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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Quel che accadde al signor Pickwick nella prigione; che sorta di debitori conobbe, e come passò la notte
Capitolo 40 Capitolo 42

Il signor Tom Roker, quegli cioè che aveva accompagnato il signor Pickwick nella prigione, voltò a destra quando fu a piedi della scaletta, e si avviò per una porta di ferro che stava aperta e su per un’altra scaletta in una sala lunga, stretta, bassa e sudicia, lastricata come una strada e tristemente rischiarata da una finestra posta nel fondo.

— Questa qui, — disse l’accompagnatore cacciandosi le mani in tasca e guardando di sopra alla spalla al signor Pickwick, — questa qui è la scala della sala grande.

— Ah, — rispose il signor Pickwick spingendo lo sguardo giù per una scala buia e sudicia, che pareva menasse ad una fila di sotterranei umidi e neri, — e quelle lì, mi figuro, saranno le buche dove i prigionieri tengono il loro piccolo deposito di carbone. Ah! un gran brutto posto quando si è obbligati a discendervi; ma, in fin dei conti, abbastanza comodo.

— Lo credo io che ce n’è del comodo, — rispose l’altro, — visto che parecchi ci vivono benino di molto.

— Amico mio, — disse il signor Pickwick, — voi non dite mica sul serio che degli esseri umani vivano in quelle orribili segrete?

— Non dico sul serio? — esclamò stupito e sdegnato il signor Roker; — e perchè no, di grazia?

— Vivono proprio... vivono là dentro?

— Vivono là dentro! sicuro eh, ci vivono, e qualche volta ci muoiono anche! E che volete dire con ciò? chi è che vi trova da ridire? Vivono là dentro! sicuro che ci vivono, e non mi par mica bruttino il posto!

E siccome Roker si voltava con una certa furia stizzosa e attaccava qualche suo moccolo a proposito del non vederci, del rompersi il collo e dei suoi fluidi circolanti, il signor Pickwick pensò bene di tagliar corto al discorso. Il signor Roker prese a salire un’altra scala, non meno sudicia della precedente, e il signor Pickwick e Sam gli tennero dietro.

— Ecco qua, — disse poi, fermandosi per ripigliar fiato quando furono giunti in una sala delle stesse dimensioni della sala di sotto, — questa è la scala del caffè; quella di sopra fra il terzo piano, e l’altra in cima è la soffitta; e la camera dove dormirete voi stanotte è la camera del custode, da questa parte, venite.

Detto tutto questo d’un sol fiato, il signor Roker montò un’altra scala, sempre tirandosi dietro il padrone e il domestico.

Queste scale prendevano luce da varie finestre poco discoste da terra e che davano in un cortile sterrato chiuso da un muro alto di mattoni tutto ornato in cima di punte ferrate. Era questo il cortile dove si giocava al volano, e, a quanto diceva il signor Roker, un altro cortile ci era verso quella parte della prigione, detto "la Corte Dipinta"perchè una volta si vedevano sui muri intorno dei vascelli da guerra naviganti a vele spiegate e delle altre rappresentazioni artistiche, dovute alle ore di ozio di qualche disegnatore insolvibile.

Dopo aver fatta questa comunicazione, più per sollevarsi di un peso che per illuminare il signor Pickwick, la guida traversò un’altra sala e s’introdusse in un piccolo corridoio che stava in fondo. Spinse poi una porta e si fermò sulla soglia di una camera tutt’altro che piacente d’aspetto e contenente otto o nove letti di ferro.

— Ecco, — disse il signor Roker, tenendo l’uscio aperto e voltandosi con aria trionfale al signor Pickwick, — ecco davvero una camera!

La faccia del signor Pickwick espresse però così scarsa soddisfazione all’apparenza del suo alloggio, che il signor Roker cercò una reciprocità di sentimento nel viso di Samuele Weller, il quale fino a questo punto avea serbato un dignitoso silenzio.

— Ecco una camera, giovanotto! — osservò il signor Roker.

— La vedo, — rispose Sam con un cenno placido del capo.

— Non avreste mai pensato di trovare una camera come questa a Farrington, eh? — domandò con un sorriso di compiacenza il signor Roker.

A questo il signor Weller rispose senza alcuna affettazione strizzando un occhio; il che potea significare o che egli l’avrebbe pensato o che non l’avrebbe pensato e che non ci avea pensato mai, come meglio piacesse all’immaginazione dell’osservatore. Fatto questo e riaperto l’occhio, Sam domandò qual era il letto preciso che il signor Roker avea descritto con tanto calore.

— Eccolo lì, — rispose il signor Roker indicandone uno tutto rugginoso in un angolo. — Vi farebbe andare a letto quel letto lì anche a non aver l’ombra del sonno.

— Mi figuro, — disse Sam guardando il mobile con uno sguardo di profondo disgusto, — mi figuro che al confronto il papavero non ci ha che far niente.

— Nientissimo, — rispose il signor Roker.

— E mi figuro anche, — disse Sam dando una mezz’occhiata al padrone per capire da qualche segno se mai le cose viste lo avevano scosso in certa maniera, — mi figuro che gli altri signori che dormono qui sono dei signori.

— Si capisce, — rispose il signor Roker. — Uno di essi prende le sue dodici pinte di birra al giorno e non smette mai di fumare, nemmeno a desinare.

— Dev’essere un pezzo grosso.

— Numero uno!

A dispetto di queste informazioni, il signor Pickwick sempre irremovibile manifestò sorridendo il suo desiderio di sperimentare per quella notte la potenza narcotica del letto famoso; e il signor Roker, dopo averlo avvertito ch’ei poteva andare a riposare a quell’ora che meglio gli piacesse senz’altra formalità, lo lasciò solo con Sam.

L’aria si faceva scura; vale a dire che in quel posto, dove la luce non entrava mai, si andravano accendendo alcuni becchi di gas come in omaggio alla sera che si addensava di fuori. Siccome il caldo si faceva un po’ sentire, vari inquilini delle molte cellette che davano di qua e di là sulla sala grande avevano spalancato gli usci. Il signor Pickwick nel passarvi davanti vi spingeva dentro lo sguardo con grande curiosità ed interesse. Qui, quattro o cinque omaccioni, appena visibili attraverso una nuvola di fumo di tabacco, discorrevano o si bisticciavano ad alta voce con davanti varie brocche smezzate di birra, o giocavano con un mazzo di carte unte e nere. Nella camera appresso si scorgeva un altro prigioniero, tutto solo, che se ne stava, al lume giallastro di una candela di sego, chino sopra un fascio di fogliacci gialli e stracciati, e andava scrivendo per la centesima volta qualche lunga enumerazione dei suoi reclami da presentare a qualche grand’uomo, agli occhi del quale non sarebbe mai giunta e il cui cuore non avrebbe mai toccato. In una terza, un uomo con la moglie e una nidiata di bambini si affaticava ad aggiustare un letticiolo per terra o sopra poche seggiole per farvi passar la notte ai più piccini. E in una quarta, e in una quinta, e in una sesta, e in una settima, il fracasso e la birra e il fumo di tabacco e le carte, tutto si ripeteva e si confondeva più fortemente e più stranamente di prima.

Nelle stesse sale e più specialmente su per le scale moltissimi prigionieri si dondolavano, alcuni per fuggire il vuoto e la solitudine delle loro camere, altri il troppo calore e la troppa gente; e la maggior parte poi perchè non trovavano requie di nessuna sorta nè sapevano precisamente che fare. Molte classi di persone vi erano, dall’operaio con la sua giacchetta di panno al dissipatore rovinato avvolto nella sfarzosa veste da camera con ai gomiti le sue brave buche: ma tutti avevano una stessa impronta come di famiglia, una specie di irrequietezza, di sciatteria, d’impudenza, e nondimeno di apprensiva timidezza, che a parole non si può descrivere, ma che subito s’intenderà da chi ne abbia voglia, sol che metta il piede nella più prossima prigione di debitori, e guardi al primo gruppo in cui s’imbatte con lo stesso interesse del signor Pickwick.

— Mi pare, Sam, — disse il signor Pickwick appoggiandosi alla ringhiera in cima alla scala, — mi pare, Sam, che la prigione per debiti non sia proprio una punizione.

— Vi pare?

— Voi vedete come questa gente beve, fuma e fa baccano. Non è credibile che se ne diano un gran pensiero.

— Ah, e qui sta il guaio, signore, non ci pensano punto; gli è come un giorno di festa per loro; bevono e giuocano e fanno il chiasso. Sono gli altri che ne patiscono, quei poveri diavolacci che non possono assaggiare un po’ di birra nè giocare a nessun gioco, che pagherebbero se potessero e cadono in malinconia quando si vedono in gabbia. Vi dirò io come sta la cosa, signore; quelli che vivono sempre per le bettole non ne soffrono nè punto nè poco, e quelli che lavorano sempre quando hanno da lavorare ne soffrono troppo. È ineguale, come diceva mio padre quando nel suo ponce c’era poca acquavite; è ineguale, e gli è qui che sta la magagna.

— Credo che abbiate ragione, Sam, — disse il signor Pickwick dopo qualche momento di riflessione, — molta ragione.

— Può anche darsi, — osservò Sam in tono meditativo, — che di tanto in tanto ci sia della gente per bene che ci trova gusto; ma per quanto mi ricordi, non c’è stato che l’ometto dal viso sudicio, ed in lui era tutta forza dell’abitudine.

— E chi era costui?

— Gli è proprio questo che nessuno ha mai saputo.

— Ma che cosa avea fatto?

— Quello che tanti e tanti più conosciuti di lui hanno fatto a tempo loro, dal troppo credito aveva perso il credito.

— In altri termini aveva contratto dei debiti?

— Precisamente, e coll’andare del tempo, com’era naturale, se ne venne qui. Non si trattava mica d’una gran somma, nove sterline e le spese, ma il fatto è che rimase qui dentro per diciassette anni di fila. Se mai qualche ruga gli si era fatta sul viso, non si potea vedere pel gran sudiciume che lo impiastricciava; perchè il viso sporco e il soprabito grigio erano, in capo ai diciassette anni, come il primo giorno della sua entrata in prigione. Era un pover’uomo pacifico ed inoffensivo, che si dava sempre attorno per qualcheduno, e giocava al volano e perdeva sempre, fino a che i carcerieri lo pigliarono a ben volere, ed ei passava tutte le sere in compagnia loro chiacchierando e contando storielle e altre cose così. Una tal sera ei si trovava lì al solito, solo con un suo vecchio amico che montava la guardia, quando tutto ad un tratto esce a dire: "Sono ormai diciassette anni, Bill — dice — che non vedo il Mercato"(c’era allora qui vicino il mercato della Fleet). "Lo so"risponde il carceriere fumando la sua pipa. "Vorrei proprio vederlo per un minuto, Bill"dice lui. "È probabilissimo"dice il carceriere fumando più forte e facendo le viste di non aver capito. "Bill"dice l’ometto "io mi son fitta la cosa in capo. Fatemi veder la strada un’altra sola volta prima di morire; e se non mi piglia un colpo, vi do parola che son qui fra cinque minuti con l’orologio alla mano."— "E che ne sarà di me, se davvero vi piglia un colpo?"dice il carceriere. "Chiunque mi trovasse"dice l’ometto sudicio "mi riporterebbe a casa, perchè io ho il mio biglietto in tasca, Bill; n.° 20, scala del caffè."E la cosa era vera, perchè quando volea far la conoscenza di un nuovo venuto, ei tirava fuori un fogliettino tutto unto con quelle parole scrittevi sopra e niente altro; e per questo è che lo chiamavano sempre il Numero Venti. Il carceriere lo guarda fiso un bel pezzo, e poi gli dice solennemente: "Io vi voglio credere, Venti"dice: "voi non metterete mica nell’impaccio il vostro vecchio amico?"— "No, bambino mio, spero bene di averci ancora qualcosa di buono qui sotto"dice l’ometto dandosi un colpo sul petto del soprabito grigio, e una lagrima gli scappa dagli occhi, il che era veramente un fatto straordinario, perchè si sapeva di certo che una goccia d’acqua non gli avea bagnato mai il viso. Strinse forte la mano dell’amico carceriere, ed uscì...

— E non tornò più? — disse il signor Pickwick.

— Per questa volta l’avete sbagliata, signore, — rispose il signor Weller, — perchè anzi ei tornò due minuti prima del tempo fissato, arrabbiato come un cane e dicendo che per poco non era capitato sotto una vettura da nolo; ch’ei non ci era abituato a questo, e che voleva essere squartato se non ne scriveva subito di buon inchiostro al lord Mayor. Ci volle il bello e il buono per calmarlo; e per altri cinque anni dopo di questo ei non cacciò nemmeno la punta del naso, fuori dalla porta del custode.

— E in capo a questi cinque anni morì, mi figuro, — disse il signor Pickwick.

— No, non morì, — rispose Sam. — Gli pigliò sulle prime una certa curiosità di assaggiar la birra ad un’osteria lì accanto; e il posto era così aggraziato, ch’ei si mise in testa, di andarci tutte le sere. E così fece per molto tempo, tornando sempre regolarmente un quarto d’ora prima che la porta della prigione si chiudesse, sicchè le cose non potevano andar meglio. Alla fine cominciò a mettersi su in modo da dimenticare che il tempo passava o da non pensarci niente affatto, e prese a ritirarsi sempre più tardi, fino a che una certa sera capitò che l’amico carceriere stava appunto chiudendo la porta ed avea già messa la chiave nella toppa, quando se lo vide venir avanti. "Un momento, Bill"gridò lui. "Come, non eravate ancora tornato, Venti?"dice il carceriere, "io mi credevo che eravate dentro da un pezzo."— "No, non c’ero mica"rispose sorridendo l’ometto. "Ebbene, sapete che c’è di nuovo?"dice il carceriere aprendo la porta lentamente e di malumore; "io credo che da un pezzo in qua vi siete cacciato in qualche mala compagnia, e la cosa mi dispiace. Io non voglio mica farvi del male, vedete, ma se non mettete la testa a segno, e se non tornate a casa ad ora debita, per quanto è certo che vi vedo, vi lascierò di fuori, e felice notte!"L’ometto tremò tutto quanto a questa minaccia, e da allora in poi non uscì mai più dalle mura della prigione.

Conchiuso che ebbe Sam il suo racconto, il signor Pickwick lentamente scese le scale. Dopo qualche giratina fatta in silenzio nella Corte Dipinta, quasi deserta per l’ora tarda, disse al domestico parergli tempo di andare a letto; si trovasse anch’egli da dormire in qualche vicina osteria e tornasse il giorno appresso di buon’ora per combinare il trasporto della guardaroba dal Giorgio ed Avvoltoio. Il signor Weller si preparò ad obbedire con quella miglior grazia che seppe, ma pure con una certa riluttanza. Osò perfino accennare in vario modo all’opportunità di coricarsi per terra, ma trovando sordo il padrone ad ogni suggestione di questo genere, si ritirò finalmente.

Non c’è da negare che il signor Pickwick si sentisse molto a disagio e molto depresso di animo; non già per difetto di compagnia, perchè invece la prigione era popolatissima, e in tutti i casi una bottiglia di buon vino avrebbe potuto tener luogo della conversazione più eletta senza noiose formalità di presentazioni; ma ei si vedeva solo in mezzo ad una folla bassa e volgare e non si poteva liberare dal pensiero di trovarsi in prigione senza alcuna prospettiva di uscirne. L’idea, di riscattarsi pagando il suo tributo alla sozza furberia di Dodson e Fogg non gli balenò nemmeno alla lontana.

In questa disposizione di animo tornò nella sala del caffè e si mise a passeggiare in qua e in là. Il sudiciume del luogo era intollerabile e il puzzo del tabacco soffocava. Gli usci sbatacchiavano con fracasso a tutti i momenti pel continuo va e vieni della gente, e il rumore delle voci e dei passi era incessante. Una giovane con in collo un bambino, la quale dalla miseria e dall’inedia si trascinava a fatica, andava su e giù accanto al marito che non aveva altro posto da vederla che quello. Nel passar che fecero, il signor Pickwick la udì che conteneva a stento degli amari singhiozzi; ed una volta il dolore e il pianto la presero così forte che si dovette sostenere al muro, mentre il marito le pigliava in braccio il bambino e cercava di calmarla e di consolarla.

Il signor Pickwick, col cuore troppo stretto da tale spettacolo di angoscia, se ne tornò su per mettersi a letto.

Ora, benchè la camera del custode fosse abbastanza incomoda, essendo in materia di decorazione e di decenza di parecchie centinaia di gradi inferiore alla più meschina infermeria di un carcere di provincia, aveva in questo momento il gran merito della solitudine. Il signor Pickwick si mise a sedere a piè del suo letto, e incominciò a pensare a quanto poteva ammontare la somma che il custode ricavava annualmente da questa sua camera sudicia. Dopo avere stabilito per un suo calcolo matematico che la rendita in questione poteva equivalere all’entrata di una stradicciuola nei sobborghi di Londra, passò a considerare qual sorta di tentazione avesse potuto ridurre un moscerino che gli si era attaccato ai calzoni ad entrare in una scura prigione quando invece aveva la scelta di tanti altri posti ariosi; e venne in ultimo a conchiudere che l’insetto doveva essere scemo di mente. Fissato questo punto, incominciò a sentire di aver sonno; sicchè tirò fuori il suo berretto da notte dalla tasca dove la mattina stessa avea avuto la precauzione di ficcarlo, e spogliandosi a tutto suo comodo entrò in letto e si addormentò.

— Bravo! Tacco e punta — salto mortale — in gamba Zeffiro! Voglio essere appiccato se le tavole del teatro non sono il tuo emisfero. Avanti. Urrà!

Queste esclamazioni lanciate rumorosamente e accompagnate da battimani e scrosci di risa scossero il signor Pickwick da uno di quei sonni profondi che, durando in effetto una mezz’ora, sembrano al dormiente esser durati dalle tre alle quattro settimane.

Cessata che fu la voce, un violento scotimento della camera fece tremare i vetri della finestra e i ferri del letto. Il signor Pickwick balzò a sedere e rimase per qualche istante muto dallo stupore per la scena che aveva davanti.

Sull’impiantito della camera, un uomo vestito in soprabito verde, calzoni di velluto nero e calze di cotone grigio, eseguiva i passi più complicati di una danza popolare con tanta buffoneria e tale affettatura di grazia e di leggerezza, che insieme con quel suo costume singolare facevano lo spettacolo più assurdo che si potesse immaginare. Un altro uomo, briaco fradicio, che probabilmente era stato gettato in letto dai compagni, se ne stava a sedere fra le lenzuola, canticchiando qualche frase smozzicata di un’arietta comica con un profondo sentimento di tenerezza e di afflizione; mentre un terzo, seduto sopra le tavole di un altro letto, applaudiva gli attori con l’aria di un consumato conoscitore e gli andava incoraggiando con quegli scoppi di entusiastica ammirazione che avevano appunto rotto il sonno al signor Pickwick.

Era questi un miserabile esemplare di una certa classe di persone pulite che solo in luoghi simiglianti si possono incontrare nella pienezza della loro perfezione. Si trovano anche qualche volta, in uno stato imperfetto, nei pressi delle scuderie e delle osterie; ma non si schiudono in tutto il loro rigoglio che in questa sorta di stufe, fornite quasi di proposito dalla provvida legislazione per la loro coltivazione e riproduzione.

Era un uomo di alta statura, di carnagione olivastra, lunghi capelli neri e folte basette, che contornandogli la faccia gli facevano come un’ispida collana. Non portando cravatta, poichè tutto il giorno non avea fatto che giocare al volano, spiccava quella in tutta la sua ispidezza dal collo sbottonato della camicia. Aveva in capo un berretto di pochi soldi con una nappina di seta sul cocuzzolo che si accordava molto bene alla sua giacchetta di fustagno. Le gambe, lunghe e deboli, erano ficcate in un par di calzoni che parevano fatti a posta per mettere in evidenza tutta la simmetria delle membra. Essendo però tenuti su con una certa negligenza ed imperfettamente abbottonati, cascavano in tante pieghe punto aggraziate sopra un par di scarpe scalcagnate che mettevano in mostra delle calze bianche e sporche. Aveva in sè costui una cert’aria di sciattaggine elegante e di sfrontata furfanteria, che valeva una miniera di oro

Fu questi il primo ad accorgersi che il signor Pickwick stava guardando; e subito ammiccò allo Zeffiro e lo pregò con molta gravità di non destare il signore.

— Benedetto lui, povero signore! — esclamò lo Zeffiro voltandosi di botto ed affettando la più profonda sorpresa; — ma gli è bello che desto, perbacco! Eh, eh, citiamo Shakspeare, mi pare! Come state, signore? come stanno Maria e Sara? e quella cara vecchina a casa come se la passa? Volete farmi la finezza di accludere i miei complimenti nel primo pacco che mandate dalla parte di casa, e di aggiungere che gli avrei spediti prima se non avessi temuto che si rompessero per istrada?

— Non opprimete il signore con cotesti complimenti senza sugo quando vedete ch’ei desidera qualche cosa da bere, — disse scherzosamente l’uomo dalle basette. — Perchè non gli domandate invece che cosa vuol prendere?

— Povero me, non ci pensavo! — riprese l’altro. — Che volete prendere, signore? vorreste del vino di Porto o dello Xeres? Per me, vi raccomanderei della birra doppia. Preferireste forse dell’acquavite? Permettetemi, vi prego, di aver la fortuna di sospendere il vostro berretto da notte, signore.

E unendo l’atto alla parola, strappò l’articolo in questione dal capo del signor Pickwick e in un batter d’occhio lo calcò su quello dell’ubbriaco, il quale, nella ferma persuasione di divertire una numerosa assemblea, continuava a scorticare la sua canzone nel tono più malinconico che si possa immaginare.

Per ingegnoso e spiritoso che sia questo scherzo dello strappare il berretto da notte dal capo di uno per aggiustarlo sul capo di uno sconosciuto non troppo pulito d’aspetto, esso appartiene senza dubbio a quella categoria di scherzi che si chiamano scherzi di mano. Scherzi di mani, scherzi di villani. Considerando la cosa da questo preciso punto di vista il signor Pickwick, senza la menoma prevenzione, balzò fuori dal letto, diè allo Zeffiro un così fiero colpo nel petto da privarlo di una buona parte del suo omonimo, e quindi, riafferrando il suo berretto, si mise bravamente in atteggiamento difensivo.

— Ed ora, — disse il signor Pickwick ansando come un mantice un po’ per la stizza, un po’ per lo sciupo di tanta energia, — venite avanti, tutti e due, avanti, dico!

E il brav’uomo avvalorò l’invito con un movimento giratorio delle pugna strette per atterrire i suoi avversari con una mostra della sua scienza.

Sia per questo subitaneo valore del signor Pickwick, sia pel modo complicato con cui egli balzando fuori del letto era piombato sul ballerino insolente, certo è che gli avversari ne furono commossi; perchè in effetto, in cambio di tentare lì su due piedi, come il signor Pickwick si aspettava, la perpetrazione di un assassinio, si fermarono, si guardarono un poco e dettero finalmente in una gran risata.

— Bravo! — esclamò lo Zeffiro, — quel muso duro mi piace. Orsù, rientrate in letto se non volete pigliare i reumatismi. Senza fiele, eh?

E così dicendo stese una mano non molto dissimile da quelle mani gialle o rosse che pendono qualche volta sopra la porta di un guantaio.

— Ma no di certo, — rispose subito il signor Pickwick, il quale, sbolliti i primi furori, incominciava a sentire un po’ di freddo alle gambe.

— Potrei aver l’onore? — disse il signore dalle basette, porgendo anch’egli la mano destra.

— Volentieri, grazie, — rispose il signor Pickwick; e dopo una lunga e solenne stretta di mano, si cacciò di nuovo fra le lenzuola.

— Io mi chiamo Smangle, signore, — disse l’uomo dalle basette.

— Ah, — fece il signor Pickwick.

— Ed io Mivins, — disse l’uomo dalle calze grigie.

— Ci ho molto piacere, — disse il signor Pickwick.

Il signor Smangle tossì.

— Dicevate, signore? — domandò il signor Smangle.

— Mi sembrava che aveste parlato, — disse il signor Pickwick.

— Niente, — rispose il signor Smangle.

Tutto questo era grazioso e gentile; e per rendere anche più gradita la posizione, il signor Smangle assicurò reiterate volte il signor Pickwick ch’ei nutriva la stima più profonda pei sentimenti di un gentiluomo; il quale sentimento lo onorava molto, non essendo credibile ch’egli in qualche maniera li conoscesse.

— Passerete per la Corte, signore? — domandò il signor Smangle.

— Per la che? — disse il signor Pickwick.

— Per la Corte, Portugal-street, sapete, la Corte per la dichiarazione d’insolvibilità...

— Oh no, niente affatto.

— Uscirete forse? — suggerì Mivins.

— Temo di no. Non voglio pagare certi danni e per conseguenza mi trovo qui.

— Ah! — esclamò il signor Smangle, — la carta è stata la mia rovina.

— Cartolaio? — domandò ingenuamente il signor Pickwick.

— Cartolaio! No, no, per tutti i diavoli, non ero disceso tanto giù. Niente commercio. Quando dico carta, parlo di cambiali.

— Ah, capisco, capisco!

— Capisco anch’io, perbacco, che un gentiluomo s’ha da aspettare i suoi rovesci. E che perciò? Eccomi qua in prigione. Benissimo. E poi? ho forse perduto qualche cosa? non sono forse lo stesso gentiluomo di prima?

— Da capo a piedi, — rispose il signor Mivins.

Ed avea pienamente ragione, visto che lungi dall’averci perduto qualche cosa, ei ci aveva guadagnato, poichè, a rendersi degno del posto, era primo entrato nel gratuito possesso di certi articoli di gioielleria che molto tempo innanzi aveano preso la via del Monte di pietà.

— Via, via, — disse Smangle, — la fatica è ormai troppa. Risciacquiamoci un po’ la bocca con un gocciolo di vino caldo. L’ultimo venuto lo paga, Mivins lo va a cercare ed io darò una mano per beverlo. Ecco, mi pare, una bella divisione di lavoro, proprio da signore.

Non avendo nessuna voglia di appiccare un’altra contesa, il signor Pickwick consentì di buona grazia e consegnò la moneta al signor Mivins, il quale, essendo quasi le undici, corse senza perdere più tempo alla sala del caffè.

— Ehi, dico, — bisbigliò Smangle nel punto stesso che l’amico lasciava la camera, — quanto gli avete dato?

— Una mezza ghinea, — rispose il signor Pickwick.

— Che caro e grazioso furfante! — esclamò Smangle. — Un vero zuccherino di bricconeria. Non ne conosco altri; ma...

E qui il signor Smangle si fermò in tronco e crollò il capo in aria dubitativa.

— Non pensate mica ch’egli possa essersi appropriato il danaro? — disse il signor Pickwick.

— Oh no, no, intendiamoci bene; io dico espressamente e ve lo ripeto ch’egli è un caro e grazioso furfante. Credo però che se qualcuno andasse un pochino giù, tanto per vedere se mai per caso ei mette il becco nella brocca o per una sciagurata distrazione perde il resto nel tornar di sopra, non ci sarebbe nulla di male. Scusate, voi, ci volete andar voi, di grazia?

Era rivolta questa domanda ad un ometto timido e nervoso, dall’apparenza poverissima, che se n’era stato tutto questo tempo accoccolato sul suo letto, molto sorpreso della sua situazione.

— Voi sapete dov’è la sala del caffè, — disse Smangle. — Fate un salto giù, e dite a quel signore che siete andato per dargli una mano a portar la brocca. Anzi... un momento... sentite... Ora vi dirò io come gliela ficcheremo.

— Come? — domandò il signor Pickwick.

— Mandiamogli a dire che tutta la moneta spicciola la spenda in sigari. Bellissima idea. Avete inteso? spicciatevi. Non saranno mica perduti, — aggiunse poi volgendosi al signor Pickwick. — Me li fumerò io.

La manovra era così ingegnosa e compiuta con tanta imperturbabilità, che il signor Pickwick, anche a poterlo fare, non l’avrebbe delusa. Di lì a poco tornò il signor Mivins col vino, che l’amico Smangle distribuì in due chicchere smussate; notando specialmente, riguardo a sè stesso, che in certi casi un gentiluomo non deve andar troppo pel sottile, e ch’egli non era poi tanto superbo da non volere accostar le labbra alla brocca. Ed a questa, per dar prova della sua sincerità, si attaccò senz’altro, ingollandone un sorso che la vuotò quasi a mezzo.

Entrati così nei migliori termini di cordiale dimestichezza, il signor Smangle prese a narrare ai suoi ascoltatori varie avventure romantiche con interessanti aneddoti relativi ad un cavallo di razza e ad una magnifica Ebrea, l’uno e l’altra di sorprendente bellezza ed ambiti e ricercati da tutta l’aristocrazia del paese.

Molto prima che questi eleganti estratti dalla biografia di un gentiluomo giungessero ad una conclusione, il signor Mivins s’era ritirato in letto ed avea preso a russare coscienziosamente, lasciando che il signor Pickwick e il suo timido compagno profittassero essi soli di tutta l’esperienza del signor Smangle.

Nè questi due erano così edificati, come avrebbero potuto, dai commoventi passaggi riferiti dal narratore. Il signor Pickwick, dopo essere stato un po’ in istato di mezzo assopimento, ebbe una mezza idea che l’ubbriaco intonasse di nuovo la sua canzone burlesca e ricevesse del signor Smangle, per via della brocca dell’acqua, la gentile ammonizione che l’uditorio non si trovava in una disposizione troppo musicale. Poi tornò a farsi pigliare dal sonno ed ebbe una percezione molto confusa di una lunga storia riferita dal signor Smangle, il cui punto principale sembrava esser questo, che in una certa occasione, messa specialmente in rilievo, egli avea fatto nel tempo stesso una cambiale ed un gentiluomo.

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