... molto curiosi sulla vita, che mio marito conduce qui -. (E l’Emilia, con una volubilità prodigiosa, fissava gli occhi in viso ora alla Clarenza, ora alla Norina: ma particolarmente poi alla Clarenza). - La lettera, chi lo sa perché, è scritta tutta in un linguaggio bizzarro; come quello delle favole del Clasio e del Pignotti. Figuratevi, per darvene un’idea, che parla d’un certo farfallone che per ingannare la solitudine e il mal umore si è messo a far la corte e a svolazzare intorno a un fiore: beninteso, dice Folletto, intorno a un fiore di giardino chiuso. Il farfallone e il fiore stanno vicinissimi di casa: quasi, sotto il medesimo tetto... Il fiore, per ora, ha resistito a tutte le tentazioni: ma se la sua virtù lo abbandonasse? Venite subito qua, conclude l’autore della lettera; la vostra presenza metterà giudizio alla farfalla: e così salverete l’onore del fiore e la tranquillità di quel buon uomo del giardiniere... Anzi mi ricordo benissimo, che, invece di giardiniere, c’è scritto gardinere, senza l’i.

- Gardinere? - ripeté la Norina impermalita. - Mi pare impossibile!

- Cioè?

- Voglio dire - soggiunse, ripigliandosi in tempo - mi pare impossibile che il signor Folletto non sappia che c’è bisogno dell’i per scrivere giardiniere. Sono i primi principii della lingua italiana, che sappiamo tutti a memoria come l’Avemmaria.

- Sia favola o storia? - domandò l’Emilia, senza perder d’occhio la fisonomia delle due sorelle. - che cosa ne dici, Clarenza?..

- Per me è tutta una favola - rispose la moglie di Federigo, studiandosi di dissimulare l’agitazione che aveva addosso. - Ma, bada! potrebbe anche darsi che ci fosse un po’ di storia.

- Nessuna di voi si è accorta mai di nulla?..

- Di nulla! proprio di nulla! - replicarono all’unisono le due sorelle.

- La credo una favola anch’io! - continuò a dire la contessa. - Più ci penso, e più mi pare impossibile che Mario potesse esser capace... specialmente ora... in questo momento...

- Per codesto, cara mia, io credo gli uomini capaci di qualunque cosa... fuori che d’una buona azione! - disse Clarenza con l’accento della bizza mal repressa.

- Con tutti i vostri discorsi, mi fate far la mezzanotte in casa! - soggiunse la Norina, contentissima di poter interrompere una conversazione, che minacciava di diventar pericolosa. - Io vado al teatro. Vuoi venire anche tu? - domandò all’Emilia.

- In quest’arnese da viaggio?

- Stai benissimo.

- Ebbene, verrò al teatro anch’io. Così la serata passerà più presto.

- Addio a poi, Clarenza! - disse la Norina, mettendosi la mantiglia sulle spalle.

- Come! tu rimani in casa? - chiese la contessa con un accento di curiosità singolarissima.

- Sì rimango in casa. Non mi sento benissimo.

- Ti senti male? Oh povera Clarenza! In questo caso, non vado al teatro neanch’io! Voglio restare a farti un po’ di compagnia.

- Ti prego, Emilia, non far complimenti con me!

- Ti dico che non vado!

- Bada, ti annoierai. Debbo avvertirti che quando mi prende questo maledettissimo dolor di capo, ho bisogno di dormire almeno un par d’ore.

- Dormi pure. Dormirò anch’io! Ne ho tanto bisogno. Figurati che mi sono alzata alle otto!...

- Fai come credi!...

- Eppoi... te ne voglio dire un’altra: qui, nel cuore, ho un presentimento curioso! Lo so da me che è una scioccheria, una cosa senza senso comune... ma pure mi son messa in capo che Mario... debba tornare a casa da un momento all’altro.

- Se ti dico che è partito!...

- Avrà detto di partire... ma poi è così sfatato!... Chi ti dice a te che non abbia fatto tardi?

- Dov’è, dov’è questa signora Emilia? - gridò Federigo, entrando in sala e andando a stringere la mano alla contessa.

- Come avete saputo del mio arrivo?..

- Quella buona donna della Bettina! Appena sono entrato in casa, la Bettina mi ha detto: sa, cavaliere, chi è arrivato?

- Cavaliere!... - domandò l’Emilia in atto di rallegrarsi.

- Per carità, contessa, chiamatemi Federigo, come mi avete chiamato finora! o ci guastiamo. Peccato del resto che siate arrivata un po’ tardi.

- Tardi?.. e perché? io spero, invece, di essere arrivata in tempo... almeno non voglio perder quest’illusione! - soggiunse l’altra con quel fare sbadato della persona che parla a caso: e nello stesso tempo lanciò alla Clarenza un’occhiata rapidissima, che parve uno di quei baleni di luce, prodotti da un piccolo specchio agitato sotto uno spiraglio di sole.

- Un’ora più presto - continuò Federigo - e avreste trovato Mario in casa. Ormai per questa sera ci vuol pazienza.

- E quando ha detto di tornare?..

- Forse, domani, col treno di mezzogiorno.

- È proprio partito?

- L’ho accompagnato io fino alla stazione: o per dir meglio, li ho accompagnati tutti e due, lui e il ministro.

- E avete aspettato che il treno partisse?

- No!

- Allora, ho sempre una speranza!

- Avrei aspettato volentieri, ma quel benedetto uomo di Mario ha cominciato a dire che l’aria era rinfrescata, e che io avrei fatto bene a venir subito a casa a mutarmi di vestito.

- È così pieno d’attenzioni mio marito, alle volte!

- A proposito di attenzioni, sapete che il vostro Mario mi ha fatto stasera una di quelle birichinate, che me ne ricorderò per tutta la vita!

- Che cosa vi ha fatto?

- Sentite, e giudicate voi se non passa quasi il limite dello scherzo. Appena uscito di casa, un’ora fa, siamo andati alla Locanda Maggiore, dove era albergato il ministro. Premetto che io gli aveva dichiarato anticipatamente che in nessun modo volevo esser presentato a Sua Eccellenza. Avevo le mie ragioni per serbare questo contegno e basta. È tutta una questione di principii, e coi principii non si scherza! Giunti che siamo alla locanda dico a Mario. «Vai pur tu, e fai tutto il tuo comodo: io ti aspetto qui fuori, passeggiando e pigliando una boccata d’aria.». Dopo pochi minuti, che ero lì sulla porta dell’albergo, eccoti che scende le scale un giovine, pulitamente vestito, il quale, presentandosi a me e titubando, mi dice: «Scusi: è il cavaliere Fabiani?». «Per ubbidirla» rispondo io. «Cavaliere! il signor ministro la prega di salire un momento da lui». «Grazie... non posso davvero... eppoi in questo abito». «Io la prego, cavaliere, da parte di Sua Eccellenza». «Un’altra volta... stasera è impossibile». Insomma, cavaliere di qui, cavaliere di là, cavaliere di sotto, cavaliere di sopra, ho dovuto arrendermi, e ho finito col rassegnarmi a salire le scale della Locanda Maggiore. Quelle scale saranno sempre il più gran rimorso della mia vita!

- Se indugiamo dell’altro - disse la Norina, alzando la voce - vedo bene che arriveremo a commedia finita.

- Io son pronto - replicò Valerio, infilandosi i guanti.

- E voi, Leonetto, ci accompagnate? - domandò la sorella di Clarenza.

- Sarei venuto volentierissimo anch’io: ma per l’appunto sono impegnato. Bisogna che fra un quarto d’ora mi trovi al municipio.

- Qualche matrimonio forse? - domandò Federigo.

- Precisamente - rispose il giornalista. - Sono testimonio alle nozze del marchesino di Santa Teodora con miss Edwige Clarence, la figlia del console americano.

- Stasera?.. proprio stasera? - chiese la Norina con una vivacità appassionata, che non seppe dissimulare.

- Fra una mezz’ora - replicò Leonetto.

- Sia ringraziato il cielo! - sclamò la furba vedovella, mutando istantaneamente di fisonomia, e diventando tutta tranquilla e sorridente. - Sia ringraziato il cielo! e ora ditemi un poco, signor Valerio, vi pare che le vostre paure fossero ragionate?

- Compatitemi, cara mia, sapete bene che chi ama, teme.

Intanto nelle stanze d’ingresso si udì una voce d’uomo, e un rumore di passi.

- Possibile! - gridò Federigo - ma se non sbaglio, questa è tutta la voce di Mario.

- Finalmente!... - disse il conte precipitandosi in sala, e correndo ad abbracciare sua moglie: - Questa è stata proprio una combinazione fortunata!... Pareva proprio che il cuore me lo dicesse!...

- E io che, a quest’ora, ti credevo già arrivato a San Giusto!...

- Debbo ringraziare il caso: il caso, stasera, è stato il mio angelo tutelare: figurati che mio zio ed io eravamo già entrati in vagone: la macchina soffiava: il treno stava per partire: quand’io mi accorgo, a un tratto, di aver dimenticata la sacca da viaggio nel caffè della stazione. Salto in terra, e corro verso il caffè... la sacca era sparita. «Chi ha preso la mia sacca?». «L’ho consegnata ad una guardia» risponde il caffettiere. «E dove me l’avrà portata?». «Forse nella stanza del capostazione». E via di corsa nell’ufficio del capostazione. L’ufficio era chiuso. Busso, chiamo, bestemmio... finalmente... la porta si apre... prendo la sacca... e torno in cerca del vagone... ma in quel momento la macchina fischia, il treno si muove... e io...

- E tu, com’è naturale, corri subito a casa, sapendo che qui ti aspettava... tua moglie...

- Non lo sapevo, di certo, ma ti giuro che me l’ero figurato - replicò Mario con quella naturalezza che acquista l’uomo quando ha imparato a dire la bugia collo stesso candore della verità.

- E ora che cosa facciamo? - domandò Federigo, consigliandosi colla conversazione sul modo migliore di passare il rimanente della serata.

- Propongo una cosa - disse Clarenza: - andiamo tutti al teatro.

- Io non ci vengo davvero - rispose la Norina con aria svogliata. - Oramai è tardi!

- C’era forse qualche commedia nuova? - domandò l’Emilia.

- Nuova? Non lo so. Ho visto sui giornali che stasera recitavano i Ragazzi grandi.

- Allora ho capito - disse Leonetto, sorridendo - è una commedia vecchissima, ma diverte sempre.


Il giorno dopo, il conte Mario e sua moglie, dovevano partire, giusta il loro fissato, per un lungo viaggio (un viaggio almeno di un anno, così dicevano i patti della riconciliazione) attraverso ai principali paesi della Germania.

Ma la contessa, per buona fortuna, fece osservare che era di venerdì: e le persone prudenti debbono scansare di mettersi in viaggio, nel giorno più funesto di tutta la settimana!

Concordi su questo punto, i due coniugi, invece di prendere il volo per Vienna, stimarono ben fatto di tornare per qualche giorno in famiglia - e la sera stessa partirono alla volta di Genova.

Il cerimoniale degli addii fu cordialissimo - e qualche volta commoventissimo.

La Clarenza, colto un frattempo, disse piano al conte, ridendo tutta contenta: - Povero Mario?... vi ho dato una bella lezione!...

- A me?

- Voglio sperare che non ve ne sarete avuto a male.

E potrete credere, Clarenza, che sarei stato capace?.. Ah! no, mille volte! la mia adorazione per voi aveva un limite sacro, inviolabile... l’amicizia per Federigo!

E Clarenza e il conte, in quel momento, parlavano in buona fede e credevano tutti e due di dire la verità.

Valerio com’era facile a prevedersi, finì collo sposare la Norina... per più motivi, e specialmente per far vedere che era un uomo di carattere serio, e non già un ragazzo - mentre la Norina, dal canto suo, si compiaceva di raccontare alle amiche intime (e tutte le amiche diventano amiche intime per una donna che ha bisogno di far sapere un segreto), si compiaceva, dunque, a raccontare che se avesse voluto, avrebbe potuto sposare il marchesino di Santa Teodora; ma che, invece, per dar retta al cuore, si era sacrificata (sic) e aveva fatto un matrimonio d’inclinazione.

Leonetto, il giornalista, innamorato fino agli occhi di Armanda - forse appunto perché dapprincipio ne aveva detto moltissimo male - l’avrebbe sposata anche subito - ma non osava farlo, per paura della marchesa Ortensia.

Per buona sorte la Provvidenza (si vede proprio che c’è una provvidenza anche per quelli che pigliano moglie), si recò a visitare la marchesa, sotto la forma di una bronchite acuta: e il giornalista, profittando della favorevole occasione, condusse dinanzi al sindaco quella fanciulla adorata, che il cielo manifestamente aveva creata apposta per lui.

Quando la notizia si divulgò per il paese, la Sorbelli, ch’era già in via di guarigione, dissimulò con disinvoltura il proprio risentimento. Il marchese, invece, andò su tutte le furie. Il pover’uomo non sapeva capacitarsi, come mai un amico suo di casa, come Leonetto, avesse potuto meditare e concludere un matrimonio, senza dirne prima una mezza parola almeno alla marchesa - alla marchesa che aveva fatto tanto per lui!

Dopo nove mesi, Armanda dié alla luce una bambina - alla quale Leonetto volle per forza che fosse imposto al fonte battesimale il nome di Ortensia.

La cosa dispiacque vivamente alla giovine madre: ma fece piacere alla Sorbelli, la quale, appena riseppe quest’episodio intimo di famiglia, dismesse il suo contegno fin’allora freddo e riservatissimo, e andò a far visita alla puerpera, parlandole per mezz’ora dei grandi pensieri della maternità e prognosticando da certi segni particolari, che la bambina, fatta grande, avrebbe avuto degli occhi bellissimi e una quantità di capelli straordinaria - come suo padre!

Da quel giorno in poi, Leonetto e la marchesa Ortensia ritornarono buonissimi amici, come prima; e quel galantuomo del marchese, riacquistata un po’ di tranquillità in casa, e detto addio alla politica (il paese non era ancora maturo per lui), si dedicò interamente allo studio del filugello, proponendosi di sciogliere il problema, se durante la malattia del seme, si potesse ottenere dal baco da seta almeno del cotone di primissima qualità!

Quanto alla Clarenza e all’Emilia, la commedia durò per quasi un anno: si scrivevano di tanto in tanto; si baciavano per lettera - ma, in sostanza, fra di loro non si potevano soffrire.

Venne finalmente un bel giorno, in cui la moglie di Federigo cessò improvvisamente ogni relazione e ogni corrispondenza amichevole colla contessa - e la ragione, a quanto pare, fu questa.

La Clarenza era venuta a sapere che Giorgio - quel Giorgio delle bagnature e dell’amor platonico coll’Emilia - per un seguito di combinazioni (tutte combinazioni, l’una meno combinazione dell’altra) aveva nuovamente riattaccato il cappello in casa di Mario.

Questo fatto, la stomacò (sono sue parole testuali); tant’è vero che parlandone a quattr’occhi con suo marito, era solita dire facendo colla bocca un atto di disgusto ineffabile: - Non mi fa meraviglia dell’Emilia, l’Emilia oramai è... quel che è! Chi davvero mi sorprende, è Mario!... E io che lo credevo un uomo d’onore!... Che roba!... che roba!...

Accadde in questo tempo che, una sera, Mario, arrivando da Genova, andò tutto pallido e trasfigurato a bussare alla casa dell’amico Fabiani.

Cos’è, cosa non è, alla fine Federigo poté capire che il conte, avendo giuocato pazzamente alla Borsa, si trovava dinanzi a un pauroso dilemma (pauroso, s’intende bene, in modo molto relativo!) vale a dire, o pagare - o far la figura del giuocatore onorato... che non paga i suoi debiti di giuoco!...

Federigo, che per date e fatto di Mario, si era trovato nominato cavaliere - poi sindaco - e che, per l’assistenza del medesimo santo, si sentiva già in odore di grand’ufficiale o di commendatore, proclamò il gran principio, che «l’amico all’occorrenza, deve sacrificarsi per l’amico», e il giorno dopo, col portafoglio pieno di fogli di Banca, partì per Genova, dicendo al conte: «Aspettami qui; al mio ritorno, ti dirò tutto, e aggiusteremo ogni cosa fra noi due!».

La consolazione di Mario, in quel momento, fu tanta e tale, che non potendo resistere a un impulso del cuore, gettò le braccia intorno al collo dell’amico, e lo baciò ripetutamente, bagnandogli le gote con qualche lacrima di profonda e incancellabile riconoscenza.

Federigo credeva di trattenersi a Genova un giorno o due, tutt’al più; invece si trattenne quattro. Quando ritornò a casa, la prima cosa che disse a Mario fu questa:

- Tutto è accomodato!. - ed era allegrissimo e soddisfatto, come se si fosse trattato di cosa sua.

Il conte, forzato da circostanze imperiose, dové partire la sera stessa.

Nell’atto di congedarsi e di uscir fuori dalla porta di casa, la Clarenza gli sussurrò, con un certo accento di voce e con una certa guardata d’occhi, che davano molto da pensare: - Appena arrivato, rammentati di scrivermi subito!...

Federigo, che per prudenza doveva essere un poco più distante, e che invece, per una inavvertenza imperdonabile, si trovava molto vicino, intese quelle parole, o almeno gli parve d’intenderle; - il fatto sta che, ripensandoci su, non poté chiudere un occhio in tutta la notte!

Meno male che la sera dopo andò a letto alle dieci, e si svegliò la mattina seguente a mezzogiorno preciso!

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