Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Canto III | Canto V | ► |
IL BARDO
DELLA SELVA NERA.
CANTO QUARTO.
Su le Noriche nevi alta già sparge
Le sue rose l’Aurora, e saltellante
Di ramo in ramo il passer mattutino
In suo garrire la saluta, e chiama
5Alle cure campestri il villanello.
Surge Ullin; ma d’amor punta la figlia
Già vegliava infelice, e del languente
Terigi tutta notte avea portato
Nel pensier le ferite e le parole.
10Trovolla il padre su le soglie assisa
Della stanza, ove giace il giovinetto,
Guardïana pietosa, ad ogni lieve
Romor d’aura mettendo alle socchiuse
Valve l’orecchio, e palpitando. E quegli
15Fatto sicuro della vita, e vinto
Dal soave sopor, che nelle stanche
Membra sì grato la natura infonde,
Del perduto vigor prendea ristauro
In dolcissimo obblío. Sereno intanto
20L’almo d’Iperïon lucido figlio
Su le Pannonie cime i rugiadosi
Destrier sferzando lampeggiava il puro
Fulgido riso allegrator del Mondo,
E su le vinte d’Ulma erte muraglie
25Di tremoli baleni illuminava
Lo sventolante tricolor vessillo.
Dalle propinque rupi stupefatto
Il Tedesco lo vide, e de’ futuri
Danni presago ne tremò. L’accorto
30Tirolese lo vide, e su la speme
Di destino miglior sorrise, e tacque.
Il Bavaro lo vide, ed alto un grido
Di giubilo mandò, che l’adorato
Suo Prence richiamava, e i rai divini
35Della Vergine Stella adornatrice
Del Vindelico cielo, e non sapea
Che ciel più bello glie l’avrìa rapita.
Vide egli pur la vincitrice insegna
Dal romito suo tetto il Bardo Ullino,
40E al piagato Guerrier, che al dì novello
In quell’istante i lumi aprìa, ne porse
Esultando l’avviso. Ed ei l’infermo
Fianco sul letto sollevando, e tutto
Tremante di piacere, Oh! ch’io la vegga,
45Ch’io la vegga, gridava. E sì parlando
Barcollante si leva, alla fidata
Spalla si folce del buon vecchio, e il passo
Move, e di forze povertà non sente:
Tanto puote la gioja. In rusticano
50Acconcio seggio lo compose Ullino
Sul varco della soglia, e dirimpetto
Coll’accennar del dito il trïonfante
Vessillo gli mostrò. Corse al Guerriero
Tutta l’alma negli occhi a quell’aspetto,
55Gli tolse il gaudio le parole, e l’atto
Della bocca, del ciglio e della fronte,
E tutta la sembianza era un sorriso
Del cor che lieto per la vista uscìa.
Da quel dolce spettacolo rimossi
60Ancor Terigi non avea gli sguardi,
Quando cupo da lungi e ognor più spesso
Di bellicosi bronzi un tuon sentissi,
Che dell’Istro muggir facea le rive
Con lugubre rimbombo, a cui gementi
65Scotendo il peso delle bianche brume
Con sordo echeggio rispondean le selve.
Eran pugne novelle, che ne’ campi
Di Neresemo e Langenò novelli
Rapidi lauri raccoglieano al crine
70Del Magno BONAPARTE, a cui, se pure
Altro resta da farsi il fatto è nulla.
Qua finisce un conflitto, e là comincia
L’altro; e veloci d’un sol capo al cenno
Per diverso sentiero alla vittoria
75Volan dovunque delle Franche armate
I magnanimi Duci: a quella guisa
Che dell’alto Gottardo i fragorosi
Liquidi figli dal paterno fianco
Con orrendo fracasso si devolvono
80Per quattro parti, e sbarbicate e lacere
Giù rotando le selve a quattro pelaghi
Portano le sorelle onde velivole
A nudrir di Nettuno il vasto imperio,
E le procelle risonanti e i turbini.
85Come intese Terigi il tuon de’ cavi
Fulminanti metalli, indizio certo
Di calda zuffa, fiammeggiò nel viso,
Erse il capo, gli prese il corpo tutto
Una smania, un tremor; quale il Pugliese
90Generoso destrier, che delle tube
Lo squillo udito e delle spade il cozzo,
Vibra incontro al romor gli acuti orecchi
Con erto collo e scintillanti sguardi;
Scàlpita la sonante ugna il terreno,
95Spiran foco le nari, e alla battaglia
Par che sul dorso il cavaliero inviti.
Tal si fece Terigi. Ed ecco, ei grida
Fieramente animoso, ecco sanate
Le mie ferite: datemi, rendete
100Al mio fianco l’acciar: vola il coraggio
De’ miei fratelli a nuove palme, ed io,
Io qui resto? io che tutto ancor non diedi
Alla patria il mio sangue, al mio Signore?
A me l’armi, su via, l’armi. Ed in questa
105Si rizzò, ricercò con gli occhi il brando,
E verso quello la man stesa, il passo
Vacillante tentò; ma non rispose
L’infermo piede alla virtù del core.
Posto a giacer di nuovo, e in lui sedato
110Quel non saggio desìo, grave lo prese
Per la mano il vegliardo, e così disse:
Figlio, mal serve al Prence suo, chi troppo
Di servirlo s’adopra. Arsa di vero
Zelo hai tu l’alma pel tuo Re? fa stima
115D’una vita a lui sacra. I suoi guerrieri
Sono i suoi figli: sue pur anco adunque
Le tue ferite. E tu le sprezzi? e vanto,
Folle! pretendi di fedel soldato?
Figlio, a che questo intempestivo ardore,
120Questo delirio di valor? Perduto
Temi forse il momento di far chiara
La tua prodezza? Della patria tutti
Giaccion forse i nemici? Odi vicina
Rimuggir la Sarmatica procella,
125Odi il pianto de’ campi, odi le grida,
L’ulular de’ fumanti arsi paesi,
E l’alta delle genti ira che chiede
Alle Galliche spade memoranda
La vendetta d’Europa, la vendetta
130Della culta ragion venuta a zuffa
Con la barbarie. Allor ben mostro e speso
Fia l’ardir che t’accende, allor ben dato
Il sangue. Or pensa a rintegrarlo, e in vana
Guerresca furia non gittar l’avanzo
135D’una vita non tua. Dimesso e mesto
Chinò le ciglia a quel parlar Terigi,
Errò col guardo su le sue ferite,
Le tentò con la mano, e dal cor pieno
Ruppe un sospir, che lo disciolse in pianto.
140N’ebbe il Bardo pietà; furtivo un cenno
Fe’ degli occhi a Malvina, che dell’arpa
Lieve lieve si pose fra le dita
Le dolcissime corde, e sul dolore
Dell’amato garzon sciolse il concento.
145Piagato e languido
Giace il guerriero,
Dal muro pendere
Vede il cimiero;
Fitta al suol mira
150L’asta, e sospira.
Repente scuotelo
Il marzio carme:
L’invito intendere
De’ prodi all’arme
155Pargli; e impedito
Freme il ferito.
Ma ve’ che recagli
Il già mertato
Lauro la Gloria,
160Ed al suo lato
Dolce s’asside:
L’eroe sorride.
Sorride, e memore
Dei dì felici
165Racconta agli avidi
Pendenti amici
Di Marte orrende
Alte vicende.
Narra dell’Itale
170Pugne gli affanni,
Del Nilo domiti
Narra i tiranni,
E l’omai spenta
Patria redenta.
175Alle magnanime
Narrate imprese
L’orecchio tendono
L’alme sospese;
E qualche core
180Batte d’amore.
Chinò i begli occhi al fin di sue parole
L’infiammata donzella, e su le gote
Le si diffuse del pudor la rosa,
Che nata appena impallidì. La vide
185L’accorto padre, nel cor imo scese
Della fanciulla, e tutta ne conobbe
La ferita. Nè già d’ira fe’ segno
Nè di dolor; chè i puri occhi del cielo
Cosa non ponno contemplar più bella
190D’amor compagno d’onestate. In lui
Posa de’ padri la speranza; ei dolci
Rende i tormenti della vita; ei porge
All’arso labbro de’ mortali il sorso
Della celeste voluttade, e tutta
195Gli sorride natura. E anch’ei sorrise
Il discreto buon vecchio, e nel pensiero
Antiveggente l’avvenir, rifulse
Un santo nodo già nel cielo ordito;
Ma nella mente lo si chiuse, e tacque.
200Che cor fu il tuo, Terigi, che consiglio
Allor che aperto balenar vedesti
Tanto arcano d’amor? Fra l’armi e l’ire
Crescesti, è ver; ma di Gradivo i duri
Studi non féro al cor bennato oltraggio.
205Valor da bella cortesìa disgiunto
Resti al sozzo ladron, che dagli eterni
Ghiacci d’Arturo a desolar le belle
Nostre spiagge calò; resti al crudele
Che ne comprò le mercenarie spade;
210Resti d’Europa all’assassino. Orgoglio
Di Francese guerriero è un cor gentile.
Come gli accenti, che stupor, rispetto,
Desìo, speme, timor gli avean rapito,
Potè la lingua ripigliar, si volse
215Il garzon generoso alla donzella;
E con quel dolce favellar, che care
Fa le parole e il parlator, sì disse:
Celeste al par de’ tuoi begli occhi è il canto
Del tuo labbro, Malvina; ed efficace
220Ineffabil dolcezza su l’amaro
De’ miei pensieri diffondesti. Assai
Assai m’è grave udir di Marte il grido,
Saper ch’altri si coglie eterne palme
In illustri perigli, ed io qui starmi
225Lasso! inutile peso. Or, poi che tolto
Èmmi il gran Duce seguitar, nè posso
Per lui pugnando e per la patria un qualche
Lauro io pure intrecciarmi a questo crine,
Seguirallo il cor mio, dolce mi fia
230Raccontarne l’imprese, e far più mite,
Ragionando di lui, la mia sventura.
Ma che prima dironne, e che dappoi?
Chè tutto nell’Eroe tutto è portento
Di fortezza, di senno e di coraggio;
235E i dì son meno che i portenti, e il vero
Sì di menzogna le sembianze acquista,
Che per fede ottener forza gli è spesso
La sua luce scemar. Luce di vivo
Limpido sole, l’interruppe Ullino,
240Fa cieco il guardo, nè sostienla il ciglio,
Se la man nol soccorre, o temperanza
Di frapposti vapori. E tal pur anco
A noi sfavilla la virtù di questo
Ammirando mortal, che l’infinita
245Di lassù provvidenza in travagliosi
Tempi concesse al declinato Mondo
Per emendarlo, e agli arbitri scettrati
Della terra insegnar la già perduta,
O ceduta a’ malvagi arte del regno.
250Dell’ardue cose per lui fatte il grido
A qual non venne orecchio? e chi narrarle
Puote od udirle, e serbar freddo il petto?
Ben io molte n’intesi insin d’allora
Che dell’alpestre Mondovì comparso
255Su le balze tremende i primi allòri
Giovinetto mietea strappati al crine
Di canuti nemici. E a me pur anco
D’ogni tumulto cittadin diviso,
A me pur giunse il suon della ruina
260Che sul Lombardo piano si diffuse,
E d’Arcoli al fatal ponte percosse
La tedesca fortuna. Oh che ricordi?
Interruppe Terigi. Arcoli? oh nome,
Ch’ogni cor Franco allegri, e il mio confondi!
265Oh d’Arcoli crudel notte! tu splendi
Nel mio pensiero eterna: le tue sacre
Ombre fur conscie del mio fallo, e in uno
Del sacramento che giurai di tutto
Espïarlo col sangue: e tutto ancora
270Nol satisfeci. Risvegliár que’ detti
Curïoso un desìo nell’ascoltante
Bardo, e Malvina palpitò. Ma niuno
Farne osava dimanda, e si tacea.
Allor riprese il Cavalier: Porgete,
275Miei cari, orecchio; e quale e quanto affetto,
Quanta fede legar debba d’eterno
Nodo quest’alma al mio Signore, udite.
Altri in mezzo alle pugne, o fra l’eccelse
Cure del trono la grand’alma cerchi
280Di BONAPARTE: io vo’ mostrarne il core.
La notte che seguì d’Arcoli il duro
Conflitto, a me del lungo pugnar lasso
Fu commessa una scolta. Di vergogna
Nel rimembrarlo avvampo, e la parola
285Raccontando mi sfugge. La stanchezza,
Ch’anche in mezzo al ruggir delle tempeste,
Addormenta il nocchier, vinse me pure,
Sì che posto in vedetta immantinente
M’occupa il sonno, e tutti in un profondo
290Obblìo sommerge i travagliati spirti.
Ma l’indefesso BONAPARTE, a cui
Par che tempra di membra il ciel conceda
D’ogni uopo intatta di mortal natura,
Scorrea tacito, solo, ed in vestire
295Di gregario guerrier, l’addormentato
Campo. Il nemico non lontan rendea
Perigliose le veglie, e più la mia,
Che più dappresso lo spïava. Ed ecco
Vien l’ora delle mute. Un improvviso
300Scuotemi e desta calpestìo di piedi.
Eran le guardie successive. I lumi
Apro, nel sonno ancor natanti; cerco
L’arme caduta, e non la trovo. In giro
Meno gli sguardi stupefatti, e veggo
305Ritto starsi ed armato alla vedetta
Vigilante in mia vece altro guerriero.
M’accosto, il guato, il riconosco: è desso,
Desso il gran Duce. Me perduto! io grido;
E bramai sotto i piedi una vorago
310Che m’inghiottisse. Ma con tale un detto
Di bontà, che più dolce unqua sul labbro
Nè di padre s’udì, nè di fratello:
Non temer, quel Magnanimo riprese;
Dopo lunga fatica ad un gagliardo
315Ben lice il sonno, e a me vegliar pel mio
Figlio e compagno. Ma tu scegli, amico,
Meglio altra volta i tuoi momenti. E sparve.
Muto, tremante, attonito, siccome
Uom, cui cadde la folgore vicina,
320Mi restai lunga pezza. Alfin del fallo
La conoscenza e del perdon mi fece
Impeto al core: alzai le palme, al suolo
Mi prostrai su i ginocchi, e per l’orrore
Della notte gridai: Dio che passeggi
325Per quest’alte tenébre, e de’ mortali
Miri le colpe e le virtù, gran Dio,
Dammi che un dì per Lui morire io possa.
Ecco il cor del mio Duce. Anzi d’un Nume,
Riprese Ullino; nè stupir più voglio
330Se tu l’adori, ed ogni faccia affronta
Per Lui di rischio in campo il suo soldato.
Or m’odi. Allor che, dissipati e spersi
Quattro possenti eserciti, al nemico
Fe’ tremar la corona in Leobeno,
335Arsi allor del desìo di veder questa
Di valor maraviglia, e del cospetto
D’un sì famoso satisfar la vista.
Bramai l’armi seguirne, e con quest’occhi
L’opre mirar della sua spada, e poscia
340Bellicoso cantor porle su l’arpa
Eternatrice degli eroi; chè tale
È di Bardo poeta il ministero.
Ma troncò l’ali a quella calda brama
Carità di costei, che pargoletta
345Mal potea le paterne orme seguire.
Volò frattanto il Valoroso a nuova
Audacissima impresa; e, liberando
Dal terror delle Franche armi Lamagna,
Piombò del Nilo su le sponde, e in forse
350Mise d’Asia il destin. Ma incerta e poca
Di sì bel fatto a me giunse la fama.
Or tu verace testimon di tutto
Tu lo mi conta, e qual fortuna, o Dio,
Dalle Libiche rive a salvamento
355Il ridusse alle vostre; e come poscia
Campò la patria inferma, e la rapita
Itala figlia al rapitor ritolse.
Il sol, vedi, a rincontro ti sorride,
E il raggio sanator lungo la sponda
360T’invía del letto a rallegrar la mente,
E porge al labbro narrator la lena.
Fine del Canto Quarto.