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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Il quale fa entrare il signor Pickwick in una nuova scena, forse non affatto priva d'interesse, del gran dramma della vita
Capitolo 39 Capitolo 41

Gli ultimi giorni della dimora a Bath passarono pel signor Pickwick e pei compagni suoi senza che alcuna cosa di notevole accadesse. Incominciava il termine della Trinità. Allo spirare della prima settimana, il signor Pickwick coi tre amici se ne tornò a Londra, e accompagnato da Sam tirò diritto al suo antico alloggio del Giorgio e Avvoltoio.

Il terzo giorno dopo l’arrivo, nel punto stesso che tutti gli orologi della città battevano individualmente le nove, e collettivamente le novecento ore o giù di lì, Sam era disceso a pigliare una boccata d’aria nel cortile dell’albergo, quando un curioso veicolo dipinto di fresco entrò rumoreggiando, e ne balzò in terra con grande sveltezza, gettando le guide ad un omaccione che gli sedeva di dietro, un curioso signore il quale sembrava fatto pel veicolo come il veicolo sembrava fatto per lui.

Non era questo veicolo un carrozzino, nè un calesse. Non era nemmeno un biroccino, nè una carrettella, nè una carrozza, nè altro; aveva in sè un po’ di tutto questo. Era giallo vivo con le ruote nere; e il cocchiere, secondo lo stile classico, stava seduto sopra un monte di cuscini. Il cavallo era baio, una bella bestia a vedere; ma con un certo che di sfacciato e di cattivo genere nel portamento, che si accordava mirabilmente col veicolo e col padrone.

Era questi un uomo sui quaranta, capelli neri e fedine ben pettinate, vestito molto vistosamente con indosso svariati articoli di gioielleria — tutti tre volte più grossi di quelli che sogliono portare le persone per bene — ed un gran soprabito peloso che lo completava. Smontando, cacciò in una tasca di questo soprabito la mano sinistra, mentre con la destra tirava fuori dall’altra un abbagliante fazzoletto di seta, per togliersi un par di granelli di polvere dagli stivali. Poi gualcitolo e raccoltolo in una mano, traversò il cortile con passo ardito e sicuro come se entrasse in casa sua.

Non era sfuggito all’attenzione di Sam che, mentre questo signore smontava, un uomo dall’abito logoro e vedovo di vari bottoni, che era stato a dondolarsi dall’altro lato della via, si avvicinò di botto e si piantò poco discosto dall’entrata. Sospettando forte sull’oggetto della visita del signore vistoso, Sam lo precedette nell’albergo, e voltandosi all’improvviso, si piantò proprio nel mezzo della porta.

— Via, brav’uomo, via, — disse il signore dal soprabito peloso con tono imperioso, cercando nel tempo stesso con una brava spinta di passare oltre.

— Via, signore come vi chiamate, via! — rispose Sam rendendo la spinta con interesse composto.

— Orsù, smettiamo, brav’uomo; non serve cotesto con me, — disse il proprietario del soprabito peloso, alzando la voce e facendosi bianco in viso. — Qua, Smouch!

— Che c’è, che c’è? — grugnì l’uomo dall’abito logoro, che durante questo breve dialogo, s’era adagio adagio avanzato.

— Nient’altro che questo insolente, — rispose il principale dando a Sam un altro spintone.

— Via mo, non ne facciamo di cotesti scherzi, — gridò Smouch con un altro spintone più forte.

Questo secondo spintone produsse l’effetto che appunto il signor Smouch proponevasi di produrre; perchè mentre Sam, ansioso di rendere il complimento, urtava e premeva contro lo stipite della porta il corpo del novello avversario, il principale se la sgusciava e si avanzava verso il banco dove Sam, dopo avere scambiato col signor Smouch qualche epiteto molto espressivo, senz’altro lo seguì.

— Buongiorno, cara, — disse il principale alla giovane seduta dietro il banco, col tono disinvolto e la gentilezza di un galeotto in vacanze; — dov’è la camera del signor Pickwick, carina?

— Conducetelo su, — disse la giovane ad un cameriere, senza degnare il bellimbusto di una seconda occhiata.

Il cameriere andò su, e il signore dal soprabito peloso gli tenne dietro, seguito da Sam, il quale andando su per le scale si abbandonò a vari gesti di disprezzo e di sfida con ineffabile soddisfazione di tutto il servidorame e degli altri astanti. Il signor Smouch, incomodato da una tosse maligna, rimase da basso ad espettorare nel corridoio.

Il signor Pickwick era ancora in letto e dormiva saporitamente quando il suo visitatore mattiniero, seguito da Sam, entrò in camera. Il rumore che fecero valse a destarlo.

— L’acqua per la barba, Sam, — disse il signor Pickwick di sotto alle cortine.

— Vi raderete subito, signor Pickwick, — disse il visitatore alzando una delle cortine. — Ho qui per voi un mandato d’arresto a richiesta di Bardell. Ecco l’atto. Corte dei Common Pleas. Questo è il mio biglietto di visita. Suppongo che ve ne verrete con me a casa mia.

E con un colpettino amichevole sulla spalla del Signor Pickwick, l’ufficiale dello sceriffo — che tale egli era — gettò il suo biglietto sul piumino e cavò dal taschino del panciotto uno steccadenti d’oro.

— Namby, così dice, — suggerì l’ufficiale dello sceriffo mentre il signor Pickwick tirava gli occhiali di sotto al cuscino e se li metteva per leggere il biglietto — Namby, Bell Alley, Coleman-street.

A questo punto, Sam Weller che teneva gli occhi fisi sul lucido cappello del signor Namby, domandò ad un tratto:

— Siete quachero voi?

— Vi farò io sapere chi sono, prima di andar via, — rispose l’ufficiale indignato. — V’insegnerò io l’educazione, mio bravo giovinotto, uno di questi giorni.

— Obbligatissimo, farò lo stesso con voi. Giù il cappello.

E così dicendo, il signor Weller con una destrezza mirabile fece balzare il cappello del signor Namby all’altro lato della camera così violentemente, che poco mancò non facesse per giunta ingoiare al malcapitato ufficiale lo steccadenti d’oro.

— Notate questo, signor Pickwick, — disse molto turbato l’ufficiale, cercando di ripigliar fiato. — Sono stato attaccato nell’adempimento del mio dovere dal vostro domestico in camera vostra. Ho ragione di temere per la mia persona. Chiamo proprio voi a testimone.

— Non testimoniate niente, signore, — gridò Sam. — Chiudete gli occhi; lo butterei anche dalla finestra, se non fosse troppo bassa.

— Sam, — disse il signor Pickwick con voce di sdegno mentre il fedele domestico andava facendo varie dimostrazioni di ostilità, — se dite un’altra sola parola o fate il menomo atto contro questo signore, vi licenzio su due piedi.

— Ma, signore! — esclamò Sam.

— Tacete! — interruppe il signor Pickwick. — Raccattate quel cappello.

Ma a questo Sam recisamente dichiarò di non volersi piegare, pigliandosi tranquillamente la lavata di capo del padrone. L’ufficiale, che aveva fretta, condiscese a raccattare il cappello da sè, borbottando una gran varietà di minaccie all’indirizzo di Sam, accolte da costui con singolare impassibilità e con la semplice osservazione che se il signor Namby voleva aver la bontà di rimettersi in capo il cappello, egli l’avrebbe fatto volare in Oga Magoga. Il signor Namby, pensando forse che la cosa non sarebbe stata molto piacevole, evitò di offrire la tentazione, e di lì a poco chiamò il suo Smouch. Informatolo poi che l’arresto era fatto e dettogli di aspettare che il prigioniero si vestisse, se ne uscì braveggiando e partì in carrozza. Smouch pregò di mala grazia il signor Pickwick che si sbrigasse, perchè le faccende non erano poche, e tratta una seggiola presso la porta vi si mise a sedere. Fu allora spedito Sam a cercare una vettura di piazza, nella quale il triumvirato mosse per Coleman-street. Per buona sorte, la distanza era breve, perchè il signor Smouch, oltre al non possedere una conversazione molto brillante, era certo uno sgradevolissimo compagno in uno spazio limitato a motivo di quella sua debolezza fisica cui si è accennato di sopra.

La carrozza voltò in un vicolo oscuro e si fermò davanti a una casa che avea tutte le finestre sbarrate di ferro; sulla porta si leggeva la graziosa scritta: Namby, ufficiale degli sceriffi di Londra. Venne ad aprire il cancello interno un uomo che potea passare per un germano trascurato del signor Smouch e che era armato di una chiavaccia. Il signor Pickwick fu introdotto nella sala del caffè.

Questo caffè era una specie di salottino, i cui caratteri principali erano la muffa umida e l’odore stantio di tabacco. Il signor Pickwick s’inchinò alle tre persone che stavano ivi a sedere quando egli entrò, e spedito che ebbe Sam da Perker, si ritirò in un cantuccio oscuro e guardò di là con una certa curiosità ai suoi nuovi compagni.

Uno di questi era appena un ragazzo tra i diciannove e i venti, il quale, benchè non fossero che le dieci, beveva gin ed acqua e si fumava un sigaro tanto fatto; ai quali passatempi, a giudicarne dalla faccia accesa, ei s’era dedicato con una certa costanza da un par d’anni. Di rimpetto a lui, occupato a smuovere il fuoco con la punta dello stivale, sedeva un giovane sulla trentina, grossolano e rozzo, con un viso emaciato e una voce fessa; e questi, secondo tutte le apparenze, possedeva quella conoscenza del mondo e quella amabile libertà di modi, che si acquistano nelle osterie e nelle sale di biliardo di cattivo genere. Il terzo individuo presente era un uomo di mezza età vestito di nero, il quale, pallido e stralunato, andava su e giù per la sala, fermandosi di tratto in tratto per guardare con grande ansietà fuori della finestra come se aspettasse qualcuno.

— Sarà meglio che per stamane ve lo presti io il rasoio, signor Ayresleingh, — disse l’uomo che smoveva il fuoco, ammiccando dell’occhio all’amico giovanetto.

— Grazie, no, non ne avrò bisogno; tra un’ora sarò fuori di qua, — rispose l’altro in fretta.

Poi andando di nuovo verso la finestra e tornando indietro, sospirò profondamente ed uscì dalla sala; al che gli altri due dettero in una gran risata.

— Davvero che una più bella di questa non l’ho vista mai, — esclamò quegli dal rasoio, che parea rispondere al nome di Price. — Mai!

E il signor Price confermò la sua asserzione attaccando un moccolo, e poi tornò a ridere, quando il giovanetto (che lo teneva per un pezzo sopraffino) rise naturalmente a quella spiritosaggine.

— Voi non credereste, — disse Price voltandosi a Pickwick, — che quest’originale si trova qui da una settimana, e non s’è ancora fatto la barba, perchè si sente così certo di sortire fra mezz’ora che dice di volersela fare a casa!

— Pover’uomo! — disse il signor Pickwick. — E le ha poi davvero tutte queste probabilità di tornarsene via?

— Accidenti alle probabilità, — rispose Price; — nemmeno l’ombra, figuratevi! Non darei nemmeno questo per la probabilità che egli passeggi per le vie di Londra da qui a dieci anni.

E così dicendo, il signor Price fece con atto di disprezzo scricchiolare le dita e suonò il campanello.

— Datemi un foglio di carta, Crookey, — disse poi al domestico, il quale dall’aspetto e dal vestito pareva un che di mezzo tra un pascolatore fallito e un allevatore insolvibile; — e anche un bicchiere d’acqua e acquavite, avete inteso, Crookey? Voglio un po’ scrivere a mio padre e ho bisogno d’uno stimolante, tanto per ficcarla al vecchio barbogio.

A questo discorso faceto, va da sè che il giovinetto si contorse dal gran ridere.

— Così è, — riprese il signor Price. — A morire c’è sempre tempo. Graziosa eh?

— Magnifica! — esclamò il giovinetto.

— Avete dello spirito, avete, — disse Price. — Un po’ di mondo lo conoscete anche voi.

— Altro che un poco! — rispose il giovanetto.

In effetto lo avea veduto attraverso i vetri sudici di una bettola.

Il signor Pickwick, non poco stomacato da questo dialogo, e insieme dall’aspetto e dai modi dei due interlocutori, stava per domandare se fosse possibile di avere un salottino privato, quando due o tre forestieri entrarono dall’apparenza piuttosto pulita. Vedendoli, il giovanetto gettò subito il sigaro nel fuoco, e bisbigliando al signor Price che erano venuti "per aggiustar la sua partita"si accostò a loro presso una tavola all’altro capo della camera.

Non sembrava però che le cose si aggiustassero con tanta sollecitudine, perchè un lungo colloquio seguì, del quale non potè fare a meno il signor Pickwick di cogliere a volo alcune frasi riguardanti una condotta dissipata e un perdono troppo ripetuto. Alla fine, il più vecchio della brigata fece qualche allusione molto chiara e precisa ad una certa via di Whitecross; e qui il giovinetto, ad onta del suo spirito e della sua precocità e della sua conoscenza del mondo, si lasciò andare col capo sulla tavola e ruppe in singhiozzi.

Soddisfattissimo di questo rapido abbattimento del tono e del valore del giovinetto, il signor Pickwick suonò il campanello, ed ottenne che gli si aprisse una camera particolare fornita di tappeto, tavolino, seggiole, cassettone, canapè, ed ornata di uno specchio e di varie incisioni antiquate. Ebbe qui il piacere, mentre gli si preparava da colazione, di udire un pezzo a pianoforte suonatogli in capo dalla signora Namby; e quando la colazione arrivò, arrivò anche il signor Perker.

— Ah, ah! mio caro signore, — esclamò l’ometto, — ci siamo in gattabuia, eh? Via, via, non me ne dispiace punto, perchè ora potrete vedere l’assurdità della vostra condotta. Ho tirato la somma dei danni e delle spese per cui fu spiccato il mandato di cattura, e il meglio è di farla finita subito subito, senza perder più tempo. Namby a quest’ora deve esser tornato a casa. Che ne dite eh? Volete scrivere un ordine voi stesso o volete che lo scriva io? Vediamo, via.

Così dicendo, l’ometto si fregò le mani con affettata allegrezza, ma guardando al viso del signor Pickwick, non potè fare a meno di volgere un’occhiata di sconforto a Sam Weller.

— Perker, — disse il signor Pickwick, — non me ne parlate più, ve ne prego. Io non trovo alcuna utilità a rimanere qui, sicchè stasera me n’andrò alla prigione.

— A Whitecross, mio caro signore! Impossibile! Vi sono sessanta letti per corsia e la porta è sprangata sedici ore su ventiquattro.

— Andrò, se mi riesce, in qualche altra prigione. Altrimenti, farò di necessità virtù e mi acconcerò alla meglio.

— Potreste andare alla prigione della Fleet, mio caro signore, se proprio siete deciso a farvi rinchiudere.

— Bravissimo. Allora ci andrò subito dopo colazione.

— Adagio, mio caro signore, adagio. Non c’è la minima ragione per aver tanta fretta di entrare in un posto dal quale gli altri hanno la stessa fretta di uscire. Abbiamo bisogno di un habeas corpus. Non c’è da trovare un sol giudice alle Camere prima delle quattro di oggi. Bisogna aspettare.

— Aspetterò, — disse il signor Pickwick con una pazienza imperturbabile. — Potremo mangiare qui una bistecca verso le due. Pensateci voi, Sam, e raccomandate la puntualità.

Resistendo il signor Pickwick a tutte le rimostranze e agli argomenti di Perker, le bistecche apparvero e disparvero all’ora fissata. Fu poi fatto montare in un’altra vettura di piazza e trasportato a Chancery Lane, dopo avere aspettato un’ora buona il signor Namby, il quale, trattenuto da alcune sue visite di conto, non poteva in maniera alcuna esser disturbato prima.

A Sergeants’Inn c’erano due giudici di servizio — uno del Banco del Re, l’altro dei Common Pleas, e un gran monte d’affari dovevano aver per le mani, a giudicarne dalla folla di giovani d’avvocato che entravano ed uscivano con fasci voluminosi di carte. Quando furono sotto la bassa arcata che forma l’ingresso dell’edificio, Perker si trattenne un momento a parlamentare col vetturino per pagar la corsa e farsi dare il resto; e il signor Pickwick, tirandosi da parte per lasciar libero il passo alla gran gente che sboccava fuori o si affrettava dentro, si guardò attorno con una certa curiosità.

Più di tutti richiamarono la sua attenzione tre o quattro uomini dall’aspetto tra l’elegante e lo sciattato, i quali salutavano molti degli avvocati che passavano e parevano aver lì qualche affare, la cui natura non venne fatto al signor Pickwick d’indovinare. Erano molto curiosi a vedere. Ce n’era uno un po’ zoppo ed allampanato, vestito di un nero che dava al rosso e in cravatta bianca; un altro, grande e grosso, vestito allo stesso modo, portava al collo un gran fazzoletto quasi nero; un terzo era un ometto dalle gambe malferme e dal viso avvinazzato. Si dondolavano di qua e di là, con le mani dietro e ad ogni poco con una faccia piena d’ansietà bisbigliavano qualche parola all’orecchio di alcuni di quelli che passavano in gran fretta coi loro fogliacci sotto il braccio. Il signor Pickwick si ricordò di averli veduti più d’una volta sotto quell’arcata, trovandosi a passar di là, ed ora più che mai si sentì curioso di sapere a che ramo della professione potessero cotesti tipi appartenere.

Era appunto per chiedere a Namby, che gli stava vicino succhiandosi un grosso anello d’oro sul mignolo, quando Perker tornò in fretta e si avviò dentro, dicendo che non c’era tempo da buttar via. Mentre il signor Pickwick lo seguiva, lo zoppo gli si avvicinò e toccandosi pulitamente il cappello porse una carta scritta, che il signor Pickwick, per non urtare con un rifiuto i sentimenti del porgitore, cortesemente accettò e ripose in tasca.

— Eccoci, — disse Perker, voltandosi indietro prima di entrare in uno degli uffici, per vedere se i compagni lo seguivano. — Entriamo qui, mio caro signore. Ohi, e voi che volete?

Quest’ultima domanda era diretta allo zoppo, che s’era unito alla brigata senza che il signor Pickwick se n’avvedesse. Per tutta risposta, lo zoppo si toccò il cappello con la massima cortesia, e accennò al signor Pickwick.

— No, no, — disse Perker sorridendo. — Non abbiamo bisogno di voi, mio caro amico, potete andare.

— Domando scusa, signore, — rispose lo zoppo. — Il signore qui ha preso il mio biglietto. Spero che vi gioverete dei miei servigi. Il signore mi ha fatto di sì col capo, lo dica egli stesso. Non è vero, signore?

— Via, via, ma vi pare! Voi non avete mica fatto dei segni ad alcuno, Pickwick? Un equivoco, un equivoco.

— Il signore mi ha presentato il suo biglietto, — rispose il signor Pickwick tirandolo fuori del taschino. — L’ho preso per fargli piacere; ci avrei guardato a mio comodo, e...

Il piccolo avvocato diè in una risata fragorosa, e rendendo il biglietto allo zoppo con ripetergli che si trattava soltanto di un equivoco, disse all’orecchio del signor Pickwick, mentre quegli si allontanava un po’ ingrugnato, che si trattava semplicemente di un garante.

— Di un che? — esclamò il signor Pickwick.

— Di un garante.

— Di un garante!

— Sì, mio caro signore, se ne trovano qui a dozzine. Garentiscono per quella somma che più vi piace, e si contentano di sola mezza corona. Un curioso commercio, eh? — disse Perker annasando una gran presa di tabacco.

— Come! — esclamò il signor Pickwick stupefatto, — e debbo io credere che questi uomini campino la vita trattenendosi qui per spergiurare davanti ai giudici del paese al prezzo di mezza corona per delitto?

— Oh, in quanto a spergiurare, non saprei, — rispose l’ometto. — Una parola dura, mio caro signore, molto dura. È una finzione legale, mio caro signore, nient’altro che una finzione legale.

Così dicendo, l’avvocato scrollò le spalle, sorrise, annasò un’altra presa ed entrò nell’ufficio del cancelliere.

Era questa una stanza singolarmente sudicia, bassa di soffitta e scura come un forno; benchè di fuori fosse giorno chiaro, ardevano e fumavano sulle scrivanie grosse candele di sego. Da una parte si entrava nel salottino privato del giudice, come s’indovinava da una gran ressa di avvocati e scrivani che venivano chiamati dentro per ordine d’iscrizione. Ogni volta che la porta si apriva per fare uscire qualcuno, quelli di fuori si spingevano con furia per ficcarsi dentro; e tra i dialoghi svariati che avevano luogo fra coloro che non ancora aveano veduto il giudice e le dispute personali che sorgevano fra coloro che lo avevano già veduto, tanto strepito si faceva quanto ne potea contenere un appartamento così ristretto.

Nè le conversazioni di questi signori erano i soli rumori e che colpivano l’orecchio. In fondo alla camera dietro uno scompartimento di legno se ne stava a sedere sopra un seggiolone uno scrivano in occhiali, il quale prendeva gli attestati, e ne consegnava dei fasci ad un suo collega perchè li portasse dentro dal giudice per la firma. C’era un nugolo di giovani d’avvocato, che dovevano prender giuramento, ed essendo moralmente impossibile di farli giurare tutti in una volta, gli sforzi loro per arrivare allo scrivano dagli occhiali somigliavano a quelli della folla che si pigia all’ingresso di un teatro quando la Sua Graziosa Maestà l’onora della sua augusta presenza. Un altro ufficiale, di tratto in tratto, esercitava i polmoni chiamando forte i nomi di quelli che aveano preso giuramento, affine di render loro gli attestati muniti della firma; il che dava luogo ad altre baruffe; e tutte queste cose facendosi nel tempo stesso producevano un trambusto che la persona più vivace ed eccitabile non avrebbe potuto desiderar maggiore. C’era anche un’altra classe di persone — quelli cioè che venivano per assistere a delle conferenze chieste dai loro principali. L’avvocato della parte avversaria poteva a sua scelta venire o non venire; e l’ufficio di quegli scrivani consisteva nel gridare di tanto in tanto il nome dell’avvocato medesimo, per esser certi ch’ei non si trovava presente.

Per esempio. Appoggiato al muro, proprio vicino al posto occupato dal signor Pickwick, stava un giovane di studio sui quattordici anni che aveva una voce di tenore, con accanto uno scrivano che aveva una voce di basso.

Uno scrivano entrava in gran furia con un fascio di fogliacci e sbarrava gli occhi intorno.

— Sniggle e Blink, — gridava il tenore.

— Porkin e Snob? — grugniva il basso.

— Stumpy e Deacon, — diceva il nuovo venuto.

Nessuno rispondeva. E quello che entrava subito dopo era accolto dal grido di tutti e tre, ed egli alla sua volta gridava un altro nome, e quindi qualcun altro ne strillava un altro, e così di seguito.

Intanto, l’uomo dagli occhiali lavorava a tutto spiano per far giurare i giovani di studio; e il giuramento veniva preso invariabilmente senza alcuno sforzo di punteggiatura nei termini seguenti:

"Prendete il libro nella mano destra questo è il vostro nome e carattere in nome di Dio voi giurate che il contenuto di questo vostro attestato è vero uno scellino datemi il resto non l’ho."

— Ebbene, Sam, — disse il signor Pickwick, — mi figuro che staranno sbrigando l’habeas corpus.

— Me lo figuro anch’io, — rispose Sam, — purchè facciano presto con cotesta faccenda. Non è mica una bella cosa tenerci qui in fresco. Per me ne avrei già apparecchiati una mezza dozzina di corpus, imballati e spediti a destinazione.

Non si può sapere che sorta di macchina complicata e mostruosa fosse per Sam un habeas corpus, perchè proprio in quel punto Perker si avanzò e prese con sè il signor Pickwick.

Compiute le solite formalità, fu subito affidata la persona di Samuele Pickwick alla custodia d’un usciere, per essere accompagnato alla prigione della Fleet, e trattenuto ivi fino a che l’ammontare dei danni e delle spese nella causa Bardell contro Pickwick non fosse pienamente soddisfatto.

— E per questo, — disse ridendo il signor Pickwick, — ci vorrà del tempo parecchio. Sam, chiamate un’altra vettura. Mio caro Perker, addio.

— No, no, vi accompagno — disse Perker.

— Grazie, non vorrei altra compagnia che quella di Sam. Appena mi sarò installato, ve ne scriverò due righe perchè veniate subito. Arrivederci dunque.

E così dicendo, il signor Pickwick montò nella vettura seguito dall’usciere. Sam prese posto in serpe e senz’altro si partì.

— Che uomo singolare!— esclamò Perker mettendosi i guanti.

— Che bel tipo di fallito sarebbe stato! — osservò il signor Lowten che gli stava vicino. — Come avrebbe tenuto testa ai commissari! Gli avrebbe sfidati a metterlo dentro, signore.

Non parve che l’avvocato gradisse gran fatto questa opinione del suo scrivano sul conto del signor Pickwick, perchè si avviò senza rispondere altrimenti.

La vettura andò avanti per Fleet street, come sogliono tutte le vetture da nolo. Secondo il cocchiere, i cavalli andavano meglio quando avevano qualche cosa davanti (doveva essere maraviglioso il loro passo quando non ci avevano niente), e così il veicolo si mise al seguito di una carretta; quando la carretta si fermava, si fermava anch’esso, e quando quella si muoveva, l’altro si rimetteva in movimento. Il signor Pickwick sedeva di faccia all’usciere, il quale col cappello fra le ginocchia andava zufolando un’arietta e guardando fuori dello sportello.

Il tempo compie delle maraviglie, e mercè sua anche una vettura da nolo arriva a percorrere un mezzo miglio. Si fermarono alla fine, e il signor Pickwick smontò alla porta della prigione.

L’usciere lo precedette, guardandosi sempre di sopra alla spalla per assicurarsi di esser seguito. Voltarono a sinistra e per una porta aperta passarono in un vestibolo, dal quale un’altra porta di fronte, guardata da un robusto carceriere armato della sua chiave, menava nell’interno della prigione.

Si fermarono aspettando che l’usciere presentasse le sue carte; e al signor Pickwick fu detto di dover rimanere lì fino a che non fosse compiuta la cerimonia del ritratto.

— Del ritratto! — esclamò il signor Pickwick.

— Per pigliare la vostra somiglianza, signore, — rispose il robusto carceriere. — Siamo di prima forza qui per fare i ritratti. Li facciamo in meno di niente, e sempre esattissimi. Entrate, signore, entrate, e fate conto di essere in casa vostra.

Il signor Pickwick obbedì e si pose a sedere, mentre Sam Weller, ritto dietro la seggiola, gli bisbigliava all’orecchio che questa seduta serviva soltanto per passar la visita dei vari carcerieri, tanto che questi potessero distinguere i prigionieri dai visitatori.

— Ebbene, Sam,— disse il signor Pickwick, — si sbrighino dunque questi signori artisti. Non mi va questo luogo pubblico.

— Non ci staranno molto, signore. Ecco là di faccia un orologio a pendolo.

— Lo vedo.

— E una gabbia anche. Una prigione in una prigione, non è così, signore?

Mentre il signor Weller faceva questa filosofica osservazione, il signor Pickwick si accorse che la seduta era incominciata. Il carceriere robusto si pose a sedere e lo andò guardando di tratto in tratto, mentre un uomo lungo e magro si cacciava le mani sotto le falde del soprabito e ritto davanti a lui lo squadrava da capo a piedi. Un terzo signore di malumore, che a quanto pareva era stato disturbato mentre prendeva il suo tè perchè entrò sbocconcellando un residuo di crostino imburrato, si situò proprio di fianco al signor Pickwick, e con le mani sui fianchi, lo osservò minutamente, mentre due altri si univano al gruppo di questi strani artisti e studiavano il loro originale con faccie intente e pensose. L’operazione non era mica divertente, e il signor Pickwick non si sentì poco a disagio sulla sua seggiola, ma non per questo aprì bocca, nemmeno con Sam, il quale, appoggiato alla spalliera, andava riflettendo un po’ alla situazione del padrone, un po’ alla gran soddisfazione di poter dare addosso a tutti i carcerieri ivi riuniti, uno dopo l’altro, se la cosa fosse stata lecita e normale.

Compiuto alla fine il ritratto, fu informato il signor Pickwick di poter entrare nella prigione.

— Dove dormirò stanotte? — domandò egli.

— In quanto a stanotte, non saprei davvero, — rispose il carceriere robusto. — Per domani sarete accoppiato a qualcuno, e allora vi acconcerete per benino. Generalmente la prima notte si passa un po’ male, ma domani tutto andrà d’incanto.

Dopo un po’ di discussione, si venne a scoprire che uno dei carcerieri aveva un letto che il signor Pickwick avrebbe potuto per quella notte prendere a nolo.

— Se venite con me, ve lo fo vedere subito, — disse l’uomo — Non è mica largo; ma ci si dorme di gusto come un ghiro. Di qua, signore, di qua.

Passarono per la porta interna, e discesero una breve scaletta. La chiave girò stridendo nella toppa, e il signor Pickwick si trovò, per la prima volta in vita sua, fra le pareti di una prigione per debiti.

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