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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


IL GONZAGA


POEMETTO


DI


FRANCESCO MOLZA


Bagnava della terra il verde grembo
L’umida notte, che a’ pensier dà loco,
Quando di sospirar già stanco un nembo
Nell’oriente sembrar vidi foco,
E d’esso uscir l’aurora, che dal lembo
Porporeo il ciel spargea di rose, e croco,
Fuggissi colle stelle ’l pensier mio,
Le luci al sonno diei, quell’all’oblio.

     Miser, fruir sperando un breve sonno,
Chiusi gli lumi, omai d’umor esausti,
Quei se vegghian, se dormon, veder ponno
Ne’ giorni chiari mai, ne’ sogni fausti,
Senno se sei tu di quiete donno,
Perchè veder mi fai prodigi infausti,
Riposo a me non sei, ma vita mesta
Sognando, non è men di quando è desta.


     Sparse le tempie del sopor di Lerte,
Posi fin a’ sospir e fine al pianto,
Se non furon del pianger l’ore liete
Ne varcai l’ore del dormir in canto,
Pareami contemplar le più secrete
Sponde del fiume alle mura di Manto,
E fra me dir: avventurosa terra,
Che regge saggio Duca, e’l laco serra.

     Quando di mezzo l’onde a porre ’l piede
Vidi e ’l Mintio venir sul margo asciutto,
Il vecchio Mintio cui nel fronte or siede
Di letizia cangiato amaro lutto:
Va sospirando, e sospirando riede
Su’l margo estremo a lagrimar condutto
Su ’l margo estremo in la fiorita riva
De gli occhi fa due fonti d’acqua viva.

     E mentr’ora le stelle, or l’alma madre
Or l’alte mura a dirimpetto guarda;
Par ch’ei guardi le mura, e le leggiadre
Stelle del suo sospir incenda e arda,
Dell’acque divenute fosche, ed adre
Rivolge il viso, e me coll’occhio tarda:
Alfin suo sguardo sol più non si move
E ’l piè, che già mutar volevo altrove.


     Poi ch’attonito star mi vide il Dio
Quasi sospeso a l’aspettar ch’ei dica
Incominciò, se non fosti restio
In amar gesti eccelsi, e ti fu amica
La vita di colui, che dipartio
Quind’a far del suo sol’altr’aria aprica,
Meco qui appresso a lagrimar t’invito
Un spirto, ch’immortal è al ciel salito.

     Sciolto se, del suo velo in terra un spirto
Più cortese, più splendido, e gentile,
Di quanti mai ebber di lauro, o mirto
Onor quando fioriva in Roma Aprile
In pace mite, ed in guerr’aspro ed irto
Più saggio ch’oggi sia da Batro a Tile,
Nè verun cavalier credo, che viva,
Più degno, che di se si canti, e scriva.

     Nodrendosi in augusti e real tetti
Costui, gli fur da me, quell’arti instrutte,
Con quai venendo agli anni più proventi
Non ebbe in studi par in giostre, în lutte
De’ prudenti movean gli alti intelletti
Le sue parole di saper construtte,
Quanto fosse dotato egli d’ardire
Testimonio n’è suto il bel morire.


     Cagion sì giusta mai Troia non ebbe
Per Palla, o per Giunon da querelarsi,
Come piagner la morte Mantoa debbe
Di colui da cui sempre udia esaltarsi,
Pel cui magno valor tanto ella crebbe
Quanto si vede a volo Aquila alzarsi,
Che se campato fosse arebbe lei
Decorata di mille almi trofei.

     Di lagrime parlando il verde nume
Mesto rigava l’una, e l’altra gota,
Quand’io più non tenendo asciutto il lume
Dissi, che fu di fama mai sì nota.
Ed ei non guari a me lontan dal fiume
Mostrò una grossa lancia, e disse nota,
Chi fosse ’l Cavalier dall’asta dura,
Com’il leon dall’unghie si misura.

     Quella duo palmi rotta appresso il ferro,
Giaceva a piede d’una quercia annosa,
Piagner pareva sott’un vecchio cerro
Di persona un destrier vaga, e formosa
Mentre alquanto più sopra coll’occhio erro
Vidi ogni ramo fin dalla frondosa
Cima dell’alta quercia, d’arme adorno,
Raggi mandar per la campagna intorno.


     Guidomi poi, dove l’arbor superba
Facean le luci d’arme, e ’n vista altiera,
Dicendo perch’al corpo morte acerba
Chius’ha la luce, e data eterna sera,
Compir l’officio funeral si serba
A noi, che mai vedrem più primavera,
Che dietro son fuggite a un tanto sole
Gli gigli gli amaranti, e le viole.

     Con tai parole alzava già la mano,
Per l’arme tor di ch’era sacro il legno,
Quel piegossi dal culmo umil, e piano
Mostrando di tal pondo esser indegno,
Poi che quella la spada, e ’l fodro vano,
Gli fur spiccate, di dolor diè segno,
Co’l gemito con qual morendo s’ange
Allor ch’in l’alpi, borea il svelle, o frange.

     Egli dell’armatura il vacuo corpo
Compon insieme, e me al servigio chiama,
Mirandol io di tema agghiaccio, e torpo,
Mentre gli erti cupressi appresso srama
Qual dissi per stupor sì vasto corpo
S’ode (ch’empiesse tant’arme) per fama,
Certo sì grande armò il scaglioso drago
Colui, che fu di strugger Francia vago.


     Cadde dagli occhi un lagrimoso fonte
Al vecchio Dio, la mia parola udita,
E rispose altro orrendo Rodomonte
Ben fu costui defonto ora di vita,
Sarebbe a favor d’esso, e non ad onte
Di Doralice la sentenza gita,
Se tal fosse egli stato qual costui
In nome egual, maggior i gesti sui.

     Perchè Ariosto, vostra chiara tromba
Non suona le sue imprese altiere, e nuove,
Parrebbe uscito da la cava tomba
Quel fier, che primo guerra mosse a Giove,
Nè quello di cui Xanto, e Ida rimbomba
L’invitte, al secol prisco, inclite prove,
S’agguaglierebbe a questo in picciol parte,
Se cantasser di lui le vostre carte.

     Che s’Alessandro sospirando disse
Sovra’l sepolcro del famoso Achille,
Fortunato di cui tanto alto scrisse
Chi vinse il suon dell’altre trombe, e squille,
Che direbbe alcun Sir, ch’al marmo gisse
In cui chiudransi le costui faville,
Se non tanto d’Achil più sei felice,
Quanto di te scrittor più degno dice.


     Parlava il Mintio, e delli rami incisi
Tumol tesseva sovra l’arme aurate,
Vedendol più turbarsi, l’occhio misi
In quella parte, dov’eran spezzate
E per la doglia me da me divisi
Guatando le lucenti arme forate,
Non meno il Dio, poi che de’ verdi panni
Fè lor coperta, oltre seguì suoi danni.

     Crudel Orsin, che l’affocata palla
Mandast’incontro al cavalier ardito
Crudel vento, ch’in aria via portalla
Dovevi acciò non foss’egli ferito:
Crudel Sol, che co’ raggi dilegualla
Potevi: e ritornarla in cener trito,
Foco crudel, che co ’l crudel tormento
Il più prode guerrier del mondo hai spento.

     Marte crudel, perchè mostrasti l’arma,
Ch’i magnanimi cor dolosa ancide,
Cui non osta corazza, scudo, o parma,
Ch’i generosi petti apre, e divide,
Perchè s’alcun di grand’animo s’arma,
Te seco a singolar pugna non sfide:
Ma ben ch’ora costui sia polve, ed ombra,
Il nome tuo co’l suo bel nome adombra.


     Lassate gli antri, i fonti, i stagni, i fiumi
Fauni leggieri, e voi pudiche Ninfe
Venite insieme Naiadi, e voi Numi
Albergator di mie turbate linfe,
Uscite fiere de’ spinosi dumi,
Secur da cani, e cacciatrici Ninfe,
A piagner seco lui selve vi chiama,
Ch’in voi lassato ha memorabil fama.

     Mena Diana il tuo virgineo coro,
Ministro a celebrar l’essequie giuste
A quel, di cui la forma, e il decoro
Corpo lodavi, e le forze robuste
O s’a un Ginetto reggea il freno d’oro,
O cinghiali affrontava in valli anguste
Cui ti degnasti dar spesso compagna,
Per certi gioghi, e per larga campagna.

     S’alcuna Ninfa è ’n voi selvette ombrose,
Ch’in braccio al mio Signor giacess’ignuda,
Quand’ei di cacciar stanco in l’amorose
Labbie volgea l’arida lingua nuda,
Cercate fra le piagge più nascose
Ove il pratel d’umor morbido suda,
A lagrimar venga la vita lieta,
Che di più la fruir morte le vieta.


     Or addoppiate Muse i mesti accenti
Dogliansi l’arpe, e pianga l’aurea cetra
Gito è qual lieve arena, e nebbia a’ venti
Il vostro alumno, e chiuso è a poca pietra
Piagner non cessin Musici strumenti
Fin che di doglia ogni mortal s’impetra,
E per darci quest’unico restauro
Aluigi risuone, e l’Indo, e’l Mauro.

     Spargete di Narciso, e di Jacinto
E d’altro fior ch’in maggior prezzo sore,
Satiri il fuoco, dove giace estinto
Cor vigoroso, e colle grazie amore,
Per addur gemme ognun sia presto accinto,
Fin dalle terre, ond’esce il nuovo albore,
Acciò si copra un Sir di lode tante
Sotto zaffir, crisolito, e diamante.

     Vener ch’abbandonata Paso, e Gnido
Ti trasferivi al Mantovan terreno,
Quell’oltre ogn’altro tuo riposto lido
Più colto ti parea, parea più ameno
Perch’in esso sovente al giovin fido
Aprivi l’odorato argenteo seno,
Allor ch’errante l’attendevi al varco
E depor lo facevi i strali, e l’arco.


     Piagni che morte trionfa del viso
Di cui tu lieta trionfar solevi,
Piagni, che le bellezze ha il Paradiso
Di cui tu s’un cespuglio alma godevi
Piagni che’l bel color vivo, e conquiso
Di cui men bianche eran le fredde nevi,
Piagni, che perduto hai tant’altri doni,
Che più grati ti fur di quei d’Adoni.

     Mandando il Mintio lagrimosi rivi
Pe gli occhi fuor piangean l’erbe e le foglie,
E già vedrete gli silvestri Divi
Correr da’ boschi a disfogar lor doglie,
Le sacre muse sparto aveano quivi,
Ciò che d’odor soavi si raccoglie,
Concordando le voci in flebil versi
Per quai la terra, e ’l ciel lagrime fersi.

     Veracemente allor Giove supremo
Mosso a pietade fu de’ pianti amari,
Venne una nube, a referirlo tremo,
Chiara più che di Febo i raggi chiari,
Rapì quell’arme in guisa, che vedemo
Pingersi sopra nostri sacrii altari
Dagli occhi umani esser levato Elia
In ver del ciel per sconosciuta via.


     Rapì quell’arme terse, io più non miro
Il Dio, che colle Ninfe e i Fauni sparve
Guardo le stelle, e fin nel quinto giro
Aprirse tutti i ciel veder mi parve,
E vidi ancor, che più mi parve miro
Circondato da mille armate larve;
Star sovra tutti il mio gran Rodomonte
Che di quelle s’armò dal piè alla fronte.

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