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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Contenente la storia dello zio del commesso viaggiatore
Capitolo 48 Capitolo 50

"Mio zio, signori" — incominciò il guercio — "era l’uomo più allegro, più svelto, più spassoso che sia mai stato al mondo. Vorrei che l’aveste conosciuto, signori. Pensandoci meglio, signori, io non vorrei che l’aveste conosciuto, perchè se l’aveste conosciuto, a quest’ora sareste tutti per legge di natura o morti, o in tutti i modi così vicini a morire da starvene tappati in casa e lontani dalla compagnia, il che mi priverebbe dell’inestimabile piacere di parlarvi in questo momento. Signori, io desidero che i vostri padri e le vostre madri avessero conosciuto mio zio. Gli avrebbero certamente voluto un gran bene, in ispecie le rispettabili vostre signore madri. Due virtù fra le moltissime che adornavano il suo carattere predominavano, cioè il suo modo di fare il ponce e le sue canzonette. Scusatemi se mi trattengo su questi malinconici ricordi di un merito che non è più: un uomo come mio zio non lo incontrerete tutti i giorni della settimana.

"Io ho sempre considerato come un gran punto nel carattere di mio zio, o signori, la sua intima amicizia con Tom Smart, della gran casa Bilson e Slum, Cateaton street, City. Mio zio viaggiava per conto di Tiggin e Welps, ma per un bel pezzo si trovò a dover fare quasi lo stesso giro di Tom; e la prima sera che s’incontrarono, mio zio prese simpatia per Tom e Tom prese simpatia per mio zio. Non s’erano ancora conosciuti da mezz’ora, che già aveano fatto una scommessa di un cappello nuovo a chi faceva meglio il ponce e lo beveva più presto. Mio zio, secondo il giudizio dei periti, riportò la vittoria sul primo punto, ma in quanto al bere Tom Smart lo vinse di circa un mezzo cucchiaio. Ordinarono subito un altro ponce per bere alla salute l’uno dell’altro, e furono da allora in poi i più intrinseci amici di questo mondo. C’è un destino in queste cose, signori miei, e non ci possiamo far nulla.

"Di persona, mio zio era un tantino al disotto della mezza statura, era anche un’ombra più grasso della comune degli uomini, e forse forse un zinzino più rosso nel viso. Aveva la faccia più ridanciana che si sia mai vista, signori miei; un po’ sul tipo di Pulcinella, vedete, con un naso però ed un mento molto più belli; gli schizzava dagli occhi il più schietto buon umore, e sulle labbra gli scherzava sempre un certo sorriso, che non somigliava punto punto a coteste smorfie di convenienza senza sugo, un sorriso tutto suo, franco, cordiale, simpatico, una bellezza. Una volta capitombolò dal calesse e andò a battere con la zucca contro una pietra miliare. Rimase lì intontito e così graffiato e tagliato per tutta la faccia per certi sassi che stavano ammonticchiati a quel punto, che, per usare l’energica frase di mio zio, se sua madre stessa fosse tornata in terra non l’avrebbe mica riconosciuto. Veramente, quando ci ripenso, lo credo anch’io, signori, che non l’avrebbe riconosciuto, perchè la povera donna morì quando mio zio aveva appena due anni e sette mesi, e mi par certo che, anche senza i sassi, gli stivaloni del figlio e quel faccione rosso ed allegro l’avrebbero imbrogliata un pochino. Comunque sia, rimase lì lungo disteso; e più di una volta ho sentito contare a mio zio che l’uomo che lo raccattò disse di averlo trovato tutto ridente come se si fosse precipitato per un suo gusto particolare, e che quando gli ebbero cavato sangue, la prima cosa che fece tornando in sè fu di balzare nel letto, scoppiare in una gran risata, appioppare un bacio alla ragazza che reggeva la catinella e ordinare una costoletta e delle noci in concia. Delle noci marinate egli andava matto, signori miei. Soleva dire di aver sempre sperimentato che, prese senza aceto, rendevano più saporita la birra.

"Il gran viaggio di mio zio era alla caduta delle foglie, tempo in cui egli andava attorno riscuotendo e prendeva commissioni nel nord da Londra a Edimburgo, da Edimburgo a Glasgow, da Glasgow di nuovo a Edimburgo, e di qua a Londra col postale. Bisogna però che sappiate che questa seconda visita a Edimburgo ei la faceva per conto proprio e per proprio piacere. Si tratteneva lì una settimana, così, per dare una capatina dai suoi vecchi amici; e tra uno spuntino di qua e una colazione di là, e il desinare con un terzo, e la cena con un quarto, la passava discretamente bene, come potete capire. Io non so se alcuno di lor signori si sia mai trovato ad una buona e solida colazione scozzese, e sia andato poi a fare una piccola refezione di un barile d’ostriche con una dozzina di bottiglie di birra e un par di caraffe di liquori per suggello. Se mai, converrete con me che ci vuole una bella forza per andar poi nello stesso giorno a pranzo ed a cena.

"Ma tutto questo, benedetti voi, era per quel fusto di mio zio men che nulla, uno scherzo da bambino, tanto egli era stagionato a dovere. Io gli ho sentito dire che tutti i giorni egli era buono di tener testa a quei di Dundee, e tornarsene poi a casa senza tentennare; e quei di Dundee, signori miei, hanno le teste più forti e il ponce più diabolico che si possa trovare da un capo all’altro della terra. Una volta, così per dirvene una, in una seduta sola, un uomo di Glasgow con un uomo di Dundee hanno bevuto faccia a faccia per quindici ore di fila. Per quanto si potette verificare, arrivarono tutti e due quasi nel punto stesso alla soffocazione, ma, all’infuori di questa piccola circostanza, o signori, non ne ebbero a soffrire altrimenti.

"Una sera, ventiquattr’ore prima della sua partenza per Londra, mio zio fu a cenare da un giudice suo vecchissimo amico, un tal Mac non so che, con quattro sillabe appresso che viveva nella vecchia Edimburgo. C’erano la moglie dei giudice di pace, le tre figlie, il figlio grande, e tre o quattro pezzi di scozzesi solidi e tarchiati, che il giudice avea messo insieme per far onore a mio zio e stare più allegramente. Fu una cena numero uno. C’era del salmone marinato, dei merluzzi affumicati, una testa d’agnello, e un haggins: un famoso piatto scozzese, signori, che a mio zio faceva l’effetto, tutte le volte che veniva in tavola, di un ventre di Cupido; e molte altre cose, di cui non mi ricordo più i nomi, ma in tutti i modi cose prelibatissime. Le ragazze erano carine e stavano allegre; la moglie del giudice, la più buona creatura di questo mondo; mio zio, in tutta la sua vena e con un diavolo per capello sicchè, come capite bene, le signorine facevano le birichine, la mamma rideva a crepapelle, e il giudice con gli altri facevano un buscherio che non vi dico ed erano rossi in viso come tacchini. Non mi ricordo ora per l’appunto quanti bicchieri di ponce si bevette ciascuno dopo cena, ma questo so di sicuro, che verso l’una dopo la mezzanotte, il figlio grande del giudice si addormentò come un ceppo mentre intuonava il primo verso della canzone: "Guglielmo al macero con l’orzo andava"; e siccome era lui il solo che da una buona mezz’ora fosse visibile al disopra della tavola, venne l’idea a mio zio ch’era tempo di battersela, tanto più che s’era cominciato a bere alle sette e ch’ei voleva tornare a casa ad un’ora decente. Ma pensando che potesse parer brutto l’andarsene proprio allora, s’insediò a capo tavola, si versò un altro bicchiere di ponce, si alzò per bere alla propria salute, si rivolse un bel discorsetto, e con grande entusiasmo vuotò il bicchiere. Nessuno però si svegliava; sicchè mio zio prese un altro gocciolo di liquore — puro questa volta, tanto per mutare — e afferrando e cacciandosi in capo il cappello, si trovò di lì a poco all’aria aperta.

"Era una notte disperata quando mio zio si chiuse alle spalle l’uscio di strada. Si calcò meglio il cappello perchè il vento non se lo portasse via, si ficcò le mani in tasca, e guardando in su cercò di vedere che razza di tempo facesse. Le nuvole scappavano sulla faccia della luna come se avessero il diavolo in corpo, e un po’ l’oscuravano a dirittura, un po’ la lasciavano affacciarsi da uno sdrucio in tutto il suo splendore che si spandeva sopra ogni cosa intorno, e subito dopo tornavano a correrle addosso e a rifare il buio più fitto. "Non è affare" disse mio zio, parlando al tempo, come se si sentisse personalmente offeso. "Non mi conviene mica con questo tempaccio di mettermi in viaggio. No davvero, no davvero, no davvero!" E dopo aver ripetuto molte volte questa frase, si rimise con una certa difficoltà in equilibrio — perchè quel guardare in su così a lungo l’avea un po’ stordito — e andò avanti allegramente.

"La casa del giudice era nel Canongate, e mio zio doveva essere all’altro capo di Leith Walk, un miglio buono di cammino. Dall’una parte e dall’altra si alzavano verso il cielo scuro certe casaccie tetre ed alte, con facciate decrepite, con finestre che parevano occhi sciupati e infossati dagli anni. Erano case di sei piani, di sette, di otto: un piano sull’altro e poi un altro e poi un altro, come fanno i bambini con le carte — che gettavano le loro ombre scure sulla strada mal lastricata e facevano la notte più scura. Qua e là, a grandi distanze, occhieggiava un lampione, che serviva soltanto a rischiarare il sudiciume di qualche bugigattolo o la parete intricata di scale e scalette che mettevano da un piano all’altro. Guardando a tutte queste cose con l’aria astratta di un uomo che l’abbia già viste un milione di volte, mio zio camminava nel mezzo della strada coi pollici nei taschini della sottoveste, canticchiando di tanto in tanto un motivetto o intonando una canzone con tanta forza di polmoni, che la brava gente disturbata nel primo sonno sbarravano tanto d’occhi e tremavano a verga a verga nel letto fino a che il suono se ne moriva nella distanza; e allora, persuadendosi che si trattava soltanto di qualche ubbriaco che cercava la via di casa, si ficcavano sotto le coltri e ripigliavano sonno.

"Insisto, o signori, su questo fatto che mio zio camminava nel mezzo della strada coi pollici nei taschini della sottoveste, perchè, com’egli spesso soleva dire, e con ragione, non c’è in questa storia qui nulla di straordinario, se non vi fate ben capaci fin dal principio ch’ei non era punto tagliato al romantico o al fantastico.

"Signori, mio zio camminava coi pollici nei taschini della sottoveste, pigliando tutto per sè il mezzo della strada, e cantando ora un verso di una canzone di amore, ora un verso di un brindisi, e quando s’era seccato dell’una e dell’altro, zufolando melodiosamente, fino a che non fu giunto al Ponte del Nord, che unisce la vecchia Edimburgo alla nuova. Si fermò qui un minuto a contemplare gli strani e capricciosi gruppi di lumi ammonticchiati gli uni sugli altri, e che luccicavano così alto da parere come tante stelle che brillassero da una parte sulle mura del castello e dall’altra su Calton Hill, come se illuminassero veramente dei castelli in aria, mentre la vecchia e pittoresca città dormiva di sotto profondamente nell’oscurità fitta della notte, col suo palazzo e la sua cappella di Holyrood, guardata giorno e notte, come un amico di mio zio soleva dire, dal trono del vecchio Arturo, torreggiante, bieco e cupo come un genio maligno, sull’antica città che avea guardata per tanto tempo. Dico, signori, che mio zio si fermò qui un minuto per guardarsi attorno; e poi, facendo un complimento al tempo che s’era un po’ rischiarato, benchè la luna calasse al tramonto, seguitò a camminare da gran signore, tenendo sempre con gran dignità il mezzo della strada, e con una cert’aria di voler proprio imbattersi in qualcuno che si permettesse di contrastarglielo. Fatto sta che non ci fu nessuno che glielo contrastasse; sicchè andò avanti, coi pollici nei taschini della sottoveste, tranquillo e pacifico come un agnello.

"Quando mio zio fu giunto in fondo a Leith Walk, aveva da traversare un bel pezzo di sterrato che lo separava da un vicolo, che menava poi diritto a casa sua. Ora su questo sterrato c’era in quel tempo uno steccato appartenente a qualche padrone di carrozze, che trattava con le Poste per l’acquisto delle diligenze fuori uso, ed essendo mio zio molto tenero delle carrozze, vecchie, giovani o di mezza età, gli venne in capo tutto ad un tratto di deviare un po’ dal suo cammino pel solo gusto di spiare un tantino fra le fessure dello steccato, ricordandosi che ci dovevano esser dentro alla rinfusa una dozzina di coteste carrozze sgangherate. Mio zio, signori, era un cert’uomo di primo sangue, che non sapeva mica che cosa fosse la pazienza; sicchè, vedendo che dalle fessure dello steccato nulla si vedeva, lo scavalcò a dirittura, balzò dentro, e andandosi a sedere sopra un vecchio timone, si diè con molta gravità a contemplare le diligenze.

"Ce ne poteva essere una dozzina, dal più al meno — mio zio non è stato mai certo su questo punto, ed essendo uomo scrupoloso in materia di numeri, non voleva dir bugia; — ma il fatto è che lì stavano tutte, — l’una adosso all’altra, nello stato più deplorevole di questo mondo. Gli sportelli strappati e pendenti dagli arpioni, i cuscini sventrati e spellati, con qualche lembo di stoffa attaccato qua e là ad un chiodo arrugginito. Lampioni non se ne vedevano più e nemmeno timoni; tutto il ferro era mangiato dalla ruggine, tutta la pittura e la vernice scorticate. Il vento fischiava attraverso le fessure della cassa, e la pioggia, raccoltasi sull’imperiale, cadeva dentro a goccia a goccia con un suono cupo e malinconico. Erano gli scheletri di tante diligenze morte, e in quel posto solitario, a quell’ora della notte, avevano un aspetto freddo e lugubre.

"Mio zio si prese il capo fra le mani e corse col pensiero a tutta la gente irrequieta, affaccendata ch’era andata attorno, tanti anni fa, in queste vecchie carrozze, e che ora non era meno mutata e silenziosa; pensò a quelle innumerevoli persone, cui una di queste carrozzaccie scheletrite avea portato per tanti anni di fila, tutte le notti, con ogni sorta di tempo, la nuova aspettata con ansia, il danaro sospirato, la promessa assicurazione della salute e della salvezza, l’annunzio improvviso della malattia o della morte. Il negoziante, l’innamorato, la moglie, la vedova, la madre, lo scolaro, lo stesso bambino che correva tutto allegro alla bussata del postino — come avevano tutti e con che palpiti aspettato l’arrivo della vecchia diligenza! E dov’erano più tutti costoro? dov’erano?

"Signori, mio zio soleva dire di aver pensato a tutto questo in quel momento, ma io sospetto in certo modo ch’ei l’abbia letto dopo in qualche libro. Certo è ch’ei cadde in una specie di assopimento quando si mise a sedere sul vecchio timone e che fu destato di botto da un orologio che batteva le due. Ora, mio zio non è mai stato molto pronto a pensare, e se veramente avesse pensato a tutte queste cose, non l’avrebbe fatto a meno, secondo me, di due ore e mezzo. Per me dunque, signori, ritengo fermamente che mio zio cadde nel suo assopimento senza aver pensato a nulla di nulla.

"Comunque stia la cosa, l’orologio suonò le due. Mio zio si destò, si strofinò gli occhi e balzò in piedi stupefatto.

"In un momento, dopo che l’orologio ebbe suonato le due, tutto quel luogo deserto e tranquillo s’era mutato in una scena piena di vita e di movimento. Gli sportelli erano a posto, le stoffe rimesse, le molle come se fossero nuove, la pittura e la vernice restaurate, i lampioni accesi, le cassette all’ordine con cuscini e cappotti. I facchini ficcavano involti e fagotti in tutte le casse, i postini ammontavano da una parte le sacche delle lettere, i mozzi di stalla gettavano secchie di acqua contro le ruote; correvano uomini di qua e di là, fissando i timoni a questa e a quella carrozza; arrivavano passeggieri, si caricavano valigie sull’imperiale, si attaccavano cavalli, e in somma era chiaro come due e due fanno quattro che ciascuna di quelle carrozze dovea partire all’istante. Signori, mio zio spalancò talmente gli occhi a tutto questo, che fino all’ultimo respiro della sua vita ei soleva maravigliarsi come mai avesse potuto chiuderli di nuovo.

"— Orsù, — gridò una voce, mentre una mano batteva sulla spalla di mio zio, — voi siete scritto per un posto all’interno. Meglio è che montiate.

"— Io scritto! — esclamò mio zio voltandosi.

"— Voi, sì.

"Mio zio, signori, non trovò parole, tanta era la maraviglia. Il più curioso era poi questo che, con tanta folla di gente e col sopravvenire di nuove faccie a tutti i momenti, non si poteva capire di dove venissero; pareva che schizzassero dall’aria o di sotterra e che allo stesso modo sparissero. Non appena un facchino avea posto il bagaglio nella carrozza e intascato la sua mancia, voltava le spalle e spariva; e prima che mio zio avesse potuto indovinare che diamine se ne fosse fatto, un’altra mezza dozzina ne scattava fuori e andava attorno portando fagotti e valigie che pareva dovessero schiacciarli dal peso soverchio. I passeggieri poi erano tutti vestiti in un modo curioso assai: portavano dei soprabitoni ricamati con grandi rivolte e punto colletti; e delle parrucche, signori miei, delle parrucche maiuscole con la borsa di dietro. Mio zio non ne capiva un’acca.

"— Sicchè, montate sì o no? — disse la persona che già avea parlato a mio zio. Vestiva da cocchiere di posta, con gran parrucca e grandi rivolte, e teneva in una mano una lanterna e nell’altra un massiccio trombone. — Montate sì o no, Jack Martin? — disse il cocchiere alzando la lanterna in faccia a mio zio.

"— Ohei — fece mio zio indietreggiando di uno o due passi. — Che confidenze son coteste!

"— Così sta scritto sul foglio di via, — rispose il cocchiere.

"— Non c’è nemmeno un signor davanti? — disse mio zio; perchè quel chiamarlo Jack Martin così senz’altro gli pareva, per un corriere che non lo conosceva nè punto nè poco, una certa impertinenza che la Direzione delle Poste non avrebbe fatta passar liscia, se fosse venuta a saperlo.

"— No, non c’è, — rispose freddamente il corriere.

"— È pagato il biglietto? — domandò mio zio.

" — Naturalmente, — rispose il corriere.

"— Proprio? — fece mio zio. — Quand’è così, andiamo pure. Che diligenza?

"— Questa qui, — disse il corriere, indicando una diligenza di forma antiquata che faceva il servizio fra Edimburgo e Londra; lo sportello era aperto e la predellina calata. — Un momento, ecco degli altri passeggieri. Lasciate che passino avanti.

"Mentre il corriere parlava, apparve ad un tratto proprio di faccia a mio zio un giovine signore in parrucca incipriata e con un soprabito azzurro ricamato di argento, con le falde larghe arrovesciate a triangolo e foderate di casimiro. Tiggin e Welps lavoravano in novità di stoffe, o signori, sicchè mio zio le riconobbe a prima vista. Portava calzoni di seta, calze di seta e fibbie alle scarpe; polsini orlati di pizzo, cappello a tre punte, ed a fianco lo spadino lungo e sottile. La sottoveste gli scendeva fino a mezza coscia, e le punte della cravatta gli giungevano alla vita. Si avanzò gravemente verso lo sportello, si cavò il cappello e lo tenne alto sulla testa col braccio teso, alzando nel tempo stesso il mignolo come fanno certe persone affettate quando sorbiscono il tè; poi strinse insieme i piedi, fece un profondo inchino e sporse la mano sinistra. Mio zio stava lì lì per farsi avanti e per stringergliela cordialmente, quando si accorse che tutte queste attenzioni non erano mica rivolte a lui, ma ad una signorina, che apparve proprio in quel punto allo sportello, vestita con un abito all’antica di velluto verde con la vita lunga e il corpetto allacciato davanti. Invece del cappellino, signori, portava un cappuccio di seta nera; ma nel voltarsi che fece prima di entrare in carrozza, mostrò un certo visino bello come il sole, un visino che mio zio non aveva visto mai, nemmeno dipinto. Montò poi, tenendosi su lo strascico con una mano e, come mio zio diceva sempre attaccando un moccolo tanto fatto, non avrebbe mai e poi mai potuto credere, se non l’avesse visto con gli occhi propri del capo, che delle gambe e dei piedini potessero esser portati a quel grado di perfezione squisita.

"Ma in quel subito voltarsi della bella faccia, vide mio zio che la signorina gli avea rivolto un’occhiata supplichevole e che pareva tutta atterrita e disperata. Notò pure che il signorotto dalla parrucca incipriata, a malgrado di tutta la sua galanteria, le aveva dato una stretta al polso ed era subito dopo di lei montato in carrozza. Faceva parte della brigata un certo coso dal viso arcigno con in capo una parrucca nera, soprabito color granato, stivaloni a tromba e spadone allato; e quando si pose a sedere a fianco della signorina, che si raggomitolò tutta in un cantuccio al disonesto contatto, mio zio si confermò nella sua prima impressione che del buio e del mistero ci dovesse essere, o, secondo la sua espressione, che "qualche vite era spanata". È sorprendente com’ei prese subito il suo partito di aiutare la signorina, se mai ce ne fosse bisogno, ad ogni suo rischio e pericolo.

"— Morte e dannazione! — esclamò il signorotto, portando la mano all’elsa della spada nel punto che mio zio entrava in carrozza.

" — Sangue e fulmini! — ruggì quell’altro.

"E così dicendo sguainò la sua durlindana e tirò una botta diritta a mio zio. Mio zio non aveva armi addosso, ma con gran destrezza di mano strappò il cappello a tre punte del suo avversario e parando la botta ricevette la punta nel cocuzzolo del cappello, spremette da una parte e dall’altra, e tenne forte.

"— Afferratelo di dietro, — strillò l’uomo arcigno al compagno, lottando e sforzandosi di liberar la sua spada.

"— Meglio che si stia cheto, — gridò mio zio, alzando minacciosamente il tacco d’uno stivale. — Gli faccio schizzar fuori il cervello se ce n’ha, e gli fracasso il cranio se non ce n’ha.

"Con uno sforzo terribile mio zio riuscì a strappar la spada dalle mani del suo avversario e la scaraventò lontano fuori dello sportello, al che il signore più giovine tornò a gridare: "Morte e dannazione!" e portò la mano, con atto feroce, all’impugnatura della sua spada, ma non sguainò niente. Forse, signori, come mio zio soleva dire con un suo risolino, forse ei voleva spaventare la signorina.

"— Ed ora, signori miei, — disse mio zio, pigliando bravamente il suo posto, — coteste morti con o senza fulmini in presenza di una signora non mi vanno mica, e mi pare che di sangue e dannazione non ce ne voglia più. Sicchè, se non vi dispiace, ce ne staremo a sedere da buoni compagni di viaggio. Ehi, corriere, raccattate il trinciante di questo signore.

"Non appena mio zio ebbe pronunciate queste parole, comparve il corriere allo sportello con in mano la spada di quel signore. Teneva su la lanterna e guardava fiso a mio zio porgendogli la spada, quando con indicibile sorpresa mio zio vide a quella luce che un’immensa folla di corrieri e di postiglioni si accalcava allo stesso sportello, tutti fissando lui con tanto d’occhi. Un tal mare di faccie bianche e di corpi rossi e di occhi sbarrati non l’avea mai visto dal giorno della sua nascita in poi.

"— Questa è la più strana cosa che mi sia capitata! — pensò mio zio, — permettete, signore, che vi renda il vostro cappello.

"Il coso arcigno si pigliò in silenzio il suo cappello a tre punte, guardò tutto sorpreso al buco che c’era nel mezzo, e finalmente se lo calcò sulla parrucca con una solennità resa più imponente da uno sternuto che glielo fece di nuovo balzar lontano.

"— Tutto all’ordine! — gridò il corriere con la lanterna, montando nel suo seggiolino di dietro. Partirono. Mio zio si affacciò allo sportello nel punto che s’usciva dal cortile, e vide che le altre carrozze, con cocchieri, postiglioni, cavalli, passeggieri, correvano l’una dietro l’altra in giro, ad un trotto di circa cinque miglia all’ora. Mio zio, signori, bruciava d’indignazione. Da uomo di commercio, ei sentiva che non era lecito pigliare in burletta il servizio postale, e deliberò di scrivere due parole di buon inchiostro alla Direzione delle Poste, appena messo piede in Londra.

"Pel momento però i suoi pensieri erano tutti rivolti alla damina raccolta nell’angolo più scuro della carrozza, con la faccia ben nascosta sotto il cappuccio. Le sedeva dirimpetto il signorotto dal soprabito azzurro, accanto quell’altro dal soprabito color granato, e tutti e due intentamente la sorvegliavano. Per poco ch’ella toccasse o spostasse le pieghe del cappuccio, ei sentiva che il coso arcigno impugnava l’elsa della spada, e da un rifiatar grosso capiva (il buio era così fitto che non poteva vederlo in faccia) che quell’altro ringhiava e si rabbuffava come se volesse mangiarsela in un boccone. Tutto questo non fece che stizzire sempre più mio zio, il quale decise, checchè potesse accadere, di vederne la fine. La sua ammirazione per gli occhi lucidi, pei visini aggraziati, pei piedi piccini e per le belle gambe, era un’ammirazione grande: il fatto è che il bel sesso in genere gli piaceva assai. Siamo così di famiglia, signori: mi piace assai anche a me.

"Molti espedienti tentò mio zio per attirare l’attenzione della damina o almeno per appiccar discorso coi due misteriosi compagni di viaggio. Ma tutto era inutile; gli uni non volevano aprir bocca, e l’altra aveva paura di farsi scorgere. Di tratto in tratto ei metteva il capo fuori dello sportello e gridando con quanto n’aveva in gola domandava perchè non s’andava più presto. Ma aveva un bel gridare e sgolarsi, nessuno gli badava. Si sdraiò al suo posto e si mise a pensare al bel visino, ai piedini e alle gambe. Questo gli conveniva meglio; da una parte ammazzava il tempo; dall’altra non avea modo di pensare dove s’andasse e come mai si trovasse in una posizione così curiosa. Non già che questo gli premesse gran fatto; gli era un cert’uomo, mio zio, che nemmeno il diavolo gli faceva paura; franco, spensierato, manesco, signori miei, che non ce ne poteva essere un altro.

"Tutt’ad un tratto la carrozza si fermò.

"— Ohe! — gridò mio zio. — Che altra novità è questa?

"— Smontate qui, — disse il postiglione aprendo lo sportello.

"— Qui! — fece mio zio.

"— Qui, — rispose il postiglione.

"— Nemmeno per sogno, — disse mio zio.

"— Sta bene, — disse il postiglione; — e allora statevi.

"— E io mi sto, — disse mio zio.

"— Bravo, — disse il postiglione.

"Gli altri passeggieri aveano prestato a questo dialogo la massima attenzione, e vedendo che mio zio era ben risoluto di non smontare, il signorotto facendosi sottile gli passò davanti per dar mano alla signorina. Il coso arcigno intanto osservava il buco del suo cappello a tre punte. La signorina si alzò, e nel punto stesso che toccava con la veste le ginocchia di mio zio, gli fece cadere in mano uno dei suoi guanti, e bisbigliò, movendo appena le labbra così vicino alla faccia di lui da fargli sentir sul naso il calor del fiato, bisbigliò quest’unica parola: "Aiuto!" Signori, mio zio non fece che un salto fuori della carrozza, e con tale violenza da farla stridere sulle molle.

" — Oh, oh! ci avete pensato meglio? — disse il postiglione, quando vide mio zio a terra.

"Mio zio guardò per alcuni secondi in viso al postiglione, pensando un po’ se dovesse strappargli di mano il suo trombone, spararlo in faccia all’omaccio dalla durlindana, dare addosso col calcio al resto della compagnia, pigliarsi in braccio la signorina, e scappare in mezzo al fumo. Pensandoci meglio, però, abbandonò questo piano che gli sembrò un tantino troppo melodrammatico, e si mise dietro ai due uomini misteriosi, i quali, tenendosi in mezzo la signorina, entravano appunto nella vecchia casa dove la carrozza avea fatto alto. Entrarono, voltarono per un corridoio, e mio zio li seguì.

"Era la casa più desolata e decrepita che mio zio avesse mai vista. Aveva l’aria di essere stata un tempo una specie di grande albergo; ma il tetto s’era sfondato qua e là, e le scale erano rotte, dirupate e sdrucciolevoli. C’era un enorme camino nella sala dove erano entrati, con la cappa annerita dal gran fumo, ma senza ombra di fuoco. La cenere bianca e sottile della legna bruciata copriva ancora gli alari, ma la stufa era ghiaccia, e tutto intorno era scuro e triste.

"— Bè, — disse mio zio guardandosi intorno, — una diligenza che fa sei miglia e mezzo all’ora e poi ferma per un tempo indefinito ad una tana come questa qui, non mi pare una faccenda troppo regolare. Bisogna farle sapere queste cose; ne scriverò io due parole ai giornali.

"Mio zio disse questo a voce piuttosto alta e in un certo modo franco ed aperto, con l’idea di appiccar discorso coi due forestieri. Mai nessuno dei due gli badò altrimenti che guardandolo a stracciasacco e bisbigliandosi certe loro parole all’orecchio. La signorina stava in fondo in fondo alla sala, ed una volta sola si azzardò a muovere una mano come per chiedere soccorso a mio zio.

"Finalmente i due forestieri si avanzarono un poco, e la conversazione cominciò per davvero.

"— Ehi, brav’uomo, — disse il signorotto, — voi ignorate forse che questa qui è una camera privata.

"— No, giovinotto, no, — rispose mio zio. — Soltanto che se questa qui è una camera privata ordinata a posta per l’occasione, la sala comune ha da essere comoda parecchio.

"E così dicendo, mio zio si pose a sedere in un seggiolone con tanto di spalliera, e con una sola guardata misurò così bene da capo a piedi il signorotto azzurro, che Tiggin e Welps su quella sola stima gli avrebbero potuto fornire un intero costume di calicò senza scattare d’un centimetro.

"— Uscite! — dissero ad una voce i due uomini, mettendo mano alle spade.

" — Eh? — fece mio zio facendo le viste di non aver capito.

" — Uscite o siete morto, — disse il coso arcigno, sguainando la durlindana e facendo il mulinello.

"— Diamogli addosso! — gridò il signorotto azzurro, sfoderando e mettendosi in guardia. — Diamogli addosso!

"La signorina gettò uno strido acutissimo.

"Ora, mio zio in materia di ardire e di presenza di spirito dava dei punti a chicchessia. Tutto il tempo che s’era mostrato così indifferente a quel che accadeva, egli era stato a guardar sottecchi di qua e di là caso mai gli venisse fatto di scorgere qualche proiettile o una qualunque arme difensiva; e nel punto preciso che le spade si sguainarono egli adocchiò in un angolo del camino una vecchia spadaccia in un fodero arrugginito. Con un balzo mio zio l’afferrò, la sfoderò, la fece bravamente girar per aria, gridò forte alla damina che si tirasse da parte, scaraventò la seggiola addosso al signorotto azzurro, il fodero addosso al coso granato, e profittando della confusione, diè loro addosso come un uragano.

"C’è una vecchia storia, signori, — che ad esser vera non ci perde nulla, — dove si narra di un giovane Irlandese il quale, richiesto se sapesse suonare il violino, rispose che non ci trovava nessuna difficoltà, ma che non poteva dirlo di certo, per la semplice ragione che non ci s’era provato mai. Questo fatto è anche applicabile a mio zio e alla sua scherma. Non avea mai e poi mai tenuto una spada in mano meno una volta che gli era toccato di far da Riccardo III in un teatro di dilettanti, nella quale occasione fu convenuto con Richmond che si sarebbe fatto passar da banda a banda dalla parte di dietro senza opporre alcuna resistenza. Ma ei stava lì nondimeno trinciando e spaccando con due spadaccini di prima forza, tirando botte, parando, spingendo, rannicchiandosi, saltando, e in somma disimpegnandosi con la maggior destrezza e bravura di questo mondo, benchè fino a quel punto non si fosse mai accorto di capirne un’acca. Il che prova una volta di più, signori, tutta la verità del vecchio adagio che un uomo non sa mai quel ch’è capace di fare fino a che non si prova.

"Lo strepito del combattimento era terribile, perchè tutti e tre i combattenti bestemmiavano come soldatacci, e le spade cozzavano con tanto fracasso come se tutti i coltelli e i ferri del mercato di Newport si azzuffassero in un punto. Quando fu al colmo, la signorina, forse per dar più coraggio a mio zio, si tolse interamente il cappuccio e scoprì una faccia di una bellezza così abbagliante ch’ei si sarebbe battuto con cinquanta uomini solo per aver da lei un sorriso e poi morire. Avea fatto delle meraviglie, ma ora incominciò a dirittura a sbracciarsi ed a tempestare come un gigante pazzo.

"Voltandosi, il signorotto azzurro si accorse che la damina s’avea scoperto il viso; diè un grido di rabbia e di gelosia, e correndole sopra con la spada le tirò tale puntata che mio zio mise un ruggito di spavento. Ma la damina balzò svelta di lato, e afferrando la spada prima che il giovane si fosse raddrizzato, gliela strappò, spinse lui contro lo stipite della porta, e passandolo da parte a parte e ficcandogli in corpo la spada fino all’impugnatura, lo inchiodò netto e sodo. L’esempio era stupendo. Mio zio, con un grido di trionfo e un impeto rovinoso, fece indietreggiare nella stessa direzione il suo avversario, e ficcandogli la vecchia spadaccia proprio nel centro di un fiorone della sottoveste, lo inchiodò accanto all’amico suo. Stavano lì tutti e due, signori, agitando braccia e gambe come quei pupi di cartone che i bambini fanno muovere con un filo. Mio zio diceva spesso in seguito, che questo era il modo più sicuro di sbarazzarsi di un nemico, meno il solo inconveniente della spesa, perchè bisognava perdere una spada per ogni uomo messo fuori combattimento.

" — La carrozza! la carrozza! — gridò la damina, precipitandosi verso mio zio e gettandogli le braccia al collo; — possiamo ancora salvarci; fuggiamo!

"— Possiamo! — disse mio zio; — non c’è da ammazzar nessun altro, mi figuro, eh?

"Mio zio era un po’ seccato della cosa; perchè pensava da sè a sè che un sensetto di amore dopo tutto quell’ammazzamento non avrebbe fatto male a nessuno, non foss’altro che per mutare.

"— Non abbiamo un minuto da perdere, — riprese la damina. — Costui (e accennava al signorotto azzurro) è l’unico figlio del potente marchese di Filletoville.

"— Ebbene, cara mia, ho paura che a portare il titolo non ci arriverà mai, — disse mio zio, guardando freddamente al signorotto che stava inchiodato nello stipite come uno scarafaggio. — Gli avete soffiato il maggiorasco, amor mio. .

"— Mi hanno rapita dalla mia casa, dai miei parenti, questi furfanti, — esclamò la damina con gli occhi lucidi dallo sdegno. — Questo sciagurato mi avrebbe tra un’ora sposata per forza.

"— Gaglioffo impudente! — fece mio zio gettando un’occhiata di profondo disprezzo al moribondo erede di Filletoville.

"— Come vi potete figurare da quel che abbiamo visto, — disse la signorina, — i loro complici mi ammazzeranno di certo, se per poco chiamate qualcuno in soccorso. Se ci trovano qui, siamo perduti. Fra due minuti sarebbe forse troppo tardi. La carrozza! la carrozza!

"E così dicendo, oppressa dall’emozione e dallo sforzo fatto per infilare il giovane marchese di Filletoville, la povera giovane cadde fra le braccia di mio zio. Mio zio se la pigliò in collo e la portò giù alla porta della casa. La carrozza stava lì, con quattro cavalli neri con le criniere sciolte, le code lunghe, attaccati ed all’ordine; ma non c’era nè cocchiere, nè postiglione e nemmeno un mozzo alla testa dei cavalli.

"Signori, io spero di non fare ingiuria alla memoria di mio zio quando dico che, benchè fosse scapolo, gli era capitato più di una volta di tenere delle signore in braccio; credo anzi che avesse una certa abitudine di baciare le fantesche degli alberghi, e so che una o due volte era stato veduto da due testimoni degni di fede accarezzare e stazzonare amorosamente la locandiera in persona. Ricordo questa circostanza, per farvi capire che sorta di bellezza doveva esser questa della damina rapita, per fare una così forte impressione sull’animo di mio zio; ei diceva sempre che vedendo quei lunghi capelli neri cadergli diffusi sul braccio, e quei begli occhi neri guardarlo fiso quand’ella rinvenne, si sentì così nervoso, così curioso, che le gambe gli tremarono sotto. Ma chi è che può guardare un bel paio d’occhi neri senza sentirsi un non so che? Io no, signori. Ci sono certi occhi che so io, che mi fanno paura, parola d’onore!

"— Non mi lascerete mai, mai? — mormorò la damina.

"— Mai, — esclamò mio zio. E lo diceva col sangue agli occhi.

"— Mio caro liberatore! — esclamò la damina. — Mio caro, buono, coraggioso liberatore!

"— Via, via, — fece mio zio interrompendola, — smettete.

"— Perchè? — domandò la damina.

"— Perchè avete un certo bocchino così aggraziato quando parlate, — rispose mio zio, — che io ho paura di non mi tenere e di baciarlo.

"La damina alzò la mano come per avvertire mio zio che non si permettesse, e disse... cioè no, non disse niente... sorrise. Quando voi vi trovate a contemplare un paio delle più deliziose labbra di questo mondo, e ve le vedete che si aprono dolcemente ad un sorriso birbone — se vi ci trovate proprio vicino e che nessuno vi vede — non potete provar meglio la vostra ammirazione per la bellezza della loro forma e del loro colore che baciandole a dirittura. Signori, mio zio fece così, ed io lo stimo per questo.

"— Udite! — gridò trasalendo la damina. — Un rumore di ruote e di cavalli.

"— Precisamente, — disse mio zio prestando l’orecchio. Aveva un orecchio finissimo per distinguere il numero delle ruote e le pedate dei cavalli, ma questa volta tanti cavalli e tante carrozze si sentivano venir da lontano, che non c’era da dire quanti potessero essere. Era come il rumore di cinquanta carrozze tirate ciascuna da sei cavalli puro sangue.

"— Siamo inseguiti! — esclamò la damina, stringendo insieme le mani. — Siamo inseguiti. Non ho altra speranza che in voi.

"C’era nel bel viso di lei una tale espressione di terrore, che mio zio pigliò subito il suo partito. La sollevò e la pose nella carrozza, le disse di non aver paura, la baciò in bocca un’altra volta, e pregandola che tirasse su i vetri, perchè l’aria fredda non le facesse male, montò a cassetta.

"— Un momento, amore, — chiamò di dentro la damina.

"— Che c’è? — fece mio zio voltandosi.

"— Debbo parlarvi, — rispose la damina, — una sola parola, proprio una, caro.

"— Debbo scendere? — domandò mio zio. La damina non rispose, ma tornò a sorridere. Che sorriso, signori! quell’altro di prima non era niente. Naturalmente mio zio si precipitò dalla cassetta.

"— Che c’è, carina? — disse mio zio, cacciando il capo per lo sportello.

"La damina si trovò nel punto stesso a chinarsi verso di lui, e a mio zio parve assai più bella di prima. Stava proprio vicino vicino, signori, sicchè potea saperlo, mi pare.

"— Che c’è, carina? — disse mio zio.

"— Non amerete che me sola, sempre me, non sposerete mai un’altra donna? — disse la damina.

"Mio zio fece un giuramento terribile che nessun’altra donna avrebbe mai sposato, e la damina si tirò dentro e chiuse il vetro. Ei rimontò a cassetta, allargò i gomiti, si aggiustò in mano le guide, diè di piglio alla frusta che stava sull’imperiale, assestò una brava frustata al bilancino, e via di carriera i sei cavalli neri, ventre a terra, con le criniere al vento e le lunghe code, a quindici buone miglia inglesi all’ora, tirandosi dietro a precipizio la vecchia diligenza. — Come correvano, come si mangiavano la via!

"Ma lo strepito delle carrozze lontane cresceva. Più correva la vecchia diligenza, più correvano gl’inseguitori, uomini, cavalli, cani, un inferno. Lo strepito era spaventevole, ma sopra tutto si levava sempre la voce della damina, che incitava mio zio e gridava: "Più presto! più presto!"

"Passavano turbinando davanti agli alberi neri come piume portate dall’uragano. Case, porte, chiese, siepi, ogni cosa, ogni oggetto trascorrevano con una velocità e un fracasso come quello di un torrente improvvisamente scatenato. Ma più alto si faceva intanto lo strepito dell’inseguimento, e più forte mio zio udiva la voce spaurita della damina che gridava: "Più presto! più presto!"

"Mio zio squassava redini e frusta, e i cavalli volavano e biancheggiavano di spuma; e lo strepito cresceva di dietro e la damina gridava sempre: "più presto! più presto!" Mio zio, nel calore del momento, diè un gran colpo col piede sulla cassetta, e... e vide che albeggiava appena e ch’egli stava seduto nello steccato in serpe di una vecchia diligenza di Edimburgo, tremando tutto dal freddo e dall’umido e battendo i piedi per riscaldarseli! Smontò subito, e andò a guardar dentro per cercare la bella damina... Ahimè! la carrozza non aveva sportelli nè sedili; era la sola cassa spolpata.

"Naturalmente, mio zio capiva che ci doveva essere del mistero, e che ogni cosa era accaduta precisamente com’ei soleva poi raccontarla. Rimase fedele al giuramento terribile che avea fatto alla bella damina, rifiutando per lei molti buoni partiti, e finalmente morì scapolo. Diceva sempre che caso curioso era stato il suo di aver scoperto, per aver soltanto scavalcato uno steccato, che gli spiriti delle carrozze di posta, dei cavalli, dei postiglioni, dei cocchieri, dai passeggieri avessero l’abitudine di far tutte le notti regolarmente i loro viaggi; aggiungeva di più ch’ei credeva di essere stato unico e solo a prender parte per una volta ad una di coteste escursioni; ed io credo, signori, ch’egli avesse ragione; almeno non ho mai sentito dire che la stessa cosa sia, capitata ad un altro."

— Vorrei proprio sapere che cosa portano nelle valigie questi spiriti di diligenze, — disse il locandiere, ch’era stato ad ascoltare tutta la storia con profonda attenzione.

— Le lettere dei morti, naturalmente, — rispose il guercio.

— Ah, ah, sicuro, sicuro! — fece il locandiere. — Non ci avevo pensato.

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