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Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
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Nella Ifigenia in Aulide abbiamo veduta la figliuola di Agamennone salvata da Artèmide proprio nel momento in cui stava per cadere sotto il colpo del sacrificio.
Nella Ifigenia in Tauride vediamo che la Dea l’ha trasportata in Tauride, ed eletta sacerdotessa del suo tempio, dove, secondo il barbaro costume di quella terra, deve presiedere al sacrificio di tutti gli stranieri che vi approdano. Vi giunge anche il suo fratello Oreste, si riconoscono, deliberano di tornare insieme alla patria, e, tesa una trama, e tratto in inganno il re Toante, riescono a fuggire, portando con sé il simulacro della Dea.
Questo medesimo intreccio informa l’Elena, Menelao al posto d’Oreste, Elena a quello d’Ifigenia, Teoclimeno re d’Egitto a quello di Toante. Salvo che Teoclimeno è innamorato d’Elena.
E, anche una volta, il medesimo argomento è svolto nella farsa ellenistica scoperta una ventina d’anni fa ad Oxyrhynchos1. Credo d’essere stato il primo a rilevare la somiglianza tra questa farsa e l’Ifigenia in Tauride. Ma crederla, col Christ, e in genere, coi critici, una parodia non mi sembra esatto. Il principale, ineliminabile elemento della parodia è la conservazione del nome degli eroi messi in burletta. E invece l’eroina della farsa si chiama Caritione (Graziosa). E, inoltre, il padre suo è vivo e verde. Dove se ne andrebbe la parodia dell’Ifigenia di Euripide?
E allora sarà forse da stabilire un rapporto inverso. Nel teatro popolare, che, anch'esso ricco, a suo modo, di tipi e di soggetti, girava, coi suoi comici vagabondi, per tutto il mondo antico, dové essere popolare questo intreccio romanzesco. E dal teatro popolare poté desumerlo Euripide, sempre in cerca della varietà e della novità.
Ma perché il drammetto popolare potesse assurgere agli onori della scena di Diòniso, altro occorreva. Occorreva che esso inquartasse col mito il suo stemma di povera nobiltà campagnuola. E cosí, alla principessa della favola, senza nome né carattere distinto, Euripide sostituisce Ifigenia la nobilissima figlia d'Agamennone, che, secondo una tradizione divenuta oramai canonica, e cantata nelle Ciprie, era stata trasportata in Tauride, e resa immortale da Artèmide.
Ecco dunque divenuta greca una favola d'origine probabilmente orientale e che, in ogni modo, era patrimonio comune a tutte le genti dall'antica civiltà. Se non che, Ifigenia era specificamente argiva, micenaica. Onde Euripide fa ancora un passo per legare piú strettamente alla propria città il mito già cosí contaminato di classico e di romanzesco.
A Braurone, nell'Attica, esisteva un vecchio tempio, del quale Ifigenia sarebbe stata la prima sacerdotessa. E presso a Braurone, borgo di Halai, si vantava di possedere un prezioso simulacro d'Artèmide, che si diceva piombato dal cielo nella Tauride, e di lí trasportato in Attica.
Erano preziosi addentellati, ed Euripide non se li lasciò sfuggire. E immaginò che l’idolo fosse stato portato appunto da Ifigenia.
Ma come la fanciulla era tornata in patria? E perché aveva preso con sé l’idolo? Ecco quasi designato l’intervento di Oreste, che prende naturalmente il posto dell’eroe e salvatore, che nel drammetto popolare sarà stato di sicuro innamorato e non già fratello.
Del resto, l’impulso a concepir questo dramma, e alcuni dei colori che poi servirono per la pittura della Tauride poterono essere ispirati al poeta dalle letture di Erodoto, che egli, poco piú che trentenne, avrà certo udite in Atene. «I Tauri, leggiamo anche oggi nel coloritissimo storico, sacrificano ad una vergine i naufraghi e quanti dei Greci giungono per mare alle loro terre. E la dimonia alla quale sacrificano queste vittime dicono che è Ifigenia, la figlia di Agamennone» (IV, 103). C’è, in germe, tutta l’Ifigenia in Tauride.
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Cosí nella tragedia attica, sacra finora ai miti propriamente ellenici — diciamoli classici — , fa il suo ingresso, sia pure di straforo, I’elemento romanzesco, orientale, che poi, attraverso l’elegia, doveva dilagare in tutta la letteratura greca, sino a stemperarla, e, infine, a distruggerla. Qui la prima volta. Poiché le altre due tragedie di Euripide d’argomento romanzesco, l’Elena e lo Ione, sembrano di certo piú recenti. Mancano notizie obiettive. Ma i critici, e, con piú precisione ed acutezza i signori Parmentier e Gregoire2, hanno da tempo messi in rilievo gli indici, e alcuni quasi obiettivi, dai quali sembra si possa raccogliere che l’intreccio dell’Ifigenia in Tauride è stato congegnato prima di quello dell’Elena, e gli ha servito di modello. Cosí, per addurne uno, il motivo della ferocia dei Tauridi, che, nella Ifigenia è pienamente giustificato e suggerito dalla tradizione, nell’Elena appare invece avventizio, e contrario ai dati della leggenda, e straniero al testo d'Erodoto, che sembra sia sostanzialmente l’unica fonte di questo dramma.
E ce n'è poi uno che, secondo me, ha maggior peso di tutti, e che vale non solo di fronte all’Elena, bensí anche di fronte allo Ione. Perché sta di fatto che l’argomento della Ifigenia e quanto mai romanzesco, e lo svolgimento, sinché ci limitiamo ad esporlo, ha, punto per punto, carattere d’intreccio, e d'intreccio ben complicato e condotto. Ma poi, mentre nell’Elena questo intreccio è pienamente e sagacemente sfruttato nella condotta scenica, nella Ifigenia non lo troviamo effettivamente svolto. Sulla scena non si svolge se non il terzetto fra Ifigenia, Oreste e Pilade, nel quale avviene il riconoscimento e si trama l’inganno. Ma tutti gli antefatti e tutte le conseguenze sono semplicemente narrate; ed i riflessi sull’azione ne sono anche assai deboli. Insomma, l’intreccio è piú esposto che non svolto. Onde pare logico concludere che di fronte ad un soggetto ad intreccio, che lo allettava per la sua novità, Euripide si trovasse qui alle sue prime armi, e non sapesse andare molto piú oltre la presentazione d’un tema, che poi riprenderà, altre due volte, con mano tanto piú abile e sicura.
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E non sembri strano se adesso m'ingolfo in un computo numerico. Anche le analisi quantitative, a tempo e luogo, possono riuscire utili. In questo dramma, se escludiamo le parti non propriamente drammatiche (i canti corali, le due narrazioni dei messaggeri, il prologo), che tutte insieme occupano seicentoventitrè versi, rimangono, destinati alla parte piú propriamente drammatica, ottocentosettantasei versi. Di questi ottocentosettantasei, seicentonovantaquattro appartengono al terzetto fra Ifigenia Oreste e Pilade. Sicché, per tutto il resto della materia drammatica rimangono soli centottantadue versi. Anche dalla semplice analisi numerica risulta cosí ben evidente che questo dramma consiste in realtà d’un lunghissimo terzetto fiancheggiato da alcune scene che servono a prepararlo e risolverlo.
E se passiamo all’analisi qualitativa, questa conclusione ne riesce corroborata. Infatti, le poche scene che precedono il terzetto sono di mera preparazione; e quelle che seguono non hanno nessuna reale importanza nel dramma, perché, mentre Toante dà le disposizioni per l’inseguimento dei fuggiaschi, appare Minerva, e gl’impone di desistere, e cosí tronca sul primo nascere quel barlume d’azione che alfine si disegnava nel dramma. E come non c’è azione, cosí non c'è contrasto, perché i tre interlocutori del terzetto sono perfettamente d’accordo, e d’accordo con Ifigenia appare il canzonato Toante.
È bensí vero che nel gran terzetto abbiamo — facciamo pur nostre le parole del Croiset — «sentimenti naturali e commoventi: i rimpianti d’Ifigenia e la sua tenerezza, il coraggio e la forza d’animo d’Oreste, la devozione di Pilade»; ma è altresí vero che al dramma si suol richiedere non già esposizione, bensí incontro urto e lotta di sentimenti e di passioni. E questa Ifigenia, priva di azioni che si svolgano sulla scena, e priva di contrasti, a momenti non ci pare un dramma.
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Il gran terzetto è fiancheggiato dai due racconti dei messaggeri.
E qui abbiamo una gran novità. Non tanto perché i discorsi siano due, quanto perché uno di essi, e il piú importante dal lato artistico (di mole sono pressoché uguali), è posto proprio al principio della tragedia3.
Una gran novità, abbiamo detto. Infatti il racconto dell'araldo, raro in Eschilo (lo troviamo solo ne I Persiani e nell’Agamennone, e in quest'ultimo ha carattere un pò speciale), nel teatro di Sofocle viene determinando la sua forma, il suo ufficio (narrare la catastrofe, che non doveva esser posta sotto gli occhi degli spettatori), e di conseguenza la sua posizione obbligata, dopo la catastrofe, alla fine del dramma.
Ma ancora in parecchi drammi di Sofocle (Aiace, Filottete, Elettra: tre sui sette residui) la narrazione manca. In Euripide, invece, si può dire che è divenuta canonica. Tanto piú dovettero rimaner sorpresi gli spettatori, quando lo videro addirittura al bel principio dell’azione, súbito dopo l’ingresso del coro.
E assai caratteristico e d’elegante simmetria ne riesce il taglio della tragedia: un gran terzetto centrale, fra due pittoresche floride narrazioni. Il resto, le poche scene drammatiche e i bei canti corali, sono come un calice che sostenga quel brillante fiore a tre petali.
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Le mie osservazioni sono volte a caratterizzare e non già a condannare. Certo l’Ifigenia non presenta i caratteri che sogliono rendere prontamente persuasiva un’azione drammatica. Ma, d'altronde, ogni formula che voglia stabilire a priori le leggi del dramma, come di qualsiasi tipo d’arte, è necessariamente erronea. Anche questa concezione d’Euripide è alta e nobile, e tale rimarrebbe anche se nell’esperimento scenico non raggiungesse l’efficacia degli altri suoi drammi. Ma io son convinto che, senza troppo insistere sul grado, la raggiungerebbe, massime per la condotta stupenda del terzetto. Giova riportare le osservazioni finissime con cui il Patin ne rileva il fascino, massime della prima parte. «Ogni parola, egli dice, produce in noi una sorpresa duplice. Oreste è tanto meravigliato delle domande d’Ifigenia quanto Ifigenia delle sue risposte. Un interesse che entrambi partecipano, senza che essi se ne spieghino il perché, li illumina solo a mezzo sul segreto rapporto che li unisce: si vede sollevarsi a grado a grado il velo che li separa; e quando, percorsa la lunga lista di calamità della loro famiglia, giungono a parlare di questa sorella creduta morta, di questo fratello creduto lontano, lo spettatore che li vede, che li ascolta, aspetta con ansia la bene augurata parola che deve rivelare l’uno all’altro».
È proprio cosí. E il drammaturgo che sa tener sospeso l’interesse dello spettatore con una gradazione cosí sapiente, sarà sempre sicuro del successo scenico.
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Color di cíano, color di cíano
del mare i vortici
sono, ove l’estro d’Argo, librandosi
su l'ondulio
del mare inospite, spinse dai termini
d’Europa all'Asia la corsa d’Io.
Tutti concepiti in tale disposizione spirituale, i brani corali formano all’azione un vivagno mirabilmente istoriato. A voler esemplificare, davvero si rimane imbarazzati per l’abbondanza. Saranno, nel primo canto intorno all’ara, le pitture marine che lo imbevono tutto d’una vibrazione azzurra; o, nel secondo, la visione della remota Ellade, tutta intessuta d’elementi ariosi e brillanti: le snelle palme, l’agile alloro, l'ulivo glauco, le acque dello stagno dove naviga il cigno armonioso. O il mirabile ritorno per mare d’Ifigenia nella fantasia delle fanciulle auspicanti:
.......alla patria
d’un legno acheo t’adducono i cinquanta
remi. Il cerato calamo
di Pan montano sufola
l'abbrivo al corso; e canta
il vate Febo, e l’accompagna il sònito
di sua lira, con sette
fila.
. . . . . . . . . . . .
agli aliti dell’ètere,
traggon le vele, gonfie sino a prora,
sul bompresso, le gómene
dell’agil nave che la via divora.
O la danza delle vergini, veramente emula della pittura:
Gara di grazie, e ondanti
chiome, e superbi manti.
Varïopinte ondeggiano
a me d’intorno, mentre il pie’ si slancia,
le belle vesti; e i riccioli
m’ombreggiano la guancia.
Bisognerebbe, dico, riferire, quasi brano per brano, tutta la parte corale. Ad ogni modo, non si può tacere il vaghissimo affresco di Apollo fanciullo che uccide il dragone, e poi va a reclamare da suo padre la esclusività dell’oracolo. Ha proprio la mossa e il calore dell’ispirazione, ed è una delle gemme della poesia mitica corale di Grecia. Prezioso il particolare, che ricorda l’inno omerico ad Ermete, del dolce riso di Giove per la precocità del bambolo, perché esempio forse unico d’umorismo nel teatro d’Euripide, in cui, invece, tanto abbondano l'ironia e l’amaro sarcasmo.
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Anche in questo dramma ha gran parte la musica, che straripa dall’alveo del coro, e si diffonde un po’ in tutte le parti. Il primo canto d’Ifigenia in risposta al coro, benché abbia forma anapestica, è una vera e propria monodia. E in canto sbocca, nel suo punto supremo, il gran terzetto. E spesso la musica travolge nella sua corrente anche parti di nessun contenuto lirico, e perciò essenzialmente non musicabili. Come, per esempio, quando Ifigenia propone a sé stessa il dilemma eminentemente pratico:
La via di terra piú che il naviglio
conviene, o l’impeto forse dei pie’?
Siamo appieno nel contrasto estetico che mortifica cosí profondamente il melodramma moderno, nel quale si vedono musicati anche i minori e i minimi frammenti di entità logica e magari pratica. Su questo punto, la critica d’Aristofane picchiava a ragione.
E si aggiunga che la musica della Ifigenia in Tauride era proprio di quella che dava tanto ai nervi al commediografo. Un po’ perché, come si ricava da alcune espressioni dello stesso coro, era scritta in toni asiatici:
i cantici alterni, |
un po’, perché, a parte il tòno, era ricca di quei melismi che tanto contraddicevano all’austera semplicità della musica dorica. Se nel testo non abbiamo piú visibili tracce di veri e proprii gorgheggi, abbiamo però un frequente numero di parole ripetute: per esempio: ἒ ἔ, ἐν κηδείοις (147), οἵαν οἵαν (150), ὀλόμαν ὀλομαν (153), οἴμοι μοι (154), φεῦ φεῦo (155), ἰὼ ἰὼ δαίμων (156), κυάνεαι κυάνεαι (392), ἔβασαν ἔβασαν (402). Indizi sicurissimi che spesso il canto riusciva a soverchiar la parola.
⁂
Tralascio di enumerare i soliti euripidismi, che il lettore esperto rileverà oramai senza guida.
Voglio solo richiamar l’attenzione su Toante; concepito e presentato in forma di perfetto babbeo, personaggio oramai comico, e non tragico. Da commedia sono, per esempio, le battute:
toante Ben provvedi alla città. ifigenia E agli amici in cui piú fido. toante |
E notevole è l’atteggiamento, che diverrà prediletto in Euripide, di far parlare i personaggi in modo tale che accanto al senso destinato all’interlocutore ce ne sia un altro per il pubblico.
Con molta finezza, poi, il Brumoy4 rileva la parte attiva e brillante assegnata, qui come nell’Elena, al genio industrioso delle donne. Altra prova contro la presunta misoginia del poeta.
E infine, bisogna osservare che in pochi drammi il campanilismo ha giuocato al poeta un cosí brutto tiro come in questa Ifigenia. Il finale di Atena, col ricordo del mito locale di Artemide taurica è quanto mai frigido e pedantesco. E giunge ad una comicità involontaria e crassa, quando la Dea si rivolge ad Oreste lontano, e gli dice:
Oreste, e tu
ascolta, ché ti giunge, anche da lungi,
la voce della Diva.
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Nel complesso, l’Ifigenia si deve certo annoverare fra i bei drammi d’Euripide. Ma io rimango un po’ perplesso quando vedo l’elogiativo coro dei critici5 , che con la sua unanimità, col suo entusiasmo, sembra quasi assegnarle un posto d’eccezione. E piú mi sembra sospetta una lode che vedo ripetuta da tutti. Udiamola nelle parole di Enrico Weil6. «In questa tragedia — dice il maestro — Euripide ha adoperati con discrezione gli effetti drammatici che egli sapeva cosí ben maneggiare. Si può temere che il fratello sia ucciso dalla sorella; ma la spada non è ancor levata su la vittima. Il sacrificio è annunciato, ma non ancora iniziato, quando giunge il riconoscimento. Pilade dichiara che non abbandonerà il suo amico; ma poi si arrende agli assennati ammonimenti coi quali Oreste lo distoglie da una inutile devozione. Tutto è temperato in questo bel poema, tutto concorre a produrre l’impressione che ne forma il piú grande fascino, ma che è difficile definire. Ci sentiamo commossi, e tuttavia ci sentiamo al disopra dell’emozione che proviamo».
Sta bene. Però, questo sentirci al di sopra dell’emozione, significa, se non erro, che non ci sentiamo troppo commossi. È, di fatti, quello che interviene a me.
E quel quid che il Weil dichiara non definibile, è, viceversa, quella temperanza che egli esalta. Temperanza che in sostanza è il trionfo del razionalismo. Il quale, allorché diviene Musa e guida ai poeti, ispira ad essi prodotti che docilmente si offrono alle analisi dei critici, e si lasciano rovesciare, fogliolina per fogliolina, e svelano sino all ultimo i segreti della loro composizione. E discaccia il Dèmone dionisiaco, che, viceversa, quando piglia lui la mano, ispira opere che sfuggono ad ogni analisi, ed urtano le anime timide con gli eccessi, e coi difetti, inevitabili quando il razionalismo è assente; ma che ad ogni modo, turbano profondamente tutti i cuori, questi sgomentandoli ed irritandoli, quelli entusiasmandoli.
E nessun dubbio che quella temperanza e quella misura, per lungo tempo, sino al furioso assalto del romanticismo, furono il segnacolo in vessillo della letteratura francese, e le ispirarono molte opere insigni, e, fra altre, quel teatro tragico di cui tanto vanno alteri i francesi. Ma è altrettanto vero che, sinché mondo sarà mondo, molti spiriti rifuggiranno da quei capolavori impeccabili e soporiferi, e adoreranno le opere direttamente ispirate dal Dèmone, le quali, squassando senza possibile difesa l’animo nostro, non ci consentono di «rimanere al di sopra dell’emozione che proviamo». Tali sono molti e molti drammi d’Euripide: l’Alcesti, per esempio, la Medea, l’Ippolito, Le Baccanti, l’Ifigenia in Aulide. Tale non mi pare che sia questa Ifigenia in Tauride, nella quale sembra veramente che Euripide abbia messo un freno alle sue grandissime facoltà passionali, per le quali Aristotele l’ebbe a salutare tragicissimo fra i poeti.
IFIGENIA IN TAURIDE
- ↑ The Oxyrhynchus Papyri, III, p. 41 sg. Si veda, in questa collezione, la prefazione alle Commedie d’Aristofane.
- ↑ Edizione de Les belles Lettres. pag. 100 sg.
- ↑ Due ne troviamo anche nelle Baccanti. Ma il primo è già verso la metà dell’azione. E le Baccanti sono l’ultimo lavoro di Euripide.
- ↑ In Patin, Euripide, II, 88.
- ↑ Si può veder riassunto nel Christ (VI ediz., I, 366), e nel Croiset (III. 307-308).
- ↑ Sept Tragédies d’Euripide, pag. 438-39.